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Autore: Dew_Drop    08/04/2011    2 recensioni
Dal primo capitolo,
"Un foulard verde raggomitolato in un angolo, timido nella bianca luce d'estate, che se ne stava a fissarmi dal suo nero nascondiglio"
Bristol, Inghilterra: Aiolia Iracà, un ragazzo come tanti, dovrà condividere l'esistenza terrena con un nuovo, scomodo coinquilino. La storia di come un fazzoletto di seta verde gli abbia cambiato la vita.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Leo Aiolia, Virgo Shaka
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Parte terza - De auribus




Parte terza - De auribus


Dopo altre settimane avvertii dentro di me un incomodo pensiero: che forse stessi inconsciamente cercando di non affezionarmi a Shaka Mudaliar? Rettifico, affezionarmi troppo, perché il primo sentimento d'affetto per quel ragazzo lo avevo avuto la prima volta in cui lo vidi lì, fermo sulla soglia del salotto. Certo il mio orgoglio di leone dominante aveva soppresso questa realizzazione senza tanti ripensamenti, ma più passavano i giorni e più mi rendevo conto che sotto la mia criniera s'intravedevano le piccole ed aggraziate orecchie di un gattino.
Per spiegarmi meglio, mi stavo addolcendo.
La mia asprezza nei modi di fare si ridusse alle occhiatacce che gli lanciavo ogni tanto, e mi sorpresi non poco quando mi resi conto che non ero nemmeno più in grado di sculacciare Diego come si deve. Aveva sbranato la crostata di fragole preparata con tanto impegno dalle mie mani e il massimo che avevo fatto era stato sbatterlo fuori di casa. Ma non urlaii, né inveii come facevo una volta.
Sentivo la strana necessità di non otturarmi i timpani con inutili imprecazioni d'ammonimento.
D'altro canto l'atmosfera casalinga era sempre allietata dalle note che Shaka Mudaliar faceva magicamente sbocciare dal pianoforte. Forse era anche per questo che non avevo quasi mai voglia di urlare. Di recente però inciampava in qualche tasto di troppo, in improvvisi guizzi incondizionati, anche se poi riprendeva a suonare come se nulla fosse successo.
Come se non se ne accorgesse nemmeno. No che non te ne volevi accorgere, vero?
Non volevo che spostasse l'attenzione su ciò che pensavo, proprio perché mentre passavo in salotto e lui sbagliava una nota, avevo sempre paura che lui incrociasse il mio sguardo carico d'incuriosito disagio.
Qualche tempo dopo che ebbi letto sul bigliettino giallo, alle ore quattro del pomeriggio mi infilavo le mie scarpe da tennis, arraffavo una giacca qualunque, mi legavo il foulard al collo e scendevo al trotto le scale.
L'intenzione di eludere l'interesse di Shaka fallì miseramente.
- Aiolia?
Mi chiamò dal salotto. Fui costretto a lasciare la maniglia maledendo con un sospiro il mio passo da rinoceronte
(come un elefante in gioielleria, sai?)
e mi affacciai alla stanza adiacente:
- Uhm?
- Dove vai?
- Porto a spasso Diego. Ma preferisco che tu stia a casa, hai ancora un po' di febbre o sbaglio?
Che aveva la febbre era vero: non troppo alta ma nemmeno così bassa da passare per un semplice capriccio della temperatura. Quello che era falso era ciò che riguardava il cane e, novità delle novità, Shaka non tardò a capirlo.
- Aiolia, ti faccio notare che il guinzaglio è ancora sul mobile....
- Devo ancora prenderlo, infatti.
- ...e tu stavi già per uscire.
Mi venne voglia di strozzarlo. D'affetto, s'intende. Mi scappò un sorriso al solo pensiero che lui si preoccupasse così tanto di me da non permettermi nemmeno di mentire.
- Vado a fare un giro - mi corressi in tono trasparente. - Tranquillo che non scappo di casa, Sha.
Finalmente si degnò di alzare il capo dalla tazza di thé con cui si stava scaldando le mani e mi lanciò un sorrisetto.
- Non stare in giro fino a tardi - mi disse facendo ricorso a quella sua voce candida.
- No, promesso.
- Promesso promesso?
Un brivido mi solleticò le corde vocali quando feci per rispondere: "sì", e infatti quello che ne conseguì fu una sorta di singulto di sorpresa. Solo Aiolos usava ripetermi la domanda in quel modo.
Fu come la luce di un lampo. Seduto alla poltrona di fronte alla finestra, al suo posto, con la luce bianca del sole a sciogliersi attorno ai suoi lineamenti, vidi mio fratello. La mia mano, complice una reazione istintiva, si strinse ancor più allo stipite.
Credo che Shaka abbia udito lo scricchiolio del legno, o qualcosa del genere, perché con un cenno della mano mi invitò ad avvicinarmi. Come un automa scivolai a sedermi sul bracciolo, in attesa di una sua parola. E infatti:
- Lo hai?
- Chi...? Cosa?
Shaka mise da parte la tazza e si voltò verso di me. Un fremito, uno solo, seguito da una bollente cascata di scariche elettriche, mi scosse la pelle quando sentii le sue mani sul mio petto. Avvertivo il candore e la purezza di quelle dita raffinate che cominciavano a tastarmi meticolosamente prima il braccio, poi la spalla, infine fermarsi al collo, dove incontrarono il tessuto del foulard. Scorsi un sorriso sulle sue labbra.
- Sì, lo hai - concluse soddisfatto.
- Lo porto sempre con me, Sha, di cosa ti preoccupi?
- E' stato tanto tempo in quell'angolo della mia valigia, non vorrei ci tornasse. Non così presto.
- Non lo metterò via.
- Mi prometti anche questo?
Mi sfuggì una risata. Le sue mani, ancora ferme all'altezza del pomo d'Adamo, fremettero con la mia serenità. - Sha, non posso prometterti che tornerò presto, una volta uscito.
- Allora non vuoi dirmi dove vai?
- Non è che non voglio. Non posso.
- Va bene - finì lui, e ritirò le braccia.
Non so cosa mi passò per la testa, ma mi dispiacette. In quel momento avrei solo voluto abbracciarlo, sentire ancora le sue dita ad ascoltare il mio respiro. Mi sentii uno stupido e mi sembrò persino di arrossire, così mi alzai dal bracciolo con l'intenzione di uscire di scena, via da quel siparietto troppo inconsuento per me. Ma invece mi chinai appena e gli posai un bacio sulla guancia, tirandomi indietro quasi subito per non rischiare
(rischiare)
di farmi incatenare dallo splendido profumo della sua pelle.
Lui mi sorrise di nuovo e mi sembrò il sorriso di un angelo.




