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Autore: Misunderstood_    07/08/2011    1 recensioni
Saaaaaaaaaaaaaaaalve salve! Sono nuova del sito. Vedo che questa storia non sta riscuotendo un gran successo, in effetti questa storia l'ho inventata a tredici anni e non mi aspetto di guadagnarmi la reputazione di persona profonda per una storia che può sembrare così banale. Diciamo che la prendo come un'occasione per crescere, con il vostro aiuto posso migliorare il mio stile di scrittura e magari avere qualche idea in più. Recensite!
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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I miei genitori urlano.
E queste urla non fanno altro che aggiungersi al resto, come iniziassero a partecipare alla gara dove l’urlo più forte vince a prescindere dal significato che porta fino all’arrivo di qualcuno che lo superi.
E questo rumore che è destinato a crescere per mano di chi urla per non sentirsi pensare e parla per non essere obbligati ad ascoltarsi che oggi si versa nelle mie orecchie, prendendo una connotazione fin troppo universale e lì fuori sembra che ogni auto e ogni persona lanci urla contro il cielo, fin quasi a penetrare nelle incerte culle dei bimbi non ancora nati, ignare del fatto che queste gli ripioveranno addosso.
I miei genitori, stasera, partecipano all’inevitabile accrescersi di questo cozzare di parole inutili.
«Porco...» mio padre, che ha ancora le braccia alzate in alto, lancia un’occhiata dietro di sé e decide di non completare quella frase, abbassa le braccia, adesso è mia madre che ricorre a un’infinita sequela di appellativi infelici riferiti al collega di papà che “con la sua incompetenza ci rovina la vita!”, dice a denti stretti.
Problemi sul lavoro, niente di grave. Ed è per le cose gravi che non litigano mai, sono persone serene che amano condurre una vita familiare più che altro composta da un insieme di solitudini. Brava gente che si nobilita e maledice con il sudore della fronte, persone oneste e banali che risparmiano sulla spesa e tirano su le loro figlie come coppe vuote da riempire, ignari e degni discepoli di Gibran quali sono.
Anime strascicanti che passano per caso in questo mondo, che niente creeranno e niente distruggeranno, ognuno di noi rispecchia il suo stereotipo nella famiglia standard che rappresentiamo pur mantenendo singolarmente un’identità propria e satura di sfumature che ci distingue da tutti.
Io e mia sorella siamo sprofondate nei sedili posteriori dell’auto, spettatrici di quel patetico teatrino nostro malgrado.
Lei è la pecora nera, senza dubbio. Quella egoista. Io la sorellina minore depressa e un po’ inquietante. E quei due là sono la madre scoppiata per lo stress e il padre rassegnato alla propria vita.
Un quadretto rassicurante di umani con debolezze e difetti che incarna alla perfezione ciò che tutti quanti, sempre nell’universalità delle urla, siamo.
Smettono di urlare e il silenzio ci ingoia. La sensazione è quella del tempo che passa senza rispettare le dimensioni, passa qualche minuto o forse qualche ora e le ultime parole ancora rimbombano nel muto ronzio dell’auto senza poter percepire se esse siano state mai veramente dette.
 Siamo una famiglia felice tutto sommato.  Anche deprimente, ma neanche abbastanza importanti da essere infelici. Viviamo nel mezzo.
L’auto sfila silenziosa come una pallida imbarcazione in quel mare di asfalto nero che ci viene incontro,
nessuno di noi si correggerà o correggerà gli altri in nome di una perfezione che tutti sappiamo, non rende realmente felici, e anche sappiamo che la felicità non è la nostra meta poiché una volta ottenuta in essa sprofonderemo quasi per ripicca a quella fortuna.
Questo pensiero nella penombra ci consola un po’ tutti. E la felicità alla fine non è realmente ciò che ci rende felici. Forse ci crogioliamo un po’ in questa scusa.
Mia madre mormora qualcosa sull’essere stanca, vuole mettersi al posto del passeggero e far guidare papà, accostiamo e ripartiamo nella quiete della quasi notte mentre il bisbiglio dall’mp3 di mia sorella accompagna i miei traballanti e confusi sproloqui mentali.
Sono contenta di aver scelto questa famiglia, perché so che in qualche modo l’ho scelta io. La patina di silenzio che ci divide è ciò che più ci unisce, un gelo confortevole che non obbliga nessuno a falsi sentimentalismi e lascia spazio alla muta complicità che pochi sanno costruire e forse si può considerare questo nostro fluttuare tra una sponda e l’altra senza arrivare mai alla meta come una sorta di equilibrio precario che ci permette di non essere mai trascinati al punto di partenza ma ci vieta di sapere con esattezza dove ci troviamo.
E come se fossimo sempre sospesi nel vuoto e ciò che costruiamo non fosse per arrivare da qualche parte ma per ingannare il tempo mentre si galleggia e renderlo più accessibile.
Per questo siamo banali.
Banali e diversi.
E tutti si aggrappano a qualcosa perché nonostante sia inevitabile e forse anche divertente abbiamo tutti paura di cadere. Le nostre relazioni umane fallite non danno che il magro sostegno di una corda un po’ erosa dal tempo, la nostra vita si concentra nel costruire qualcosa che di certo finirà nella polvere con noi ma niente supera il diletto di farlo ugualmente, come un castello di sabbia o un ponte nel mezzo dell’abisso, su un baratro.
Puoi vederli quasi, i ponti che costruiscono gli altri, quelli che cadono e quelli che stanno su, più su di te.
Sono le ore di Morfeo queste, che sfumano e perdiamo per sempre. Per fortuna…
 
