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Autore: eclissirossa    01/08/2011    3 recensioni
Hamarikyu Gardens, è il piccolo polmone verde di Tokyo. Dove una serie di amori prendono e perdono vita.
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nel vecchio stagno
una rana si tuffa.
Rumore d'acqua.

(furu ike ya kawazu tobikomu mizu no oto)
Matsuo Basho -


Si richiude la porta alle spalle con fare furtivo, avvertendo l’odore forte, ora più deciso, di Kagome, farsi largo nelle sue narici, fino alla mente, aprendo un libro pieno dei loro ricordi, che aveva chiuso con cura. Si maledice, per quel dolore che si stava procurando da solo andandola a cercare. Ma doveva avere una motivazione. Perché era fuggita cosi? Senza farsi più vedere.. Perché? Kagome non era il tipo di persona che non affrontava i problemi. Anzi, al contrario, era sempre troppo.. decisa. Sospira, avanzando nella stanza e restando silente, sperando di avvertire un qualsiasi movimento. Cosa si aspettava di sentire? I suoi passi? La sua voce? Deglutisce, fissando la chiave che reggeva nella mano. Baka. Come poteva rientrare in stanza, senza chiavi? Le aveva prese lui. Si addentra maggiormente all’interno della camera, sentendo man mano l’odore farsi sempre più forte, più deciso, intenso. E per un attimo, l’immagina tutta trafelata correre per quella stanza, ormai vuota, priva di qualsiasi cosa che le appartenesse. Lascia che il capo sbuchi nel bagno, trovandolo ancora come evidentemente lei l’aveva lasciato, un asciugamano al suolo, e le luci accese. Ispira ancora, spostandosi fino ad arrivare al letto, sul quale si siede, lasciando scivolare al suolo le borse, e sfilandosi il basco, mentre l’altra mano, la libera, passava sul viso stanco. Ricapitolando. Era stato a cena con Yumi, aveva sentito l’odore di Kagome che era fuggita prima che potesse fermarla, le aveva praticamente rubato le chiavi dell’albergo, e aveva sabotato il volo per New York, e gli affari del fratello di Yumi, richiudendosi nella camera di un fantasma del passato, che non gli dava pace. Sfila la giacca, gettandola assieme al cappellino su una poltrona, e allentando piano la cravatta, si lascerebbe scivolare sul letto ancora sfatto, poggiando il capo sul cuscino e ispirando piano. Brutta mossa, l’odore di Kagome l’aveva colpito in pieno, per la seconda volta nel giro di una serata, facendogli mancare il fiato. Si volta, su un fianco, lasciando che i lunghi capelli argentati scivolino sul materasso, e il viso affondi nel cuscino, mentre, crollava in un sonno profondo, animato dai più bei ricordi.

- inizio flashback -

Era al bar, seduto dietro il bancone con aria affranta, mentre fissava il suo miglior amico flirtare con una ragazza seduta dall’altra parte con aria sorniona, si chiedeva come facesse, lui, ad averla cosi facile. Sbuffa, mentre la giovane abbandona il suo posto, con stretto tra le mani un fazzolettino di carta e Miroku, il suo miglior amico, la fissava divertito, prima di tornare da lui, con aria spavalda.

‹Visto Inu-chan? Ho fatto colpo! › Sbotta, dandogli una leggera pacca su una spalla sorridente. Miroku, oltre a essere un suo amico, era il proprietario di un bar, quel bar, dove si appollaiava dietro il bancone e flirtava con tutte le ragazze che respirassero che passassero di lì. Era alto, più o meno come lui, capelli neri, corti, legati in un buffo e inutile codino sulla nuca, occhi blu come l’oceano e un sorriso da maniaco sul volto, accompagnato dalla fedele mano morta.

‹ Ehi Miroku, chiamami ancora in quel modo e ti faccio fuori. › Sbotta il ragazzo dai lunghi capelli argentati e due orecchie canine sul capo, lasciando scricchiolare le dita, come se le stesse preparando a una qualche botta. Indossa un paio di jeans, e una maglietta grigio a maniche lunghe con una stampa semplice sul davanti. Sbuffa ancora, poggiando un gomito al bancone e fissando l’amico, che assumeva un espressione contrariata.

