CAPITOLO
2
Aprii gli occhi
per l’ennesima volta
quella notte e controllai l’orologio da polso nero che tenevo
sul comodino
rivolto verso di me; secondo le lancette fosforescenti erano le 4:45.
Mi girai a
pancia in su richiudendo
gli occhi ma Morfeo sembrava avermi abbandonata del tutto. Sbuffai e
cercai nel
buio con la mano sinistra il mio mp3 che avrebbe dovuto trovarsi da
qualche
parte sotto il cuscino quando mi accorsi del rumore, o meglio, dei
piccoli
rumori che si abbattevano sul vetro della mia finestra.
Pioveva.
Esattamente la
condizione climatica
che preferisco di più al mondo.
Sorrisi fra me e
me, premetti il
tasto play e mi riaddormentai cullata dalla voce di Matt sulle note si
“Say
goodnight”.
Quando mi
svegliai il mattino seguente
mi sentivo totalmente scombussolata.
Prima di tutto
ancora non credevo a
ciò che sarebbe dovuto succedere quel sabato 15 gennaio, poi
avevo gli
auricolari agli orecchi con la musica della mia band preferita da circa
tre ore
(la batteria stava morendo) e a dirla tutta ero ancora stanca del
giorno
precedente.
Lo stress del
lavoro e
dell’università si faceva sentire.
Il mio cellulare
diede segni di vita
e questo mi costrinse ad alzarmi definitivamente dal letto per andare a
rispondere alla chiamata.
«Pronto?» non guardai
nemmeno il display del
mio Nokia.
«Sono io, che
stai ancora dormendo per caso?” domandò una voce
piuttosto scocciata.
Lawrence il mio
ragazzo, ha sempre
avuto un caratteraccio purtroppo, un vero caso irreversibile.
«No amore ma che
dici, tu invece? Come stai? Che mi racconti…», mi interruppe
come spesso faceva bruscamente «Ma sei sicura?
Non è che hai intenzione di rimanere fra
quelle coperte ancora a lungo? Guarda che lo so che sei ancora nel
letto! Poi
ti lamenti che hai il culo grosso!».
Non lo ascoltai
e guardai fuori la
finestra: nuvoloso, wow.
«Ma che tesoro
che sei, come sempre! Buongiorno anche a te» dissi ridendo,
per sfotterlo.
Lui
deviò subito il discorso «Senti che
vogliamo fare, ci vediamo oggi? Che hai deciso? Io
avrei in mente di portarti a pranzo fuori in un posticino carino
però facciamo
a metà eh che non ho più soldi».
Sbuffai, «Sei sempre il
solito scialacquatore che non si sa tenere due
euro in tasca! Sempre a spenderli in cazzate, guarda che lo dico per
te! A me
non interessa posso anche offrire io tanto non è la prima
volta».
Lui
cambiò tono all’istante «Grazie amore,
veramente! Ci vediamo dopo» e
riattaccò. “Cominciamo bene oggi” pensai
e aprii l’armadio
indecisa su cosa mettermi come al solito.
Quando arrivammo
al ristorante
giapponese io scelsi un tavolo vicino alla vetrata, il cameriere prese
le
ordinazioni e sparì rapido. «Bel tempo oggi eh» dissi
sospirando radiosa, lui come sempre, non mi stava
ascoltando perché trafficava al cellulare con la madre.
«Scusa un attimo», fece per alzarsi rispondendo
ad una chiamata
appena in tempo per accorgermi del solito tono che sua madre usava
quando
parlava di me: «Non è
possibile anche questo fine
settimana mi lasci da sola per quella li? Ma non lo capisci che lei non
conta
niente, sono io la donna della tua vita!».
Il mio ragazzo
mi fece un sorrisetto
e si allontanò rapido.
Che situazione
che mi toccava
sopportare!
E nonostante
ciò lui negava sempre
tutto dicendomi che ero io a farmi le paranoie. Una volta addirittura
quella
bimba di quarantatré anni si era messa a darmi della
deficiente mentre era al
telefono con lui cosi senza motivo.
