Anime & Manga > Soul Eater
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Autore: MrYamok    08/07/2011    2 recensioni
Maka vive in un mondo come il nostro, e, ogni mattina, scruta dalla finestra della sua camera per accertarsi che un grande pianoforte a coda nero sia sempre nello stesso posto.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Blair, Franken Stein, Maka Albarn, Soul Eater Evans, Spirit Albarn
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Black wood among the ruins


I libri davanti al suo naso, rosso per il colore, all'insù e minuto, erano sempre lì, giacenti sul tavolo spoglio.
Sentii come una sensazione di benessere a restare in quel posto, che in qualche modo mi distaccava dal resto del mondo.
Mi veniva voglia di prendere qualche libro di scienze e impararmelo a memoria, qualcosa che avrebbe sfogato i miei occhi e il mio cervello fino a farmi cadere addormentata, e allora non pensare più a niente, magari sognare, se ne capitava l'occasione.
Questo non perchè dovessi dimenticarmi di qualcuno in particolare; o almeno il mio orgoglio mi diceva così.
Stropicciai i miei occhietti furbi e tirai uno sbadiglio da risveglio.
Sentì che se avessi camminato, quell'ansia che mi cresceva nel petto si sarebbe dissolta. Percui mi alzai, scricchiolando, e cominciai a camminare lungo lo scaffale, attorniata da un tepore silenzioso.
Sembravano muri tagliati sul punto di chiudersi in un arco, oscurando così tutto il resto.
Non mi sarebbe dispiaciuto un lungo e freddo pavimento di pietra, cinto da spogli muri in granito, illuminati da torce tremolanti e marce.
Quel disegno gotico scomparì, lasciando di nuovo posto all'aspetto moderno e affusolato della sala.
Afferrai bruscamente una scala e vi salii malamente.
Arrivata in cima mi ero dimenticata cosa fare, se scendere di uno scaffale o spostarmi a sinistra verso la sezione “Antropologia forense”.
Scelsi la via dell'antropologia e feci scorrere la scala. Quel movimento mi aveva sempre divertito, mi sentivo una scalatrice arrampicatasi su una parete rocciosa.
Estrassi con disinvoltura un libro placcato in rame, pulendolo da uno strato leggero di polvere.
Tornai al mio tavolo sparso di libri. Mi sembravano terribilmente inutili lì, percui li impilai e quindi li infilai nella borsa.
Aprii quel libro pesante, cercando di non strapparne le flebili pagine.
La colonna vertebrale era lì davanti ai miei occhi, eppure ne vedevo solo quelle immagini sfumate dal tempo e ne perdevo le parole.
Sfogliai pagina e fissai un cranio umano. Era lì, segnato da suture ondulate, e un po' sorridente, quasi ridesse di me.
Il teschio si animò e si girò -Povera, la nostra Maka, perchè cerchi di sfogare te stessa con lo studio? Non lo sai che non risolvi nessuna delle due cose?-
-Non è vero! Studiare mi aiuta eccome. E poi chi ti dice che debba sfogarmi di qualcosa?-
-Smettila di mentire a te stessa, Maka, non si va da nessuna parte continuando a fuggire dalla propria vita.-
-Io non sto fuggendo, io...- mormorai.
-Tu sei innamorata, perchè cerchi di reprimerlo?-
-Io... Soul...- cercai di dire -Noi siamo amici-
Abbassai il capo e aggiunsi -Forse... in realtà non so neanche chi sia, che senso ha?-
-Non devi per forza trovarne un senso.- parlò il teschio -Non puoi accettare le cose così come sono?-
-Ma come sono le cose?- mi chiesi mormorando -Io sono... non sono bella... Soul comincerà a frequentare altri tipi di persone e allora... e allora si dimenticherà di me, come tutti gli altri.-
Il teschio continuava a disarticolarsi la mandibola e a riattaccarla alla fossa mandibolare, producendo uno scricchiolio fastidioso.
-Senti.- disse articolandosi per l'ultima volta -Non puoi fuggire queste cose solo col fatto di piangerti addosso e gettare pessimismo sopra ogni dove. Non è onesto da parte tua.
Non sapevo cosa dire. Avrei voluto mollare tutto, lasciare quel pezzettino della mia vita lì dov'era e continuare ad andare avanti.
-Non farlo, Maka.- disse il teschio rimettendosi di profilo -Quando ci si accorge dei propri sbagli è già troppo tardi per tornare indietro.
Tutto tacque di nuovo, come una magia pronunciata tra le fessure di quegli scaffali.
Fissai il libro in attesa di un'altra parola, solo una, che mi facesse cambiare idea.
-Maledizione!- imprecai chiudendo il libro, e andai a riporlo.
Infilai il mio giubbotto e, abbottonandomelo con difficoltà, uscii per strada borbottando frasi incomprensibili.

