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Autore: Maatkara    07/04/2011    2 recensioni
Due donne arrabbiate e sole, e una terza, perduta;un giovane artista che ha trovato per caso l'ispirazione e una storia da scoprire, legata dal nodo di seta di un nastro per capelli.
Genere: Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ET LE MIROIR NE SOURIT PLUS

 
Aprile 1910
 
La mattina seguente, in un altro quartiere di Parigi, una donna aprì gli occhi. Spinti faticosamente i piedi oltre il bordo del letto, si diresse a passi strascicati verso la stanza da bagno.
Irene Cahen D’Anvers si guardò allo specchio, stentando a riconoscere in quel fantasma pallido l’aristocratica bellezza che era stata una volta.
La sue pelle chiarissima era diventata quasi trasparente, mostrando il disegno bluastro delle vene, si era lasciata andare sotto gli occhi, sul collo… I capelli ramati tendevano da tempo verso il grigio. Era vecchia.
Vecchia, e malata.
La contessa D’Anvers cominciò a tossire, piegandosi verso lo specchio e premendosi un fazzoletto sulla bocca. Strinse il bordo del lavandino fino a farsi sbiancare le nocche, aspettando che finisse.
Quando ebbe ripreso il controllo di sé stessa, gettò a lato il fazzoletto macchiato di sangue , del quale si sarebbe occupata la cameriera, e, dopo essersi sciacquata il viso, tornò nella stanza da letto.
Fece per suonare il campanello della servitù, ma le sfuggì lo sguardo sulla parete e lo lasciò cadere sul letto.
Sulla parete di destra, proprio sopra lo scrittoio, c’era un quadro, un Renoir originale, probabilmente il dipinto di maggior pregio della sua collezione.
L’immagine era giocata sui contrasti di tonalità; da un fondo scuro emergeva la figura limpida di una ragazzina con un abito azzurro cielo, la pelle chiara ed i capelli di un luminoso color rossiccio. La chioma lunga oltre la vita era pettinata alla moda dell’epoca, trattenuta da un fiocco di seta bianca.
Sedeva diritta, composta, le mani poggiate in grembo, come le era stato insegnato; il viso, dall’elegante profilo classico, era serio, la bocca distesa, niente smorfie né sorrisi. Soltanto negli occhi, quegli occhi nocciola così spesso lodati in società, l’ombra di un fanciullesco anelito, a spezzare la compostezza del volto. Proprio un bel visino.
Irene Cahen D’Anvers rimase almeno cinque minuti a guardare il proprio ritratto.
Erano passati più di quarant’anni da quel giorno, eppure poteva ancora sentire la stoffa fresca dell’abito sulla pelle, i complimenti del pittore, l’intorpidimento delle gambe e delle braccia… come se fosse stato il giorno precedente… si sentiva più viva in quel ricordo di quanto non lo fosse ora! Sentiva che quella era la forma del suo corpo, quello era il suo corpo, e non riconosceva sé stessa  in quello malandato che la ospitava ora.
Sospirò, non sapendo se di tristezza, rabbia o nostalgia.
Recuperò il campanello e lo scosse con inaspettato vigore. «Solange!»
La ragazza arrivò in fretta, intimorita, con il fiato corto. Irene si vide scrutata con preoccupazione; la cameriera evidentemente si aspettava qualche rampogna.
Normalmente si sarebbe sforzata di trovare qualcosa rimproverarla, per non deludere le sue aspettative, ma quella mattina la contessa D’Anvers si era svegliata di umore insolitamente disposto all’osservazione; e dunque osservò la camerierina come aveva ammirato il proprio ritratto, poco prima.
 Solange non era arrivata che da cinque settimane, e già somigliava alla casa in cui lavorava.
L’aria cupa e opprimente sembrava schiacciarla, appiattendole contro la fronte le ciocche scure che sfuggivano alla crocchia. La stoffa della divisa pendeva miserabile dal corpo snello della ragazza, sciogliendo le sue forme giovani in insignificanti linee rette. La pelle sembrava aver assorbito il grigiore e l’umidità dell’edificio. Su di lei il contrasto di colori era quasi funebre: cupi i colori scuri, asettici quelli chiari, come di un ospedale. La crestina inamidata, nella fretta, le era scivolata a lato.
Lo sguardo della donna si spostò alla casa, la grande casa della nobile famiglia Cahen, in cui era cresciuta, alla quale era tornata dopo la morte di suo marito e la bancarotta…
La sua bella casa, in rovina.
Le tappezzerie raffinate erano macchiate di umidità, l’intonaco dei soffitti crepato. I mobili, che ai loro tempi erano costati dei bei soldi a suo padre, erano stati in gran parte venduti. I pezzi che rimanevano, avevano quasi tutti qualche magagna, le fodere lise, o le gambe scheggiate…
Anche l’argenteria era stata rivenduta, e le porcellane più pregiate, e tutte quelle cose costose che è d’obbligo avere in ogni residenza di nobiltà, senza le quali non c’è speranza di mostrarsi all’altezza del titolo.
La sola ricchezza rimasta intatta era la collezione di quadri che era stata di suo padre, e che le aveva trasmesso la passione per i dipinti; l’unica sua passione, in verità.
 Irene Cahen D’Anvers sedette sconfortata alla toilette, e mentre Solange le pettinava i capelli, pensò che bisognava assolutamente far restaurare il ritratto, perché sulla tappezzeria azzurra della stanza da letto era comparsa una macchia di umidità di dimensioni preoccupanti.
Non si poteva certo rischiare che un così bel quadro si sciupasse.
 
 
 
Spazio Autrice:
Il quadro nella camera di Irene esiste davvero, avrei voluto mettere un'immagine, ma non sono stata in grado (il mio rapporto con la tecnologia è burrascoso).
È un’opera di Pierre-Auguste Renoir, intitolata Irene Cahen D’Anvers, del 1880.
Il titolo del capitolo è tratto da una poesia di Marceline Desbordes-Valmore, una poetessa francese del XIX secolo (Le miroir).
Grazie mille per essere arrivati fino a qui!
Maatkara
  
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