Buon pomeriggio a tutti.
Oggi è
domenica e, come promesso, ecco a voi il capitolo. Con enorme ritardo,
lo so.
Non sto qui a giustificarmi, perchè chi ha letto l'avviso
avrà capito il motivo del mio ritardo.
Mi limito
solamente a dirvi che ci ho messo un'eternità a sfornare
questo capitolo, l'ho cancellato e ricancellato più volte.
Non essendo mai soddisfatta del risultato.
Anche ora non ne
sono completamente soddisfatta, ma ho deciso di postarlo comunque, per
non farvi aspettare ulteriormente.
Questo non
è un capitolo comunque, è IL capitolo.
L'ho scritto con
il cuore. E mi farebbe davvero molto piacere, sentire il vostro parere.
E' davvero molto importante, per me. :')
Detto questo,
auguro a tutti buona lettura. Ci si legge sotto. ;)
10.
Nessuno è solo.
"La vera
felicità non è in
fondo a un bicchiere,
non è dentro
a una siringa:
la trovi solo nel cuore
di chi
ti ama".
Jim
Morrison.
Pov
Bella
«Vuoi
qualcosa di caldo da bere?».
«Stai
tremando, sicura di non volere una
coperta?».
«Hai
fame? Se sì, posso cucinarti qualcosa,
oppure potremmo ordinare una pizza…».
Alzai gli occhi verso il soffitto,
esasperata.
Era
da più di mezz’ora che Edward continuava
a farmi domande su domande. Inizialmente, quando mi aveva dato la
notizia che
Alice e gli altri avevano preso la sua auto e quindi saremmo rimasti a
casa
solamente io e lui, ero molto agitata. Non sapevo cosa fare, come
comportarmi.
Mi imposi, però, di restare calma e stranamente ci riuscii.
In questo momento,
però, sembrava che io ed Edward ci fossimo invertiti i
ruoli, dato il suo
attuale comportamento. Ringraziai il cielo, almeno, che Alice si era
presa la
briga di avvisare Charlie che non sarei rientrata quella sera.
«Edward»,
lo chiamai, mettendo così a freno
il suo continuo blaterare. «Tranquillo, non ho bisogno di
nulla, davvero. Sto
bene», dissi, cercando di essere convincente.
Si
voltò nella mia direzione, puntando i
suoi occhi verdi nei miei, e ciò bastò a
destabilizzarmi completamente. Mi
passai una mano tra i capelli, regolarizzando il respiro. Era mai
possibile
che, con un semplice e fottuto sguardo, riuscisse a far aumentare i
battiti del
mio cuore?
«E
poi... », cambiai argomento, «sei davvero
convinto che, con questa grandine, le pizzerie effettuino
consegne?». Lo presi
in giro, sorridendo.
«Mi
ero quasi dimenticato che stesse
piovendo», si giustificò, passandosi una mano tra
i capelli e, di fronte alla
sua espressione imbarazzata, scoppiai a ridere.
«Qualcuno,
qui, mi sta prendendo in giro?»,
domandò retoricamente, alzando un sopracciglio.
«Chi?
Io non lo farei mai», mi difesi,
portando innocentemente le mani avanti, reprimendo un sorriso.
Incrociò le
braccia al petto, sbuffando, e sbatté un piede per terra; mi
sembrava un
bambino piccolo e, anziché smettere, risi ancora
più forte.
Reclinò
leggermente il capo, fingendosi
indignato.
«Isabella
Swan». Pronunciò
il mio nome interamente. «Ora le
darò io un buon motivo per ridere,
altroché». Un ghigno si dipinse sul suo
volto, e la cosa non mi piacque per niente.
Si
avvicinò di un passo, e di un altro ancora.
«C-che...?».
Non feci nemmeno in tempo a
finire la frase che, in un lampo, lo ritrovai seduto sul divano accanto
a me.
Mi prese per i fianchi, facendomi sdraiare sul divano. Con una mano mi
bloccò
delicatamente i polsi, mentre con l’altra iniziò a
farmi il solletico.
Iniziai
a ridere come una pazza, dimenandomi
e scalciando, ma senza risultato.
«Edward!»,
strillai, tra una risata e
l’altra.
«Vedo
che ora hai un valido motivo per cui
ridere», mi scimmiottò, continuando con la sua
tortura.
«E-Edward!»,
ripetei, cercando di
allontanarlo. Però, più mi sforzavo, e
più lui si divertiva ad aumentare la
dose.
«Sì?»,
domandò, guardandomi innocentemente.
«Non lo faccio più, giuro! B-basta, n-non
r-respiro!», gridai, tra le risate.
Smise
di farmi il solletico. «Per questa
volta l’hai avuta vinta, Signorina Swan, la prossima volta
non sarai così
fortunata». Scossi lievemente la testa, divertita, e gli
diedi una leggera
spinta, nel tentativo di liberarmi dalla sua presa; però non
avevo fatto bene i
conti e, con quella mia mossa, lui cadde letteralmente sopra di me.
Posò
i palmi delle mani ai lati del mio
corpo, sorreggendosi, facendo così in modo che non mi
schiacciasse. Però,
involontariamente, il suo viso si avvicinò ulteriormente al
mio, tanto che i
nostri nasi si sfiorarono.
Sgranai
gli occhi, trattenendo il respiro.
Tutta quella vicinanza non mi faceva assolutamente bene, proprio per
niente.
