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Autore: Marguerite Tyreen    27/03/2011    3 recensioni
Francesca, trent’anni, insegnante d’inglese, continua a sfuggire dal fantasma del suo ex, Enrico, tra i compiti da correggere, i disastri della collega Emma e qualche buon caffé al “James Joyce Irish Pub” di Sean. Le cose si complicano quando Enrico, bello quanto egoista, torna da lei, dopo mesi di promesse e illusioni, con il proposito di riconquistarla. Ma se Francesca per orgoglio non vorrebbe mai ammettere con l’ex di essere rimasta single aspettandolo vanamente e Sean avesse bisogno di una finta fidanzata da presentare al matrimonio del fratello in Irlanda, cosa potrebbe accadere? Può la magica Isola di Smeraldo far vibrare corde dell’animo di cui nemmeno si conosceva l’esistenza?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mie care,
eccoci giunte al primo capitolo! Spero davvero che vi piaccia, anche perché i primi servono sempre per inquadrare meglio i protagonisti e potrebbero risultare un po’ noiosi, ma mi auguro di no ;)

Prima di lasciarvi alla lettura, però, voglio dire grazie di cuore per la cara accoglienza che avete riservato alla mia storia, ai lettori “di passaggio”, a chi ha recensito (manymany, namina89, piemme, Isyde) e a chi l’ha inserita tra le seguite (Chelsea88, Isyde, manymany, wilma), ricordate (sister82, sophia90, vic94) e preferite (piemme, namina89). Accipicchia, me ne date di fiducia! XD
Un bacione e buona lettura!
Vostra

Marguerite

 
 