Ogni giorno di
più capivo quanto la
sua famiglia non mi avesse accettata a differenza della mia con lui, e
probabilmente non avrebbero mai tollerato la mia presenza.
Per i suoi
genitori lui era ancora un
bambino, e forse avevano ragione.
Tornò
a sedersi con fare beffardo,
come se non fosse successo niente di strano «Allora, dicevamo
amore mio?».
Io volsi lo
sguardo altrove e
desiderai ardentemente essere nel mio Hotel, avrei preferito sopportare
il mio
capo invece che mia suocera, di quello ne ero certa.
Le 18:00 alla
fine arrivarono e mi
precipitai a prendere l’autobus dopo aver discusso
animatamente col mio ragazzo
sul fatto che lavorassi nei week-end compresa la domenica.
Quando fui quasi
arrivata al mio
adorato albergo a 5 stelle mi preoccupai un po’ del mio abito
nero: era un
tantino elegante. Per quale motivo l’avevo indossato se i
Bullet non li avrei
visti quel giorno?
Risi, lo facevo
spesso quando pensavo
a qualcosa di divertente e siccome ero da sola nessuno poteva guardarmi
di
traverso. Ormai era sera inoltrata e l’aria gelida si faceva
sentire, c’era
anche qualche lampo nel cielo.
Finalmente
raggiunsi l’enorme porta
girevole, stavo per entrare quando notai sul viale illuminato dai
lampioni un
husky.
Un bellissimo
siberian husky dalle
iridi celesti quasi bianche.
Per me, che
adoravo quella tipologia
di animali quello doveva essere un miraggio. Mi abbassai piegando le
ginocchia
e dissi semplicemente «Bello».
Lui, che aveva
il collare slacciato,
mi si avvicinò piano poi prese confidenza e si fece
accarezzare. Aveva un pelo
morbidissimo, era un maschio di due o tre anni. E anche il carattere
era dolce!
L’occhio mi si posò sulla medaglietta che aveva al
collo, il nome inciso era
“Wolf”. Sorrisi sapendo che il lupo era uno dei
miei animali preferiti.
«Hey, io adesso
devo andare sennò mi cacciano» dissi
alzandomi. Il cane mi guardò e si mise in posizione
seduta, era sicuramente di qualche cliente ed era molto educato.
«Spero proprio di
rivederti Wolf» gli dissi, lui
abbaiò come se avesse
capito.
Oltrepassai
la porta girevole venendo immersa dal calore che emanava la hall, notai
che non
c’era quasi nessuno a parte un gruppo di persone appoggiate
al bancone della
reception con ai loro piedi almeno una ventina di valigie.
Sussultai.
Ma poi decisi di
non pensarci. “Dai”
mi dissi mentre mi toglievo il cappotto nero, “Ti pare che se
fossero arrivati
veramente…”smisi di pensare quando sentii che
parlavano tutti in inglese, la
mia lingua. Notai anche l’accento gallese di quello di spalle
capelli corti e
maglia degli Iron Maiden.
Cavoli, era
forse Moose? Gli
somigliava troppo.
Per arrivare in
cucina dall’interno
dovevo passare per forza vicino alla reception.
“Accidenti
a quando non entro dalla
porta sul retro!” mi dissi e facendo un respiro profondo
cominciai a muovere i
passi, c’erano solo loro nella hall , erano quattro ragazzi
più il
receptionista di turno e un tizio che somigliava proprio al loro
manager...
Mentre passavo
accanto a loro si
zittirono tutti per via del rumore dei miei passi enfatizzato dai
tacchi, io
abbassai la testa ma non smettevo di guardarli con la coda
nell’occhio.
Quello
più alto appoggiato al bancone
con il gomito si voltò verso di me, ma che strano, aveva dei
capelli abbastanza
lunghi e una giacca nera di pelle.
Si
alzò gli occhiali da sole mentre
passavo con la testa girata verso di lui ormai, e quello che potei
notare… Furono
gli occhi azzurri che adoravo, che avevo sempre sognato, che avevo
sempre
immaginato dal vivo.
Erano
gli occhi di Matthew Tuck.