 

 

Quando Soul Eater Evans nacque, non aveva ancora un nome.
Nato da un parto cesareo, tra l'odore di disinfettante e cibo d'ospedale, era stato preso in mano dall'uomo col camice bianco.
-È un maschio.- disse con il tono di chi ne vede a dozzine di bambini uguali a quello, il dottore.
Eppure quel ciuffo bianco, come zucchero filato, su quella testolina, lo straniva.
Quegli occhietti marroni con una punta di bordeaux, quasi indistinguibile, lo mettevano in soggezione.
Mentre lo fissava in modo inquisitorio, la madre ansimava; il marito vicino a lei tenendole la mano.
Il dottore glielo porse e rimase lì a guardarli, mentre ridevano e parlavano alla loro nuova creatura.
Quel bambino era affetto da un parziale albinismo, gli pareva. Non sapeva se dirglielo o no a quei genitori così felici.
Così felici, eppure così sfortunati. Sperò tanto che non fosse il loro primo figlio.





Di non essere il primogenito, Soul se ne accorse ben presto.
L'aveva già intuito dalle figure che vedeva da bambino. Tra quelle che vedeva ce ne era sempre una con i capelli simili ai suoi, e un'aura di gelo e déjà vu che sentiva attraverso le pareti.
Il primo ricordo nitido di suo fratello fu di una sera d'estate. Il suono di uno strumento a lui nuovo squarciò l'aria e zittì il pedissequo cicalio attorno.
Come lo sentì, Soul seguì quel suono misterioso fino alla stanza con la porta aperta da cui proveniva.
Si nascose dietro lo stipite di essa e guardò timidamente la figura davanti ai suoi occhi.
Indossava una camicia bianca, visibilmente impregnata di sudore. Accanto il completo nero, tolto probabilmente già da prima.
Suonava ad occhi chiusi come se fosse concentrato e impegnato nel trovare una risposta ad un pensiero tormentoso.
Soul rimase a fissare la figura di suo fratello come fosse un acquario pieno di pesci: ne ammirava la bellezza, ma non riusciva a contare tutti i pesci.
La figura sbuffò e si interruppe. Si sedette, appoggiando lo strumento sulle ginocchia, e si asciugò il sudore. Poi si accorse di Soul.
-Soul, che ci fai lì dietro?-
Soul non rispose, ma continuò a tenere la bocca aperta e a guardarlo con sguardo perso.
Suo fratello sorrise e alzò lo strumento -Lo sai cos'è questo?-
Soul scosse velocemente la testa e fece un passo nella stanza, attirato dalla provocazione.
-È un violino, uno strumento musicale. Un giorno dovrai sceglierne anche tu uno.-
-Un violino anch'io?- chiese Soul.
-No, non un violino- disse il fratello sempre sorridendo -Puoi scegliere lo strumento che vuoi. Lo strumento con cui ti senti più in sintonia.-
Soul rimase in silenzio per un lasso di tempo, domandandosi se aveva capito o no il significato di quella risposta.
-Sintonia?- chiese infine -Che cos'è?-
Il fratello portò una mano alla testa per passarsela tra i folti capelli bianchi -Beh, la sintonia...- cominciò.
Guardò Soul e poi ridacchiò -Beh, è qualcosa che non so spiegarti. La troverai da solo, vedrai.-
Soul annuì con forza e guardò il violino luccicante come un pollo arrosto.
-Vuoi provarlo?- gli chiese gentilmente il fratello.
Gli occhi di Soul si illuminarono come due lampadine e, sfoggiando un sorriso largo ma non perfetto, annuì eccitato.
Stava per fare un passo verso suo fratello, quando una voce interruppe l'atmosfera sottile che si era formata.
-Weiss! Perchè hai smesso di suonare?!-
Weiss si alzò in piedi di scatto. La sua schiena gli era sembrata uno stuzzicadenti.
-Scusa, padre, mi ero fermato per riposare. Stavo illustrando a Soul...-
-Smettila di perderti in queste sciocchezze.- disse gelido il padre, ammutolendolo, -Domani hai un concerto, te ne sei forse scordato?-
-No, padre.-
-Allora finisci ciò che hai iniziato.- e detto questo portò una mano dietro la schiena di Soul, spingendolo fuori dalla stanza -Vieni Soul, tuo fratello ha molto lavoro da fare.-
L'ultima cosa che sentì fu il rumore profondo della porta, chiudersi dietro di loro, e perdersi tra i muri della casa.
Infine il suono di un violino squarciò di nuovo il silenzio, più struggente che mai.