Imprevisti d'amore
Editor fotografico online


Capitolo 1: Una mattina come le altre
 
 
Un sogno confuso, come un vortice, come un ouroboro verde che ruotava su se stesso nel nero dei suoi occhi chiusi. E un suono, un suono lontano, come di…
Come di una sveglia. La sua perfida, maledetta sveglia, quella del cellulare, che provava dolcemente a ricordarle che era lunedì, attraverso un patetico concertino di uccellini e artificiali suoni del bosco.
Francesca odiava il lunedì. O, meglio, una volta lo odiava solo perché doveva separarsi da Enrico, dopo un fine settimana passato assieme. Adesso lo odiava perché doveva alzarsi presto, litigare coi suoi capelli, armeggiare con la moka e attendere la telefonata di sua madre che, puntualmente, arrivava quando aveva già un piede nella doccia.
Odiava il lunedì perché non c’era lui e continuava a trascinare le sue mattine dentro un pigiama rosa con gli elefanti, come avesse avuto quindici anni.
Colpì il tasto rosso del cellulare alla cieca, con un grugnito.
Aveva dormito poco. O, forse, non aveva dormito affatto. Chiamare Enrico alle otto di domenica sera equivaleva ad una notte insonne e ad un risveglio schifoso. Un mezzo suicidio, insomma.
Per il resto tutto normale, a parte la moka che ribolliva furiosamente perché aveva continuato ad ignorarla, seguendo il gomitolo dei suoi pensieri.
Rantolò qualcosa di poco sensato a sua madre, con la scusa di essere ancora per metà nelle braccia di Morfeo. Non che la signora Fortini fosse sufficientemente ingenua da crederlo, semplicemente conosceva sua figlia quel tanto che bastava da sapere che non avrebbe mai parlato nemmeno sotto tortura. Sospirò, a chilometri di distanza, nella speranza che prima o poi le avrebbe rivelato cosa la turbava, anche se non era difficile immaginarlo.
- Non si tratta ancora di Enrico, vero?
- No, mamma, cosa vai a pensare!
- Se torna a farsi vivo mandalo a…
- A quel paese, lo so. – la fermò prima che si lanciasse in qualche espressione più colorita alle sette meno un quarto del mattino -  Ma stai tranquilla, sono solo un po’stanca.
- Tanto la scuola è quasi finita e, quando torni, ti faccio trovare una fornitura di tortellini per tutto il prossimo anno.
- Non so nemmeno quando finirò, fra gli esami e tutto il resto. Dipende se sono o meno in qualche commissione. Da un lato spero mi mandino a fare il commissario esterno: lavorerò, ma almeno cambierò un po’aria.
- Hai sempre avuto questa mania di cambiare aria, quando le cose ti stavano strette. C’è qualcosa che non va, non è vero?
- Macchè, figurati! Ho solo voglia di vedere posti nuovi, tutto qui. Anzi, se ho l’estate libera, ho messo da parte dei soldi per quel viaggio a Parigi di cui ti parlavo. O Parigi o Berlino, non ho ancora deciso. Una settimana di relax, arte e cultura e nient’altro.
- Da sola?
- No, con Emma e Giulia.
- Tre donne? Sveglia, Fran, ti serve un uomo.
No, mamma, non mi serve un uomo. Mi serve Enrico. Ma non lo disse.
Bofonchiò qualcos’altro di generico, il tempo, i suoi ragazzi, qualche consiglio per conservare il basilico in terrazza. Chiese di suo padre e di suo fratello che, puntuale come la morte, le torturava l’anima ogni venerdì perché voleva piantare il suo lavoro di impiegato e aprire un bar a Rio de Janeiro, per servire il mojito ai turisti. Chiuse la comunicazione e si infilò nella doccia.
Non le disse nulla della conversazione che aveva avuto col suo ex, il vero motivo della sua prostrazione, quella mattina. Altro che il lunedì!
- Sono io – le aveva detto la sera precedente.
Era stata lei a chiamarlo, era ovvio che sapesse perfettamente chi aspettarsi dall’altra parte, ma pronunciare il pronome “io”, per Enrico, era sempre stata una tentazione irresistibile.
- Erano due anni che non ti facevi vivo. – aveva cercato di mantenere un certo controllo, evitando di ricordarsi del suo sorriso e dei suoi occhi, color di notte, che avrebbero fatto tremare le ginocchia a chiunque.
- Sono stato impegnato, sai. – lo immaginò mentre tracciava geroglifici con la penna su qualunque pezzo di carta gli fosse capitato a tiro, come sempre, quando era al telefono. Un abitudine che gli aveva contribuito a conferirgli, nel tempo, un’aura di distratta e pigra sensualità.
- Oh, non ne dubito.
- No, davvero, credimi. Ho fatto più di un anno a Bruxelles, una magnifica esperienza.
- A migliorare il tuo francese? – chiese, sarcastica.
- No, mia cara: a organizzare l’esposizione di un nuovo museo d'arte tardo antica.
La cornetta venne attraversata dal fischio di Francesca, un modo come un altro di esprimere la sua finta ammirazione. Non sapeva ben dire perché, ma lui aveva sempre tratto un piacere incomprensibilmente sottile dall’essere un gradino più in alto di lei.
Non che non l’avesse amata: c’erano stati momenti della loro vita in cui lei si era sentita davvero importante, davvero felice. Ma forse era il carattere di Enrico, forse era sempre stato amato troppo, e non solo da Francesca.
- E a te come vanno le cose, in quel di Padova?
- Sempre le stesse. – non ebbe bisogno di mentire, tanto lui l’avrebbe scoperta. Lui sapeva e vedeva sempre tutto. O era lei ad essere un libro aperto, anche troppo?
- Intendi dire adolescenti brufolosi in piena crisi ormonale, letteratura, consigli di classe, surgelati, sigarette e televisione?
- Più o meno.
- Più o meno. – ripeté lui, e non le piacque quel suo modo di arrotolare le parole alla lingua, con fare serpentino – Scrivi ancora?
- Solo per me. – avrebbe voluto aggiungere: solo per te, ma non le parve dignitoso per il suo ego – Lo sai che non l’ho mai fatto per il successo.
- Ma come diavolo fai, Francesca? A vivere in questa sciatteria, intendo.
- Questa sciatteria è la mia vita e mi sembra che tu non ne faccia più parte da un po’. Ma già, dimenticavo che adesso Enrico Sacrati è sui circuiti internazionali e organizza mostre per i più grandi musei di Europa.
- Piantala di sfottere, Fran. Non hai nessun motivo per portarmi rancore.
- Quello lascialo stabilire a me.
 – Mi dispiace. Sinceramente, Fran. Sono stato uno stronzo, un bastardo, merito qualsiasi epiteto tu mi possa affibbiare.
Era la prima volta che sentiva dalle sue labbra quello sproloquio di scuse e la cosa cominciò a puzzare di bruciato. No, non era il ragù che si era attaccato alla pentola. O meglio, era anche quello, perché l’antiaderente aveva cominciato a consumarsi. Ma quella, chiarissima e prevedibile, era la puzza della fregatura. Se avesse avuto un paio di antenne per captare il pericolo, avrebbe fatto bene ad alzarle.
- Ma, allegra, Francesca, ci saranno grandi novità.
- Se mi hai chiamato per dirmi che ho vinto alla lotteria, non c’è bisogno di farla poi tanto lunga.
- Meglio. Ho deciso di tornare da te. Ho avuto modo di pensare a lungo.
- Tu che pensi? Questa sì che è una bella notizia!
- Non importa che tu nasconda dietro all’ironia l’emozione di rivedermi.
Razza di presuntuoso!
Stava per riversargli addosso tutti gli improperi che la sua memoria era riuscita a ripescare, quando lui la interruppe, con quella sua voce, maledettamente suadente: - Ho capito che ti amo ancora, Francesca.
Tutti i suoi buoni propositi crollarono come un castello di carte.
- Ah…
- Io ti dico che ti amo e tu rispondi con un verso inarticolato?
- Già… senti, Enrico, ho la cena sul fuoco. Devo lasciarti.
- La cena sul fuoco… Sabato prossimo vengo a Padova. Fatti trovare, abbiamo molte cose di cui discutere.
Con un ricordo del genere la mattina cominciava proprio a meraviglia!
Si era tormentata tutta la sera, anche mentre, stravaccata sul divano, guardava alla televisione uno di quegli orribili film gialli in cui capisci chi è l’assassino dai titoli di testa.
E la notte, rigirandosi nel letto, senza riuscire a prendere sonno. E il mattino, mentre sognava il dannatissimo ouroboro verde che roteava nella sua mente ottenebrata dalla stanchezza.
Anche adesso si chiedeva cosa diavolo volesse, intanto che usava violenza sul suo carré riccio nel tentativo di dargli almeno una parvenza liscia. Le ciocche color mogano, che non avrebbe saputo stabilire con certezza da chi l’aveva ereditato, si ribellavano ostinatamente al calore della piastra.
Era il momento della preparazione che le sottraeva più tempo in assoluto. Poi, per il resto, si vestiva piuttosto rapidamente, afferrando nell’armadio il primo paio di jeans e la prima camicia che si abbinava al suo umore. Una riga veloce di matita sugli occhi e poteva dirsi a posto.
Non era una donna trascurata, al contrario. Amava prendersi cura di se stessa, anche se non in maniera maniacale, portava con grazia i cappotti e gli spolverini e, d’inverno, anche i cappelli con una certa giocosa eleganza. Poteva esibire un bel viso, un’espressione dolce, illuminata da occhi castani e acuti, belle mani che accompagnavano con adorabile naturalezza i suoi discorsi.
Non era il tipo da far fuggire gli uomini, ad essere sinceri.
Non si piaceva, non del tutto almeno, ma aveva imparato a convivere bene con i propri difetti. Se Enrico l’aveva lasciata, non attribuiva la colpa solo al fatto che le mancasse qualche centimetro d’altezza per ben figurare anche senza tacchi o alla sua immagine lievemente appesantita da forme troppo mediterranee.
C’era dell’altro e lo sapeva. Sapeva che Enrico no, quello non sarebbe cambiato. Anzi, la sorprendeva l’averlo sentito chiedere scusa dopo tanto tempo.
Avrebbe voluto essere più fredda, più distaccata, forse anche più cattiva con lui, ma la vendetta, per quanto fosse un piano facile da accarezzare con la mente, risultava essere l’esatto contrario proprio nel momento in cui tentava di metterla in atto.
Ti amo. Era bastato questo per ricascarci.
Ti amo. E poteva benissimo non essere nemmeno vero.
Sei proprio una stupida, Francesca. Pensò, mentre indossava gli orecchini.
Dal portagioie un vecchio ciondolo la occhieggiava con insistenza.
No, si disse. No.
Rimase un istante a rimirarselo tra le dita.
No.
L’appoggiò alla scollatura della camicia. La chiusura della catenina scattò e, per il resto della giornata, la tartaruga d’argento sarebbe rimasta a impreziosire il suo decoltè.
Sì, Francesca, non ci sono più dubbi: sei proprio una stupida.
 