‹ Inuyasha, cosa ti è capitato di cosi brutto?! › domanda il giovane con aria interrogativa, osservando il viso corrucciato del mezzo-demone, intento a sbuffare in maniera pesante ogni mezzo minuto. ‹ C’entra una ragazza, te lo si legge in faccia, Inu-chan. › E quasi raggela, il moro, all’occhiata glaciale del mezzo demone, che stringe piano la mano a pugno, ringhiando in maniera lieve. ‹ Cosa ti ha combinato da renderti cosi isterico?! Ti maltratta?! Chi è, Inuyasha?! › Domanda, ora facendo una leggera attenzione, scandendo le lettere del suo nome e fissandolo aggrottare la fronte e scuotere il capo, contrariato, borbottando qualcosa tra se e se, in maniera incomprensibile, persino per lui che era a pochi passi dall’amico. ‹ Non ho capito..  › mormora avvicinandosi ancora e fissando gl’occhi ambrati accendersi d’ira verso di lui.

‹ E’ QUESTO IL PROBLEMA! › sbotta il mezzo-demone digrignando i denti, e fissando l’espressione di Miroku divertita. ‹ Non so come si chiama! So solo che.. suona, suona il pianoforte al Conservatorio. › Mormora verso Miroku, che lasciava delineare un sorriso di sghembo sul viso, osservandolo. Deglutisce piano, il mezzo-demone fissandolo ancora. ‹ Il problema è che.. è.. è.. dannatamente sensuale, e bella, e.. › lascia la frase in sospeso, deglutendo dopo aver voltato il capo verso l’entrata dal quale era provenuto un “ tin-tin “ dei campanellini che avevano sistemato lui e l’amico vicino la porta. Quel profumo. Maledizione. Miroku lo fissava sbalordito, prima di seguire lo sguardo dell’amico che si soffermava sulla figurina femminile che era appena entrata, e si sistemava a un tavolino, vicino a una finestra. Deglutisce, sotto gli occhi divertiti dell’amico che aveva sussurrato un “ wow “, alla visione di Inuyasha in palla.

‹ Dammi un grembiule e.. un.. taccuino. › Aveva sussurrato il suddetto ragazzo, voltandosi verso l’umano che lo guardava contrariato. ‹ Miroku. › Aveva solo mormorato, con aria autoritaria verso l’amico, che subito, l’aveva munito dell’occorrente e si era sistemato a pulire i bicchieri per godersi la scena. Mai, Inuyasha si era ritrovato cosi imbambolato a fissare una ragazza, mai da quanto tempo lo conoscesse, ossia, una vita.

Si era legato il grembiule alla vita, munito di penna e taccuino e si era diretto, in maniera abbastanza imbarazzata al tavolo della ragazza. La fissa, mentre le si avvicina . Aveva sfilato la giacca che era sistemata sullo schienale della sedia. Indossava un paio di jeans grigi, sistemati dentro un paio di stivaletti del medesimo coloro, ma di una tonalità più scura, alti fino al polpaccio e che avevano la suola raso terra. Da sopra, un pulloverino celeste con una profonda scollatura a V sul davanti, che lasciava intravedere l’abbondanza del seno, e che fasciava busto e braccia. Al collo una sciarpina leggera per ripararsi dal freddo, del medesimo colore dei jeans , e i capelli erano legati in una treccia bassa che ricadeva su una spalla. Le manine pallide erano unite sul tavolo, sfiorandosi piano tra loro, e lo sguardo scuro, cioccolato fuso, era rivolto all’esterno, alla neve che cadeva lenta. Il profumo, lo stava letteralmente mandando in tilt. Pochi passi e le era davanti, o meglio, di lato. Un leggero colpo di tosse richiama l’attenzione della ragazza che lo scruta, prima di tornare a fissare l’esterno, con aria attenta. Sobbalza appena, Inuyasha, non capendone gli atteggiamenti.

