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Autore: Mitsutsuki    21/07/2011    2 recensioni
Non aveva un nome. Credeva che venir delineato da una parola come un’altra non facesse al caso suo. [...] Era per questo che non si presentava in nessuno modo, solo “lui”. Se poi c’era chi lo voleva additare con altri epiteti, libero di farlo. “Lui” rimaneva il suo preferito.
Genere: Comico, Generale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Serie: Original
Partecipante a: Original Concorso 11 ~ La Sorgente e... Lui
Capitoli: 4
Contatore: Pages - 6.953 Parole
Note:
- Credo che la parte più divertente di questo racconto sia stata provare le scene per verificare se un’eventuale crisi da iper-ventilazione fosse plausibile o meno e descrivere altre minuzie, come spostarsi con una sedia o girare in tondo per capire dove mettere il Sud.
- Più scrivevo, più mi sono resa conto di quanto le etichette sul “genere” mi vadano strette.
- La descrizione di cosa si vede senza occhiali è ciò che io personalmente vedo con meno otto diottrie (Cap. 2)
Disclaimers: Tutto mio.

Capitolo 1
Lui


Non aveva un nome. Credeva che venir delineato da una parola come un’altra non facesse al caso suo. Preferiva di gran lunga lasciare libero spazio all’immaginazione di chi veniva a sapere della sua esistenza, ubicato là, in una casupola di campagna passata indenne al corso degli anni come materializzatasi magicamente da un’epoca lontana.
Nemmeno la tecnologia faceva per lui: troppe luci, cavi assassini, bollette da pagare e macchine spacciate per oggetti essenziali anche quando incorporavano in sé quanto di più futile ci fosse al mondo.
No, non rimpiangeva l’isolamento forzato da una società che di quella ferraglia aveva fatto il proprio sostentamento.

Quando si riscosse dai suoi pensieri, si schiarì la gola e si sistemò meglio sulla poltrona in vimini, mettendosi in una posizione abbastanza scomoda da evitargli di contare le pecore che saltavano il recintomentre si addormentava.
Inghiottì un bel po’ di saliva, la stessa che probabilmente gli sarebbe colata sul mento di lì a poco.
Maledizione.”
Saettò con lo sguardo alla ragione della sua noia: un moccioso appena diciottenne, legato con le mani dietro la schiena sulla sedia di fronte alla sua. Era incosciente da quasi due ore, con il capo abbandonato davanti al petto, il respiro regolare.
Così, lui che non aveva un nome, si era perso nella contemplazione dei capelli biondastri del ragazzo e aveva cominciato a riempirsi il cervello del più e del meno per ammazzare il tempo.
Non aveva un televisore. L’unica ferraglia che ammetteva di possedere erano un pick-up, un frigorifero ed una caffettiera, che si accendeva e spegneva in completa autonomia.
Meglio di una moglie, la mia Matilde” diceva a se stesso ogni tanto, la mattina, davanti ad una tazza fumante e a del pane secco, ammiccando alla macchinetta come ad un’amante.
Non aveva amici. Né un animale a cui potesse affezionarsi (quelli che aveva dovevano riempirgli lo stomaco, non fargli le feste di ritorno dal lavoro), né era mai stato attratto da una donna dopo i trent’anni. Tutte così scheletriche da far pietà.
Batté gli scarponi sul legno del pavimento, alzandosi in piedi.
Adesso capiva: quel ragazzo aspettava solo di saperlo addormentato per coglierlo sul fatto, rinfacciarglielo con un biglietto strappato dall’agenda e fuggire!
Non gliel’avrebbe data vinta.
Giammai!” Si ripeté, le mani sui fianchi ed un’espressione decisa ad aggrottare le sopracciglia folte.
Diede una rapida occhiata all’orologio a cucù appeso alla parete del salotto. Le quattro del pomeriggio. Matilde gli stava sicuramente preparando del caffè nero, bollente, con una spruzzata di cannella.
Proprio come piaceva a lui.
Dovrei chiederla in sposa, un giorno.

