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Autore: Zils    25/07/2011    2 recensioni
«Mi piacciono le storie».
Si presentò così, semplicemente, come se un suo particolare interesse fosse un’informazione decisamente più rilevante del proprio nome di battesimo.
Eppure, ripensandoci adesso col senno di poi, quell’insolita presentazione rimase impressa nella mia memoria probabilmente più di quanto lo sarebbe stata un “mi chiamo Chiara” o un “piacere, il mio nome è Francesca”.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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1.      Capitolo primo
 
«Davide, dove vai?»
«Esco» pronunciai appena, diretto a grandi passi verso il portone di mogano che dava sulla strada. Avevo già posato la mano sul pomello d’ottone quando mi sentii afferrare il braccio. Mia madre mi fissò severa, lanciandomi un rimprovero quasi impercettibile dai suoi occhi grandi.
«Non hai dimenticato, vero?»
No, non l’avevo fatto. Ma decisi di dar mostra del contrario. La guardai interrogativo, fingendomi sorpreso nel modo più convincente di cui fossi capace.
La mamma mi lanciò un’occhiata triste.
«Lo so che non provi un grande affetto per la nonna, ma questo non è un buon motivo per fingere».
Abbassai lo sguardo, improvvisamente preda di una vergogna che mi colorì le guance.
«Scusami. È che non capisco perché devo venire anch’io, se l’ho vista a malapena tre o quattro volte».
Anche lei, ora, rivolse gli occhi al pavimento. «Lo sai quanto ci tiene tuo padre …»
«Già. Ora ho ancora meno voglia di andarci, mamma».
Lei, in tutta risposta, lasciò andare il mio braccio. Con la mano con la quale pochi secondi prima lo stringeva, andò a sollevarmi il viso delicatamente e infine si fermò sulla mia guancia, in una carezza appena accennata.
«Cosa avevi in programma di fare, oggi?»
«Dovevo andare al cinema, con gli altri».
«Guardami» mi ordinò, dato che continuavo a fuggire il suo sguardo. «Noi adesso andiamo dalla nonna, e se non fai storie, ti prometto che farai in tempo a vedere lo spettacolo delle sette. Gli altri non dovrebbero aver problemi, no?»
La guardai incerto. «No … Non credo …» balbettai.
Mi sorrise.
Io feci altrettanto, mentre le mie braccia circondarono lentamente il suo collo e la strinsi in un timido ma sincero abbraccio.
«Oh, andiamo, non è il momento Davide!» trillò lei, separandosi da me. «Devo ancora asciugarmi i capelli e mettermi le scarpe; non farmi perdere tempo, altrimenti Ciao ciao cinema!» disse, mimando un saluto con la mano destra. Si voltò e corse verso il bagno pestando i piedi nudi sul pavimento con espressione seria, anche se avrei giurato che i suoi occhi, in quel preciso istante, brillassero più del solito.
 
Trovai mio padre seduto su una sedia accanto al letto d’ospedale che ospitava una donna anziana, sugli ottanta, che parlava animatamente guardando dritto davanti a sé.
«Oh, guarda, tua moglie!» esclamò forte, e un sorriso sdentato si fece spazio sul suo viso, aumentando ulteriormente le rughe già presenti numerose.
Suo figlio alzò lo sguardo dal telefono che teneva in mano e si alzò in piedi sussurrando «la mia ex moglie, mamma. Ex». Ci venne incontro e si fiondò a baciare su entrambe le guance mia madre, dopodiché rivolse la sua intera attenzione a me, squadrandomi con insistenza.
«Ciao Davide». Sorrise, e tra di me mi dissi che avrei preferito non lo facesse. «Sei venuto».
Annuii brevemente e lo superai per andare a prendere una sedia vicino alla finestra e sistemarla vicino al letto di mia nonna. Mia madre fece lo stesso e ci accomodammo.