 

 

-No, no, no! È questo il ritmo, Soul!- gridò il padre battendo il piede con violenza per terra -E poi quello è un Do! Un Do, non un La!-
La tastiera del pianoforte di fronte a lui taceva. Sentiva le lacrime corrergli agli occhi, ma si ripeteva che se avrebbe pianto, le cose sarebbero solo peggiorate.
La faccia del padre sembrava un pomodoro maturo sull'orlo di scoppiare.
Raccolse gli spartiti caduti per terra e li sbatté sul lungo pianoforte a coda nero -Ora starai qui, tutto il giorno, finché non avrai imparato questo benedetto pezzo!- disse, e se ne andò con rabbia sbattendo la porta e facendo cadere di nuovo gli spartiti.
Quando Soul aveva messo, per la prima volta, le mani sulla tastiera di un pianoforte aveva provato qualcosa, proprio come Weiss gli aveva detto.
Aveva sentito come un tepore provenire da quel legno morto e silente e, in qualche modo, gli era sembrato che quell'inanimato strumento lo avesse abbracciato.
Eppure qualcosa lo pervadeva tutto quando faceva scorrere le dita sull'intera la tastiera, sentiva una musica frenetica, maligna, malata, straordinaria che chiamava il suo nome e lo pregava di essere suonata.
Al contrario, suo padre lo costringeva sempre ad imparare quella musica scandita e noiosa, che si divideva in infiniti battiti e battute, piena di segni e monotonia musicale.
Guardò con disprezzo gli spartiti e cominciò a suonare scandito.

 

 

All'una e trentacinque di quel martedì notte non volava una mosca.
Il vecchio orologio a pendolo batteva i secondi con il suo ticchettio metallico.
Il signor Evans dormiva nel suo letto, ma sembrava agitato; continuava a rigirarsi.
Perchè? , si chiedeva, Perchè mio figlio non suonava come doveva?
Quel pensiero non lo lasciava libero e lo tormentava ogni notte. Eppure gli aveva insegnato, lo aveva educato, lo aveva sgridato, punito affinchè imparasse a suonare nel modo più diligente possibile.
Doveva diventare famoso, no, ancora più famoso! Avrebbe sbaragliato tutti quei pidocchiosi e altezzosi pianisti orientali o americani che pretendevano di essere nati con lo strumento in mano! Sì, lo avrebbe fatto, e lui suo padre sarebbe stato fiero di lui, perchè avrebbe visto sé stesso nel figlio, sé stesso quando aveva la sua età e suonava e non riusciva a superare gli altri pianisti e...
Un suono terribile crebbe nella notte. Il signor Evans si svegliò di soprassalto con un gridolino. Era l'una e quaranta.
Credette di stare ancora sognando, e invece il suono era reale ed era...
Folle.
Suoni e arpeggi sconnessi esplodevano per le pareti e rimbombavano come esplosioni per quelle immense sale.
Scese dal letto e accese una candela, mentre gli tremava la mano. Quella musica lo sconvolgeva.
-Caro, ma che succede?- mormorò la moglie debolmente.
Il signor Evans non rispose e spalancò la porta fiondandosi giù per le scale, mentre affannava sudato.
Con la camicia da notte attaccata al corpo e il respiro ansante raggiunse la sala del pianoforte.
Quella musica folle usciva da lì, da quello che sembrava essere diventato un antro di un demone e una caverna buia per un pazzo fuggito.
Spalancò le porte della stanza e rimase rigido senza muoversi.
Chino come un gobbo sulla tastiera, lui stava suonando. Soul stava suonando.
Le mani si alzavano al cielo fulminee e ricadevano sul pianoforte come pietre scagliate.
Sembrava di assistere a qualcosa di terribile, qualcosa che andava al dì là del suonare.
Al signor Evans parve come di vedere qualcuno essere ucciso.
E ogni nota sembrava una pugnalata nel petto, e ogni scala sembrava sangue zampillare fuori dalle ferite. Non riusciva a dire niente, non riusciva a fermarlo perchè era terrorizzato, perchè...
Sorrideva.

 

                                         ~Fine prima parte~

   
 
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