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Autore: _Dreams_    10/08/2011    8 recensioni
Bella è una ragazza di Phoenix: dolce, solare, sempre con il sorriso sulle labbra. Purtroppo, un giorno, un evento doloroso le cambierà completamente la vita e questo la spingerà a trasferirsi a Forks, da suo padre. Nasconde la vera se stessa dietro a una maschera, per non soffrire ancora. Però, arriverà Lui, che le cambierà la vita.
Non può piovere per sempre, prima o poi arriverà qualcuno che sarà in grando di rischiararare la tua vita... E, in quel momento, l'unica cosa giusta da fare è ascoltare il proprio cuore.
Estratto del capitolo:
«Tu non sei così Bella. Tu non sei così», iniziò a dire con voce dolce. «Io so come sei veramente, mi hai dato modo di conoscere la vera te stessa», bisbigliò, spostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«La vera te stessa…», sorrise gentilmente, intrecciando le nostre dita, «ha un animo puro, dolce. E tu Bella, hai un cuore grande, talmente grande che neanche ti immagini», mormorò avvicinandosi, posando la sua fronte contro la mia.
«Il mio cuore batte solo per te», sussurrai flebilmente. Le lacrime presero a rigarmi il viso, ma non le fermai. Perché mai avrei dovuto farlo? Le lasciai scendere.
Sul suo viso si dipinse un sorriso, quel sorriso che tanto amavo. Le sue braccia andarono a circondarmi la vita, stringendomi forte al suo petto. Posai la testa nell’incavo del suo collo, stringendomi a lui più che potei; mentre il suo viso andò ad immergersi nei miei capelli.
«Tu. Sei tu la mia vita», mi sussurrò nell’orecchio, posandomi poi un dolce bacio sulla fronte.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
Capitoli:
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Buon pomeriggio a tutti.
Oggi è domenica e, come promesso, ecco a voi il capitolo. Con enorme ritardo, lo so.
Non sto qui a giustificarmi, perchè chi ha letto l'avviso avrà capito il motivo del mio ritardo.

Mi limito solamente a dirvi che ci ho messo un'eternità a sfornare questo capitolo, l'ho cancellato e ricancellato più volte. Non essendo mai soddisfatta del risultato.
Anche ora non ne sono completamente soddisfatta, ma ho deciso di postarlo comunque, per non farvi aspettare ulteriormente.
Questo non è un capitolo comunque, è IL capitolo.
L'ho scritto con il cuore. E mi farebbe davvero molto piacere, sentire il vostro parere. E' davvero molto importante, per me. :')
Detto questo, auguro a tutti buona lettura. Ci si legge sotto. ;)


10. Nessuno è solo.

"La vera felicità non è in fondo a un bicchiere,
non è dentro a una siringa:
la trovi solo nel cuore di chi ti ama".

Jim Morrison.

Pov Bella

«Vuoi qualcosa di caldo da bere?».
«Stai tremando, sicura di non volere una coperta?».
«Hai fame? Se sì, posso cucinarti qualcosa, oppure potremmo ordinare una pizza…».