‹ V.. Vuole.. ordinare? › Mormora con aria titubante verso di lei. “ Diamine Inuyasha, datti una regolata! “  , si richiama mentalmente da solo, faceva davvero la figura dell’idiota, ora. La guarda che si volta verso di lui annuendo e sospirando, sistemandosi meglio sulla sedia.

‹ Si, un succo. › Mormora verso di lui. E ha una voce.. dannazione, sembra miele puro, dolce e delicata, non è stridula, non è gracchiante, è perfetta. Annuisce , schiudendo piano le labbra con aria imbambolata, ripetendo più volte “ succo “, e voltandosi verso il bancone, verso il quale compie due passi, prima di vedere i movimenti di un Miroku impazzito che gli mimava con le labbra qualcosa. “ G..G.. Gu.. Gusto?! “ Gusto? Il gusto del succo! Baka di un mezzo-demone! Si prende a schiaffi mentalmente, da solo. Aveva fatto la figura dell’idiota per davvero. Arrossisce di botto, voltandosi verso di lei, e notandola fissarlo con aria severa. Argh. Qualcosa non andava, non l’aveva mai vista cosi corrucciata, nei suoi numerosi spionaggi, che non erano passati cosi inosservati.

‹ Mi scusi, il gu.. › inizia la frase, almeno proverebbe, gelandosi non appena lei apre nuovamente le labbra, pronunciando delle parole che, se non fosse stato per la natura ibrida e in parte demoniaca l’avrebbero steso, diamine.

‹ Lo fa spesso? › Mormora, verso di lui, la giovane dagl’occhi scuri, occhi severi, ora. Nota l’espressione allibita del mezzo-demone, che sembra non capacitarsi di cosa stesse dicendo, di cosa stava parlando, ora?

‹ Le persone, le spia spesso?! › domanda, ancora severa verso di lui. L’aveva visto. L’aveva visto al conservatorio o che la seguiva, non importa, ma l’aveva visto, e aveva fatto la figura del deficiente, e del maniaco, peggio di Miroku. Sbarra gl’occhi ambrati, osservandola e poggiando con fare lento taccuino e penna sul tavolo scuotendo il capo con fare meccanico, paurosamente arrossato in viso.

‹ N.. No, io.. p..p..posso.. › mormora, anzi balbetta, continuando a scuotere il capo con aria contrariata e sbalordita. Cosa diceva ora? L’avrebbe preso per un maniaco, e lui non lo era. Era solo.. attirato da lei, non fisicamente, o almeno non solo, ma aveva qualcosa che l’incantava. La fissa, recuperare il suo taccuino e la penna iniziando a scrivervi sopra.

‹ Io.. posso spiegare.. non..non sono un maniaco. › Mormora, vedendola sorridere divertita e quasi muore, quando la vede sorridere cosi. Voleva che sorridesse più spesso cosi, ma a lui, a lui e non al fatto che tentava di giustificare i suoi atteggiamenti da maniaco. ‹ Potremmo prendere una cioccolata calda.. io, ti potrei spiegare. › Mormora, ancora, osservandola riposare la penna e il taccuino sul tavolo e alzarsi, recuperando la giacca e infilandosela, scuotendo ancora il capo, divertita mentre lo fissava sott’occhi, divertita, allontanandosi senza dire una parola verso la porta d’uscita, oltre la quale, poco dopo sparisce, immergendosi nella folla pomeridiana di Tokyo. Ah, aveva sbagliato tutto.

Recupera il taccuino con un ringhio, puntandovi gl’occhi su per qualche attimo, e restando sbalordito, piacevolmente, sbalordito. Sorride, in maniera mesta, sghemba, quasi divertito, stringendo il taccuino tra le dita artigliate e prendendo il foglio sul qualche c’erano scritte in calligrafia delicata delle indicazioni.


” Ci vediamo domani,
alle 18.00 in punto all’Hamarikyu Gardens,
sopra il ponte.