«Oh, ma tu sei Daniele. Quanto sei cresciuto! Quanti anni hai? Quattordici? Quindici?». La vecchia mi stringeva la mano mentre i suoi occhietti vispi esaminavano avidamente il suo nuovo oggetto di curiosità. Pensai che non dovesse ricevere visite così interessanti molto spesso, o almeno non quanto un nipote praticamente sconosciuto al quale rivolgere tutte le sue domande.
«Ne ho diciassette» risposi garbatamente.
«Si chiama Davide, mamma, non Daniele», aggiunse mio padre, divertito.
Avrei voluto dirgli di non deriderla così, dato che mi sorprendeva che lui invece lo sapesse il mio giusto nome, ma la nonna non me lo permise, perché parlò di nuovo.
«Sì sì, Davide. Diciassette? Ma sei già un ometto! Ti sta pure crescendo la barbetta, in effetti» ridacchiò. «Quando l’avrai più folta, sarai tuo padre da giovane. Già adesso, gli somigli tanto!»
«Eh sì» convenne lui, sorridendo imbarazzato. Smise quando notò che lo fissavo stizzito. Probabilmente dovevo averlo scritto in faccia che avevo appena deciso di non farmi mai crescere la barba.
«A te, invece, non ti assomiglia niente».
Mia madre parve sorpresa da quell’improvvisa osservazione. «Ha i miei occhi. E ha preso il mio carattere» rispose sulla difensiva, come se ne fosse in qualche modo orgogliosa.
Calò il silenzio, rotto soltanto dal respiro affannoso di una donna che dormiva sul letto di fronte, e dal canticchiare dei passerotti che danzavano nel cielo azzurro di quella giornata di fine estate.
«Davvero? Esattamente quali caratteristiche del tuo carattere?»
Con quella domanda mio padre attirò tutti gli sguardi su di sé. Le iridi nocciola di mia madre parvero scurirsi, come se ogni emozione che quella domanda provocava in lei dovesse essere celata dall’oscurità della sua ira.
«Non mi pare il momento di fare certe stupide domande, Andrea».
«Non sai rispondere?»
«Non sono io quella che non conosce suo figlio. Quello sei tu» controbatté gelidamente. Notò in quel momento che la suocera assisteva a quell’improvviso battibecco con il perverso interesse di quegli anziani soli che non possiedono nient’altro di cui compiacersi, e, ignorando il mio stupore, mi disse che era ora di andare. Liquidammo brevemente i vani tentativi mossi dalla vecchia per farci rimanere ancora un po’ e la lasciammo con la sola compagnia della sua profonda delusione e del suo unico figlio.
Guardai l’orologio non appena arrivammo al cortile dell’ospedale, notando con mia somma soddisfazione che ero ancora in tempo per lo spettacolo delle sette. Fu in quell’istante che il sorriso mi si gelò sul volto, perché sentii la voce di mio padre, proprio dietro di noi, parlare affannosamente, come dopo una corsa.
«Non capisco il tuo sdegno, Maria. Spiegamelo».
Mia madre non si voltò verso il suo interlocutore. «Sembravi sorpreso che avessi detto che Davide ha il mio carattere».
«Ero solo curioso di sapere in cosa ti assomiglia».
«Se lo fossi davvero, tenteresti di scoprirlo tu stesso, invece di chiederlo a me».
Mio padre rimase in silenzio.
«Andiamo, Davide, altrimenti non fai in tempo …»
«Tuo figlio non ha alcuna voglia di farsi conoscere da me. Non lo vedi come mi guarda?» esclamò lui, interrompendo bruscamente la frase di mia madre. Quest’ultima finalmente si voltò. I suoi occhi erano velati da un sottile strato di lacrime e la sua voce era spezzata dalla rabbia, quando parlò: «E ne ha tutte le ragioni! Tu non ci hai neanche provato, a fare il padre!»
Quell’accusa parve turbarlo. «Ci siamo lasciati da soli tre anni …» obiettò.
Osservai mia madre sorridere sarcastica. Non l’avevo mai vista così. Sapevo che era stata male per causa di mio padre, ma aveva sempre tentato di non darlo a vedere, soprattutto a me. Invece, in quel momento, sembrava che il dolore che quell’uomo le aveva lasciato nel cuore continuasse tuttora a devastare la sua serenità.