Zachary tornò a riprendere lentamente contatto con la realtà solo dopo le cinque.
Sbatté le palpebre parecchie volte, prima di rendersi conto che il colore scuro che gli si presentava davanti non era altro se non la tintura dei propri pantaloni.
Alzare la testa fu un’operazione anche più difficile. Ogni centimetro del suo collo sembrò voler gridare la propria frustrazione e i muscoli tirarono a tal punto che temette si sarebbero rotti. Di conseguenza, per quanto gli fu possibile, cercò di guardarsi attorno muovendo solo gli occhi, dietro le lenti squadrate degli occhiali.
Si trovava in una stanza fatta interamente di legno scuro; davanti a lui c’erano una poltrona in vimini e, dietro questa, una cassapanca a fianco di quella che intuì essere la via d’accesso ad un corridoio.
Sondando le pareti notò un paio di cornici attorno a dei fogli bianchi ed infine, abbassando lo sguardo, dedusse che ci fosse una porta - o una finestra - dietro di lui, da cui filtrava la luce calda del tramonto.
Ma fu solo quando dovette aggiustarsi gli occhiali sul naso, e non poté farlo, che si rese conto della sua situazione di sequestrato.
In un attimo sentì il sangue defluire ai piedi. Annaspò con una bocca ormai completamente secca e incapace di emettere suono, mentre tentava di liberare i polsi dalla corda che li legava.
Al rumore della sedia che graffiava le assi del pavimento si sovrappose l’incedere di scarponi da pesca, congelando Zachary e i suoi infruttuosi tentativi di fuga in un muto terrore bianco.
Quando trovò il coraggio di muovere gli occhi verso il corridoio, notò un uomo sulla cinquantina, con una tazza in mano, i capelli brizzolati e la barba sfatta.
Non gli ci volle molto per classificarlo come il colpevole del proprio sequestro.
Zachary trattenne il respiro, mentre lo osservava prendere posto sulla poltrona in vimini di fronte a lui e chinarsi in avanti, così da piantargli i suoi occhi azzurri addosso. Uno gli sembrò più chiaro dell’altro.
— Era ora che ti svegliassi. — A discapito della stazza da atleta pensionato, aveva un tono molto leggero, nulla di roco o gutturale — Dovresti dormire di più la notte e meno il giorno. Saresti meno pallido. —
Prima di rispondere di essere pallido per tutt’altri motivi (e che godeva di un regolare dormi-veglia), Zachary prese dei profondi respiri.
Non doveva lasciarsi prendere dal panico o i suoi polmoni avrebbero dato forfait, gettandolo boccheggiante al suolo... e poi lungo disteso in una cassa di legno sotto terra.
Scosse il capo e scacciò i pensieri nefasti sostituendoli con l’immagine del dottor Ward che gli ripeteva: “Domina la paura.”
Inspirò un’ultima volta, prima di scandire lentamente — Chi sei? —
Non poté aggiungere altro perché gli bastò vedere l’espressione contrariata dell’uomo per pentirsi di quelle sole due parole.
— Mi dai del “tu”? Non siamo amici, io e te. —
— Scusi, io... lei non mi ha detto... —
— Ragazzo, non sono una donna. — Tagliò corto l’uomo, perentorio, assottigliando lo sguardo.
Zachary si sentì morire sulla sedia, mentre i polsi cominciavano a pulsare e i polmoni rifiutavano l’ossigeno.
Deglutì e respirò a fondo. L’aroma del caffè gli pizzicò il naso.
— Come volete. — Mormorò con la voce strozzata del topo che supplica il gatto di non mangiarlo.
L’uomo corrugò la fronte. Bevve dalla tazza, ma non gli staccò gli occhi di dosso.
— Nessuno mi dà del “voi”: non sono né un re né un vecchio, ragazzo. — Fece una pausa, come prendendo tempo per scrutare al meglio il caffè rimasto — Dammi del lui. —
— Del... lui? —
— Esatto. Come il “lei”, ma al maschile. —
Zachary tacque e rimase a contemplare l’uomo allungare un piede sotto un tavolino lì vicino. Lo trascinò a sé e vi poggiò sopra la tazza. Quindi estrasse dalla tasca della camicia - tanto unta da poter essere fritta - una gomma da masticare. Se la mise in bocca. Masticò qualche istante, prima di tornare alla posizione di partenza: braccia sulle ginocchia, busto in avanti, gli occhi che sembravano voler prendere il posto di quelli del giovane.
— Tornando a noi... — Esordì, ma venne interrotto da Zachary, che aveva già fatto scorta di ossigeno per domandare tutto d’un fiato: “Perché mi ha sequestrato?
L’uomo abbandonò per un istante la gomma sulla lingua, sinceramente sorpreso.
— Sequestro? Chi ti ha sequestrato? —
— Lei... cioè, lui!
La poltrona di “lui” scricchiolò, quando questi si voltò in cerca del fantomatico sequestratore. Sondata l’intera stanza, si rese conto che non vi erano altri al di fuori di loro e tornò a fissare Zachary, che, a forza di respiri profondi, stava andando in iper-ventilazione.
— Io non ti ho sequestrato. — Sentenziò l’uomo — Questo è un colloquio di lavoro. —
Zachary sbatté le palpebre sorpreso. Schiuse le labbra, ma non proseguì nell’atto di replicare. Rimase così, con un’espressione poco intelligente stampata in faccia, ad ascoltare quello che gli veniva detto.
— Voglio che impari tre regole fondamentali. Quando l’avrai fatto, c’è una faccenda da sbrigare che ti aspetta. — Detto questo lui si alzò in piedi, congiunse le mani dietro la schiena e fece di tutto per darsi le arie da insegnante vissuto.
— Primo: non contraddire chi è più grande di te. — L’occhio che a Zachary era sembrato più chiaro fulminò il timido accenno di protesta da parte del giovane, che preferì allora mordersi un labbro.
— Secondo: se non te lo ricordi, scrivilo. —
Divincolandosi sulla sedia, il ragazzo fece chiaramente intendere di essere impossibilitato a farlo. Ma lui sembrò averlo già previsto perché la terza ed ultima regola recitava: “Esci da qualunque situazione, sempre e comunque.
Cadde il silenzio.
Una mosca fece il suo ingresso dalla finestra aperta. Ronzò qualche istante e si adagiò sul muro, mimetizzandosi tra le macchie di umido del legno.
Che catapecchia.