Controllai un'ultima volta lo strappo di giornale che avevo sottratto senza pietà ad una delle tante riviste di casa.
Hartfiel Avenue, 12. L'indirizzo era quello giusto.
Mi ficcai il biglietto in tasca e alzai gli occhi sull'edificio che avevo di fronte. Chiamarlo edificio era forse un po' troppo, dato che i quattro muri lì davanti erano lo scheletro di una piccola villetta immersa nel verde poco lontana dal centrocittà. Le pareti erano candide e su di esse si intervallavano assi di legno dal gusto deliziosamente rustico. Davanti all'ingresso posto sotto un porticato, un aggraziato vialetto si snodava tra le aiuole fino al cancello in ferro battuto, che dava direttamente sulla strada da cui io me ne stavo fermo ad osservare.
Con sorpresa appurai che il cancelletto non era chiuso e così zompai senza intralci di fronte alla porta. Lanciai un'occhiata alla finestra mentre premevo l'indice sul campanello. Aspettai poco, forse trenta secondi, prima che qualcuno venisse ad aprirmi.
Mi trovai faccia a faccia con un ragazzo della mia stessa età. Dovetti restarmene per un bel po' ad osservarlo, preso alla sprovvista da quel suo fascino magnetico, perché ebbi la sgradevole sensazione di una vampata di fuoco sulle guance.
Non era da me arrossire, per di più davanti agli uomini, e allora perché da quando Mudaliar viveva con me lo facevo così spesso?
- Cerca qualcuno? - mi domandò lo sconosciuto in tono distante ma cordiale.
- S...sì - mi scossi io, e dovetti sbirciare sullo strappo di giornale per ricordarmi il nome di chi cercavo: - Cerco un certo... Monsieur Giraud, insegnante di musica.
La mia pronuncia francese non era delle migliori, plagiato com'ero dall'accento inglese, ma il ragazzo di fronte capì lo stesso:
- Lo ha davanti. Camus Giraud, plaisir moi [1] -, e mi tese la mano.
Accettai la stretta e pescai uno dei sorrisi migliori del repertorio. - Mi scusi, ma non sono abituato ad usare il "lei" con i miei coetanei... pe-perché lei è un mio coetaneo, no?
Il sopracciglio di Camus Giraud vibrò deliziosamente. - Non penso sia venuto a casa mia per domandare circa la mia età, vero signor...?
- Iracà - mi affrettai, come punto da un pizzico d'imbarazzo. - Aiolia Iracà.
- Figlio di Georgos Iracà? Quell'Iracà?
- Se intende l'avvocato, sì, quello.
Mi piaceva essere riconosciuto ovunque andassi. Quello che spesso seguiva a questa mia fiera risposta era un "oooh" di sorpresa, e invece il francese non fece nulla di tutto ciò; anzi:
- Ho sentito dire che ora ospitate Mudaliar, il pianista dell'Hippodrome [2].
- Vero.
- Vuole imparare a suonare anche lei, signor Iracà?
- ...più o meno.
Camus Giraud si concesse una pausa di riflessione, poi, contro ogni mia aspettativa
(adesso ti dirà che non gli sembri adatto, già dalla risposta ci crede ben poco)
si scostò dall'usciò scoccandomi un sorriso di benvenuto. - Si accomodi pure. Ne parleremo con tranquillità davanti ad una tazza di thè.