Aprii la bocca per parlare, ma dalle mie labbra non uscii alcun suono.
L’unica
cosa che riuscii a fare, fu perdermi nel suo sguardo.
Dal
suo viso sparì ogni traccia di
divertimento; i suoi occhi mi scrutavano intensamente, come se
volessero
leggermi dentro. Ed ero sicura che, se avesse continuato a guardarmi in
quel
modo, ci sarebbe riuscito.
Il
mio sguardo, involontariamente, andò a
posarsi sulle sue labbra carnose, che in quel momento erano leggermente
dischiuse. Mi parve di sentire il suo respiro caldo sul collo.
Alzai di poco la testa, appoggiando la
fronte alla sua.
Posò
una mano sul mio fianco, mentre con
l’altra continuò a sorreggersi, e me lo
accarezzò delicatamente. Il mio corpo
fu invaso da brividi, così chiusi gli occhi, beandomi
appieno di quel piacevole
tocco.
«Isabella»,
ripetè, dolcemente. Il mio nome,
pronunciato dalle sue labbra, appariva come una dolce melodia. Volevo
che lo
ripetesse per tutta la vita.
«Edward…»,
sussurrai flebilmente.
Non
riuscii ad aggiungere altro, perché il
rumore del mio stomaco che brontolava, mi impedii di continuare la
frase.
Edward
si staccò di scatto, fissandomi. Si
rimise seduto, dopodichè scoppiò a ridere.
Feci
una smorfia, infastidita; in quel
momento odiai con tutta me stessa il mio fottuto stomaco. Ma, ancor di
più,
odiai me stessa. Perché, in quel momento, avrei desiderato
che le sue labbra si
posassero sulle mie.
«Qui
c’è qualcuno che ha fame, e menomale che
non avevi bisogno di niente», rise, dandomi un buffetto sulla
guancia.
Arrossii,
improvvisamente imbarazzata.
«Okay,
ammetto di avere un po’ fame, ora»,
mormorai, torcendomi le mani.
Sorrise.
Un sorriso che fu in grado di
mozzarmi il respiro, e far aumentare i battiti del mio cuore. Mi venne
spontaneo ricambiare il suo sorriso, seppur timidamente.
Si
alzò in piedi, porgendomi la mano, in un
chiaro invito. L’afferrai immediatamente, senza esitazione.
«Anche
a me è venuta fame», sorrise.
«Vieni, andiamo di là, che
ti cucino
qualcosa».
Bene,
era anche in grado di cucinare.
Edward
Cullen era una continua scoperta,
avrebbe mai smesso di sorprendermi?
Evidentemente,
no.
«Credo di non aver mai mangiato così
tanto
in tutta la mia vita», bofonchiai, portando entrambe le mani
sulla pancia. Avevo
mangiato due porzioni di lasagne e, per finire, due fette di torta
panna e
fragole che aveva cucinato Esme, la madre di Edward.
«Addirittura»,
ridacchiò. «Questo è niente,
in confronto a ciò che mangiamo di solito. Emmett, poi,
è assolutamente
imbattibile. Mangia peggio di un grizzly!», disse,
lasciandosi cadere sul
divano, accanto a me.
«Anche
tu non scherzi, sai? Molto
probabilmente se non ci fossi stata io, avresti finito per mangiarti da
solo la
torta; poi te la saresti vista tu con l’ira di tua
madre», sorrisi,
immaginandomi la scena. «Alice mi ha riferito che
l’aveva cucinata
appositamente per gli ospiti».
«Hai
ragione, molto probabilmente appena lo
verrà a sapere, mi ucciderà. Se la
prenderà solamente con me, povero
innocente», mugugnò, indicandosi teatralmente.
«Con te non oserebbe mai, già ti
adora», mi spiegò infine, sorridendo sghembo.
Arrossii,
imbarazzata. Cercai di non darlo a
vedere, cambiando immediatamente argomento. «Però
non posso darti i torti,
quella torta era davvero squisita. Tua madre è
un’ottima cuoca».
«Ferma,
ferma, ferma», replicò, fingendosi
indignato. «E io? Non sono un cuoco eccellente?»,
domandò, alzando un
sopracciglio.
Picchiettai
un dito sul mento, fingendomi
pensierosa. «Sì dai, devo ammetterlo, anche tu non
sei niente male; le lasagne
erano davvero ottime. Mentre all’inizio, quando mi avevi
informato che avresti
cucinato tu, credevo che mi sarei ritrovata morta
avvelenata», ammisi, dandogli
un pugno scherzoso sulla spalla.
Scoppiò
a ridere, buttando la testa
all’indietro e poggiò, involontariamente, la mano
sulla mia gamba. Trattenni il
respiro, ma non mi mossi.
Quel
tocco mi portò alla mente ciò che era
successo quel pomeriggio, poche ore prima, proprio su quel divano.
Ignorai quei
pensieri e lo guardai, fingendo un sorriso. Molto probabilmente se ne
accorse,
perché puntò i suoi occhi nei miei, fissandomi
intensamente. Mi torturai con i
denti il labbro inferiore e, incapace di sostenere il suo sguardo,
guardai
altrove.
«Hey»,
mi richiamò dolcemente, sfiorandomi
delicatamente la mano.
Feci per voltarmi nella sua direzione, ma qualcosa
catturò la mia attenzione: alla nostra sinistra, accanto
alla porta, vi era una
specie di palco, sul quale vi era situato uno spettacolare pianoforte a
coda.
