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Autore: Shadeyes    16/07/2011    2 recensioni
Il terzo capitolo di questa long-fic, assieme all'extra "Angelo Bianco", si è classificato secondo al "Love Canon Contest", indetto da sweetPotterina sul forum di EFP.
Vincitore del premio Cuore, per la storia d'amore più bella, e del premio Lacrima, per la storia più commovente.

Fiction dedicata a Carlisle ed Esme, una delle coppie più romantiche di Twilight.
Non vuole raccontare nulla più che la verità. Pochi, intensi capitoli sulla storia del loro amore travagliato, dal punto di vista di Esme.
Spero di riuscire ad emozionarvi :)
Alzai lo sguardo, scrutai in quelle iridi color miele e con sgomento vi trovai un dolore represso, un sentimento che non sarei mai riuscita ad attribuirgli.
Cancellai dalla mia mente ogni cosa, ogni pensiero razionale che avrebbe potuto frenarmi.
Mi sollevai sulle punte dei piedi e poggiai le mie labbra sulle sue.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Esme Cullen
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing Memories'
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Carlisle and Esme









Missing Memories









Passato II









Pioggia, fulmine, vento. E le mie lacrime che accompagnano quel tempo ribelle.


Non esiste scelta,
è un privilegio inconcesso.
Il destino di una ragazza,
il marchio di una donna.


Quanto c’è di vero nella mia vita?, pensai amaramente.
Solo il tuo dolore.
Scossi la testa, ma non potevo più mentire a me stessa.


Il suo sorriso,
le labbra attraenti,
e quel suo tocco gelato.


Avevo giurato che non avrei mai più sfogliato quel vecchio diario, ma sapevo che non sarei riuscita a mantenere quella promessa.
Se l’avessi gettato via, avrei fatto una cosa molto più saggia.


E quei suoi occhi,
caldi ma sfuggenti.
Guardarlo è un piacere intenso,
pari al dolore di sentirlo lontano.


