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Autore: MiseryandValerieVolturi    12/03/2011    2 recensioni
[BellaXEdward]
Per la seconda volta, Edward se ne va. Perché? Cosa lo spinge ad abbandonare Bella e Renesmee?
Bella, distrutta e decisa a non rimanere a Forks, si trasferisce in Alaska ... ma non è tutto come sembra.
Dal primo capitolo:
Iniziò a leggere “So quello che pensi Bella, ma non è così: non vi ho abbandonate, e non ho intenzione di farlo per nessuna ragione al mondo …” si fermò quando si accorse che le lacrime iniziarono a cadermi leggere sulle guance e sospirò “… ho dovuto farlo, perdonami. Voglio che vi prendiate cura di voi, continuando a fare quello che avreste fatto con me al vostro fianco; senza fare stupidaggini Bella, promettimelo questa volta. Tornerò prima o poi, ve lo giuro. Vi lascio questi due cuori, nella speranza che vi possano aiutare a ricordarmi, vi amo. Edward”.
Dal terzo capitolo:
Ero alla ricerca delle parole giuste, di certo non potevo esprimere quello che avevo appena pensato.
“Niente, niente di grave” mentii “Abbiamo deciso di trasferirci”
Dal capitolo dieci:
“Va tutto bene” una voce calda e bassa mi risvegliò, suadente. Era famigliare, quanto il profumo che mi avvolse assieme alle sue braccia. Il freddo si sostituì al sintetico calore di una coperta di pile. Un solo nome, ora, soffiava dalle mie labbra.
“Edward …” mormorai. L’unica risposta fu un bacio a fior di labbra. Lo immaginai sorridere, dietro di me.
“Niente più brutti sogni” mi sussurrò, cullandomi.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jacob Black, Renesmee Cullen | Coppie: Bella/Edward, Jacob/Renesmee
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
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Wait me

-Claire de Lune-

“Vaffanculo.”

Esistevano milioni di parole da dire in quel momento, milioni e milioni di cose da dire. Ma essere così volgare davanti alla macchina che Jake aveva preso in affitto mi sembrava terribilmente giusto e, inspiegabilmente, sorrisi.  Sorrisi, poi ripresi a fissare quella stupidissima chiave.

No, non una chiave normale, no. Una carta dello spessore di un centimetro, fatta per “essere infilata nell’apposita fessura nel cruscotto”, come recitavano le istruzioni.

Ecco, avevo infilato quella stupidissima chiave. E l’auto non partiva. Era ferma. Immobile.

Preferivo la Ferrari, se l’alternativa era una sciocca auto a stampo europeo che non si muoveva neanche se spinta a calci. Stupidissima auto.

Milioni di alternative. Sì, Bells, calmati. ‘Hai milioni di alternative.’

‘Puoi andare a piedi? No. Però puoi prendere l’autobus, no?

Certo. L’autobus, giusto? Bene, Bella, ora ti devi alzare. E ti devi ricordare di togliere la chiave prima.’

 

Cinque minuti dopo, ero di nuovo fuori, coperta e stracoperta con un pesantissimo piumone di Alice e gli occhi fissi su una cartina delle fermate dell’autobus. Non doveva essere troppo difficile …  Insomma, bastava seguire la stradina disegnata, no?

‘Destra, sinistra … Ah, no!, è il contrario.’

‘Sinistra, destra … Non è difficile.’  Beh, ogni tanto perdevo l’equilibrio sul ghiaccio, però …

“Isabella! Ehi!”

Se non avessi riconosciuto quella voce, mi sarei detta stupita di qualcuno che ha il mio stesso nome completo. Sì, perché odiavo il mio nome completo, e ormai non ero più Isabella, solo Bella.

Allora, di chi era la voce famigliare che mi chiamava con quel nome?

Isabella, così imperioso, così sciocco, così …

Stella!

Mi correva incontro, sorridendo e agitando la mano.

“Ehi!” gridai “Ehi, come va?”

Arrivò trafelata alla fermata dell’autobus, i capelli impazziti, gli occhi spalancati. Non riusciva a non essere carina, però. Attorno a sé aveva una leggera aura di allegria che l’ avvolgeva.

Le sorrisi.

“Io sto bene, benissimo … Tu?”

“Bene, basta che non mi chiami Isabella …”

“Oh, giusto! Scusami, in Italia Bella ha lo stesso significato di ‘carina, bellissima’ … Così non ci sono abituata!”

Sembrava facesse finta di essere così allegra e imbranata. Un momento era in piedi, immobile, un altro si agitava. Era strana, ma simpatica.

“Tranquilla” mormorai.

Salimmo insieme sull’autobus e Stella non smise neanche un momento di parlare e parlare.

Mi raccontava dell’Italia, della sua vecchia scuola, della sorella e dei genitori. Ogni tanto mi diceva qualche parola nella sua lingua, per poi spiegarmela sorridendo.

“Anche il tuo nome è in italiano?”

Sorrise.

“Sì … Una stella, sono una stella.”

E quando lo disse mi sembrò decisamente più vera.

E allora le raccontai di me, e di Jacob. E dei sogni e della mia famiglia, e di Forks. E mi fece male ogni singolo ricordo che riguardava Edward.

Non sembrò accorgersene.

 

Quanto è passato? Una settimana, vero?

Sette giorni d’inferno.

Sette giorni per lei.

Sette giorni per nostra figlia.

