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Autore: Schizophrenia    21/07/2011    2 recensioni
Buchenwald,Germania,1943.
"Il lavoro rende liberi".
Per quanto questa frase viene ricordata adesso con disprezzo, collegata ai numerosi campi di sterminio utilizzati ai tempi di Hitler, non è solo al lavoro che si badava. Non è il lavoro che devono affrontare i giovani di questa storia.
Bea Gurtsieva viene dalla Russia ed è comunista, per questo viene portata nel campo di concentramento di Buchenwald e viene affidata all'allora soldato semplice Mark Schreiber.
Mark Schreiber vuole solo andarsene. Mark Schreiber si è arruolato nell'SS sperando di essere mandato in guerra, ma si ritrova lì, con suo padre, con il quale non ha un rapporto esemplare, a gestire il campo di concentramento.
"Forse fu perché Mark non aveva mai visto un corpo così bello; forse fu semplicemente perché lo attirarono i lividi di cui era ricoperta la ragazza... ma il giovane Schreiber venne scosso da brividi profondi al basso ventre, prima di avvertire l'impulso pressante di prenderla, lì, con violenza; pur sapendo chi fosse."
Genere: Romantico, Storico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Buona sera, gente. Sono passati esattamente sette giorni dalla pubblicazione del secondo capitolo quindi, sono perfettamente in orario. u.u
E' possibile che a volte pubblichi un po' prima ma vi prometto che, salvo imprevisti, aggiornerò una volta ogni sette giorni, se non prima. =D
D'accordo, questo capitolo è abbastanza particolare: potrebbe aiutarvi a capire il passato di Mark, ma di certo lo odierete molto di più.
Detto questo, vorrei ringraziare gli Aftehours che mi aiutano a scrivere capitolo dopo capitolo. Sempre. A chi non li conoscesse, consiglierei seriamente di ascoltarli perché sono qualcosa di fantastico. <3
D'accordo, posto e scappo a fare una versione di greco, che sono assai indietro sulla tabella di marcia per i compiti estivi. è.é
Vi amo tutti, ricordatelo. u.u!!!!
 
Ringrazio poi le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacare07
- Norine
- Prusskj_Lazur
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
E infine la magnifica ragazza che ha trovato il tempo di recensire:
- Norine
 
Peace & Rock,
Schizophrenia.
 
 
 
 
Salviamoci la pelle.
 
-Bruises.
 
 
 