L'interno della villetta era ancor più incantevole. Il padrone di casa mi fece accomodare in salotto prima di allontanarsi in cucina, così io potei dedicarmi all'analisi di quell'angolo di Paradiso terrestre.
Gli unici colori che dominavano erano il bianco ed il blu, che si davano il cambio tra tappeti, cuscini, divani e quant'altro in uno squisito gioco di ricercatezza. L'aria che si respirava era fresca, frizzante, trasparente come il cristallino mar di Francia, e le tende, che scivolavano in morbidi drappeggi sulle mensole in legno, schermavano con delicatezza la bianca luce estiva. Aspettai poco e in breve Camus Giraud fu di nuovo di fronte a me, seduto alla poltrona, tazza fra le mani, pronto a sostenere una discussione fra gentiluomini.
Ora che me lo trovavo ancora davanti e mi ero ripreso dallo shock iniziale, mi venne più facile studiare anche lui. Era incredibile quanto la sua fragile e beneducata presenza si armonizzasse con ciò che era attorno, e allora capii che l'ordine dell'atmosfera non era altro che lo specchio della sua personalità. Il suo abbigliamento era pulito, semplice, i pantaloni di flanella bianca così perfetti sui suoi lineamenti. Aveva i lunghi capelli rossi legati in una coda di cavallo lasciata volutamente morbida, e il fiocco con cui teneva unite tutte le ciocche era un intricato inno floreale. Dall'orecchio destro pendeva un sottile orecchino di diamanti. I miei occhi stavano studiando il picchiettare delle sue dita affusolate sulla tazza quando il francese attaccò bottone:
- E così, signor Iracà, vuole ammorbidire l'udito con la calda melodia del pianoforte?
- Sì - risposi. E per tradurre quanto da lui domandato: - Mi piacerebbe imparare a suonarlo.
- Suona già altri strumenti?
- La chitarra, Monsieur Giraud.
- Allora avrà le dita già abituate ad una certa coordinazione, immagino...
- Proprio così. Ho letto il suo annuncio sul giornale e ho pensato che potesse essere una buona idea.
- Je regrette [3], non so suonare il pianoforte.
Le sue parole mi lasciarono basito e per poco non mi scivolò la tazza di mano: - Ma sul giornale c'era...!
- E' il pianoforte a suonare le note che ho dentro.
- ...prego?
Camus Giraud prese un sorso, rimase a guardarmi per qualche attimo con la vitalità di un bradipo in corsa. Poi disse semplicemente: - Non si deve imparare a suonare il pianoforte, bisogna imparare a comporre in note quanto si ha da dire, non solo a schiacciare i tasti giusti -, e mi sbirciò con un sorriso da sopra la tazza. - Per quale motivo vorrebbe darsi a questo tipo d'espressione, signor Iracà? Sa, si deve avvertire una necessità molto motivata...
Fui quasi tentato di raccontargli una frottola.
Un'esibizione all'Hippodrome.
Vorrei suonare a casa per il prossimo Natale.
Tanti auguri, tanti auguri!
Ma il mio animo corrotto da quel puro Shaka Mudaliar che mai avrebbe apprezzato una mia bugia mi convinse di dire solo la semplice verità.
- Vorrei imparare non per me stesso, ma per gli altri.
- Per un altro.
- Per un altro. Credo che gli farà piacere. Ma lei come ha fatto ad indovinare?
Vidi che si stringeva nelle spalle, che abbozzava un sorrisetto teneramente ironico.
- Continui - si limitò a dirmi, senza dar peso alla mia domanda.
- Il suo difetto, quello della vista, a volte mi impedisce di essere spontaneo con lui. Ho paura che non mi capisca ed anzi che non riusciremo a capirci a vicenda a causa del suo problema. Ma in fondo, come dicono tutti, la musica può arrivare ovunque. Io credo... credo che una melodia traduca meglio il sorriso di quanto lo facciano delle labbra che lui non può vedere.
Mi tremava la voce e avevo irrigidito le dita attorno alla tazza. Non alzai gli occhi, solo sentii che Camus Giraud appoggiava sul mobiletto la tazza di thé e si alzava.
- Andiamo Aiolia - annunciò in tono conclusivo.
- Andiamo... dove?
- Non si impara a comporre musica stando seduto a una poltrona.
Il suo sorriso mi strappò un velo di tranquillità. Finii il thè e passai tutto il dì sui tasti del pianoforte suonando ciò che la visione di Shaka mi suggeriva.
Camus Giraud mi disse che avevo del talento.