«Chiama tua madre, digli che faremo qualche ora di ritardo»
mamma prende la borsa, ci infila le mani, ne estrae quel piccolo aggeggio che si rigira per le mani.
Il crepuscolo livido ha lasciato il posto alle prime, rosate luci dell’alba e dai finestrini mal sigillati trapela una brezza che sa di città. Un’auto ci taglia la strada, papà gli urla dietro, mamma mette una mano sulla bocca a papà perché non riesce a sentire ciò che dice zia al telefono, Allegra si stropiccia gli occhi e si toglie le cuffie con cui si era addormentata, mi guarda male per qualche motivo, probabilmente perché a suo dispetto ho l’aria lucida di una persona riposata, comunque non glielo chiedo. Fa scrocchiare la schiena, «Siamo arrivati?»
Ti pare che siamo arrivati? Santo cielo, ti sembra di vedere il mare da qualche parte?
Mamma sta ancora parlando al telefono, «Non ancora» risponde distratta
«è bello andare, non arrivare» dice papà, tanto per dire
«Cazzate.» Allegra è sempre stata un po’ stronza; eppure nessuno la uccide. Io ci ho pensato e alla fine so che mai sarei stata la causa di un simile dispiacere per i miei genitori, delusi non tanto dalla perdita della loro prima figlia dalla cattiva educazione della seconda. In più alla fine, credo che mi voglia bene, nel suo modo infermo di voler bene alla gente e viceversa.
Lei mi vede come la distrazione dai genitori che odia o forse una pedina per la sua scacchiera di seguaci, io come una ragazza con cui ho poco da spartire se non la vita intera e quindi tanto vale andarci d’accordo.
Le parole di Allegra sono quelle che finiscono più spesso nel dimenticatoio, come se fingere che non abbia parlato la renda più facile da sopportare, i suoi discorsi sono un divagare di contorno vuoto e inutile, mi fa quasi pena, i suoi silenzi sembrano non avere niente da dire, come ormai di rado sembra accadere ai silenzi.
Mamma parla ancora al telefono, ah si?, dice a voce alta, come se a noi importasse. Ma non mi dire! Figuriamoci che la credevamo tanto ingenua… Ed è sempre così, si fida della gente sbagliata di proposito, forse per noia.
Ci fermiamo a far colazione in un grande autogrill in un piccolo scomparto che sembra un bar. Io e mia sorella prendiamo due gigantesche brioche al cioccolato,  lei si sbrodola, io rido, lei mi tira il tovagliolo addosso, ride anche lei e mamma fa Basta, non fate le bambine, e noi ridiamo più forte, mentre papà si informa al bancone sui risultati di un referendum.
Allegra e la sua leggerezza d’essere sono il mio passaporto per una vita meno pesante; meno profonda anche, forse. Al tempo stesso è la persona che più mi ostacolerà e conoscendola così da vicino, che più ho il diritto di odiare.
L’auto riparte, corre un po’ più decisa sulla strada, mamma e papà mettono su un cd di cantanti morti della loro stupidità e ci cantano sopra per darci fastidio.
Decidiamo di mettere sulla radio, dove un mucchio di musica indegna di questa definizione passa a ripetizione.
«Oh, oh, mamma alza!» ad Allegra piace la canzone rap-discotecara del momento, una di quelle con testi ripetitivi e senza senso che ti lascino la possibilità di non sforzarti a capire. Probabilmente le ricorda un bel momento, un ragazzo o una festa. Mamma alza di due tacche appena.
Questa canzone non è poi così male, diversa a modo suo nella banalità, ci assomiglia ad Allegra, ma in realtà non la sto neanche seguendo molto e quando di colpo sento le voci dei due conduttori della radio parlare del più e del meno mi rendo conto del fatto che dev’essere finita già da un po’.
 