Per questa volta, non dovrai spiarmi. “



Un piccolo sorriso si disegna sulle labbra, mentre in maniera veloce torna al bancone, verso un Miroku morto di curiosità, che continuava a ripetere un’unica domanda “ è lei?! “, liquidandolo con una pacca sulle spalle e un semplice “ ci sentiamo “ e scattando fuori dal bar, dopo aver recuperato le sue cose, ed essersi assicurato di aver ancora con se il bigliettino scritto dalla giovane, che aveva ancora il suo profumo, come se una scia fosse rimasta impressa sulla carta.


Il giorno dopo arrivò, sembrò arrivare in tremendo ritardo, ma arrivò, e lui aveva lasciato lo studio di Sango troppo presto, per i gusti dell’amica, e si era fiondato a casa, a pochi isolati di distanza da Hamarikyu Gardens. Si era lavato, e nel vestirsi aveva avuto la tremenda indecisione di cosa mettersi. Non che fosse un tipo che aveva di questi problemi, certo, ma la ragazza non le aveva detto cosa comportava quel.. appuntamento? Insomma. Andavano a cena? Oppure passeggiavano come due persone normali al parco. Magari non si sarebbe nemmeno presentata. Sente il sangue raggelarsi a quel pensiero, ma nel momento esatto in cui gli occhi ambrati si posano sul display dell’orologio sistemato sul comodino accanto al letto scatta. Le 17.30. Si era messo un paio di jeans, una maglia di un grigio scuro con una semplice scritta in piccolo sul petto, che ripeteva la marca. Si era lavato i denti, e profumato si era diretto alla porta per il solito tran-tran di sciarpe e company. Non che lui sentisse o patisse il freddo, ma di certo non gli passava inosservato. Aveva messo un cappotto lungo  fino alla coscia, bello caldo, una sciarpa blu della stessa tinta del basco che aveva sul capo. Ne aveva una quantità esagerata, di quei cappelli. Erano sobri, e coprivano bene le orecchie canine che col freddo, erano il suo punto debole, diventavano ghiacciate. Si sistema, fissandosi nello specchio e sospirando. Un mezzo-demone costretto a incappottarsi per bene nell’inverno nevoso di Tokyo, questa era bella. Un ultimo sguardo all’orologio. Le 17.45. E poi via, verso il parco. Era.. emozionato, in un certo senso, la ragazza che aveva letteralmente pedinato nei giorni precedenti, gli aveva concesso un appuntamento, se lo si poteva definire tale. E lui, bèh, non doveva fare la figura dell’idiota davanti a lei. Alle 17.58 era lì, sul ponte ad aspettarla, non si era nemmeno reso conto, che aveva letteralmente corso per arrivare al luogo di incontro, e ora non gli restava che aspettare, un attesa accompagnata da una miriade di pensieri su quella serata, cosa avrebbero fatto? Lei cosa avrebbe fatto? La schiena era appoggiata alla ringhiera che abbracciava il ponte, dove un filo di neve si era appoggiato su. Gli occhi fissi sul laghetto ghiacciato, non avevano notato una figura avvicinarsi di corsa, almeno finché, un respiro accelerato e un forte profumo di miele lo colpisce. Non si era reso conto che lei era lì, e che tra i pensieri, si erano fatte le 18.10.

‹ Scusa il ritardo! › Aveva pronunciato la brunetta, piegata a meta e con le braccia poggiate sulle ginocchia riprendendo fiato. ‹ Sono stata trattenuta alle prove. › Mormora, con tono dolce e di scuse. Era una voce diversa da quella del bar, lì le era sembrata quasi adirata, e forse lo era, ma ora aveva un tono di voce dolce e vellutato, come l’aveva immaginato, da sempre. La scruta, con le labbra appena schiuse cercando le parole giuste da dire, che gli muoiono in gola quando rialza il viso. Era bellissima. La guarda tornare in posizione eretta. Stretta in un cappottino rosso e una sciarpe grigia chiara a fasciare il collo, stringendogli parte del mento, sul capo un cappellino di lana a coprire il capo, e sulla schiena ricadeva una cascata di capelli neri, dal riflesso della notte. Il viso, era rivolto verso di lui , “ finalmente “ pensò , arrossato per il freddo e con le labbra pronunciate che tremavano appena . Gli occhi scuri e profondi erano rivolti verso di lui, in attesa. Ah! Doveva parlarle.