 


Quando tornai a casa erano già calate le prime ombre. I lampioni della via gettavano chiazze di luce sulle strade sfidando il tepore della sera bristoliana, e si scioglievano soffici sullle siepi del mio quartiere. Sul vialetto mi venne incontro Diego, che eccitato dal mio ritorno mi trottò attorno cacciando calde alitate di gioia. Gli sfregai per bene il muso ottenendo in risposta un mugolio deliziato e finalmente entrai.
Mio padre era già in casa, vidi il suo soprabito sull'appendiabiti di fianco all'ingresso. Zitto zitto filai in camera e mi spogliai completamente per imbucarmi nella doccia. Era tremendamente magnifico quanto l'acqua mi depurasse da tutti i pensieri che mi crepitavano a fior di pelle.
Shaka.
Camus Giraud.
Sulla via del ritorno avevo incrociato Shura Delgado, ma mi ero limitato ad alzare la mano in segno di saluto prima di fiondarmi in metropolitana. Non avevo avuto voglia di fermarmi a parlare con lui, non in presenza di suo padre che, motivo sconosciuto, mi detestava.
Sottrattomi al getto materno della doccia, mi asciugai alla bell'e meglio, mi inflilai un paio di pantaloni e una canottiera e mi buttai sul letto a braccia spalancate.
Stop.
Ero così stravolto che nemmeno la sconvolta rete di pensieri riuscì a strapparmi alle grinfie di Morfeo. Caddi addormentato quasi subito, all'alba delle sette e trenta di quel pomeriggio, senza neppure curarmi di recuperare una coperta da gettarmi addosso. 




