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Autore: MrsLovett    19/07/2011    0 recensioni
Il ritratto di un grande uomo, condottiero e console: Giulio Cesare, dalla nascita alla morte. In due capitoli ripercorrerò i momenti salienti dell'infanzia e della morte di Cesare.
STORIA CLASSIFICATA 5° AL CONTEST "HEROIC CHILDHOOD & DEATH"
Genere: Azione, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Cesare camminava con fierezza per le strade di Roma quasi deserte.

La primavera era arrivata portando con sé quella agognata calura tanto attesa dopo il rigido inverno. Riempì i polmoni con l'aria ancora frizzante del primo mattino e assaporò il vento che gli scompigliava i capelli più radi e striati da sottili fili d'argento.

L'età si stava facendo sentire: le sue membra non erano più forti come un tempo ma godeva lo stesso di una buona salute. Intorno agli occhi neri ma vispi, si notava la pelle che iniziava ad incartapecorirsi formando una sottilissima rete di piccole rughe. Nonostante tutto negli ultimi tempi si svegliava spossato, più stanco di prima e sempre più spesso era vittima di capogiri e svenimenti. I medici attribuivano tutto ciò a un male maligno che non riuscivano a curare.

Anche quella notte non aveva dormito bene: sua moglie si era svegliata più volte in preda a incubi. Lui stesso aveva fatto degli strani sogni nei quali si librava nell'aria come un uccello. Intorno a lui non c'erano guardie a disturbarlo nella passeggiata: non gli servivano dei guardiani che tenessero a bada la situazione. La gente lo riconosceva, e quando questo avveniva abbassavano lo sguardo in segno di rispetto, o forse di paura. Non temeva la popolazione come i suoi predecessori che erano terrorizzati dalla stessa massa che li aveva portati sul gradino più alto del potere; per questo un mese prima aveva deciso di eliminare la scorta.

Ai margini della città i venditori ambulanti sistemavano le loro piccole baracche in attesa che il mercato mattutino iniziasse e Cesare camminava tra loro come un dio tra i mortali. Camminava come se ci fosse stato un velo invisibile a separarlo dalla gente comune.

Quella mattina non aveva neanche voluto il cavallo “Preferisco sgranchirmi le gambe” aveva detto ai suoi servitori. La sua dimora distava una lega e mezza dal palazzo del senato, nulla in confronto alle lunghe marce che aveva percorso durante i lunghi anni nell'esercito.

Nel cuore di Roma la città si era quasi del tutto svegliata: gente che andava a comprare della frutta fresca, chi portava le capre al pascolo ai margini della capitale, mercanti di schiavi che offrivano giovani scarni a prezzi troppo alti...

Giunto quasi in cima al colle il dittatore vide una figura curva che si avvicinava. Si ricordava di quell'uomo: una volta gli aveva predetto il futuro e lo aveva avvertito riguardo le Idi di Marzo.

Cesare si posizionò davanti all'uomo e disse con aria beffarda: “Le Idi di Marzo sono giunte”

L'uomo alzò il volto segnato dal tempo e dalla fatica incrociando gli occhi neri del dittatore. Aveva incontrato persone simili: grandi uomini accecati dalla gloria e dal potere che avevano finito col distruggere loro stessi spinti dalla loro cupidigia.

Quasi in sussurro disse oltrepassandolo “Sì... Ma non sono ancora passate”.

Cesare rimase impassibile davanti alla sfacciataggine del vecchio, anche se dentro di sé ribolliva di rabbia. Come osava un uomo di basso rango comportarsi in quel modo con un patrizio?

Quando giunse nel centro, ormai gremito di gente, Cesare venne circondato da una folla urlante. Erano tutti venuti per vedere il futuro re di Roma incoronato d'alloro, come era consuetudine per le alte cariche politiche e militari dell'impero. La sua veste si impigliava dappertutto e ogni volta Cesare la strattonava con forza per liberarla. Vide intorno a sé uomini e donne di ogni casta sociale: dai poveri e dai mendicanti che infestavano la città, alle persone libere, alle ricche matrone che salutavano protette dalle loro guardie.

Si concesse un ultimo bagno di folla prima di superare in fretta gli ultimi piedi che lo separavano dall'ingresso del senato.


I senatori smisero di parlare quando Cesare superò la soglia dell'entrata principale e raggiunse il suo posto sul seggio centrale. Quel giorno avrebbe parlato di nuovo, cercando di far capire l'importanza di conquistare nuovi territori per la gloria di Roma. Ma sapeva già che quegli uomini rinsecchiti si sarebbero mostrati sordi alle sue richieste.

Prima di aprire quella sessione mattutina vide i senatori avvicinarsi a lui. Alcuni si inginocchiarono per chiedergli favori, mentre altri cercarono di prendergli la mano.

Publio Casca si fece strada tra gli uomini cercando di avvicinarsi a Cesare. Come un'ombra si spostò alla sua sinistra, tirò fuori un piccolo coltello e si avventò sul dittatore.

Il colpo lo ferì lievemente alla base del collo.

Cesare si voltò e cercò con i suoi occhi neri l'assalitore. Quando mise a fuoco Casca con il braccio ancora a mezz'aria e il pugnale stretto tra le mani, la sua bocca si deformò in una smorfia di disgusto. “Ma questa è violenza!” urlò tamponandosi con le dita la piccola ferita.

Cesare notò che nessuno dei presenti aveva mosso un muscolo, anzi, aveva l'orrenda sensazione che il cerchio intorno a lui si stesse stringendo. Vide gli altri congiurati estrarre lentamente dei pugnali da sotto le vesti. In quel momento ebbe un tuffo al cuore. Cesare si guardò intorno disperatamente cercando aiuto. Dov'era Marco Antonio? E Bruto? Gli anni passati nell'esercito l'avevano irrobustito, è vero, ma non ce l'avrebbe mai fatta da solo contro tutti quegli avversari.