‹ N.. No, non ti scusare, non aspettavo di molto. › Mormora, incerto sull’inizio, prendendo sicurezza poco dopo e continuando a scrutarla con attenzione , mentre si sistemava la tracolla su una spalla e univa le manine sottili e pallide tra loro, sfregandole in cerca di calore. Un silenzio assordate cala tra di loro, mentre lui la fissava, e lei, da parte sua fissava il terreno che lì divideva, con fare interessato.

‹ Non so come ti chiami. › Aveva pronunciato poi, con un sorriso sulle labbra rosse e gli occhi nocciola puntati su di lui, con le gote ancora più arrossate e le spalle che si alzavano, stringendosi attorno al collo.

‹ Inuyasha. › Aveva sussurrato il mezzo-demone, fissandola tra lo stupito e lo sconcertato. Era vero, non si era mai presentato, e nemmeno lei, d’altro canto. Si gratta appena la base della nuca, osservandola e sospirando.
‹ Nemmeno io il tuo, se è per questo. › Aveva mormorato con aria fintamente offesa . La vede scoppiare in una risata divertita , annuendo una volta che questa fosse scemata scostandosi un ciuffo di capelli di capelli ribelle che le era finito con fare prepotente sul viso .

‹ Scusami, Inuyasha. Io sono Kagome. › Aveva ammesso, con un leggero inchino verso di lui e sorridendogli ancora. Ma non si era soffermato su questo, principalmente sul suo nome, marchiandoselo nella mente con perizia, in secondo luogo, sul modo in cui lei, aveva pronunciato il suo nome. Era stata.. divina. L’aveva detto con gli accenti giusti, perfetti, e con un tono tenero che per poco gli aveva fatto mancare la terra da sotto i piedi, quando l’aveva sentito.

La serata, era continuata cosi. Si era fermati a bere una cioccolata calda, sotto consiglio di Kagome, e avevano discusso del più e del meno, parlato della loro vita. Di Kagome – ormai adorava chiamarla per nome – aveva scoperto che aveva vissuto fino a pochi anni prima in periferia, nel tempio della sua famiglia, e si era trasferita poi in centro, quando l’andare avanti e dietro da casa al conservatorio si era fatto pesante, e viveva in un appartamentino poco lontano dalla scuola. Era piccola, insomma aveva ventuno anni, lui ventitre, non era molto più grande, ma la vedeva cosi piccola e gracile che ventuno anni gli sembravano troppi. Suo padre era morto quando era piccola, e aveva vissuto da sempre con la madre, il nonno e Sota, il suo fratellino. Di lui gli aveva mostrato una fotografia che teneva vicino al porta chiavi, che ritraeva loro due in una foto da piccoli. Aveva scoperto che adorava il piano, e che gli era venuta questa bizzarra idea di suonarlo da piccola perché voleva che le sue composizioni andassero nei carillon, aveva riso a quelle parole, e si era beccato una tirata di capelli da parte della ragazza, che anche se divertita si fingeva offesa. Lui le aveva raccontato dei suoi genitori, demone e umana, che l’avevano messo al mondo e curato e allevato come se non fosse un ibrido, immettendolo nella società e dandogli sicurezza col passare degli anni, nonostante lui con la sua natura a metà , non ci andasse d’accordo. Aveva un fratello, Sesshomaru , con il quale aveva un rapporto di amore e odio, come tutti fratelli, nonostante in apparenza fossero freddi tra di loro. Finita la cioccolata, si erano spostati, e camminando camminando si erano ritrovati sotto casa di Kagome, che lo fissava con aria imbarazzata. Il tempo, a parer suo era trascorso troppo, troppo in fretta, ma sbirciando l’orologio, erano le 23. Avevano passato tanto tempo insieme, e ne voleva ancora. E non si capacitava del perché. La conosceva da cosi poco. Che fosse attrazione fisica? No, il suo odore lo inebriava. E per quanto fosse ridicolo, quelle ore passate assieme avevano scostato di lato l’aspetto esteriore, indirizzandolo verso la persona che aveva davanti. Poteva dire certamente che le piaceva, e la desiderava, sotto l’aspetto fisico, ma da quello.. sentimentale? Voleva conoscerla, avevano tanto da dirsi. A iniziare dal cibo. Chissà cosa le piaceva e cosa no. Le sorride piano, vedendola recuperare il portachiavi e annuendo leggermente, puntando le mani nelle tasche della giacca e schiudendo le labbra per parlare, per salutarla, per magari, prendere appuntamento un altro giorno.