Passarono altre settimane.
Forse quello che vi racconterò ora fu uno dei risvegli più imbarazzanti di tutta la mia vita. Quella di uscire dalla doccia e buttarmi subito a dormire divenne ben presto un'abitudine, ammansito com'ero dall'incontro del fresco delle lenzuola e del mio corpo depurato dai pensieri quotidiani. E fu così, steso sgraziatamente sul letto con indosso solamente un paio di pantaloncini di velluto, che mi trovò Camus Giraud.
Perché il Signore avesse concesso proprio a lui la visione di un Me così volgarmente buttato sul materasso non l'ho ancora capito, sta il fatto che accadde. E quando capii, attraverso le nebbie del dormiveglia, che gli occhi fissi su di me erano i suoi, scattai come una molla coprendomi con la coperta neanche fossi una donzella dall'invidiabile decoltè in bella vista.
- Camus??
- Bonjour.
Era seduto sulla sponda e mi guardava con la testa di poco inclinata e i capelli sciolti sulla schiena. Il suo tono immobile e serafico mi regalò un'esimia sensazione di tranquillità, così tirai un sospiro e mi calmai. Gettai uno sguardo all'orologio: le otto passate.
- Che ci fai qui? E di prima mattina, per di più! Non mi pare d'averti invitato, mon chèr.
Lui mi sorrise e si alzò. - Ho detto d'essere un tuo amico e tuo padre mi ha fatto entrare.
- E tutto questo per ottenere cosa?
- Una tua esibizione in salotto.
Sbattei le ciglia tre volte più del necessario fissandolo attonito. - Come?
- Hai capito benissimo.
- Ma adesso non me la sento, mi sono appena svegliato!
- Niente storie Aiolia - mi ammonì lui ammiccando in mia direzione con un occhiolino, e uscì dichiarando un focoso: - Ti aspetto dabbasso.
Più volte avevo desiderato strozzare Camus Giraud, ma mai come quella volta. Piombava in casa mia e mi ordinava di piazzarmi al pianoforte. Eravano diventati ottimi amici, così perfetti nella nostra diversità, eppure ottimi; come ottima mi parve l'idea di buttarlo fuori dalla porta senza tante cerimonie. Shaka non sapeva che avevo incominciato a studiare musica e avrei voluto mantenere il segreto ancora per un po', perché non mi sembrava d'esser degno della sua attenzione in materia di suono. Mi convinsi però a non pensarci troppo, ben conscio del fatto che mai Camus mi avrebbe concesso ritardi, e mi vestii in fretta e furia cercando in qualche modo di pettinarmi.
Quando però feci il mio ingresso in salotto, sulla mia testa troneggiava un Big Ben composto da ciuffi che non volevano proprio starsene al loro posto. Il francese mi vide, sorrise divertito, mi raggiunse e mi passò una carezza sulla criniera riuscendo con quel solo gesto a demolire la torre del Grande Orologio di Westmindster [4]. Mi scoccò un'occhiata d'intesa e si appostò sullo stipite della soglia, a braccia conserte.
Non ebbi voglia di aspettare il suo segnale di partenza e mi mossi prima, scivolando a sedere al fianco di Shaka
sulla panca del pianoforte.
- Buongiorno - mi salutò lui, con quel suo tono candido che tanto amavo. - Il tuo amico Giraud mi ha detto che hai una sorpresa per me.
Incrociai il suo sorriso. In quel momento non mi importava che Camus ci stesse fissando da dietro, perché mi sentivo un tutt'uno con chi avevo di fianco. Era come essere in un ritaglio a parte, estraneo alla luce del mattino che filtrava attraverso i tendaggi.
Era estate e sedevo al pianoforte con Shaka Mudaliar.
Mi importava solo questo.
- Ti ha detto bene - gli risposi ricambiando il sorriso. Feci scivolare le dita sui tasti. Il ragazzo indiano dovette accorgersene, complice il suo inspiegabile intuito, perché scorsi un velo di sorpresa sul suo volto.
- Non sapevo suonassi il pianoforte. Mi dissi che non ti piaceva.
Feci vibrare due o tre corde e aspettai che le note si disperdessero nell'aria prima di ribattere: - E non mi piace, in effetti. Ma qualcuno mi ha fatto capire che l'importante non è ciò che si suona, ma cosa si vuole esprimere.
- Giraud?
- ...Giraud non è solo un amico.
Sbirciai Camus con la coda dell'occhio e gli feci intendere che preferivo rimanere da solo con Shaka. Nei miei occhi vi era anche un briciolo d'innocente riconoscenza, e il rosso la colse senza ritardi, motivo per cui, dedicatomi un ultimo sorriso, scivolò via dallo stipite e svanì nell'atrio. Tornai a guardare il mio coinquilino.
- Mi ha insegnato lui a metter giù qualche nota.
- "Qualche"?
Era una sensazione incantevole. Il buongiorno si vede dal mattino, si dice; e quel giorno, residenti in una stessa pozza di solitudine a noi consacrata, eravamo un noi.
- Qualche - confermai in un bisbiglio. - Tu sai sempre tante cose, Sha.
Shaka rimase perplesso a quel mio cambio di tono. - Sì, perché le vedo.
- ...sai tante cose ma non vuoi ammettere d'essere malato
Le sue dita si adagiarono sui tasti. Per come li accarezzava e riempiva d'affetto, avrei voluto che sotto le sue attenzioni ci fosse la mia pelle. Restai a guardarlo finché non si decise a parlare:
- E' l'unica cosa che evito di vedere. La malattia.
- Glioblastoma. Un mese e mezzo? Cinque settimane...?
- Suona - mi fermò, e cogliendomi di sorpresa appoggiò il capo sulla mia spalla e lì trasse un sospiro, con l'atteggiamento di chi chiude gli occhi e nega ogni scomoda realtà. - Suona e vedrai che il tempo non avrà più importanza.
E così suonai.
Suonai quello che mi venne in mente in quel momento ignorando tutti gli spartiti cui Camus mi aveva sottoposto durante le lezioni. Era una melodia placida, in cui buttavo alla rinfusa tutto quello che avevo da dire. Fu senz'altro una delle mie migliori esibizioni perché il biondo si addormentò sulla mia spalla.
Solo quando mi accorsi che il sonno l'aveva vinto smisi di suonare e feci ciò che giorni prima non avevo avuto il coraggio di fare: passai le braccia attorno alla sua vita e strinsi a me Shaka Mudaliar, colui che da quel momento divenne mio fratello nell'anima.