 
«Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. »
Il testo di Cesare davanti, gli occhiali per leggere da vicino sul naso e la versione della studentessa alla quale dava ripetizioni di latino a tempo perso sotto mano, Sean cercava di capire come cavolo fosse possibile confondere un passivo con un verbo attivo, facendo saltar fuori una frase che sembrava essere stata scritta dopo un paio di giri di Guinness di troppo.
Ma almeno andasse a naso! Insomma, non le era richiesto di metterci entusiasmo nella traduzione, ma se non altro un po’ di buon senso.
A volte si chiedeva anche il perché lo facesse. Non certo per denaro, evidentemente, dato che il “Joyce” era ben avviato, dopo anni di onorata attività.
Per passione, probabilmente. La stessa passione per le belle lettere che l’aveva trattenuto in Italia. A dire il vero, non sapeva ben dire perché avesse scelto proprio quel paese in cui vivere e non la Grecia, magari, tra le sue antiche rovine. Forse perché era più vicina all’Irlanda, ma sempre abbastanza lontana. Forse perché faceva meno caldo o, più semplicemente, perché il suo non era un Grand Tour alla Goethe.
Aveva pensato di farne il suo lavoro, di quella attitudine alle “lingue morte”, come spesso le sentiva chiamare. Poi le cose non erano andate esattamente come desiderava. Ed ora si ritrovava a fare ripetizioni di latino per sentire la voce degli antichi risuonare ancora. Forse era stata colpa del caso. Forse delle sue capacità. O di molte altre cose messe assieme.
Fatto stava che, ora, si ritrovava al bancone di un pub, anziché in qualche università a tenere conferenze o nel suo studio a tradurre con invidiabile perizia i testi classici.
Nel libro di letteratura latina aveva schiacciato, ormai dimenticandosene, un trifoglio, prima di partire. Si era illuso che potesse essere sufficiente per ricordarsi della sua terra. Invece gli mancava, l’Irlanda, e, quando per gioco i clienti lo salutavano in gaelico, era sempre una stretta al cuore.
Sollevò il trifoglio con le lunghe dita sottili ma, improvvisamente, la piantina si sgretolò, inaspettatamente.
Forse dovrei tornare. Si disse. In fondo, sono passati quasi dodici anni. Calcolò rapidamente, ne aveva ventiquattro quando aveva lasciato la sua patria ed ora andava per i trentasei.
Dodici anni. Sospirò. Sì, è ora di tornare.
Non sapeva che ne avrebbe avuto occasione molto presto.
 