Ma non riesce a iniziare nemmeno la frase, che lei, gli si era buttata al collo, cingendoglielo con le braccia e annullando con fare deciso la distanza che separava i loro visi, lasciando aderire i corpi. Resta imbambolato per qualche secondo, come a volersi rendere conto delle cose. Lo stava baciando. La ragazza che pedinava, lo stava baciando. Per somme righe, era cosi. In realtà non era la ragazza, ma era Kagome, e non l’aveva pedinata questa era, avevano avuto un appuntamento. Si risveglia, dall’intontimento momentaneo, cingendole i fianchi con una leggera irruenza e ricambiando il bacio, approfondendolo quasi immediatamente, avvertendola non fare resistenza a quell’intrusione improvvisa. Continua a baciarla, per qualche attimo, fin quando non la sente allentare la presa sul suo collo, scostando appena il viso, e il suo respiro irregolare. Dovevano riprendere fiato, e lui non ci aveva nemmeno pensato, preso com’era dal baciarla. Sospira ancora, osservandola paonazza in viso che apriva il portoncino spareno oltre questo, che viene semplicemente socchiuso. Gli occhi scivolano fino al suolo, dove qualcosa cattura la sua attenzione. Si cala, lentamente, recuperando dal suolo quel qualcosa. Era lana. Lo annusa, con un vago pensiero nella mente che prende forma. Era il cappellino che Kagome portava sul capo. Gli occhi saettano sul portone socchiuso e deglutisce piano, restando fermo, immobile a fissare due oggetti inanimati che gli stavano mandando una miriadi di segnali. Poteva lasciare una povera fanciulla senza il suo cappello, in pieno inverno? Come un razzo entra nella palazzina, saettando verso le scale e seguendo la scia dell’odore della ragazza che aveva lasciato lungo le scale e impressa sulle mura. In poco arriva al terzo piano, fermandosi davanti a una porta e sospirando piano, guardandosi attorno con aria indecisa ed alzando più volte la mano per bussare, riabbassandola poco dopo.

Ripete questo gesto un paio di volte, fin quando, armatosi di coraggio, non bussa alla porta. Dannazione, lui non era il tipo da fare, queste cose. Non era un maniaco. Attende, fin quando la porta non si apre, e quasi sviene. Non poteva crederci. Lui era un maniaco, ma lei non scherzava. Gli aveva aperto la porta, e tutta la lana che poco prima la copriva era sparita, indossava solo una t-shirt bianca, molto aderente, forse un po’ troppo, che fasciava i fianchi e da sotto un paio di pantaloncini di stoffa leggeri, e corti, troppo corti. La casa, oltre a emanare un forte calore, lo chiamava col suo profumo dolce e delicato. La guarda, mentre lo fissa con aria curiosa. Perché lo guardava cosi? Lei non aveva chiuso il portone, e aveva lasciato il suo cappellino giù. Deglutisce piano, alzando il suddetto oggetto e mostrandoglielo.