La porta della casa della nonna è di legno, con delle decorazioni floreali stile liberty. Papà si appoggia con il palmo della mano al campanello, una o due volte e aspettiamo tutti e quattro con le mani nelle tasche o incrociate sul busto. Un trotterellare veloce s’affretta dietro la porta, Ani apre e si asciuga le mani sui bordi della gonna, è una donna magra e alta, con la montatura degli occhiali azzurra a occhi di gatto modello diva e i capelli biondi raccolti in alto da una molletta e sciolti sui lati.
«Ciao signori» dice, scoprendo una serie infinita di denti, «Entrate, entrate» sgambetta di nuovo dentro casa «Nicoletta sta guardando la tv» dice a noi «Vero nonna?!» dice a voce decisamente più alta, per farsi sentire da nonna.
Ani Dragan è la tutrice di mia nonna da moltissimi anni ormai e tanto per dare l’idea di quanto veniamo a trovarla non l’avevo mai vista.
La nonna ha perso la testa da tempo, mamma dice dopo la morte del nonno, che però è morto quando mia madre era ancora una ragazza, di cancro mi pare.
La casa della nonna è rimasta la stessa di quando ci sono venuta, almeno quattro anni fa, e nell’aria c’è ancora un vaghissimo odore di cibo, come nelle case di moltissime anziane, nonostante io sia sicura che non cucini ormai da tempo. 
Mamma entra nella stanza con circospezione, quasi in punta di piedi, si avvicina piano al divano, posa una mano sulla spalla della nonna, dice «Mamma».
Nonna si gira, dice «Luisa» le gira le braccia intorno al collo, se la stringe vicino costringendola ad abbassare il busto.
«Lei sono le mie figlie, mamma, lui mio marito. Te li ricordi?» dice, puntandoci con un braccio.
Nonna ci guarda qualche istante con gli occhi opachi.
«Luisa?» mi chiama. «No, sono Sonia.» mamma mi lancia un’occhiataccia, nonna mi fa segno di avvicinarmi, si aggrappa ad Ani e a mamma per tirarsi su dal divano, io le sono accanto che mi mordicchio il labbro, mi sorride e a  me esce quella voce zuccherina ed educata che mi ritrovo «Nonna» dico. Mi stringo alla sue vita, le mi fa su e giù con le mani sulla schiena, «Sonia…» mi stringe piano come se avesse paura di rompermi, mi pizzica una guancia «Assomigli tanto a mia figlia Luisa».
Allegra e papà avanzano piano, loro non assomigliano a mia madre, la nonna allarga le braccia ma non è detto che gli abbia riconosciuti, entrambi si avvicinano e le danno un abbraccio un sterile, nonna ripiomba sul divano, si perde dentro la tv e io mi perdo dentro ai suoi occhi. Vuoti. Impossibile che non pensi a niente, sono sicura. Sta solo pensando su un’altra frequenza. Siamo noi che non riusciamo a captarla.
Mamma si siede accanto a lei, le si appoggia addosso con la testa e le mette un braccio dietro le spalle «Com’è mamma?» passa un po’«Eh, hai sentito di Evelina, no?» la figlia di Ada, quella che credevano tanto ingenua, credo che mamma sia stupita da quanto riesca ad acquistare nuove informazioni dimenticandone di altre così tanto più importanti.
«Già. Tu invece…»
«Posso andare in bagno?» chiedo a papà, Ani mi ci accompagna, il bagno è intriso di una strana cappa gelida, i muri di marmo lucido trasformano il mio riflesso in una lugubre ombra senza faccia, mi siedo sul bordo della vasca e ci rimango.
Fuori, molto più lontano si sentono i rumori di barche e di molo, ma qui c’è solo silenzio, in tutte le stanze meno imperversa come un avido tiranno che assorbe i pensieri. Che deve sembrare insopportabile ad Ani a volte e che la nonna credo riempia dei suoi pensieri sconnessi che non hanno bisogno di uno spazio o di un suono, credo.                                                     La luce filtra da una finestra piccola e rettangolare, la apro e ci appoggio il mento, per sfuggire all’aria spessa  avvolgente della casa, ma anche fuori in realtà l’aria e afosa e appiccicosa. Esco, mi godo il tepore, mi siedo su uno scalino foderato di velluto blu.
 