Weimar, Germania.
19 Dicembre 1943
11:54
 
Un'altra fredda domenica d'inverno si era abbattuta sulla Germania.
Le strade erano ricoperte di neve; e proprio su una di quelle strade innevate passeggiavano Mark Schreiber e Walter Hoffmann.
<< Quindi, alla fine hai deciso di dare ascolto a tuo padre? >>, era strano che Walter glielo chiedesse. Quando non era lui a introdurre il discorso, non parlavano mai di suoi padre: non era un argomento piacevole da affrontare e a Walter non era mai stato simpatico più di tanto; ma quando Mark e Walter avevano deciso di essere amici, non conoscevano le rispettive famiglie.
Il soldato scrollò le spalle, << Non lo so, Walter. Diciamo che per adesso sto eseguendo gli ordini, ma la cosa non mi va più di tanto a genio >> fu la sua risposta, ovvia. Odiava assecondare suo padre, ma sentiva il bisogno di andarsene, quindi lo avrebbe fatto, c'era poco da decidere, purtroppo.
Hoffmann annuì, continuando a camminare, osservando le impronte che lasciava: qualcuno avrebbe spazzato la neve dalle strade, presto o tardi. Forse.
<< Sei proprio sicuro di voler andare a sparare addosso ai nostri nemici? >> fu la domanda del ragazzo dagli occhi azzurri. Da buon amico, non voleva che Mark partisse, anche se non glielo aveva mai detto espressamente. Tutti i soldati partiti per la Russia difficilmente facevano ritorno. Certo, i tedeschi erano più forti, ma il suo amico su un campo di battaglia vero non c'era mai stato.
Il figlio del maggiore si strinse nelle spalle. << Ho forse altra scelta? >>, la verità era che da un po' se lo chiedeva lui.
<< Ricordo che hai iniziato l'addestramento e tutto il resto per rendere tuo padre fiero di te, adesso mi pare che lo scopo non sia più questo... allora, qual è? >> chiese ancora Walter. Il ragazzo sapeva di avere valide argomentazioni dalla sua parte tanto quanto sapeva in che modo il suo migliore amico fosse testardo. Forse prima o poi sarebbe riuscito a convincerlo, però.
Mark scrollò le spalle, << Diciamo che, se prima lo facevo per lui, adesso lo faccio per allontanarmi da lui >> adduceva sempre quella scusa, alla fine, ma ci teneva tanto a partire? Non lo sapeva: sapeva solo che era stanco di rimanere lì, impotente, di fronte a tutto ciò che succedeva. Si sentiva...male.
Il giovane Hoffmann annuì, << Ho capito che vuoi andartene, Mark; allora perché sei ancora qui? >> chiese, in fine, guardandolo negli occhi. Walter a Mark difficilmente si mentivano, ma quando succedeva l'altro lo notava sempre. Era impossibile che uno riuscisse a fregare l'altro: si conoscevano da troppo tempo e troppo bene per cadere in quei giochetti, ormai.
Il soldato semplice si limitò a scrollare le spalle, in risposta, prima di distogliere lo sguardo dal volto del suo amico. Non sapeva perché non inviava la domanda di trasferimento, stava cercando di fare il possibile perché fossero loro a mandarlo su un fronte, ma lui non faceva niente per metterli a conoscenza della sua vocazione nel "morire per la patria". Si sentiva molto Ettore, quando pensava quelle cose.
Walter decise di non insistere, si sarebbe sfogato lui appena ne avrebbe avuto voglia. Non si aspettava che questo succedesse presto: il suo amico era un tipo molto. Il figlio del medico sapeva che il ragazzo ancora oggi, dopo poco quasi quattordici anni, non voleva parlare della morte di sua madre. Infatti non ne avevano mai parlato. Il ragazzo pensava che il suo migliore amico avesse difficoltà a parlarne perché non l'aveva mai fatto, come difficilmente parlava di ciò che provava davvero. Il tutto aveva provocato in lui una specie d'intolleranza ai sentimenti; con il padre che aveva, poi, non c'era da stupirsi.