‹ Kagome, ti era cad- › Non termina la frase, che due braccia esili e bianche l’afferrano per la sciarpa e lo tirano dentro casa, al caldo, mentre le labbra tornando a sfiorare le sue con più irruenza e passione . Si sfila velocemente la giacca, abbandonandola al suolo, prendendole i fianchi e andando a scostarla fin contro la porta, che richiude dietro di lei. La bacia ancora con enfasi, e passione, mentre lei si preoccupa di togliergli sciarpa e cappello, lasciando che le mani giochino con le orecchie canine, qualche attimo, prima di scivolare sul collo, spingendolo sopra una poltroncina, dalla quale cadono pochi secondi dopo per la posizione precaria in cui si erano sistemati. Avverte il suo respiro irregolare e strozzato, diffondersi nella stanza circostante, mentre lui si preoccupava di spogliarla di tutti quegli indumenti che a detta sua erano di troppo in quel momento, e l’ostacolavano solamente. Continua a baciarla e sfiorarla con enfasi, ma al tempo stesso con dolcezza, non voleva di certo spaventarla. Si alza velocemente, tirandola con se, senza abbandonare mai le sue labbra, trasportandola fino a una camera, da dove il profumo della ragazza sembrava essere più forte. Si addentra in questa, sentendola staccarsi per un attimo e fissarlo negl’occhi silente, con solo i respiri irregolari a fare da sottofondo.

Per un attimo, teme che si voglia tirare indietro, che lo prenda a calci e lo butti via, ma le sue mani, tornando a sfiorargli il capo, le orecchie con le quali giocano, e torna a baciarlo, con più dolcezza, mentre lui, con altrettanta accortezza l’adagia piano sul letto, lasciandola stendere sul materasso che ondeggiava sotto di loro, sistemandosi sopra di lei e osservandola con lentezza. Era bellissima. La maglietta era ancora in salone, assieme ai suoi pantaloncini, era rimasta vestita solo con gli slip, mentre lui ignorava dove fossero finite le sue cose, e la sua maglia. Torna a baciarla, sfiorandole piano il corpo con le labbra e con le mani che delicate, senza usare gli artigli, le sfiorano il corpo come a voler imprimere ogni angolo di quel corpo nella sua mente. In poco tempo, si liberano l’un l’altro dei vestiti di troppo, e lui, quasi si sente morire, al pensiero che quella serata, non aveva seguito nessuno dei filoni che si era immaginato, perché mai, avrebbe sperato in una conclusione tanto.. perfetta. La guarda, sfiorandole il viso con la mano artigliata e baciandole una guancia con dolcezza, sentendola abbracciarlo di rimando e sospirare pesantemente. Poteva dirlo, nonostante fremesse dalla voglia di farla sua, desiderava, risvegliarsi accanto a quel corpo, a quella ragazza, il giorno dopo.

La notte passò cosi, tra l’amarsi e l’abbracciarsi, qualche parola, qualche sorriso o qualche battuta sul cappello abbandonato giu al portone. Fin quando, la stanchezza non sopraggiunse, e li colse, abbracciati tra le lenzuola che li coprivano in maniera confusa e un intreccio di gambe e braccia che voleva solo, simboleggiare che qualcosa, se pur in maniera prematura, stava nascendo.

- fine flashback -

Un rumore assordante lo risveglia dal piacevole torpore nel quale si trovava, d’istinto stringe le braccia, come se ancora avesse quel corpo tra le braccia, ritrovandosi a stringere l’aria, il nulla. Gli occhi ambrati, vacui si aprono di scatto, fissando la stanza circostante. Non c’erano le mura color pesca, non c’erano mensole piene di libri, non c’era il profumo di miele talmente forte da stordirlo. Era una stanza sterile, plasmata come altre mille, dove l’odore di Kagome, aveva soggiornato per qualche giorno. Respira piano, avvertendo ancora il bussare incessante alla porta. Ancora una volta era stato tirato fuori dai suoi ricordi da una porta. Che fosse destino? Ma come avrebbe spiegato la sua presenza lì, senza la proprietaria della chiave. Ispira profondamente, alzandosi abbastanza agitato e fiondandosi alla porta, guardando attraverso lo spioncino e assicurandosi che no, non fosse Kagome, ma solo un inserviente. Veloce, torna nella camera, massaggiandosi una guancia e recuperando le sue cose, rivestendosi come la sera precedente. Si sposta nuovamente verso la porta, osservando oltre lo spioncino e assicurandosi che la donna delle pulizie fosse sparita, prima di avviarsi con passo felpato verso le scale che portavano all’uscita.



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