Ani a messo in forno un bon roll pronto ripieno di carne, sia io che Allegra ci cerchiamo intorno con lo sguardo qualche diversivo, questo cibo non ha odore ma nonna accende ugualmente un diffusore di profumo per coprirlo, l’odore è delicato alla lavanda che propaga una serenità violacea strana e fortunatamente non un forte e stomachevole mix di erbe.
Attraverso le tende la luce sembra bianca come se fuori ci fosse la neve, mamma si leva il copri spalle e rimane in canottiera, gli adulti conversano tranquilli del più e del meno infilzando l’insalata un po’ distratti ognuno per sé e Allegra senza farsi vedere infila una cuffia dentro l’orecchio. Io mangio, seguo a mala pena ciò che si stanno dicendo, appoggio i gomiti alla tavolo e il mento sulle mani.
Mi passano davanti una serie infinita di pasti trascorsi con la mia famiglia, così diversi e a loro modo simili a questo.
Il silenzio che ci fa un po’ da amico che si protrae per quasi un’ora come se rispondesse solo di sé stesso, piccole interruzioni mi passi il pane, mi passi l’acqua,  papà ancora a lavoro, noi tre che non parliamo o mamma che mangia e si alza senza dire nulla, mamma e Allegra che si mettono d’accordo per qualcosa o io e Allegra che parliamo di un ragazzo che mamma non conosce con mia sorella che dice quanto è brutto o antipatico. Giorni in cui invece parliamo tutte e tre di papà, tre cose brutte e una no. Papà torna a casa prima, mamma se ne va per il turno pomeridiano, io e papà che parliamo di un gruppo che piace a tutte e due, Allegra che dice che schifo  e ancora Allegra che fa i dispetti a papà, come se gli dicesse svegliati e lui non lo fa svegliati da questo coma, che non è più la tua vita.
Poi le cene migliori, quelle dove sia mamma che papà fanno gli straordinari e Allegra mi insegna a cuocere la pasta, che è l’unica cosa che sa cucinare, ci svuota dentro un sugo pronto e ci sediamo tutte e due sul divano, davanti alla tv con i piatti sulle gambe incrociate. Ognuna per i fatti propri, con la tv che borbotta al vuoto oppure  su un canale di brutta musica, di notizie stupide, di un telefilm senza trama, per avvicinarci e comunicare in quell’unico modo che conosciamo cioè la coalizzazione verso qualcos’altro, lo scherno che tanto sembra appagarci tutti in questa famiglia, tranne papà forse.
«Ehi!» esclama mia madre riportandomi nella casa profumata di lavanda che era sfumata, «Che dite ci facciamo un giro?», hanno già finito anche il caffè.                                                     Ani scuote la testa, con una mano si avvicina a nonna e non aveva capito che era sottointeso che lei e nonna non
venissero.
Mamma ha già rinfilato il copri spalle, schiocca un bacio sulla guancia alla nonna, papà giacca sottobraccio e mamma borsa a tracolla.
Salutiamo, usciamo in fretta siamo fuori.
«No, nonna adesso» sillaba con un accento strano Ani, da dentro casa. Credo che il passo veloce di mamma significhi qualcosa tipo che se la sbrighi da sola.
Prendiamo un traghetto.
Sono appoggiata con le braccia alla ringhiera, in punta di piedi. Fisso il mare che sembra un foglio increspato di carta stagnola ondeggiante. Fisso l’indaco ombroso di quell’acqua che dovrebbe riflettere il color ciano del cielo ma che in realtà sembra essere molto più scuro. Il mare è una piattaforma che oscilla appena laggiù all’orizzonte ma lì nel fazzoletto di acqua un po’ mossa dalla barca che inquadro nel campo visivo pare un grumo cupo di frange frementi e violacee.  Penso a quello scontro di onde parte della stessa acqua che si annullano fomentano l’un l’altra come una guerra, come correnti di pensiero, come a volte fanno i ricordi. Come per la nonna, no? Sulla mia testa scende un manto malinconico e viscoso che mi fascia come fosse la collosa materia di una ragnatela.
Di colpo non sostengo più la vista di quel moto angoscioso, appoggio la schiena alla ringhiera e punto il naso verso il cielo terso e azzurro, prendo e lascio un respiro e mi perdo un po’ dentro al cielo. È una peculiarità del blu rappresentare l’infinito, mi pare, per questo quando è sera o meglio ancora notte sembra essere veramente infinito e attingere allo spazio direttamente dell’universo, al di là dell’atmosfera mentre adesso il cielo sembra un coperchio celeste gravante sulle nostre teste.
Perchè non posso pensare a cose più felici di questa? Ho quattordici anni, una famiglia di persone oneste, un aspetto decente, pochi amici ma buoni e poi cos’altro? La musica.
Allegra mi prende le gambe e fa finta di buttarmi giù, mia madre per poco si fa prendere un colpo «Allegra! Sai, per essere quasi maggiorenne sei proprio stupida!» Allegra mette il broncio, si gira verso di me ma quando mamma se ne va si mette a ridere «Mamma non scopa da un po’, eh?» Che schifo, penso,in realtà spero che mamma non scopi veramente da un bel po’, da quando ha concepito me più o meno.
«Bleah!» dico, «Lo spero bene»
Ci giriamo tutte e due verso il mare, «Smettila di fare la bimba depressa.» mi dice,
«Non lo stavo facendo»
«Già, giusto. Lo sei»
Mi allontano, e lei mi urla «Non fare la stronza!»
«Non lo faccio, lo sono!»
Non lo sono. Io sono educata, sempre gentile, mio malgrado.
Allegra è un stronza, si, ma forse non è nient’altro che un piccolo assaggio della merda che ingoierò in questa vita.
Mi urla qualcosa con cui conclude la discussione e sicuramente adesso ha ragione lei anche se stasera mi renderò conto che potevo ribattere con qualcosa di decisamente più intelligente del silenzio.
Mi piace guardare quelle gocce infrangersi in altre gocce, schizzare fin sulle facce dei turisti sporti incastonandosi sulla pelle come dei piccoli cristalli.
 