Mi alzai e, istintivamente, mi avvicinai a quello splendido strumento,
così da
poterlo ammirare da vicino.
Allungai
la mano, accarezzando quella
superficie nera lucente. Improvvisamente gli occhi mi divennero lucidi,
e un
fastidioso nodo s’impossessò della mia gola: mia
madre aveva una forte passione
per la musica e, quando ero piccola, si divertiva a suonare
composizioni, con
me seduta accanto a lei che l’osservavo, incantata. Una delle
principali
melodie che mi dedicava, per augurarmi la buonanotte, era Claire de
Lune, di
Debussy: una delle sue preferite.
«Isabella?».
La voce di Edward, alle mie
spalle, mi fece sobbalzare; ero totalmente persa nei miei pensieri, che
non mi
accorsi che si era avvicinato.
Mi voltai, trovandolo in piedi esattamente
di fronte a me. «S-scusa, n-on ti avevo s-sentito»,
balbettai, cercando di dare
un tono alla mia voce.
«Tutto
bene? Mi sembri strana», sussurrò,
spostandomi delicatamente i capelli dietro l’orecchio. Come
poteva accorgersi,
ogni singola volta, delle mie emozioni?
«Sì,
tutto okay. Stavo guardando questo
splendido pianoforte», mentii, accennando un sorriso.
«E’ di tua madre?»,
domandai, cambiando argomento.
«No,
veramente è mio», rispose pacatamente,
come se fosse la cosa più ovvia al mondo.
“T-tuo?
Tu s-suoni?”, chiesi, strabuzzando
gli occhi, tanto che non mi sarei stupita se da un momento
all’altro fossero
usciti dalle orbite.
Rise,
davanti alla mia espressione sorpresa
o, meglio dire, da pesce lesso. «Sì, è
una delle mie passioni da sempre, da
quando ero bambino».
«Non
lo sapevo», mormorai, stupita.
«Ci
sono tante cose che non sai di me,
Isabella, e io di te».
Aveva
ragione, e quella frase mi fece male,
tanto. Fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso. Perché
era vero, nonostante
ci conoscessimo da quasi due mesi, lui non sapeva praticamente nulla
della mia
vita.
Mi
passai, nervosamente, una mano tra i
capelli.
«Mi
suoneresti qualcosa?», chiesi infine,
sinceramente curiosa di sentirlo suonare. Per poi pentirmi, subito
dopo, della
mia sfacciataggine. «S-sempre se vuoi, ovviamente. Non voglio
assolutamente
obblig-». Posò un dito sulle mie labbra, che al
suo tocco si schiusero
leggermente, mettendo così a freno quel mio assurdo ed
ingarbugliato monologo.
«Mi
farebbe molto piacere», sussurrò,
togliendo il dito dalle mie labbra, prendendo poi posto di fronte al
pianoforte. Sorrise, battendo lievemente la mano sulla sedia vuota, in
un chiaro
invito ad accomodarmi accanto a lui. Invito che non tardai ad eseguire.
Prima
di abbassare gli occhi sui tasti, mi
rivolse un ultimo sguardo e mi sorrise dolcemente.
Dopodichè, le sue dita
affusolate, iniziarono a correre veloci sui tasti d’avorio e
il salone si
riempì del suono di una composizione tanto complicata, tanto
rigogliosa, da non
poter credere che fosse davvero lui a suonarla.
«Questa
è la preferita di mia madre», mi
disse, mentre la musica ci avvolgeva completamente.
«L’hai
scritta tu?», domandai, a bocca
aperta.
«Sì»,
mormorò, imbarazzato, guardandomi di
sfuggita.
La
musica rallentò, si trasformò in qualcosa
di più morbido. Non avevo mai sentito quella sinfonia, ma
tra le ondate di
note, compresi che si trattasse di una ninna nanna.
«Questa,
invece, è una ninna nanna?»,
chiesi, curiosa.
«Sì,
è una ninna nanna, e l’hai ispirata
tu», sussurrò a bassa voce. «Quella
sera, quando hai rischiato di essere
investita, alla fine sei svenuta e sei rimasta qui a dormire;
ricordi?». Annuii
impercettibilmente, incapace di parlare.
«Sono
rimasto sveglio a guardarti mentre
dormivi. Eri così rilassata, così…
Splendida, che in quel momento avrei tanto
voluto che il tempo si fermasse», mi confessò,
continuando a fissare le sue
mani, che velocemente continuavano a muoversi su quei tasti
d’avorio.
Rimasi incantata ad osservarlo per non un
tempo interminabile, fino a quando la canzone che stava suonando, non
giunse
agli ultimi accordi.
Ero
senza parole, letteralmente.
Alzò
lo sguardo, e i nostri occhi
s’incontrarono.
«E’
bellissima, davvero. Io non trovo le
parol-». Mi bloccai, incapace di terminare il discorso. Gli
occhi mi divennero
lucidi, talmente forte era l’emozione che stavo provando in
quel momento. Mi
sporsi dalla sedia e mi avvicinai a lui, posando le mie labbra sulla
sua
guancia in un dolce bacio. «Grazie», mi limitai a
sussurrare, accanto al suo
orecchio.
«Prego».
Sorrise, spostandomi una ciocca di
capelli dietro l’orecchio.