«Hai lasciato me, da tre anni. Lui l’avevi già abbandonato da tempo».
«Cos’ho fatto per abbandonarlo?»
Mamma mi guardò, e nella sua espressione colsi qualcosa di tanto simile a tristezza. Apriva la bocca come se volesse rispondere, ma qualcosa sembrava bloccarla. Capii con chiarezza che non aveva intenzione di parlare di un simile argomento in mia presenza. Nonostante la delusione che nutriva lei nei confronti dell’ex marito, il suo animo era troppo generoso per permetterle di rischiare di aumentare il rancore che serbavo per un uomo che padre non avevo mai considerato veramente. Era come se da bambino avessi collegato quella definizione – padre – a lui automaticamente, con la stessa fredda naturalezza con la quale avevo collegato la parola casa alla mia abitazione o sedia a quell’oggetto sul quale mi sedevo.
«Non c’è bisogno che te lo dica. Sai benissimo cosa intendo dire».
Mio padre insistette nell’affermare che invece non era affatto così, ma l’ex moglie lo interruppe. «Se lo vorrai sapere, te lo dirò in un’altra occasione. Ora Davide ha un impegno e gli ho promesso che non gliel’avrei fatto perdere».
«Beh, che vada allora!» sbottò lui.
Guardai l’orologio. Spostai lo sguardo su mia madre. «È tardi, mamma, a piedi non arriverei in tempo di sicuro».
Ebbi il tempo di un’ultima occhiata sprezzante a mio padre, poi mi vidi percorrere a grandi passi il piazzale, trascinato per il braccio da mia madre.
Guidò veloce, e non pronunciò una parola durante tutto il tragitto. Trovammo tutti i semafori rossi e ad ogni sosta osservai le sue dita tamburellare nervose sul volante. Sapevo che non avrebbe sopportato il mancato mantenimento della promessa da parte sua, ma ormai ero consapevole del fatto che sicuramente i miei amici avessero già preso i biglietti e che non ne avrei trovato vicino a loro.
In realtà, andò anche peggio: i biglietti, alle 18 e 57, quando arrivai ansimante davanti alla biglietteria, erano del tutto terminati.
Mi allontanai furente, ma non ebbi neanche il tempo di prendermela mentalmente con mio padre, perché qualcuno mi toccò il braccio.
«Davide!»
 Riconobbi Anna, qualcosa di più di una conoscente, che sorrideva raggiante davanti alla mia persona. Mi sforzai di apparire di buon umore. «Ciao Anna».
«Che fai tutto solo?»
Notai solo quando aprii la bocca per rispondere che vicino alla ragazza, qualche passo appena più indietro, ce n’era un’altra. Non appena si accorse che il mio sguardo si era posato su di lei, abbassò il proprio a terra. Tornai a guardare Anna.
«Dovevo venire qua con i miei amici, ma sono arrivato troppo tardi perché mi son trattenuto all’ospedale».
Vidi che l’amica di Anna si fece d’improvviso attenta. Mi osservò con interesse, e stavolta sostenne il mio sguardo senza nessun timore. Era particolarmente seria, e la sua espressione possedeva una così alta drammaticità che ne fui colpito.
«Oh, all’ospedale, come mai?» chiese Anna.
Chiarii che era per mia nonna, e che non stava male. Doveva solo risolvere qualche problemino di cuore.
Anna sorrise sollevata, l’amica non fece altrettanto, ma parve perdere gran parte del suo interesse nei miei confronti.
Per me non fu lo stesso. Ci salutammo poco dopo e camminando lentamente verso casa, non feci altro che domandarmi perché trovassi così familiare il viso di quella ragazza, ma senza ottenere risultato.
Trovai la risposta giorni dopo, quando avevo ormai smesso di pensarci. Arrivò improvvisamente, e, senza conoscerne il motivo, ebbi l’impressione che avrei presto rivisto quelle iridi color di cielo.
Avevo ragione.
  
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