3 Messaggi ricevuti:
 
11.21 Rico!! :
“Weee sony!
È andata male come credevi?”
 
14.02 Vanessa :
“Ciau! Gg parti! 2 terribili giorni
di viaggio e poi mi rivedi! Contenta? :DDD
 
15.16 Rico!! :
“Sony!! Scommetto che stavi ancora
dormendo! Mi hai già dimenticato?  L
 
Oddio, così mi sputtano tutto il credito.
 
15.17
“Rrrrrrrrrrrico!!! No che non mi sono
dimenticata! Ma anche tu, mi chiami
all’alba delle 11!
E non chiamarmi Sony, sembra la marca
di un cellulare.
Comunque non male, peggio. xD
 
 
15.18
“Hey Nessa! Si guarda, non aspettavo altro.
Smettila di abbreviare sembri una
bimbominkia! O_O”
 
15.19 Vanessa :
Bimbominkia io?! xD
c sentiamo qnd arrivi!!
O se vuoi messaggiamo…”
 
15.20 Rico!! :
“Vabbè, Rico sembra il nome di  
un pappone brasiliano!
Invece scommetto che ti sei divertita
moltissimo con quella “simpaticona”
di tua sorella!”
 
15.21
“No Vany, ho quasi finito il credito.
A presto!”
 
15.22 Vanessa :
“Oky! Ciau! J
 
15.23
“Come devo chiamarti, Fede?!
Pappone brasiliano o giornalista
del Tg 4?”
 
15.24 Rico!! :
“Pappone brasilianooooo!!”
 
15.25
“Eccellente oh mio seguace.”
 
15.27 Rico!! :
“O tuo FEDEle? O.o”
 
15.28
“Aaaa! Che battuta del cavolo!
Sei proprio scemo.-_-“
 
15.30 Rico!! :
“No sono federico.  Ok adesso
la smetto. Devo andare! A presto
piccolo sole!”
 
Uhm…
Della serie “cose che non si dicono a Sonia Rizzo”.
 