Chiusi
istintivamente gli occhi, a quel
tocco così delicato. La sua mano scese fino alla mia
guancia, dove vi lasciò
una tra le più dolci carezze.
Sorrisi
e mi rilassai, poggiandomi
completamente al palmo della sua mano.
«Sai
una cosa?», la sua voce mi riportò alla
realtà. Aprii gli occhi, e tornai a guardarlo.
«Alla fine la grandine non ha
portato solamente conseguenze negative».
Lo
guardai, confusa, attendendo che
continuasse a parlare.
«Voglio
dire… Sono qui, con te, e al momento
non vorrei essere in nessun altro posto. Sto bene,
così» bisbigliò, fissandomi
intensamente. Mosse lievemente il braccio, nel chiaro gesti di
allontanare la
sua mano dalla mia guancia, ma glielo impedii, posando la mano sinistra
sulla
sua e ne accarezzai teneramente il dorso.
«Anch’io
sto bene qui», sorrisi timidamente
e le mie guance s’imporporarono a quell’ammissione.
Si
mosse dalla sedia, sporgendosi verso di
me. Mi sorrise, dolcemente, avvicinando il suo viso al mio. Si muoveva
lentamente, come se avesse paura che potessi scappare da un momento
all’altro,
ma non poteva sapere che le sue paure erano totalmente infondate.
I
suoi occhi erano puntati nei miei, i
nostri sguardi erano intrecciati. Poggiai una mano sulla sua gamba, e
posai la
fronte contro la sua, chiudendo gli occhi. Molto probabilmente si
avvicinò
ancora, perché riuscii a sentire il suo respiro sulle mie
labbra dischiuse.
Avrei
tanto desiderato fermare il tempo, e
rimanere così per sempre.
«Bella»,
sussurrò, posando la mano libera
sul mio braccio.
Appena
sentii quel nome uscire dalle sue
labbra, m’irrigidii immediatamente. Spalancai gli occhi e,
istintivamente,
balzai in piedi.
«Cosa…?»,
blaterò, visibilmente sorpreso
dalla mia reazione. «Ho fatto qualcosa di male?»,
domandò, alzandosi in piedi,
raggiungendomi.
«No,
no. Non è…», non riuscii nemmeno a dire
una frase di senso compiuto.
«Allora
perché ti sei allontanata?», chiese,
in cerca di una spiegazione.
Aprii
la bocca, pronta a parlare e rassicurarlo,
fingendo che andasse tutto bene. Però le mie buone
intenzioni andarono in fumo
quando si avvicinò e pronunciò nuovamente quel
nome, che mai più avrei voluto
sentire.
«Bella…»,
ripetè, tendendo una mano nella
mia direzione.
Sussultai
e, senza pensarci due volte, mi allontanai
di scatto. Notando la mia reazione, la ritirò velocemente,
guardandomi
dispiaciuto. I suoi occhi emanavano una tristezza infinita, e quello fu
per me
un colpo al cuore.
«Io
credevo che…», iniziò a dire, senza
però
concludere la frase. «Che stupido sono stato»,
sussurrò atono, scuotendo
lievemente il capo per dare enfasi alle sue parole.
«Edward,
no, io…».
«Tu
cosa?» domandò, visibilmente deluso.
«Io…».
Non sapevo cosa dire, le parole non
ne volevano sapere di venir fuori.
«Non
c’è bisogno di spiegazioni, tranquilla.
Ho capito ciò che vuoi dire, ho frainteso le tue intenzioni;
ripeto: sono stato
uno stupido», disse, alzando leggermente la voce.
«Ma ora non ho più voglia di
parlarne. Se hai bisogno di una doccia, il bagno è al piano
superiore. Prima
porta a sinistra», cambiò discorso
così, senza preavviso. Non aspettò neanche
una mia risposta, mi voltò le spalle e si
avvicinò al pianoforte, sistemando
alcuni spartiti.
La
mia presenza, in quel momento, era così
poco gradita, da inventarsi la scusa della doccia?
Scossi
la testa, incredula, e iniziai a
salire le scale. Però, una volta arrivata a metà
percorso, mi ritornarono in
mente le sue parole, sputate con tutta la delusione che provava nei
miei
confronti. Aveva voluto trarre supposizioni di testa sua, arrivando
così alla
conclusione sbagliata. Fui pervasa dalla rabbia, come diavolo si
permetteva?
Scesi di corsa le scale e piombai in
soggiorno, dove lui era ancora lì, a fingersi impegnato con
quei maledetti
spartiti.
«Le
tue conclusioni sono sbagliate,
tremendamente sbagliate». La mia voce lo fece sobbalzare, non
si aspettava di
trovarmi lì; molto probabilmente era totalmente convinto che
io fossi realmente
andata al piano superiore.
«Non
direi», rispose, voltandosi nella mia
direzione.
Aveva
un tono pacato, tranquillo, come se
fosse realmente convinto delle sue supposizioni. Questo non fece altro
che
innervosirmi ulteriormente. Strinsi i pugni e mi morsi la lingua, per
evitare
di aggredirlo verbalmente.
«Tu non capisci niente. Hai sparato un
casino di cazzate, prima!», urlai. Fece per rispondere,
indignato, ma lo
bloccai con un gesto della mano. «Come credi di poter sapere
ciò che mi passa
per la testa, se non mi dai nemmeno il tempo di parlare, eh?! Hai
preferito
voltarmi le spalle e spedirmi al piano superiore con una scusa bella e
buona,
piuttosto che affrontare immediatamente la questione. Sei uno stupido!