Quando il cuore di Zachary tornò a battere senza terrorizzata fretta né letale lentezza, assestandosi ad un ritmo di mezzo, il ragazzo buttò fuori un solo “beh?” che bastò a riportare l’insegnante fallito alla spiacevole situazione in cui erano venuti a trovarsi.
— Aspetto che applichi le mie regole, ragazzo. —
— Ho un nome. —
Lui fece un cenno noncurante, agitando la mano a formare degli immaginari mulinelli d’aria. Dal suo punto di vista, un nome non diceva nulla sulla persona in sé, considerato che veniva scelto alla nascita, quando ancora non si era fatto niente che facesse trasparire una qualche indole.
Era per questo che non si presentava in nessuno modo, solo “lui”. Se poi c’era chi lo voleva additare con altri epiteti, libero di farlo. “Lui” rimaneva il suo preferito.
Nel mentre, Zachary aveva cominciato a snocciolare una serie di rimostranze rivolte alla sua persona, accusandolo di sequestro e pazzia.
Tra le altre cose, sembrava tenere in modo particolare al perché avesse scelto lui e non un altro, portando avanti come argomento a suo favore che non era nessuno, “solo uno che fatica a respirare, incapace di fare qualsiasi cosa”.
Lui fece qualche passo lungo le assi scricchiolanti del pavimento. Una famigliola di formiche fuggì dal suo piede come dall’Apocalisse.
— Prima ti darai da fare con le regole, prima sarà tutto finito. — Disse, ignorando deliberatamente le lamentele del ragazzo, che ammutolì.