Entrarono in un piccolo caffè, che avevano iniziato a frequentare abitualmente da quando si erano trasferiti lì. Dopo che la guerra era scoppiata, si era venuto a conoscenza del forte calo di economia, ma l'economia di guerra della Germania funzionava. Certo, Mark non era mai stato a contatto con degli operai, mai le famiglie benestanti che conosceva e tutti gli altri militari con famiglie, se la cavavano benissimo, quindi non pensava ci fossero gravi problemi. In fondo era ancora solo un ragazzo di vent'anni, gli venivano dette solo le cose positive di quel regime come, ad esempio, l'annullamento della disoccupazione.
Walter decise di cambiare totalmente argomento, senza più menzionare i loro genitori, la ragazzina, il campo di concentramento in generale, né tanto meno il futuro che Mark Schreiber voleva per se stesso. No, non era il caso di far chiudere ancora di più il suo migliore amico.
<< Tra pochi giorni è Natale >> constatò il ragazzo dagli occhi azzurri, rivolgendo un caldo sorriso al suo migliore amico, mentre entrambi si dirigevano verso uno dei pochi tavoli liberi verso il fondo del locale, sedendosi al loro preferito: quello nell'angolino, tra il muro e la finestra. Lo avevano scelto così, per caso, una mattina. Avevano solo quattordici anni e di Hitler, del nazismo e di tutto il resto a loro non fregava minimamente.
Il ragazzo dai profondi occhi color cioccolato annuì, << Non sarà diverso dagli altri >> minimizzò. << Mio padre lavorerà tutta la mattina della vigilia, la sera ceneremo fingendo di essere una famiglia che si vuole bene e il giorno dopo saremo a pranzo a casa tua. Papà mi regalerà il solito maglione o la solita sciarpa e io fingerò di gradire intensamente >>. Sbuffò. Non gli piaceva il Natale, non da quando non era lei a scegliere i suoi regali e a dirgli di vestirsi bene in occasione delle festività.
Walter sospirò. Probabilmente stava per dire qualcosa, magari nel vano tentativo di far cambiare radicalmente idea all'amico, ma venne fermato dalla cameriera: una donna alta, bionda, dagli occhi azzurri e la vita sottile, probabilmente aveva dai ventisei ai ventotto anni. << Posso prendere le vostre ordinazioni? >>, la voce era melodiosa, un coro di campane a festa. Doveva essere nuova, non l'avevano mai vista lavorare lì.
<< Un cappuccino >> disse Walter, sbrigativo, ordine che la donna annotò quasi distrattamente sul suo taccuino, come se l'avesse sentito come un rumore di fondo, inutile ed insopportabile. Probabilmente l'aveva sentito così perché si stava mangiando con gli occhi il giovane Schreiber, attendendo la sua ordinazione, << Un caffè, senza zucchero. Bollente >> e Walter credette che il giovane avesse pronunciato di proposito quelle parole, in quel modo, guardando la ragazza fisso negli occhi.
Ragazza che arrossì subito, << Subito >> rispose, prima di sparire verso il bancone, più imbarazzata che mai.
<< Devi assolutamente dirmi come ci riesci >> lo prese in giro il suo migliore amico, osservandolo con un cipiglio divertito. Walter era un bellissimo ragazzo ma sembrava che tutte cadessero letteralmente ai piedi di Mark, dotato di quegli occhi così anti-ariani. Non che Hoffmann prestasse ascolto a sciocchezze sulla razza pura e roba simile, però proprio non riusciva a spiegarsi il motivo di quella situazione.
L'altro si strinse nelle spalle, << Sarà il fascino della divisa >> scherzò. Almeno il tutto era servito a sciogliere la tensione creatasi dopo aver parlottato di quegli argomenti poco felici riguardanti Mark, le sue decisioni e la sua famiglia.
<< Ma adesso non hai la divisa... >> gli fece notare Walter, con una pesante nota d'ironia nel tono di voce.
<< Appunto >> ribatté l'altro, provocando una sono risata in entrambi, proprio mentre la ragazza poggiava le loro ordinazioni sul tavolo.
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
19 Dicembre 1943
22:57
 