L’avevo scritto la stessa sera in cui mi avevano dimessa dall’ospedale, circa due anni addietro. Era stato un fiume di parole, pensieri e sensazioni che non ero stata in grado di ignorare.
Il dottor Cullen era rimasto vivo nella mia mente per settimane. Quella breve conversazione mi ossessionava come un bisogno impellente di cogliere invano quell’ignota emozione.
E quando ormai ogni speranza di godere ancora della sua presenza era svanita, lo trovai accomodato nel soggiorno di casa un pomeriggio di fine novembre a rifiutare cordialmente un caffè offerto da mia madre.
«Esme, saluta il dottor Cullen da ragazza a modo, quale sei!», mi intimò mia madre.
Probabilmente ero rimasta più che stupita perché sentii la sua occhiataccia gelarmi fin le ossa.
Mi riscossi e lo accolsi chinando leggermente il capo: «Lieta di rivedervi, dottore».
«Il piacere è mio. Vedo che vi siete ripresa egregiamente, ma permettetemi di appurarlo con certezza», disse alzandosi dalla poltrona e facendomi segno di sistemarmi sul divano.
Era solo per quello che era venuto, per una visita di controllo. Mascherai la mia delusione e annuii ad occhi bassi. Ero stanca di farmi illusioni.
«Oh, no… Dottore, vi prego di accomodarvi al piano di sopra, nella stanza di Esme. Avrete modo di lavorare con maggiore tranquillità», cinguettò mia madre e il dottor Cullen non poté fare altro che accettare.
Gli feci strada aprendogli la porta di legno della mia camera appena rassettata da Lorei, la nostra governante.
Entrò accennando un sorriso, e come quella volta in ospedale ebbe il potere di scaldarmi il cuore. Ero certa che le mie guance si fossero tinte di rosso, ma il vero imbarazzo mi attanagliò lo stomaco quando mi chiese di sdraiarmi sul letto e di alzare la gonna.
Lo feci, conscia del fatto che lui mi aveva già vista priva di vestiti e che mostrargli le gambe non doveva essere un problema.
La differenza ingente stava nel fatto che la prima volta ero completamente addormentata e comunque sedata dai farmaci, ma nella situazione in cui mi trovavo ora mi veniva terribilmente difficile non pensare a certe cose.
«Rilassatevi, e se vi faccio male non esitate a dirlo».
Le sue parole suonavano quasi automatiche, frasi fatte per rassicurare il paziente, e questo mi fece provare una punta di delusione.
Lo fissai come avevo fatto la prima volta e sorrisi dolcemente nel vedere che nulla dei miei ricordi era stato compromesso.
Era bello, sempre.
Nemmeno i medicinali erano riusciti a nascondere quell’abbacinante realtà.
Provai l’insormontabile impulso di toccarlo, ma prima che anche solo formulassi quel pensiero fu lui a toccare me.
Il senso di gelo che la sua mano trasmetteva alla mia gamba pervase tutto il mio corpo e non potei impedire ai brividi di percorrermi la schiena, lo stomaco, il petto… fin nella testa.
Lui se ne accorse perché sentì il bisogno di scusarsi: «Perdonatemi, non durerà molto».
Lo sapevo bene, ma non avrei lasciato che la consapevolezza mi rovinasse quel momento tanto atteso.
Assaporai ogni suo movimento che accompagnava il mio, il ginocchio che si piegava, che s’alzava lentamente sotto il suo tocco delicato. Sussultai appena quando spinse la gamba verso il mio petto: quell’esercizio richiedeva un’elasticità che non ero più stata in grado di recuperare.
«Scusate», ripeté allentando la pressione.
Allora mi accorsi che cercava di sfuggire al mio sguardo, quasi come se temesse di guardarmi negli occhi.
Sembrava… imbarazzato. E, se fosse stato possibile, la sua naturale bellezza si fece ancora più marcata.
Strani pensieri mi turbinavano in testa, cose che avrebbero fatto rabbrividire mia madre e che l’avrebbero portata a rinchiudermi in convento per il resto della vita.
Pensieri che sarebbero parsi più concreti se lui mi avesse guardato anche solo per un secondo, ma forse era proprio per quello che evitava il contatto.
«Bene», la sua voce scacciò all’istante quell’illusione. «Come pensavo, non avete avuto problemi a riprendervi. Consiglio comunque un ulteriore mese di fisioterapia, per sicurezza. Potete alzarvi».
Lentamente, lasciai scivolare le gambe giù dal letto e mi puntellai sui gomiti per issarmi a sedere. La vista mi si offuscò per qualche secondo e d’istinto mi portai una mano alla tempia.
«Oh…».
Finalmente i suoi occhi si puntarono su di me.
«Succede spesso?», mi domandò senza ulteriori spiegazioni.
«Io… Sì, beh… quando mi alzo velocemente».
«E questo da quanto?».
Ci pensai su.
«Uhm… da tre o quattro mesi, credo», risposi infine.
Il dottore annuì serio. La fronte aggrottata entrava in contrasto con lo sguardo benevolo, ma questo non comprometteva la perfezione del suo viso. Anzi, se possibile, la accentuava.
«L’operazione è stata causa di una vostra ingente perdita di sangue. Non vorrei che gli accorgimenti presi non siano bastati».
Le sue parole per me iniziavano a perdere di senso. Il calore che il suo tono manifestava mi attraeva in un modo quasi scandaloso.
«In ogni caso, ne parlerò con vostra madre», concluse e mi porse la mano.
L’accettai per godere ancora una volta della sua gentile essenza, e quando mi fui issata in piedi non riuscii a trovare la forza di ritrarmi.
Alzai lo sguardo, scrutai in quelle iridi color miele e con sgomento vi trovai un dolore represso, un sentimento che non sarei mai riuscita ad attribuirgli.
Cancellai dalla mia mente ogni cosa, ogni pensiero razionale che avrebbe potuto frenarmi.
Mi sollevai sulle punte dei piedi e poggiai le mie labbra sulle sue.
Il mio primo bacio, timido e incerto.
Non pensai a nulla, se non quanto avessi sognato quell’attimo, e quella fervida sensazione, cocente, confortante, terribilmente estranea ma così deliziosamente in equilibrio con quello che provavo per lui.
La sua totale immobilità non mi scoraggiò, anzi, la interpretai come una muta concessione, così gli posai le mani sul petto e corsi fino alle ampie spalle, indugiando sul suo profilo scultoreo.
Per un attimo sentii le sue braccia sollevarsi e cingermi la vita, la sua bocca si dischiuse appena, ma in quel momento tutto si infranse.
«No…», mormorò quasi disgustato. Si staccò da me e si voltò. Pareva sconvolto.
Un po’ interdetta per la sua reazione, mi feci coraggio e mi avvicinai di nuovo, posandogli una mano sulla spalla.
«Che succede?», gli domandai dandomi subito della stupida per la mia idiozia.
Si divincolò ancora, ma questa volta si girò per guardarmi negli occhi.
Ebbi quasi un sussulto. Le sue iridi non erano più di quel dolce color oro fuso, ma di un nero profondo e agghiacciante.
«State… state bene?».
«Perché l’avete fatto?».
La sua voce aveva in parte abbandonato quel tono amabile, trasformandosi in un roco sussurro.