Solo sette giorni.

E sangue umano, tra le mie dita.

 

Arrivammo all’università cinque minuti prima dell’inizio delle lezioni.

L’edificio era moderno, enorme e stranamente … Bello. Quasi … famigliare.

Stella era dietro di me e non smetteva neanche un minuto di parlare della scuola, e delle lezioni. Le avevamo quasi tutte in comune, così non avrei avuto problemi a proposito di amicizie: la mia amica aveva già fatto amicizia con almeno tre persone nell’autobus.

Io ricordavo a malapena i nomi.

Il preside si dedicò a un breve discorso, quindi ci ritrovammo spintonate tra decine di studenti, mentre un professore cinquantenne ci chiedeva di prendere posto.

Ascoltai, ma con la testa altrove. Dentro di me gli ultimi avvenimenti si ripetevano ancora e ancora, veloci, insensati, illogici. Qualcosa nella mia testa cercava di avvertirmi che non tutto era come sembrava.

E mi rividi davanti Edward.

Con le lacrime agli occhi tornai alla spiegazione, con la vana speranza di dimenticare.

 

“Fallo.”

“Non posso.”

“Ora.”

“Mai.”

 

Stella ogni tanto mi lanciava delle occhiate, quasi preoccupate.

Non ne capii il motivo finché non vidi il mio foglio per gli appunti bagnato di lacrime.

 

Erano finite, ed erano state le lezioni più lunghe della mia vita. Era da tempo che stavo per tanto tempo lontana da Renesmee, e la cosa mi faceva stare male.

Seduta al tavolo del pranzo, mentre Stella era in bagno, allungai la mano verso il mio telefono e composi velocemente il numero di Jake, sorridendo come un’idiota quando sentii mia figlia rispondere.

“Mamma!”

“Tesoro … Come stai?”

“Bene! Sai, Jacob ha provato a cucinare, ma …”

“E’ Bells?!” sentii gridare il mio migliore amico, fuori campo “Bells, il pranzo che ho cucinato era magnifico! Non credere a Nessie!”

Risi.

“Ok. Tesoro, ora devo andare, ma mi manchi tantissimo.”

“Anche tu. Ciao mamma!”

“Ciao Renesmee!”

Chiusi il telefono e sobbalzai vedendo Stella accanto a me.

“Chi è Renesmee?” mi chiese.

“Chi?” mormorai. Quanto aveva ascoltato?

“Sono arrivata ora e ho sentito che salutavi una certa Renesmee …” tirai un sospiro di sollievo “Allora chi è?”

Mi sentii colta alla sprovvista.

“Hai presente … Jacob, il mio migliore amico? Beh … Renesmee è …” sua figlia? Sua cugina? “ … La sua ragazza” mi sentii mormorare, per poi vergognarmi come mai prima di allora.

La sua ragazza? Ma come mi era venuto in mente?

“Oh, capisco” sorrise. Poi mi prese per mano e mi condusse alle altre lezioni.

Ero ancora rossa in volto quando tutti i professori ci congedarono, ricordandoci di portare sempre dietro il foglio degli orari.

“Foglio?” mormorai.

Stella si voltò verso di me.

“Ah sì, il foglio degli orari … Quando sono andata a prenderli c’era solo uno. Ma li avranno sicuramente in segreteria …” diede un’occhiata a un corridoio.

 “ Sì, sicuramente. Ora, segui il corridoio e poi gira a destra” mi spiegò velocemente “io devo andare, ma sono certa che non ti perderai!” poi mi stampò un bacio sulla guancia e scomparve alla mia vista.

Dieci minuti dopo, mi ero persa.

Non c’era solo una porta a destra, ma migliaia. E il mio senso dell’orientamento non era dei migliori.

Avevo perso anche le speranze, finché non avvertii un suono famigliare.

Era un stato veloce, tanto che credei di averlo immaginato.

Era morbido, irreale, eppure udibile e basso. Era una corda mossa da tasti di avorio ed ebano.

Si diffuse attorno a me e dentro di me, finché non si esaurì nella stessa aria che con la sua meraviglia si era conquistata. Inspiegabilmente, sorrisi.

Veniva dalla porta accanto a me.

Piano, mi avvicinai.

Un’altra nota si allungò nell’aria. E ancora. E ancora.

Claire de Lune.

Claire de Lune.

Claire de Lune.

Ancora.

Sentii le lacrime scivolarmi lungo le guancie. Quella musica, così sua.

Ormai ero appoggiata completamente al legno, pronta a cogliere ogni suono di quella melodia.

Quella melodia così nostra.

La porta si aprì di scatto e mi ritrovai nel bel mezzo di quella stanza che, me ne resi conto, era una grandissima aula di musica.

E c’era un pianoforte. E qualcuno stava suonando il pianoforte.

Arrossii visibilmente e cercai di indietreggiare.

Non ci riuscii.

Qualcuno dal profumo esageratamente famigliare mi raggiunse a velocità inumana e posò le sue labbra sulle mie.

Poi, scomparve.

 

 

Ora, imploro perdono. Sul serio.

Tra Settimana Bianca, febbre, ricerca (45 pagine!) sul Giappone e stupida interrogazione di arte, non ho trovato il tempo per il nuovo capitolo.

Perdono!

Ora, finalmente, pubblico.

Vi è piaciuto?

Che ne dite?

Dai, una recensione ci farebbe davvero felici :)

Missy

  
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