 
- Giorgia! Sai che non va usato il cellulare in classe! – richiamò la sua studentessa che aveva visto troppo interessata al ripiano sottostante il banco che alla sua lezione su Lawrence. E, come darle torto, dato che Lady Chatterley sembrava affascinare più i suoi compagni maschi?
- Scusi, prof, ma sono uscite le materie d’esame sul sito del ministero.
Silenzioso come un branco di gnu, il resto della classe fece capannello attorno al banco di Laura per sbirciare in anteprima di che morte sarebbero dovuti perire.
- Porca vacca, prof!
- Giacomo! Avanti, dite, su, che sono curiosa anch’io.
- Greco, matematica e inglese esterni.
- Lei allora non sarà con noi!
- Prof, ci dispiace, la volevamo in commissione.
- Già… dispiace anche a me, ragazzi, ma vediamo di non immalinconirci troppo prima del tempo.
 
- Fran! Ehi, Fran! Allora? Non mi hai più detto niente! – Emma la fermò mentre passava davanti alle macchinette del caffé, durante l’intervallo.
- Esterno.
- Cosa?
- Inglese esterno.
- Beh, anche matematica, se per questo. Ma io intendevo la chiamata di Enrico.
- Strana. Anzi, incasinata: sabato prossimo viene qui. Dice che ha capito di amarmi.
Per poco Emma non si strozzò col latte macchiato che stava bevendo: - Che cosa?
- Mi ama, dice lui.
- Sempre meglio che un dito in un occhio…  
- Ho tutta l’estate davanti per pensarci adesso, credo. Non sono in nessuna commissione, quest’anno.
- Io sì, a Rovigo. Che due palle, speravo di scamparmela.
- Anch’io.
- Ma magari le cose non andranno tanto male, con lui. Non vuoi sentire quello che ha da dire?
- Vorrei riuscire a farne a meno.
- Sai che io proprio non ti capisco, Fran. L’uomo che continui ad amare da anni torna da te strisciando e tu fai quella faccia?
- No, è che conosco Enrico e non mi fido.
- Ma che cavolo ti ha fatto? Io so solo quello che mi hai detto tu, cioè poco e niente, nonostante ci conosciamo da un bel pezzo. Io e te dobbiamo parlare. Cioccolata calda da me?
Sorrise, immaginandosi la cioccolata fumante di Emma, con quel caldo che cominciava a farsi sensibilmente umido.
- Cioccolata da te. – sospirò, in tono di resa.

 

   
 
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