«Io…». L’imbarazzo tornò repentino, questa volta bruciandomi il viso. «Perché io vi…».
«Non lo dite, Esme, ve ne prego», mi zittì, ma lo vidi pian piano riprendere il controllo della situazione.
«Voi siete giovane, desiderosa di nuove esperienze, ma non è in me che troverete quello che cercate», parlò come se si fosse aspettato ciò che poco prima era successo.
«Sbagliate, io…».
«No, Esme, no. Ascoltatemi, per il vostro bene. Il capitano Evenson è un uomo rispettabile, e lui saprà regalarvi una vita da vera signora. Non gettate all’aria quest’opportunità per un falso sentimento».
L’ultima cosa che desideravo era un’altra persona che mi dicesse cosa per me era più giusto.
Scacciai le lacrime minacciose.
«Quello che mi dite l’ho già sentito troppe volte, fino alla nausea! Per la prima volta nella mia vita ho fatto qualcosa che non fosse dovuto o ordinato, ma semplicemente voluto. Desiderato da me. Perché date per scontato che ciò che provo per voi sia solo illusione?».
Avrei tanto voluto urlare quelle parole, ma non potevo rischiare che Lorei o mia madre cogliessero quella conversazione. Sarebbe stata la fine per me e per la carriera del dottor Cullen.
«L’illusione non siete voi, ma io. Sono un uomo di trent’anni che trascorre la sua vita ad occuparsi di malati. Salvo vite tutti i giorni e ognuna di queste persone mi sono riconoscenti. Voi confondete l’amore con la gratitudine», disse con un sorriso accondiscende, quasi a volermi convincere.
Scossi la testa ripetutamente.
«Carlisle, voi non capite! Da quel giorno in ospedale non ho fatto altro che pensarvi, attendendo ogni giorno questo momento, di riprovare ancora quelle emozioni che solo voi siete riuscito a trasmettermi. Con il capitano non è nulla più che amicizia, credetemi».
Ora fu lui a scuotere la testa.
«Esme, la realtà è più complessa di quel che pensate. Anche se ricambiassi i vostri sentimenti non sarebbe possibile arrivare ad un qualcosa di concreto», mi fece notare avvicinandosi e stringendomi le mani, come a pregarmi di comprendere le sue parole.
«E perché mai?».
Sospirò.
«Ho un figlio, Esme».
«Dunque?».
«Ha la vostra età», ritentò.
«So come trattare con i miei coetanei, e comunque so per certo che non è di sangue. Edward è vostro figlio adottivo».
«Perché non riuscite a comprendere la mia situazione? Sì, ho adottato Edward, e l’ho fatto con l’intenzione di potergli dare una madre un giorno, non una compagna di giochi».
Quella frase mi trafisse il petto da parte a parte. Ormai non c’era più motivo di trattenere le lacrime.
Carlisle Cullen mi considerava una ragazzina, una bambina da accudire perché non ancora pronta alla vita. E ciò bastava a farmi crollare il mondo addosso.
«Mi dispiace, Esme, che sia stato proprio io a procurarvi tanto male al cuore», disse per consolarmi.
No, non ci potevo credere. Non era illusione, non lo era!
«Voi mentite», mormorai abbassando lo sguardo.
«Posso assicurarvi che nulla potrebbe darmi più dolore delle vostre lacrime», ripeté con più convinzione.
«No, voi mentite a voi stesso. Voi vi state illudendo, non io».
Ero disperata, forse solo perché non ero pronta ad accettare una porta in faccia, eppure sentivo che le sue erano solamente semplici scuse. Non avrei dovuto essere così insistente, ma il pensiero di rinunciare a lui era troppo amaro, e decisi di non volerlo nemmeno prendere in considerazione.
«Vi prego, non dite queste cose. Rendete la mia posizione ancora più scomoda di quanto già non sia…».
«Ammettetelo, almeno! Confessate i vostri sentimenti, quelli veri che tentate di nascondere, e siate fedele al vostro cuore. Allora forse capirò le vostre ragioni, ma solo dopo aver letto la verità nei vostri occhi».
«Conoscete già la verità».
«Non sembrava la pensaste così dieci minuti fa», sentenziai, continuando a fissarlo.
La sua espressione sembrò vacillare, ma solo per un momento. Tuttavia, il silenzio piombò nella stanza come a evidenziare la veridicità delle mie parole e rese certe tutte le ambiguità.
Se ne accorse anche lui. Si voltò e frettolosamente ritirò le sue scartoffie nella valigetta.
Mi sovrastò una paura immensa e quasi mi maledissi per aver agito così sconsideratamente.
Non volevo che se ne andasse, non l’avrei sopportato. Non volevo perderlo, non un’altra volta. Non era così che doveva finire…
«Avete provato esattamente quello che ho provato io in quel bacio, non è vero?», cercai di riportarlo alla conversazione, ma sembrava che non mi volesse nemmeno ascoltare.
Continuava a darmi le spalle.
«È stato quello che vi ha trattenuto, il motivo per cui non avete avuto la forza di divincolarvi subito…».
Finalmente si girò, sospirò nel guardarmi.
Mi si avvicinò con un passo, mi posò la sua mano gelida sulla guancia e mi diede un rapido bacio sulla fronte. Quello bastò a farmi sentire una bambina al suo confronto. Non l’adulta che tutti credevano, ma una bambina.
Lui, almeno, mi vedeva come tale, ed era quasi ironico il fatto che fosse davvero l’unica persona a cui io volevo apparire come una donna. Ma forse non lo ero.
«Addio, Esme. È stato un piacere avervi conosciuto».
Mi oltrepassò, bloccandosi appena prima di aprire la porta.
«Davvero». E se ne andò.
Rimasi immobile, al centro della stanza, a versare lacrime silenziose, ascoltando il rumore dei suoi passi sul parquet che si facevano sempre più lontani, distanti, inesistenti.
Mi avvicinai alla finestra e lo vidi camminare a passi svelti sul lato della strada ciottolata, le spalle incurvate e l’ombrello a ripararlo dalla pioggia.
Una malevola consapevolezza, una voce interiore mi sussurrò tristemente che quella era la fine del capitolo Cullen, un libro compianto che svaniva come il resto della mia vita.
Niente di più vero c’era in quella riflessione.
Quel ricordo mi perseguitava ancora, scritto a lettere incancellabili su quel vecchio diario che riesumai dallo scaffale due anni dopo.
Scrutando la strada dalla mia camera, potevo ancora vederlo, e chiudere gli occhi non serviva perché le immagini di quel giorno aggredivano la mia mente, graffiandola fino a farla sanguinare.
Così piansi ancora, sfogandomi senza mai provare soddisfazione.
Carlisle si era sbagliato, non era illusione. Non avevo mai smesso di desiderarlo.
Ma ormai quel che era stato faceva parte del passato perché lui se n’era andato. Lo venni a sapere pochi giorni dopo. Dicevano avesse chiesto il trasferimento in un ospedale a nord, ma nessuno sapeva precisamente dove.
Dal suo addio non ero più riuscita a tornare la Esme solare di prima. Passavo le mie giornate in casa, sorridevo per convenzione, e fingevo.
«Esme, mi concedereste l’onore di farvi mia sposa?».
«Sì, Charles. Sarò vostra moglie».
Finsi.