Dopo cena, il soldato semplice era tornato in camera sua, a leggere, placidamente steso sul suo letto. Non prestava grande attenzione alle parole che scorrevano sotto i suoi occhi, stava ripensando alla chiacchierata con Walter di quella mattina. Forse il suo migliore amico nemmeno se ne rendeva conto, ma ogni volta che diceva qualcosa che preoccupava entrambi -sebbene evitassero poi l'argomento- rimaneva impressa a fuoco nella mente di Mark Schreiber, richiamando la sua attenzione ora dopo ora.
Era vero, tra meno di dieci giorni sarebbe stato il giorno di Natale, e forse lui avrebbe dovuto andare a comprare dei regali, ma non ne era certo. Dopotutto era solito farne solo a Walter e a volte a suo padre: tutti gli Schreiber erano a Berlino o come soldati dell'SS in altri campi di concentramento, alcuni erano a combattere sui fronti e il giorno di Natale non sarebbe tornati a casa, forse avrebbero addirittura rischiare la morte.
In fondo, in quel momento, in soldato fu felice di non essere stato mandato sotto le armi proprio durante il periodo natalizio.
Ricordava che adorava il Natale, quando era molto piccolo. Sì, era la sua festa preferita: piena di regali e tradizioni.
 
 
Berlino, Germania.
22 Dicembre 1928
19:30
 
Un bambino che correva per tutta la casa, con un sorriso allegro che gli illuminava il volto. I capelli biondi scompigliati fino all'inverosimile, ma lui non se ne preoccupava. Doveva aver avuto un forte litigio con la spazzola, quella mattina. A colpo d'occhio, non poteva avere più di cinque o sei anni.
Corse in cucina, deliziandosi del profondo odore di biscotti che emanava il forno. Oh, avrebbe voluto assaggiarne uno, uno soltanto. Mark era un bambino goloso.
Si fermo accanto ad una gonna, tirando leggermente il tessuto della donna per attirare la sua attenzione, ma non ce n'era bisogno: Agathe Becker -o no, ormai lei era da sei anni la signora Agathe Schreiber- adorava quel bambino di cinque anni che le stava di fronte e riconosceva i suoi passi frettolosi anche a due o tre stanze di distanza, da quando iniziava a scendere le scale.
Agathe Becker-Schreiber era una bellissima donna: alta, dal fisico snello sebbene la donna fosse molto forte. Aveva un viso dolcissimo, a forma di cuore, con i capelli biondissimi erano morbidi e mossi, probabilmente non erano molto lunghi ma in quel momento erano stati raccolti dalla donna in un elegante chignon che faceva sembrare il suo viso ancora più bello. Le labbra, piegate in un sorriso, erano rosse e piene naturalmente, senza bisogno dell'ausilio di cosmetici. Poi c'erano gli della donna, un paio di bellissimi occhi grandi, color del cioccolato, esattamente uguali a quelli del figlio. Erano stati quegli occhi cioccolato a far innamorare l'allora sottotenente Schreiber di lei.
<< Tesoro >> disse la donna, con una nota terribilmente dolce nella voce, prima di abbassarsi e prendere il figlio tra le braccia, sorridendo. Mark era il regalo più bello, insieme a Hans -suo marito, che Agathe avesse mai ricevuto e, per Natale, le bastavano loro due.
<< Hai scritto la tua letterina? >> chiese poi, la donna. Il figlio aveva solo cinque anni e, nonostante il sottotenente Schreiber si lamentasse che ormai era grande, e un uomo aveva bisogno di cose serie in cui credere, ad Agathe piaceva vedere suo figlio entusiasta del Natale, non sapevo che quei regali che tanto amava erano opera dei suoi genitori e familiari.
Il bambino annuì, rivolgendo alla donna un sorriso radioso, uno di quei sorrisi innocenti che sono soliti regalare i bambini; questi sorrisi che incantano chi lo osserva. << Sì, mamma >> rispose Mark. Sembrava toccare il cielo con un dito dalla felicità: la scuola era chiusa per e feste e tra pochi giorni avrebbe potuto scartare regali stupendi.
<< Biscotti! >> trillò, subito dopo, il bambino, sporgendosi dalle braccia della bella donna. I braccini tesi verso il forno, quasi volesse aprirlo e sfilarne la teglia di biscotti caldi che attendevano solo di essere gustati dal dolce palato di un bambino affamato.
Agathe rise, tirando via il bambino e poggiandolo a terra. Scosse il capo, prima di sorridere a suo figlio, << Stasera, quando tornerà papà, avrai tutti i biscotti che vuoi >> concesse la madre, cercando di essere severa, in realtà sperava che il bimbo non la guardasse con quegli occhi cioccolato disarmanti, altrimenti la povera donna avrebbe ceduto alle sue richieste. Quello era il bambino più bello di tutta la Germania anzi, secondo sua madre, del mondo intero.
Il piccolo mise il broncio. Chiaramente non ci teneva ad aspettare che arrivasse il padre e che cenassero, per avere i suoi biscotti. Era un marmocchietto tremendamente goloso, probabilmente tutta la dolcezza di cui era capace scaturiva dalla quantità industriale di dolci che mangiava o, semplicemente, dall'affetto dei suoi genitori, soprattutto da quello della madre, sempre così presente per il figlio.
Agathe si chinò accanto a lui e gli accarezzò una guancia, << Su, non fare così, amore >> gli disse, con estrema dolcezza, stampandogli un bacio in fronte, prima di girarsi nuovamente: stava cucinando una cena con i fiocchi per tutta la famiglia. Lei era un eccellente cuoca e Mark spesso l'aiutava... quando non finiva per mangiare il cioccolato che serviva per i biscotti o altri ingredienti di vario tipo. << Sai una cosa? Per farmi perdonare, dopo cena andiamo tutti a casa degli Hoffmann >> propose la donna. Avrebbe dovuto parlarne con il marito, ma ella era sicura che avrebbe accettato. << Li inviteremo per il pranzo di Natale, quest'anno >> concluse, annuendo, mentre girava con un mestolo di legno qualcosa in una grande pentola.
Gli occhi di suo figlio si illuminarono, << Verrà anche Walter? >> chiese, speranzoso ed innocente. Il signor Hoffmann era il medico di famiglia dalla nascita di Mark e suo figlio era nella stessa classe del figlio degli Schreiber. In breve i due bambini avevano stretto un legame indissolubile, e con loro due anche le loro famiglie si erano avvicinate, creando un ottimo rapporto.
Agathe sorrise, rivolgendo un'altra occhiata al figlio, << Certo, tesoro >> confermò, donandogli un altro radioso sorriso che incantò il bambino, che corse nuovamente a giocare nella sua cameretta, ormai completamente dimentico dei dolci biscotti al cioccolato che avrebbe potuto mangiare quel giorno.
 