La colpa
è stata mia, non tua. Tu non centri niente. E non
è vero, non puoi capire,
proprio per niente. Io volevo que-», mi bloccai.
Io
volevo questo bacio. Ecco,
cosa stavo per dire.
Scossi la testa, sentendo gli occhi
diventarmi lucidi.
«Hai
ragione, tu non sai niente di me, e mai
lo saprai», mormorai infine. Non gli lasciai nemmeno il tempo
di replicare, gli
voltai le spalle e corsi via, salendo le scale.
L’unica
cosa che desideravo, in quel
momento, era allontanarmi da lui. Trovai immediatamente il bagno,
entrai e
chiusi la porta velocemente.
Appoggiai
la schiena contro il legno della
porta, e mi lasciai scivolare, fino a ritrovarmi seduta per terra.
Sentii un
nodo alla gola, e le lacrime minacciavano di uscire da un momento
all’altro.
Strinsi forte le palpebre, per evitare che accadesse e con una gran
forza di volontà riuscii a ricacciarle indietro.
Portai
le ginocchia al petto, e nascosi il
viso tra le mie gambe.
Bella.
Bella. Bella. Bella.
Quel nome continuava a ripetersi
incessantemente nella mia mente, come un disco rotto. Un singhiozzo
sfuggì
dalla mia bocca, ma mi morsi il labbro inferiore, imponendomi di non
piangere.
Regolarizzai il respiro, poco a poco.
Sperai
con tutta me stessa che Edward non
aprisse quella maledetta porta e mi vedesse in quelle condizioni;
fortunatamente le mie preghiere vennero esaudite. Non volevo farmi
vedere in
quelle condizioni.
Rimasi
per un tempo interminabile in quella
posizione, fino a che non trovai la forza di alzarmi. Sospirai, e
sperai
vivamente che il getto d’acqua calda della doccia mi aiutasse
a calmarmi.
***
Scendo,
o non scendo?
Scendo,
o non scendo?
Scendo,
o non scendo?
Continuavo a ripetere questa domanda da
ormai dieci minuti. Non avevo la minima idea di cosa fare,
perciò mi feci
coraggio e optai per la prima opzione.
Sospirai
e, dopo un secondo d’indecisione,
poggiai la mano sulla maniglia. Aprii leggermente la porta e per poco
non
urlai.
Una figura, in ombra, si trovava esattamente davanti a me. Ci misi un
pò a metterla a fuoco.
«Edward!
Che ci facevi qui appartato davanti
alla porta? Mi hai fatto prendere un colpo», portai una mano
al cuore,
terrorizzata.
«E’
da circa un’ora che l’acqua ha messo di
scorrere. Ho aspettato un altro po’, ma dato che non sei
scesa, stavo iniziando
a preoccuparmi», ammise, portandosi una mano tra i capelli,
imbarazzato.
«Preoccupazioni
infondate, puoi vedere con i
tuoi occhi che sto bene», risposi con voce tagliente,
sorpassandolo.
La
sua mano si strinse delicatamente intorno
al mio polso. «Aspetta, non puoi dormire vestita
così. Ti ho portato questa,
sarà un po’ lunga, ma dovrebbe andarti
bene», disse, porgendomi una maglietta. Molto probabilmente
la sua, dedussi dalle dimensioni.
«Grazie»,
risposi, prendendola.
«Puoi
utilizzare la camera di Alice,
stanotte. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, la mia camera è
quella accanto».
«Okay,
grazie, Edward».
«Senti…
Per ciò che è successo
prima…», lo
bloccai, con un cenno del capo. Non volevo ascoltare ciò che
mi voleva dire.
«Non
importa, non è successo niente.
Buonanotte, Edward», lo salutai, con tono impassibile. E,
prima che potesse
rispondere, entrai in camera.
«Buonanotte,
Bella», lo sentii sussurrare,
prima di chiudermi la porta alle spalle.
Lasciai cadere i miei vestiti per terra, ed
indossai la maglia di Edward.
Era
talmente lunga che mi arrivava fino alle
ginocchia.
Avrei
tanto desiderato concludere la serata
in modo diverso. Era stata una giornata splendida, ma avevo rovinato
tutto.
Rovinavo sempre tutto, sempre. Ero
un completo disastro.
Mi
sdraiai e mi accoccolai sotto il piumone,
stringendomi le braccia al petto.
Ero
talmente esausta che mi addormentai
subito, con addosso la maglia di Edward… che emanava il suo
profumo.
***
“L’auto sfrecciava sulla
strada, eravamo diretti verso casa.
L’atmosfera
era allegra;
Renée e Phil non facevano altro che sorridermi, come sempre.
Li
amavo, con tutta me
stessa. Erano la mia vita… La mia famiglia.
L’unica cosa
che rovinava
quella splendida atmosfera era la pioggia, che diveniva sempre
più fitta. Una
luce accecante, una brusca frenata, delle urla e poi… il
nulla.
Un
lampo squarciò il cielo,
seguito da altri”.
Mi
svegliai di soprassalto, dopo aver emesso un grido strozzato. La
pioggia batteva incessantemente sui vetri delle finestre, rompendo il
silenzio
che vi era nella stanza.
“E’ stato solo
un incubo, è stato solo un
incubo”. Mi ripetevo come una mantra, cercando di
calmarmi.