Rosa blu










Sono tornata, come promesso, con il terzo capitolo :)
La Meyer non parla assolutamente di questa discussione avvenuta tra i protagonisti, ma mi piaceva l'idea, quindi l'ho inserita di mia sana pianta xD
Spero vi abbia emozionato *-* Personalmente, a distanza di tempo l'ho riletto e mi batteva forte il cuoricino xD Ma solo per la nostalgia... in fondo, l'avevo scritto tempo fa, mi emoziona leggere i miei vecchi scritti :)  Purtroppo questo mi impedisce di essere oggettiva, quindi spero lo sarete voi per me, con le vostre recensioni :)
Il prossimo capitolo è in fase di elaborazione, spero di riuscire a pubblicarlo presto :) Sono anni che è in fase di lavorazione, ormai xD Non so perché, ma l'ho trovato molto difficile da scrivere o.o  Tranquille, comunque xD Presto sarà online ^^

Un bacio!


Ne approfitto per ricordarvi l'altra mia long-fic su Twilight.


Infantility
Fiction molto dura, ambientata durante le vicende di Eclipse e, in seguito, di Breaking Dawn. Non si tratta della solita storia sdolcinata, piena di amore e problemi di coppia. No, questa storia vuole ritrarre qualcosa di doloroso, di cupo e drammatico. Qualcosa di immutabile. Qualcosa che la Meyer ha giusto accennato e qualcosa di cui molti di noi si sono dimenticati.
Ci sarà passione, delusione, gelosia, rabbia e malinconia. Ci saranno lacrime, ferite, ricordi dolorosi, tradimenti.
E ci sarà lei, l’innocenza e la morte. La piccola, dolce, spietata Meredith.
Certe cose sono fatte per andare e venire, il tempo è fatto per essere passato, presente e futuro, altrimenti nulla avrebbe più davvero senso. Ma la verità è che il cambiamento era un privilegio che ci era negato e vivere iniziava a perdere di significato.
Ecco perché ci trovavamo sul tetto di un palazzo, quella notte. Stavamo dando un senso a ciò che eravamo.
Questa fanfiction si preoccupa di sensibilizzare il lettore, in maniera metaforica, sugli aspetti di una rara malattia psicosomatica: l’infantilismo.







Hilary




   
 
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