Alzai gli occhi verso il soffitto, esasperata.
Era da più di mezz’ora che Edward continuava a farmi domande su domande. Inizialmente, quando mi aveva dato la notizia che Alice e gli altri avevano preso la sua auto e quindi saremmo rimasti a casa solamente io e lui, ero molto agitata. Non sapevo cosa fare, come comportarmi. Mi imposi, però, di restare calma e stranamente ci riuscii. In questo momento, però, sembrava che io ed Edward ci fossimo invertiti i ruoli, dato il suo attuale comportamento. Ringraziai il cielo, almeno, che Alice si era presa la briga di avvisare Charlie che non sarei rientrata quella sera.
«Edward», lo chiamai, mettendo così a freno il suo continuo blaterare. «Tranquillo, non ho bisogno di nulla, davvero. Sto bene», dissi, cercando di essere convincente.
Si voltò nella mia direzione, puntando i suoi occhi verdi nei miei, e ciò bastò a destabilizzarmi completamente. Mi passai una mano tra i capelli, regolarizzando il respiro. Era mai possibile che, con un semplice e fottuto sguardo, riuscisse a far aumentare i battiti del mio cuore?
«E poi... », cambiai argomento, «sei davvero convinto che, con questa grandine, le pizzerie effettuino consegne?». Lo presi in giro, sorridendo.
«Mi ero quasi dimenticato che stesse piovendo», si giustificò, passandosi una mano tra i capelli e, di fronte alla sua espressione imbarazzata, scoppiai a ridere.
«Qualcuno, qui, mi sta prendendo in giro?», domandò retoricamente, alzando un sopracciglio.
«Chi? Io non lo farei mai», mi difesi, portando innocentemente le mani avanti, reprimendo un sorriso. Incrociò le braccia al petto, sbuffando, e sbatté un piede per terra; mi sembrava un bambino piccolo e, anziché smettere, risi ancora più forte.
Reclinò leggermente il capo, fingendosi indignato.
«Isabella Swan». Pronunciò il mio nome interamente. «Ora le darò io un buon motivo per ridere, altroché». Un ghigno si dipinse sul suo volto, e la cosa non mi piacque per niente.
Si avvicinò di un passo, e di un altro ancora.
«C-che...?». Non feci nemmeno in tempo a finire la frase che, in un lampo, lo ritrovai seduto sul divano accanto a me. Mi prese per i fianchi, facendomi sdraiare sul divano. Con una mano mi bloccò delicatamente i polsi, mentre con l’altra iniziò a farmi il solletico.
Iniziai a ridere come una pazza, dimenandomi e scalciando, ma senza risultato.
«Edward!», strillai, tra una risata e l’altra.
«Vedo che ora hai un valido motivo per cui ridere», mi scimmiottò, continuando con la sua tortura.
«E-Edward!», ripetei, cercando di allontanarlo. Però, più mi sforzavo, e più lui si divertiva ad aumentare la dose.
«Sì?», domandò, guardandomi innocentemente.
«Non lo faccio più, giuro! B-basta, n-non r-respiro!», gridai, tra le risate.
Smise di farmi il solletico. «Per questa volta l’hai avuta vinta, Signorina Swan, la prossima volta non sarai così fortunata». Scossi lievemente la testa, divertita, e gli diedi una leggera spinta, nel tentativo di liberarmi dalla sua presa; però non avevo fatto bene i conti e, con quella mia mossa, lui cadde letteralmente sopra di me.
Posò i palmi delle mani ai lati del mio corpo, sorreggendosi, facendo così in modo che non mi schiacciasse. Però, involontariamente, il suo viso si avvicinò ulteriormente al mio, tanto che i nostri nasi si sfiorarono.
Sgranai gli occhi, trattenendo il respiro. Tutta quella vicinanza non mi faceva assolutamente bene, proprio per niente. Aprii la bocca per parlare, ma dalle mie labbra non uscii alcun suono. L’unica cosa che riuscii a fare, fu perdermi nel suo sguardo.
Dal suo viso sparì ogni traccia di divertimento; i suoi occhi mi scrutavano intensamente, come se volessero leggermi dentro. Ed ero sicura che, se avesse continuato a guardarmi in quel modo, ci sarebbe riuscito.
Il mio sguardo, involontariamente, andò a posarsi sulle sue labbra carnose, che in quel momento erano leggermente dischiuse. Mi parve di sentire il suo respiro caldo sul collo. Alzai di poco la testa, appoggiando la fronte alla sua.
Posò una mano sul mio fianco, mentre con l’altra continuò a sorreggersi, e me lo accarezzò delicatamente. Il mio corpo fu invaso da brividi, così chiusi gli occhi, beandomi appieno di quel piacevole tocco.
«Isabella», ripetè, dolcemente. Il mio nome, pronunciato dalle sue labbra, appariva come una dolce melodia. Volevo che lo ripetesse per tutta la vita.
«Edward…», sussurrai flebilmente.
Non riuscii ad aggiungere altro, perché il rumore del mio stomaco che brontolava, mi impedii di continuare la frase.
Edward si staccò di scatto, fissandomi. Si rimise seduto, dopodichè scoppiò a ridere.
Feci una smorfia, infastidita; in quel momento odiai con tutta me stessa il mio fottuto stomaco. Ma, ancor di più, odiai me stessa. Perché, in quel momento, avrei desiderato che le sue labbra si posassero sulle mie.
«Qui c’è qualcuno che ha fame, e menomale che non avevi bisogno di niente», rise, dandomi un buffetto sulla guancia.
Arrossii, improvvisamente imbarazzata.
«Okay, ammetto di avere un po’ fame, ora», mormorai, torcendomi le mani.
Sorrise. Un sorriso che fu in grado di mozzarmi il respiro, e far aumentare i battiti del mio cuore. Mi venne spontaneo ricambiare il suo sorriso, seppur timidamente.
Si alzò in piedi, porgendomi la mano, in un chiaro invito. L’afferrai immediatamente, senza esitazione.
«Anche a me è venuta fame», sorrise. «Vieni, andiamo di là, che ti cucino qualcosa».
Bene, era anche in grado di cucinare.
Edward Cullen era una continua scoperta, avrebbe mai smesso di sorprendermi?
Evidentemente, no.