Però, il
rumore
improvviso di un lampo, seguito da un altro e un altro ancora, mi fece
sobbalzare. Stava tuonando forte, esattamente come quella notte, e
d’allora i
tuoni divennero una delle mie peggiori paure.
Il
mio respiro divenne affannoso ed iniziai a tremare come una foglia. Mi
appoggiai contro il muro, priva di forse, e mi lasciai scivolare sul
pavimento.
Mi rannicchiai in un angolino, al buio, portando le ginocchia al petto.
Le
lacrime presero a rigarmi il viso, seguite da singhiozzi
spezzati. Mi morsi
violentemente il labbro inferiore, tentando di frenare
quell’improvvisa crisi
che mi aveva travolta. Sperai che nessuno mi avesse sentita.
Speranza
vana; due secondi dopo sentii la porta della camera aprirsi di scatto,
e dei
passi avvicinarsi a me. Trattenni il fiato, continuando però
a tremare
inesorabilmente.
«Bella?».
La voce di Edward si fece sempre più vicina. Sentii le sue
mani posarsi sulle
mie braccia. «Bella?», ripetè, alzando
leggermente la voce.
Avrei
tanto voluto rispondergli, ma non ci riuscii. Mi limitai a
rannicchiarmi,
ancora di più, su me stessa.
Non
sentii più il pavimento sotto di me, segno che mi aveva
sollevata da terra.
Scese di corsa le scale con me in braccio. Chiusi forte gli occhi e
strinsi la
sua maglia tra i miei pugni. Mi depose su qualcosa di morbido, dedussi
fosse il
divano.
«Bella»,
sussurrò di nuovo, accarezzandomi teneramente il viso.
«Ti prego, guardami»,
implorò.
Mi
resi conto, solo in quel momento, di tenere ancora gli occhi chiusi. Li
aprii,
lentamente, e mi scontrai con due splendide pozze verdi, che mi
osservavano con
preoccupazione. Era inginocchiato accanto a me, e la sua mano era
poggiata
ancora sulla mia guancia.
Tremai,
ancora, e lui se ne accorse immediatamente.
«Hey,
va tutto bene», sussurrò, stringendo le mie dita
con la mano libera. «E’ tutto
okay», ripetè, con tono rassicurante.
«N-no»,
dissi. La mia voce uscì come un flebile sussurro tremante.
«I t-tuoni»,
balbettai.
«Hai
paura dei tuoni?», mi domandò ed io annuii,
tremante.
«Non
può essere solo per questo. Hai avuto una crisi, Bella, eri
sotto shock»,
mormorò. «Ti prego, parlami. Permettimi di
aiutarti», m’implorò, stringendo la
presa sulla mia mano, accarezzandone delicatamente il dorso con
movimenti
circolari.
Scossi
la testa, terrorizzata, e liberai le dita dalla sua stretta.
Si
alzò e si sedette accanto a me, sul divano.
«Quando avrai bisogno di qualcuno
con cui sfogarti, sappi che io ci sono. Oggi, domani, dopo
domani… Sempre.
Quando te la sentirai di parlarmi, io sarò qui, pronto ad
ascoltarti. Non
dimenticarlo», sussurrò, avvicinandosi, e
baciandomi dolcemente la fronte.
Tutta
quella dolcezza non me la meritavo, io non meritavo niente.
Mi
alzai di scatto dal divano e sotto il suo sguardo sbigottito, gli
voltai le
spalle, allontanandomi di alcuni passi. Mi sentivo persa senza lui
accanto,
così mi circondai la vita con le braccia, iniziando a
tremare per l’ennesima
volta.
Aprii
la bocca ed iniziai a parlare, senza nemmeno rendermene conto.
«Quando
avevo cinque anni, mia madre e Charlie divorziarono; così
lui decise di
trasferirsi qui a Forks. I loro rapporti non erano tra i migliori,
soprattutto
perche lui l’amava ancora. Un anno dopo Renée
trovò un nuovo compagno, Phil; un
eccellente giocatore di football e amante dello sport… Un
grande uomo. Quando
venne a scoprirlo, Charlie ne rimase deluso; tanto da ritornare a
Phoenix
solamente nelle festività, lo faceva solo ed esclusivamente
per me. Questo fino
a quando non raggiunsi i dodici anni, poi le visite
diminuirono… fino a
mancare. Quando sono venuta qui, era da tre anni che non lo vedevo,
né
sentivo», raccontai parte della mia vita, e le mie mani si
strinsero a pugno.
Non
sentii nessun rumore alle mie spalle, così capii che Edward
mi stava
ascoltando.
«Quella
parte della mia vita che mancava fu colmata dalla presenza di Phil, che
divenne
come un padre per me. Noi tre eravamo così felici, erano la
mia famiglia»,
bisbigliai. «Una sera, decisi di uscire con gli amici e
passai dalla libreria,
dove trovai il libro che desideravo da mesi: “Orgoglio e
pregiudizio”. Era
stata una giornata pesantissima ed iniziò a piovere, non
avevo la minima voglia
di tornarmene a casa a piedi, così feci loro una telefonata,
implorandoli di
venirmi a prendere. Non se lo fecero ripetere due volte, e in
mezz’ora
arrivarono. Ero così entusiasta del mio nuovo acquisto, che
non smettevo di
parlare», un sorriso amaro si dipinse sul mio viso, al
ricordo di Renée e Phil
che mi prendevano in giro. Mi parve di sentire il suono della loro
risata. «La
pioggia divenne sempre più fitta, e il cielo fu squarciato
da lampi, proprio
come questa notte. Tanto che le auto faticavano a vedere la
strada», un brivido
mi percorse. Aumentai la stretta delle mie braccia intorno alla vita,
tentando
di placare quel senso di vuoto che si era impossessato di me.
