Fanfic su artisti musicali > Guns N'Roses
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Autore: Domi_Carr    30/03/2011    1 recensioni
La mia prima fan fiction sul mondo musicale. Nata da un'idea: un chitarrista famoso e apprezzato incontra una collega altrettanto talentuosa ma all'alba del successo.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Dj Ashba
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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CAPITOLO 1
 
“Ma che casino c’è!?” dissi stupita alla bassista della mia band guardando attraverso il vetro che dalla hall del Grand Hotel dava sulla strada. All’esterno il marciapiede era zeppo di fan, di gente che aspettava ammassata nella speranza di potere incontrare i loro idoli, i Guns n roses, o quello che ne restava, secondo la mia opinione.
Mentre facevamo il check in con il mio gruppo, che avrebbe aperto i concerti di Milano e Roma dei Guns a malapena il vetro insonorizzato teneva fuori le urla. Ragazzine che sembravano sparate dalla macchina del tempo direttamente dagli anni Ottanta, fan della vecchia guardia e gente che passava di lì e si fermava per la curiosità. Ci diedero le chiavi delle nostre stanze e decidemmo di salire subito, giusto per sistemare le nostre cose e prepararci per lo show. Aperta la porta della stanza che mi era stata assegnata, l’ansia improvvisamente iniziò a farsi sentire. In quell’ambiente così asettico realizzai effettivamente quello che stava per succedere: la mia band avrebbe suonato allo stadio di San Siro, prima dei Guns. Era una cosa incredibile, non riuscivo ad immaginare niente di più bello, ed allo stesso tempo più angosciante. A diciotto anni e pochi giorni avevo tatuato il logo dei Guns sulla spalla sinistra, due pistole incrociate con al centro una rosa. Sono da sempre il mio gruppo preferito, anche se sono molto intransigente e personalmente non capisco come abbiano potuto tenere il nome del gruppo con praticamente solo Axl dei membri originali. Ma le guerre legali non mi interessano più di tanto, ragione per cui, se fossi stata una semplice metallara davanti alla possibilità di vedere i “nuovi” Guns, non sarei sicuramente andata allo stadio, per una questione di principio. Gettai la borsa sul letto e presi dalla valigia l’occorrente per una doccia. L’obiettivo era darmi una calmata prima di andare allo stadio per il sound check ma la cosa non funzionò per nulla. Continuavo ad immaginare scene apocalittiche, come la chitarra che magicamente ha qualche problema tecnico, o la mia voce che mi lascia a piedi sul più bello e inizio a cantare come se avessi ingoiato una rana, o peggio ancora il pubblico che ci tira le bottiglie perché siamo solo un gruppo di supporto, e per di più tutto formato da ragazze e quindi ce lo meritiamo doppiamente…mentre l’acqua calda e il bagno doccia profumato creavano un clima tropicale, tutte queste situazioni mi passavano davanti agli occhi, come nel peggiore dei film dell’orrore. Appena uscita, cercai l’asciugamano e gli occhiali. Cose che non trovai vicino, avendo dimenticato di spostarle a portata di mano. In quell’istante sentii bussare alla porta, in modo deciso e ansioso “Scusa, sono io” dalla voce Andrea, il manager della mia band, sembrava in piedi su un tavolo ricoperto di vetri “Ci sono dei problemi di trasporto con gli strumenti”. Preoccupatissima per la domanda, come se fosse necessario aggiungere altra ansia a quella che già avevo, presi una canotta e un paio di shorts, e aprii la porta con un viso talmente rilassato che in confronto l’Urlo di Munch era il ritratto della felicità. Andrea aveva la faccia pallidissima, nonostante il caldo soffocante, ed era accompagnato da un tizio tatuato con un pass enorme dei Guns al collo, che probabilmente era uno della loro crew.
“Lo staff del concerto ha mandato a dire che i vostri strumenti non sono ancora arrivati”
Bum! Sentii il cuore arrivarmi in gola, come se fosse stato spostato da un colpo ben assestato di mazza da baseball. Istintivamente cercai il cellulare in tasca, che non avevo, per chiedere notizie alle altre ragazze del gruppo e a chiunque potesse sembrarmi utile in quel disastro cosmico.
“Quindi inizieranno loro con il sound check, finchè non arriveranno le vostre strumentazioni, che sono state fermate all’aeroporto per errore”
“Oddio!” risposi, senza nemmeno tentare di fare domande, visto che quell’intoppo avrebbe voluto dire dovere aspettare ancora, oltre ad obbligarci a vedere il sound check dei Guns, cosa che avrebbe fatto passare ogni idea di restare una musicista professionista anche a una chitarrista quasi esperta come me.
“Va bene allora, basta che arrivino sennò vado io a prenderli e ve li porto a piedi fino allo stadio. Non è possibile che succedano questi disastri!” disse, andandosene senza salutare e senza presentarmi il tizio che lo accompagnava.
Ancora intontita, chiusi la porta e tornai in stanza, dove il cellulare suonava al massimo del volume possibile della suoneria. “Ma cosa diavolo succede?” la mia chitarrista era infuriata “Hanno lasciato gli strumenti alla Malpensa, non ci posso credere!” urlava come se avesse visto un serpente a sonagli, mentre io ero ancora sotto shock e quasi non riuscivo a dire qualcosa di serio.