Nel salotto di casa Iracà....

*Butta fuori i due piccioncini, il padre, Diego e Camus* Via tuttiiiii che adesso tocca a me U_U
Allora, spero che un Camus musicista sia di vostro gradimento ** Personalmente ritengo che sia una professione che gli si addice molto, con tanto di orecchino e capelli legati con dei fiori ----> mia visione di un Camus celestiale xD
Il glioblastoma, a onor di cronaca, è un tumore maligno che presenta vari sintomi, dai più comuni, come nausea, vomito, febbre, a quelli più gravi, come difficoltà nel controllo dei movimenti e attacchi epilettici *mode dottoressa on* lol
Il titolo di questo capitolo significa "l'udito", pertanto ho fatto in modo, spero bene, di collegare tutto a questa sfera sensoriale, tentando di seguire con una certa logica la crescita formativa del nostro Aiolia attraverso i sensi. Vi lascio in attesa del prossimo capitolo - e nella depressione causa "miei istinti di trame dolci/depresse" xD - che s'intitolerà "de tactu" = potete giusto immaginare cosa potrebbe accadere U_U Alla prossima, perdonatemi per eventuali errori/orrori di battitura, e gracias **
Fe'

NOTE

Plaisir moi[1] - "Piacere mio"
Hippodrome [2] - Teatro di Bristol
Je regrette [3] - "Mi dispiace"




   
 
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