Senza
che me ne rendessi conto le lacrime presero a rigarmi le guance; mi
morsi con
forza il labbro inferiore, con l’intento di ricacciarle
indietro.
Due
mani si strinsero delicatamente intorno alle mie braccia, e con un
lieve
strattone mi obbligarono a voltarmi dalla parte opposta. Non riuscii ad
oppormi, e mi voltai, scontrandomi così con il viso
preoccupato di Edward. Ero
talmente presa dal mio racconto, che non mi ero nemmeno resa conto che
si fosse
avvicinato.
Parve
accorgersi, solo in quel momento, dell’acqua salata che
bagnava il mio viso.
Sgranò gli occhi, completamente stupito, e lasciò
la presa sulle mie spalle.
«Bella…»,
sussurrò, posando una mano sulla mia guancia. Mi allontanai
immediatamente,
conscia che quando avrebbe saputo tutta la verità, mi
avrebbe abbandonata anche
lui. Quindi era meglio se mi abituassi già da ora alla
mancanza del tocco delle
sue dita affusolate.
«N-no,
p-perfavore», implorai, con voce flebile. Aprì la
bocca, pronto a parlare, ma
lo bloccai con un gesto della mano. Annuì, titubante, e si
mise le mani in
tasca.
«Chiusi
gli occhi, completamente rilassata, senza valutare la situazione.
Eravamo ad un
incrocio e u-una m-macchina è passata con il rosso, ci ha
t-travolto in
p-pieno», tremai, mentre il ricordo di quella notte
tornò vivo nella mia mente.
«L’unica cosa che ricordo è una luce
accecante, le urla di mia madre e Phil.
Rimasi incosciente per circa due giorni. Mi risvegliai in ospedale,
attaccata a
dei tubi, ero sconvolta; per questo aspettarono un altro giorno per
dirmi che
loro… erano morti», la voce mi
uscì bassa, spezzata dal forte dolore che stavo
provando. Portai una mano al cuore, che batteva
all’impazzata, e cercai di
regolarizzare il respiro.
«Bella»
mormorò flebilmente, avvicinandosi di qualche passo.
Mi
tappai le orecchie al suono di quel nome, non volevo sentire
più niente. Volevo
solamente fuggire da tutto quel dolore che mi stava sommergendo.
«No,
no. Loro mi chiamavano così, no», scossi
energicamente il capo. «Un attimo
prima, erano li accanto a me e un attimo dopo, loro non
c’erano più. Se solo
non mi fossi fatta venire a prendere, loro a quest’ora
sarebbero ancora vivi.
E’ stata colpa mia, tutta colpa mia!», esclamai,
tremando, mentre altre lacrime
bagnarono le mie guance.
Annullò
quei pochi passi che ci separavano e si avvicinò
velocemente, circondandomi le
spalle con le sue braccia. M’irrigidii all’istante,
divenendo un pezzo di
ghiaccio..
«Non
devi toccarmi, hai capito? Lasciami!», sibilai, furiosa,
spingendolo lontano da
me.
In
quel momento il suo viso si trasformò in una maschera di
dolore, ma non me ne
importava. Avrei preferito che si allontanasse, averlo vicino mi faceva
soffrire ancora di più. Sapevo l’emozione che
provava, ora, nei miei confronti:
compassione.
«Io
ti odio. Ti odio. Ti odio!», urlai, furiosa, spingendolo di
nuovo.
Sgranò
leggermente gli occhi, i quali divennero lucidi. «Bella, ti
prego…», la sua
voce non era altro che un flebile sussurro.
«Come
puoi guardarmi ancora in questo modo?! Come puoi farlo, nonostante tu
sappia la
verità su di me? Come puoi?!», urlai, sempre
più arrabbiata e… sofferente.
«Non
è stata colpa tua…»,
bisbigliò, avanzando di un passo.
«Non
ti avvicinare!», gridai, ma lui non mi ascoltò, e
tese una mano nella mia
direzione. «So cosa stai provando in questo momento, ed io
non voglio la tua
pietà. Non la voglio!», indietreggiai, fino a
quando non toccai il muro con le
spalle.
Ignorò
completamente le mie parole. «Non è stata colpa
tua», ripetè nuovamente, con
tono più deciso. I suoi occhi ardevano di
sincerità.
«Basta,
smettila di ripeterlo», mormorai, trattenendo le lacrime.
«Sai
che non è così, non potevi prevederlo. Il destino
è imprevedibile», negò con la
testa, e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«E’
stata colpa mia, cazzo! Solamente colpa
mia», urlai, avvicinandomi al tavolo. In preda ad un attacco
di rabbia,
afferrai il vaso che giaceva su di esso, e lo scaraventai a terra.
Non
guardai la sua reazione a quel mio gesto improvviso; la rabbia che
avevo provato
poco fa scomparve immediatamente, lasciando spazio ad un grande dolore.
«Sarei
dovuta morire io in quell’incidente. Io, non loro»,
sussurrai, lasciando cadere
le braccia lungo i fianchi. «Loro meritavano di vivere, io
no. Sono… niente».