15.33
“A presto grande scemo!:D”
 
Ti voglio bene Rico, della serie “cose che Sonia Rizzo non dice”.
Sono sdraiata a pancia in giù sul letto, fasciato da una coperta fatta ai ferri di lana che mi pizzica la pancia attraverso la maglietta. Un gran bel lavoro, di intrecci grigi e bordeaux.
Mi rammollisco e sprofondo nel cuscino un po’ impolverato, con i piedi mi spingo e premo la nuca contro lo schienale in legno.
Siamo sicuri che io gli voglia bene? O se domani sparisse e io non potessi provare che sia mai esistito farei finta di nulla in nome della mia presunta integrità? Se fossi la protagonista di un film d’azione durerei più di un istante per difendere i miei affetti? Magari mi sottovaluto.
Di là si sente il rumore di qualcosa che si rompe, urla forti e incomprensibili che spodestano quel troneggiante silenzio dal dominio della casa e invadono veloci ogni stanza.
«Antonio!» grida nonna «Antonio!!!!» ripete con la voce che si rompe per quanto alta.
Antonio, Antonio! Nonna, Antonio è morto.
«Nonna» dico piano
Ani prova a tenerla ma lei la spinge via, le dice che non la conosce e cosa ha fatto a suo marito?
«Nicoletta! Così si fa male!»
E cosa vuole questa donna? Chi è? Via da casa mia! E tu pure, chi sei?
Chi? Io?
Eh, si. Io.
«Mamma, papà è andato in caserma stamattina. Torna dopo.»
Nonna mi guarda in un modo che mi fa pensare che da un momento all’altro mi arriverà uno schiaffone, inclina la testa di neanche mezzo grado, abbassa lo sguardo.
«Giusto…»
Ani la aiuta a sedersi e le parla piano nell’orecchio, «Si, giusto.»
Nonna, penso, sono sicura che tu sia stata una gran donna prima di questo.
Ed è un fatto risaputo quanto non sia solo ciò che incontriamo nel corso del tempo a cambiarci se non anche il tempo stesso che corrode le menti quanto le carni e modifica ciò che si è costruito sulla base del corpo lasciando cadere come fiori secchi i poveri d’anima. 
Per qualche motivo qui nessuno sembra prepararsi all’unica cosa che ha certa nella vita oltre che al giungere inevitabile del suo contrario. La vecchiaia potrebbe essere il male del secolo e del futuro e la morte niente meno che la sua naturale cura.
Mamma, papà, Allegra.
Si sono precipitati lì, si sono fermati sulla soglia.
Facciamo ancora una passeggiata prima di partire, cena la faremo per strada. È divertente, sa molto di viaggio avventuroso e alla buona, o di telefilm americano.
Schiocco un bacio in piena guancia alla nonna, lei mi saluta, «Luisa, quando torni?»
vorrei poter aspettare che sia in grado di riconoscermi per andare ma potrebbero volerci dei giorni ammassati ai giorni.
Ci lasciamo alle spalle la facciata bianca, Ani ne chiude l’entrata e il rumore della porta sembra un addio, una promessa di non ritorno.
L’impressione è quella di camminare sulla Luna.
Mamma strascica le gambe come se non ne sostenesse il peso, e noi altri tre fluttuiamo sul ciottolato . Il Sole è impettito davanti a noi, con la mente aleggio nei contorni di quel paesaggio tubolare senza capire perché nonostante il sole, dove camminiamo noi ci sia solo ombra.
 Sembra veramente un tunnel con la luce infondo. Il Sole diventa una candela nascosta dietro al palcoscenico schiumoso delle nubi.
Controllo con cura ogni fase del mio respiro, lo sguardo dritto in avanti, dentro invece una serie di strilli degni di un bambino che brucia mi rimbombano nella scatola cranica e vibrano fin nella cassa toracica. Strillo. Non mi sento.
 