Sudici cani!” urlò sempre con la mano sul collo “E' così che vi comportate davanti al vostro console?!” a sua volta tirò fuori un piccolo stilo.

Un senatore prese in mano la situazione e si scagliò contro Cesare. Immediatamente anche gli altri lo seguirono. Caio Giulio sentiva il freddo del metallo lacerargli la carne in ogni punto, si sentiva come un orso aggredito da un immenso sciame di api. A morte, a morte tutti quanti pensava con ribrezzo colpendo alla cieca, chiunque gli si parasse dinnanzi. Gridò aiuto nella speranza che qualcuno accorresse da lui. Con la coda dell'occhio vide schizzi di sangue che volavano dappertutto. Immaginò la sua toga candida macchiata indelebilmente con il sangue di quei traditori e provò un moto di rabbia intensa che sembrò dargli nuove energie. Respinse un assalitore, un altro e un altro ancora. Le forze stavano per venirgli meno: ogni muscolo urlava quando le lame lo trafiggevano, si sentiva il corpo bruciare dalle infinite ferite infertegli.

Poi d'un tratto, come se le sue preghiere fossero state esaurite, tutto si placò. I congiurati erano immobili e fissavano un punto indefinito verso l'entrata del senato. Anche Cesare, sopra il pulsare del sangue nelle orecchie, sentì qualcuno avvicinarsi.

Cosa succede qui?” chiese una voce familiare. Cesare sorrise alla vista di Bruto. Ora la pagherete tutti pensò.

Stavano cercando di uccidermi Bruto! Tutti questi traditori hanno preso le decisioni per Roma per tutto questo tempo e noi...” si bloccò alla vista dello sguardo di Bruto.

Lo guardava con occhi indecifrabili: un misto tra rabbia, trionfo, tristezza e gioia perversa.

Cesare indietreggiò alla vista di quell'espressione. Sperava che fosse ancora in uno di quegli incubi che ultimamente non lo avevano fatto dormire; sperava di svegliarsi di nuovo trattenendo un urlo mentre riconosceva intorno a sé la propria stanza e con la mano tastava sotto il cuscino per trovare il coltello che portava sempre con sè. Si augurava che tutto questo non fosse la realtà, non voleva vedere quello sguardo negli occhi di Bruto che era stato più di un semplice amico, di un compagno d'armi...

Con voce spezzata e flebile chiese quasi a sé stesso “Anche tu, Bruto?”

L'uomo dinnanzi a lui annuì lentamente e si fece strada verso di lui tra i senatori che si dividevano per lasciarlo passare. Sguainò il gladio e lo sollevò sopra la testa di Cesare che si lasciò cadere ai piedi del proprio seggio ancora incredulo.

Allora fai in fretta” disse guardandolo negli occhi un'ultima volta. Poi prese parte della toga e si coprì la faccia in un gesto di disprezzo verso tutti loro. Non poteva vivere sapendo che Bruto l'aveva tradito. Poteva aspettarselo da chiunque, ma non da lui.

Aveva ragione suo zio Mario quando gli diceva di non fidarsi di nessuno. Ma il grande Cesare aveva voluto sfidare la sorte e aveva commesso il terribile errore di contare su Bruto, che si era rivelato il braccio destro del demonio. Rimase seduto immobile ad attendere la morte che per così tanto tempo aveva preso in giro.

Bruto, con la follia nello sguardo, conficcò con decisione la lama nel cuore del dittatore che sussultò un istante, preso dagli ultimi spasmi di vita, prima di accasciarsi al suolo.

L'ultimo respiro si dissolse nell'aria mentre una macchia scura gli si allargò sul petto inzuppando la veste lacera.

Cesare era morto.

Nessuno fiatò ma tutti gli occhi erano fissi su Bruto che era rimasto immobile. Dopo un istante estrasse la spada accompagnata da uno schizzo di sangue. Il drappo cadde mostrando agli aguzzini il volto esangue di Cesare. Aveva gli occhi chiusi, come se stesse dormendo. Gaio Trebonio in un gesto arrogante aprì gli occhi vitrei del dittatore.

I corvi sapranno cosa mangiare” disse con un sogghigno disegnato sulla faccia.

Bruto guardava ancora quello che una volta era il suo mentore. Nessun senso di colpa gli attanagliava le viscere mentre osservava quel corpo scomposto e pieno di tagli.

Voltò le spalle al cadavere e uscì dal senato. I congiurati si lasciarono andare a un sospiro di sollievo e lo seguirono.

La folla era ancora riunita all'esterno dell'edificio e quando videro tutti quegli uomini uscire macchiati di sangue e con i pugnali sguainati emisero degli urli e si levò un bisbiglio generale. Alcuni chiedevano del condottiero: “Dov'è Cesare?”

Bruto levò una mano sulla popolazione chiedendo silenzio. Quando tutto si fu calmato disse a voce alta e chiara “Cesare è morto. L'abbiamo ucciso noi.” Brusii scoppiarono da ogni dove. Certi chiedevano l'intervento dei pretoriani additando Bruto. “E' stato fatto ciò che era più giusto. Il dittatore è morto. Roma è libera!”

Osservò i volti ammutoliti dei presenti che si guardavano tra loro chiedendosi cosa fare. Bruto si sentiva sollevato: aveva liberato una nazione, un impero dalla follia di Cesare.

Ora Roma poteva respirare libera dalla stretta del console, poteva ritornare a vivere.

  
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