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
19 Dicembre 1943
23:20
 
Mark si desterò di scatto dai ricordi, scuotendo velocemente la testa per non far sì che quelle immagini dolessero più del dovuto. Sapeva che tutto ciò che era successo era ingiusto e che lui non era più quel bambino tanto allegro. No, era cambiato tantissimo e gli faceva strano ricordare che un tempo suo padre gli aveva voluto bene sul serio.
Si alzò nervosamente dal letto: doveva scaricare la rabbia in qualche modo. Avrebbe voluto raggiungere il poligono di tiro, ma probabilmente a quell'ora ci sarebbe stato poco da fare o comunque suo padre non sarebbe stato molto contento di quella sua improvvisata. No, per niente, era meglio evita. Oh, quanto avrebbe voluto possedere uno di quei sacchi da pugilato. Aveva visto qualcosa del genere in camera del suo migliore amico: Walter gli diceva sempre che era così che lui riusciva a scaricare la rabbia e a non essere teso. Forse avrebbe funzionato anche con lui, ma ne dubitava. a lui non bastava l'allenamento militare e il poligono di tiro, per sciogliere i nervi.
Uscii dalla sua camera, decidendo all'ultimo momento di andare a controllare lo stato della prigioniera. Non gli interessava più di tanto, stava iniziando persino a dimenticare il suo obbiettivo di avanzare di grado e di essere mandato al fronte; ma era nervoso, aveva bisogno di fare qualcosa e di tenersi occupato e al momento fare una visitina a quella ragazza sembrava l'unica occupazione possibile nel campo.
Passò dalle cucine, rimediando un po' di zuppa. Non aveva fatto mai caso agli anni che passavano, e di solito preferiva ignorare ciò che succedeva nel campo, eppure si ritrovò a chiedersi, mentre versava della zuppa in una gamella e prendeva un cucchiaio, se a Natale servissero comunque quella roba schifosa. Non capiva come facessero ad ingerirla. Certo, neanche il cibo che ingerivano loro durante le guerra era buono ma quella roba... non si poteva neanche annusare. Disgustosa.
Si fermò davanti alla porta della ragazza e, senza bussare, entrò, << Ti ho portato da mangiare >> commentò, freddamente, mantenendo sempre quel tono di distanza che adoperava con quasi tutte le persone, eccetto ovviamente Walter e la famiglia di quest'ultimo, mentre richiudeva a chiave la porta alle sue spalle. Non voleva certo rischiare che la ragazzina scappasse da un momento all'altro, anche se non sarebbe andata lontano.
Poggiò la gamella sul tavolino, sul quale era posizionata una lanterna, accesa: l'unica fonte di luce della camera. Si voltò, cercandola con lo sguardo, dato che non l'aveva sentita fiatare, finché la vide.
Bea Gurtsieva era seduta sul letto, rannicchiata su se stessa. Lo guardava, ma i suoi occhi non erano gli stessi della sera precedente: sembrava impaurita, stavolta. Sembrava quasi stesse tremando. Sì, la sicurezza, la speranza e l'innocenza che aveva potuto vedere la sera prima erano sparite dal suo volto, lasciando posto ad una maschera di terrore. Cosa le era successo, e perché se ne stava lì, appiattita contro il muro?
<< N-non portarmi ancora da loro >> lo pregò la ragazza, e Mark non lo avrebbe fatto: solo perché non aveva capito chi fossero "loro" esattamente, e poi non aveva ricevuto ordine di portarla proprio da nessuna parte.
Il soldato Schreiber era intollerante alle persone che si lamentavano, anche se quella ragazza sembrava messa proprio male. << Loro? >> chiese scettico e ricevendo solo un'altra occhiata impaurita in risposta. Si avvicinò con passi lenti alla ragazza, osservandola più da vicino.
I capelli neri erano più disordinati della sera precedente. Gli occhioni verdi erano gonfi, arrossati, eppure non stava piangendo. Non voleva piangere. Le labbra prima rosee, morbide e gonfie, erano rosse e tumefatte. Sulla guancia destra faceva bella mostra di se un graffietto, che scendeva quasi fino al collo. Era troppo lieve perché le rimanesse la cicatrice dopo, Mark notò anche questo. Gli abiti che gli aveva visto vagamente portare la sera prima, non erano composti dalla normale divisa dei deportati, ma adesso non sembravano più nemmeno quelli: la camicia femminile e bianca, aveva le maniche ridotte a brandelli, era sporca ed impressa di sangue raffermo: puzzava anche di sangue raffermo, dalle maniche che non c'erano più spuntavano le braccia sottili e bianchissime, dove risaltavano così tanto tutti quei lividi neri e scuri. La gonna era stata tagliata, fino alle cosce: sulla coscia destra era inciso un taglio, lungo e profondo, da cui sgorgavano ancora fiotti di sangue che scendevano fino al ginocchio e alla gamba. Anche le gambe erano piene di lividi e sangue raffermo.
Dovevano averla torturata, ma non gli interessava: in quel momento quella ragazzina alta un metro e uno sputo che non pesava più di quaranta kg erano la creatura più bella che Mark Schreiber avesse mai visto. Bella, impaurita, innocente, vittima e ferita fisicamente da un coltello tanto lungo che era arrivato tanto in fondo da strapparle anche l'orgoglio.
E il soldato nazista era il suo carnefice.
Forse fu perché Mark non aveva mai visto un corpo così bello; forse fu semplicemente perché lo attirarono i lividi di cui era ricoperta la ragazza... ma il giovane Schreiber venne scosso da brividi profondi al basso ventre, prima di avvertire l'impulso pressante di prenderla, lì, con violenza; pur sapendo chi fosse.
Nonostante tutto quello che le era capitato, Bea Gurtiseva non stava piangendo.
Mark Schreiber si promise che l'avrebbe fatta piangere.
E urlare.
Si sedette sul letto, artigliandola per i fianchi e portandola su di sé. Non badò al dimenarsi della ragazza: lui era il triplo di lei e molto più forte; non si curò delle sue urla, quando la privò dei vestiti, con velocità, sfilandosi a sua volta la divisa nazista.
Non notò neanche la sua verginità quando sfogò i suoi bassi istinti su di lei, violandola e scaricandosi nel suo corpo, come se non fosse altro che una stupida bambolina di porcellana dai morbidi boccoli scuri.
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
20 Dicembre 1943
10:12
 