“E adesso cosa facciamo?” chiese, senza pensare che venire nella stanza accanto e parlarmi di persona sarebbe stato più comodo “Cosa vorresti fare? Arriviamo tardi allo stadio e ci facciamo venire un’ulcera nel frattempo. Non mi reggo in piedi!” dissi, sprofondando nella poltrona vicino alla finestra “Eh, a chi lo dici” rispose lei, senza aggiungere altro. La conoscevo bene, e il tono di voce così tirato non le si addiceva per nulla. Di solito era lei quella che tranquillizzava tutte, ma oggi questo le era impossibile. Era la nostra prima volta in uno stadio, e non potevamo ancora crederci.
Dopo qualche ora di attesa ulteriore all’hotel, che impegnai scrivendo su Facebook dal cellulare e chiamando ogni persona che pensavo potesse ascoltare le mie ansie in quel momento, vennero a prenderci per arrivare al luogo del concerto. Passammo tra ali di gente che era in coda per l’ingresso, pressate nel caldo e sudate fradice.
I nostri sguardi erano tesi, le altre della band osservavano il palco con il panico negli occhi, come se fosse un gigante da abbattere, per poi volgere l’attenzione verso lo stadio, ancora vuoto e rendersi conto di quello che stava per accadere. Arrivate nel backstage dovevamo sembrare quattro bambole di pezza che a malapena riuscivano a spiegare la propria presenza in quel luogo così off limits e le motivazioni che stavano dietro al pass che avevamo al collo. Lasciammo i nostri trolley nel camerino, con dentro i vestiti per lo show, e andammo a tentare di mangiare qualcosa. Trovammo un posto in un angolo che dava verso il frigo delle bevande e ci sistemammo sul tavolo chiaro con un piatto di insalata di riso e una bottiglietta d’acqua a testa. Sentivo lo stomaco chiuso, e per fortuna nessuno dello staff della mia band né altra gente che era lì a lavorare provò a parlarmi. Sembravamo delle bambine in punizione, tutte silenziose in mezzo a quell’alveare pieno di gente che correva ovunque. O forse era concentrazione, quel momento in cui si raccolgono le forze prima di un attacco al nemico. E io ero talmente nervosa che avrei potuto mandare a quel paese chiunque. Verso la fine del pranzo/cena arrivò il manager con il nostro tecnico. E con la faccia più angosciata che avessi mai visto “Gli strumenti devono ancora arrivare” in quel momento mi salì il sangue al cervello “Ma come devono ancora arrivare? Vi rendete conto di dove siamo? Apriamo per i Guns n Roses stasera, non siamo alla sagra di paese! che ritardo mettiamo allo spettacolo? noi poi, il gruppo spalla?! Ci permettiamo di fare queste figure?” iniziai ad urlare, attirando l’attenzione di tutti i presenti “No, Elena calmati. Intanto iniziano il soundcheck loro e poi dovreste avere tutto per andare anche voi” “Eh, questo lo sapevamo, ce l’hai detto stamattina!” rispose la batterista, facendo notare la ripetizione. “Lo so, è che anche i Guns sono in ritardo quindi qui non si inizia prima delle sette sicuramente”. “Se non possiamo fare niente, stiamo qua ad aspettare!” risposi, urlando e lanciando la bottiglietta d’acqua vuota contro il cestino di latta per la rabbia.
Non volevo fare la figura delle primedonne, o peggio delle dilettanti allo sbaraglio che si mettono a fare le scenate. Ma quella situazione era insopportabile.
Passarono le ore con una lentezza mai provata, e il caldo non aiutava assolutamente. Questo finchè non sentimmo dal palco l’inizio di Sweet child o mine, e capimmo che forse le cose stavano iniziando a funzionare. I Guns finirono il loro sound check, che cercai di non ascoltare, per quanto mi fosse possibile. Era tutto così surreale. Ci chiamarono per il nostro turno del sound check, e nel momento in cui le mie All star toccarono il palco di San Siro le cose iniziarono ad andare nel verso giusto. Le canzoni che provammo andarono bene, e anche le ragazze nonostante l’ansia riuscirono a stare concentrate e a suonare nel modo migliore. Finita anche quella tortura, tornammo nel camerino per il restauro estetico: optai per il mio look più classico: stivali neri da cow boy, un paio di mini shorts di pelle con le calze a rete e un corsetto nero. Mentre cercavo di sistemare l’eye liner, si iniziava a sentire il pubblico che urlava, che chiamava Guns! Guns! Guns! Il brusio si faceva sempre più pesante, come se qualcuno stesse alzando il volume.
“Andiamo!” ci chiamò il manager per dirigerci verso il palco.
Sentivamo le urla del pubblico come se fossero un vento che ci prendeva in faccia, anche solamente restando nell’ultima parte del backstage verso l’ingresso del palco, e lentamente l’adrenalina che spingeva al massimo nelle vene trasformava l’ansia in coraggio.
  
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