L’auto si è surriscaldata sotto il Sole, i cui raggi illuminano  le fibre dei sedili che si aggiungono al corpuscolo.
Non succede niente, niente di niente.
Allegra «Ho un mal di stomaco strano…» la guardo di sottecchi ma rimango ferma con la testa appoggiata al finestrino.
Ehi! dice ed Ehi!! ripete.
«Qualcuno mi ascolta?!»
No, Allegra.Dici cazzate.
Mamma «Si, scusa, che dici?»
«Ho un attacco di panico, credo…»
Ma cosa diavolo dici?
«Una brutta impressione.»
Allegra ha qualcosa di inquietante a volte, credo sia più profonda di quel che da a vedere. Non è questo il caso, però.
Mamma continua a guidare, la sua testa sembra una sagoma scura deformata dalla luce incontro alla quale ci stagliamo. Il tramonto.
Allegra sbatte la schiena contro il sedile, bisbiglia che stronzi.
«Cosa vuoi che succeda?» le chiedo
Non mi risponde. Perché quando qualcuno è gentile, lei coglie subito l'occasione di mostrarsi più forte.
Ore, ore, ore, ore. Niente per ore ore ore.
Papà svita una bottiglietta, gli scivola, la versa.
«Ma cosa cazzo fai Roberto?!» mamma per poco perde il controllo. Adesso.
Adesso potrebbe succedere sembra che dica la postura di Allegra.
Invece ore ore e ore.
Prendiamo un dosso e il colpo fa accendere la radio e  un mucchio di parole e stazioni accavallate entrano nell’auto come un boato. Adesso?
No. Mamma spegne la radio.
Il buio arriva e copre il cielo come un grande telo blu; abbiamo già cenato da un po’, si sono scambiati i guidatori, siamo tranquilli. Di tanto in tanto mamma e papà si dicono qualcosa a bassa voce.
La giornata intera ci è scivolata dietro, facciamo anche tutta la settimana.
Il semaforo all’incrocio è verde, papà procede.
La stanchezza mi fa vedere le cose dietro a un reticolato trasparente, penso a un racconto di Poe.
Papà accelera, sbuca nell’altra corsia e nulla più.
Un altro incrocio. Semaforo verde. Papà accelera e nulla più.
Un altro ancora. Semaforo giallo, giallo, giallo. Il rombo di un motorino dietro al furgoncino bianco nella corsia a sinistra mi strappa al dormiveglia. Le cose sembrano succedere quando niente sta succedendo. Papà fluisce piano verso l’altra corsia, un’auto blu passa, papà accelera, il motorino da gas e quel suo borbottio in crescendo mi penetra lo stomaco,  passiamo, il motorino sfreccia a seguito dell’auto blu. Papà inchioda, sgomma, deraglia, lo ha investito? Sono scivolata giù fra il sedile posteriore e anteriore e sento davanti il rombo a scatti che sembra il rantolo di un animale agonizzante coperto dal fischio metallico e stridente della carrozzeria che gratta contro l’asfalto.
Per un momento e un solo il tempo sembra essere indulgente. I secondi passano nel loro spazio come se fosse accomodante e senza regole... Io balzo nel bugigattolo fra i sedili sbattendo il collo e la schiena, ripiegandomi su me stessa, i capelli lunghi e biondi di Allegra frustano l’aria e calano. 
Il fischio del motorino che raschia mi spacca le orecchie, il motore che non si è ancora spento e arranca sotto di noi mi apre un foro bruciante dentro l’anima.
Il rumore della sgommata fa eco, no, è un’altra auto che sgomma.
Ci entra dentro, accartoccia un fianco dell’auto come una lattina di alluminio, adesso se fosse un film si spegnerebbe la luce, ma la mia coscienza non è così disponibile ad abbandonarsi e non la perdo neanche per un benedetto istante.
Solo un momento. Non sento più niente, silenzio che gonfia i timpani e scoppia in urla. I miei genitori e mia sorella lanciano degli strilli inumani e isterici, sento la gola che si squarcia, sto urlando anch’io, l’altra auto rompe il finestrino dal lato di mia sorella e il vetro ci scoppia addosso, il motorino incastrato blocca il muso dell’auto, il furgoncino gira e spinge il resto contro il guard rail, il retro dell’auto si schiaccia e io sprofondo ancora di più dentro al sedile, mi brucia sempre di più un punto dello stomaco, qualcosa accende qualcos’altro, non vedo niente. Ho la testa chinata verso il basso, vedo una mano di mia sorella, sento ancora gli strilli, altissimi, perforanti, ma non so se qualcuno stia ancora realmente urlando. Qualcosa avvampa, le braccia mi scottano come ci versassero sopra dell’acido, c’è un odore orrendo che non riesco a inquadrare, c’è un braccio che annerisce al posto del guidatore, il resto sfuma in una nebbia arancione e rossa.
Adesso siamo fermi. Immobili direi. Mi sembra che tutto sia immerso nelle sabbie mobili, nel campo visivo vorrei vedere solo la foto di un inferno lontano, invece le profondità dei soggetti sono amplificate.
Una serie di rumori lievi sono il sottofondo poco rassicurante del nostro purgatorio a quattro ruote. Uno crepitio di fiammelle e i tonfi grevi delle portiere che si deformano con il calore.
Il mio respiro affannoso e rotto è la testimonianza che rimane della vita insieme al moto sempre più lento della pancia. Ondate di dolore mi investono, mi trapassano e mi ripiombano addosso dall’alto, il sudore freddo che mi cola hai bordi della fronte si scalda dentro alla vampa, che mi si avvicina.
Un battito tachicardico mi imbeve gli occhi di sangue, ho il fiatone, e o le mani girate intorno al sedile. Una serie infinita di respiri corti mi secca la gola, ho il fiatone e dei piccoli attacchi incontrollati di un pianto nevrastenico e senza lacrime. Ho lo stomaco infilzato dalla sbarra di ferro che esce dal sedile, riesco a ruotare gli occhi ma la testa mi fa male. Non riesco a vedere niente. La sbarra si scalda al fuoco e mi lacera e ustiona dall’interno, è così calda che dei momenti sembra gelare. Inclino la testa quel che basta per vedere a mala pena il punto dove sono trafitta. Esce tanto sangue, sul tappetino bruciacchiato si stende una macchia ematica come fosse olio.
Non mi risparmio neanche un attimo di quel tripudio di dolore.
Gli strilli sono lentamente caduti nel vuoto e nonostante la paura che facevano mi mancano poiché so che quell’assenza di sfoghi di terrore non può altro che significare che sono rimasta sola e si che nell’auto di corpi ve ne sono quattro di sicuro.
Una nenia flebile che pare una preghiera mi esce dalle labbra ma è niente meno che il delirio poco prima della fine, finalmente i bordi calano e si spengono, l’arancione diventa grigio. Sprofondo con la testa in una massa di grigio a caso, gli occhi mi rimangono aperti, fissi sulle cuffie rosa di Allegra che penzolano giù dal sedile.
Non v’è forza abbastanza per pensare o per lottare, ne la voglia di farlo tantomeno.
Anche la radio dell’auto dentro di noi, sotto il peso di quel che rimane pone fine al suo lamento  strascicante…
 