Mark Schreiber aprì gli occhi, completamente rilassato. Sentiva che il letto non era suo, ma non aveva mai dormito così bene. Si districò dal groviglio di lenzuola, tirandosi a sedere e lanciando uno sguardo alla sua destra: la ragazza stava ancora dormendo. Lei, al contrario suo, non sembrava stare bene per niente, ma al giovane Schreiber non interessava. Certo, avrebbe dovuto controllarsi: quella ragazzina era lavoro, non poteva giocarci come voleva.
Sorrise, divertito, e le scostò una ciocca di capelli dal volto, lasciando che continuasse a riposare, anche se non se lo meritava dopo tutti i calci che aveva tentato di assestargli quella notte. Oh, beh, ci era passato sopra.
Fare del sesso con quella mocciosa era servito a farlo stare meglio: non era più nervoso o arrabbiato, come la sera precedente.
Sì alzò velocemente dal letto: qualcuno avrebbe notato la sua assenza durante l'allenamento -perché dalla luce che filtrava dalle finestre quella mattina, non sembrava proprio che lui si fosse svegliato in tempo- e sarebbe andato a cercarlo. Si rivestii e si avvicinò alla porta con tutta l'intenzione di andare a farsi una doccia.
Prima di uscire, rivolse un'ultima occhiata alla sua vittima: aveva qualche livido in più e diversi segni rossi. Sorrise, attribuendosene il merito e uscì dalla stanza, avviandosi verso la sua. Lungo il corridoio, si fermò, con un dubbio: perché l'avevano torturata? Quella ragazzina, dopo tutto, era ancora un mistero.
 
Forse non è proprio legale sai,
ma sei bella vestita di lividi.
Mi incoraggi ad annullare i miei limiti,
le tue lacrime in fondo ai miei brividi.
Lasciami leccare l'adrenalina!
Lasciami leccare l'adrenalina!
Lasciami leccare l'adrenalina!
Lasciami leccare l'adrenalina!
Voglio cercare la mia alternativa!
(la mia alternativa!)
E' la scossa più forte che ho.
[Lasciami leccare l'adrenalina, Afterhours]
   
 
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