Ero priva di forze, tanto che dovetti appoggiarmi al muro per
sostenermi.
Sì
avvicinò velocemente, tanto velocemente che faticai a
vederlo, e mi prese per
le spalle. «Non voglio mai più sentirti dire una
cosa del genere, mi hai
capito? Mai, mai più, voglio sentire queste cazzate uscire
dalla tua bocca, è
chiaro?», alzò la voce, scuotendomi leggermente.
«Sei una ragazza splendida,
Bella, non dimenticarlo», sussurrò, addolcendo il
tono.
Con
uno strattone mi allontanai, staccandomi nuovamente dalla sua presa.
Le
gambe mi tremarono e non riuscirono più a reggere il peso
del mio corpo, così
mi accasciai a terra, esausta.
Non
fui più in grado di trattenere le lacrime e, presto, mi
rigarono le guance.
Edward
s’inginocchiò accanto a me e cercò di
abbracciarmi, ma ancora una volta, non
glielo permisi. Non volevo la sua pietà, non la volevo.
«Vattene,
non voglio la tua pietà. Vattene». Mi rannicchiai
contro il muro,
allontanandomi maggiormente da lui.
«La
mia non è compassione. Non starei mai accanto a te solamente
per pietà, Bella.
Io ti voglio bene», mormorò, fissandomi
intensamente.
Sgranai
gli occhi, incredula, e il dolore mi mozzò il respiro.
«Perché
sei così dolce con me, perché? Smettila, non lo
merito!», gridai, battendo i
pugni contro il suo petto, costringendolo ad arretrare. «Io
non merito niente»,
terminai in un sussurro, continuando a colpirlo. Non mi
bloccò le mani,
semplicemente non mi toccò, lasciando che continuassi ad
inveire contro di lui.
«Bella…»,
mormorò, sofferente. «Ti voglio bene».
Il bisbiglio di Edward fu in grado di
scuotermi l’anima. La sua dolcezza fu in grado di far
crollare tutte le mie
barriere.
Smisi
di colpirlo e, stremata, mi lasciai cadere in avanti.
Le
sue braccia, prontamente, mi afferrarono. Mi circondò le
spalle e mi strinse
con forza al suo petto. Mi adagiai contro di lui, priva di forze. I
singhiozzi
mi squarciarono il petto, e dei gemiti incontrollati sfuggirono dalle
mie
labbra.
«Mi dispiace tanto, piccola», mi tenne
stretta contro di sè, sfregando la guancia contro la mia
tempia. «Ssh,
va tutto bene, sono qui», sussurrò, portando una
mano sulla mia nuca, affondandola tra i miei capelli;
premendo il mio viso contro il suo petto. Piansi ancora più
forte,
aggrappandomi alla sua maglietta con tutta la forza che avevo, per
paura che
scomparisse da un momento all’altro.
«N-non
l-lasciarmi, t-ti p-prego», implorai flebilmente,
stringendomi a lui con tutte
le mie forze. Automaticamente, le sue braccia mi strinsero con maggiore
forza, quasi fino a farmi mancare il respiro.
«Non
ti lascio, Bella. Sono qui, non ti lascio»,
sussurrò, accarezzandomi
delicatamente la schiena e i capelli. «Non ti lascio, te lo
giuro». Mai parole
risuonarono più vere.
Un
singhiozzo, più forte dei precedenti, mi scosse
completamente, facendomi
sussultare e le sue braccia, ancora una volta, aumentarono la stretta.
«N-non
lasciarmi», continuai a ripetere, come una nenia disperata.
«Ssh,
io sono qui. Potrai sempre contare su di me, sono qui. Non ti
lascio», ripetè
con voce dolce e decisa allo stesso tempo, cullandomi dolcemente.
Continuai
a piangere, incapace di fare altro. «Sfogati, io sono qui.
Sfogati», mormorò.
Ascoltai
le sue parole, e strinsi la presa delle mie dita intorno alla sua
maglia.
«Ti
voglio bene, Bella», bisbigliò al mio orecchio,
continuando a cullarmi ed a
carezzarmi teneramente. Affondai ancora di più il viso nel
suo petto caldo e
accogliente, sentendomi, per la prima volta, a casa.
Pian
piano, il mio respiro cominciò a regolarizzarsi; le palpebre
a farsi sempre più
pesanti, ed iniziarono a tremolare.
Lui
se ne accorse. «Dormi, Bella. Ci sono qui io accanto a te.
Dormi, non ti lascio»,
sussurrò, continuando a stringermi a sé,
depositando teneri baci sul mio capo.
Rassicurata
da quelle parole, chiusi definitivamente gli occhi. Mi lasciai andare,
addormentandomi tra le braccia calde e confortanti di Edward,
accompagnata dal
suo profumo.
Per
una volta non mi sentii sola.
Mi
sentii, finalmente, a casa.
Ringrazio di cuore chi è arrivato fin qui.
Grazie di cuore alle 12 persone che hanno recensito. E' davvero
importante, per me, il vostro parere.
Grazie di cuore anche a chi mi ha aggiunta tra le seguite (189),
chi tra i preferiti (70),
chi tra le ricordate (24).
e infine chi mi ha aggiunta tra gli autori preferiti (9).
Spero di avere anche in questo capitolo un vostro parere. (:
GRAZIE DI CUORE A TUTTI. <3
Un bacione, _Dreams_.