La scena del muso di un’auto estranea dentro al finestrino è doppia e in bianco e nero, il rumore di uno sfrigolio è il primo a insinuarsi davvero fra le piccole interferenze di suono, una neve bianca e schiumosa sembra nascere dal tettuccio e calare addosso al cimitero di metallo che mi ritrovo intorno, alleviandone i rodimenti. Poi. Dei botti decisi e violenti alle mie spalle che mi muovono appena il corpo ma tanto basta perché la ferita si dilani. Cado su un lato e rimango appesa per la pancia da quella specie di arpione come fossi un pesce all’amo.
Vengo investita da un vento gelido, che si getta come una secchiata d’acqua sul mio corpo, quando la portiera balza via e pur tenendo lo sguardo fermo e sbarrato riesco a vedere con la coda dell’occhio le gambe di un uomo che s’affretta ad andarsene.
Le tinte dei vari oggetti fanno capolino di poco fra le masse incolori, ma ho già capito.
Quest’uomo che giunge a imporsi con quella che crede nobiltà mi vuol strappare alla mia morte. Alla mia famiglia.
Mi tiro su debolmente punto le mani contro il sedile e con uno strappo mi allontano dalla sbarra come ad estrarre un pugnale. Mi sbilancio verso l’esterno e cado sull’asfalto. Il cielo è grigio scuro, il cristallino dell’occhio mette piano a fuoco, adesso è blu.
Una sequela irregolare di piccoli e veloci getti d’aria mi muove la pancia su e giù mentre il sangue mi tinge la pelle e inzuppa il vestito.
Un uomo in divisa mi prende per le spalle io lo strattono, Tu! mi si riavvicina, Tu! inconsapevole intralcio al disegno di Dio!  Lascia che io vada! Dio sa quello che fa! Non dividere la famiglia! Gli cado fra le braccia, mi dimeno per non andare sulla barella. Fammi morire stronzo!!
La neve bianca si infrange con un getto diretto sopra l’auto per estinguere il fuoco. Un estintore.
Il freddo gela il sudore e il sangue di cui sono ricoperta.
L’auto. Non era un’auto, era il furgoncino bianco. Ora è vuoto.
Cado. Il motorino è incastrato sotto la nostra auto, ma il corpo del suo guidatore è lontano di almeno un metro.
Potrebbe essere solo addormentato, ma è in una posa troppo innaturale, non c’è sangue.
Mi caricano di peso sulla barella di peso, dall’alto vedo che continuano a tirare fuori corpi dalla nostra auto.
Vedo una mano graffiata con una catenina girata intorno al polso, il ciondolo è una “A”.
Inizio a gridare! Lancio il primo grido,
«Stai calma, stai calma» mi dicono.
Lancio il secondo, il terzo. Continuo a gridare.
Finché… le ossa mi sembra che si spezzino all’infrangersi del gelo, poi un tepore strano mi circonda la bocca.
Silenzio vuoto, silenzio della mente e della lingua.
E poi. Io non ricordo.

  
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