Zachary aspettò di rimanere solo con una stella morente alle spalle per valutare la situazione. Respirò a fondo, caricando i polmoni di ossigeno, quindi rifletté: era legato ad una sedia al centro di un salotto di una catapecchia di campagna. Gli fu facile dirlo per il forte odore di fieno di cui era impregnata la casa. E poi, pensò, abitazioni del genere in città non avrebbero retto due giorni.
La corda che gli teneva fermi i polsi non doveva essere troppo spessa, se avesse avuto qualcosa di tagliente non avrebbe dovuto trovare grandi difficoltà nel liberarsi.
Si guardò attorno in cerca d’ispirazione. Notò un vaso di fiori nell’angolo più a Sud della stanza, dimora di una pianta morente, all’ombra di una credenza dai vetri decorati. Se avesse rotto una delle ceramiche al suo interno... scosse il capo, scartando immediatamente quell’idea. Primo, perché avrebbe fatto rumore e attirato l’attenzione di lui; secondo, i pomoli erano troppo in alto per qualcuno legato ad una sedia.
Buttò fuori aria e mandò indietro il capo a fissare il grigio sporco del soffitto. Sembrava che l’uomo amasse fare falò in salotto, a giudicare dal nero che ricopriva la superficie attorno al lampadario. Era tondo, con quattro lampadine nascoste in fiori di vetro che circondavano la luce più forte, al centro, al di sopra della quale una catena teneva il tutto ancorato al di sopra di un tavolo in legno. Girò appena il capo per vedere cosa vi potesse essere stato abbandonato: alcune lettere, delle buste aperte, una lattina di birra rovesciata.
Si morse l’interno di una guancia. La latta tagliava. Almeno credeva.
Sollevò le gambe posteriori della sedia, poggiando sui piedi. Respirò a fondo.
Non cadere”, ordinò a se stesso, sperando che questo lo aiutasse. Rivolse lo stesso invito anche ai suoi occhiali, pericolosamente avviati lungo la punta del suo naso. Inspirò ancora, spostandosi a piccoli passi, se così si potevano definire. Lo schienale della sedia sembrava volerlo fare inabissare verso il centro della Terra, mentre le caviglie legate strofinavano dolorosamente contro il legno.
La famigliola di formiche dovette procedere ad un nuovo trasloco, correndo a nascondersi vicino al tavolo. Una di loro tornò a prendersi una minuscola briciola di pane.

Al tavolo, la sedia poté adagiarsi sui quattro sostegni.
Zachary cercò di raddrizzarsi gli occhiali arricciando il naso e storcendo la bocca, ma ogni secondo di più sentiva l’irrefrenabile bisogno di usare le dita. Un po’ come quando si perde una cosa e se ne ha immediatamente bisogno.
Oltre alle lettere, che si rivelarono essere in realtà delle bollette, e le buste che le avevano contenute, il suo sguardo accolse grato la vista di un tagliacarte. Quello, pensò, sarebbe stato certamente più efficiente della latta.
Buttò il mento sul tavolo senza pensarci due volte. Tirando in dietro un foglio, sperò di portare ad una distanza più accessibile l’oggetto dei suoi desideri. Riuscì solo a girarlo. Inspirò a fondo. Poteva farcela.
Con un cuore che pulsava sempre più veloce e un fiato che si gli mozzava in gola, il tagliacarte raggiunse il bordo del tavolo. La bolletta su cui poggiava scivolò a terra.
Bene.”
Le formiche furono poco contente di doversi nuovamente spostare perché “il gigante” aveva cominciato a far girare la sedia, minacciando di annientarle sotto i feltrini.
Quando si fu girato di spalle al tavolo, Zachary poté afferrare il tagliacarte e passarlo sotto la corda. Iniziò a muovere la mano destra prima in alto, poi in basso. Ci sarebbe voluto un po’, specie considerando che la lama non era esattamente quanto di più tagliente potesse esserci al mondo. Forse un pezzo di vetro avrebbe fatto prima, ma certo a Zachary in quel momento non importava. Doveva andarsene, anche a costo di farlo legato ad una sedia.

Lui rimase ad osservarlo tutto il tempo che fu necessario, spostando di tanto in tanto lo sguardo fuori dalla finestra, ad un cielo che aveva visto annegare il Sole e aspettava di vestirsi di stelle più lontane.

  
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