***

«Credo di non aver mai mangiato così tanto in tutta la mia vita», bofonchiai, portando entrambe le mani sulla pancia. Avevo mangiato due porzioni di lasagne e, per finire, due fette di torta panna e fragole che aveva cucinato Esme, la madre di Edward.
«Addirittura», ridacchiò. «Questo è niente, in confronto a ciò che mangiamo di solito. Emmett, poi, è assolutamente imbattibile. Mangia peggio di un grizzly!», disse, lasciandosi cadere sul divano, accanto a me.
«Anche tu non scherzi, sai? Molto probabilmente se non ci fossi stata io, avresti finito per mangiarti da solo la torta; poi te la saresti vista tu con l’ira di tua madre», sorrisi, immaginandomi la scena. «Alice mi ha riferito che l’aveva cucinata appositamente per gli ospiti».
«Hai ragione, molto probabilmente appena lo verrà a sapere, mi ucciderà. Se la prenderà solamente con me, povero innocente», mugugnò, indicandosi teatralmente. «Con te non oserebbe mai, già ti adora», mi spiegò infine, sorridendo sghembo.
Arrossii, imbarazzata. Cercai di non darlo a vedere, cambiando immediatamente argomento. «Però non posso darti i torti, quella torta era davvero squisita. Tua madre è un’ottima cuoca».
«Ferma, ferma, ferma», replicò, fingendosi indignato. «E io? Non sono un cuoco eccellente?», domandò, alzando un sopracciglio.
Picchiettai un dito sul mento, fingendomi pensierosa. «Sì dai, devo ammetterlo, anche tu non sei niente male; le lasagne erano davvero ottime. Mentre all’inizio, quando mi avevi informato che avresti cucinato tu, credevo che mi sarei ritrovata morta avvelenata», ammisi, dandogli un pugno scherzoso sulla spalla.
Scoppiò a ridere, buttando la testa all’indietro e poggiò, involontariamente, la mano sulla mia gamba. Trattenni il respiro, ma non mi mossi.
Quel tocco mi portò alla mente ciò che era successo quel pomeriggio, poche ore prima, proprio su quel divano. Ignorai quei pensieri e lo guardai, fingendo un sorriso. Molto probabilmente se ne accorse, perché puntò i suoi occhi nei miei, fissandomi intensamente. Mi torturai con i denti il labbro inferiore e, incapace di sostenere il suo sguardo, guardai altrove.
«Hey», mi richiamò dolcemente, sfiorandomi delicatamente la mano.
Feci per voltarmi nella sua direzione, ma qualcosa catturò la mia attenzione: alla nostra sinistra, accanto alla porta, vi era una specie di palco, sul quale vi era situato uno spettacolare pianoforte a coda. Mi alzai e, istintivamente, mi avvicinai a quello splendido strumento, così da poterlo ammirare da vicino.
Allungai la mano, accarezzando quella superficie nera lucente. Improvvisamente gli occhi mi divennero lucidi, e un fastidioso nodo s’impossessò della mia gola: mia madre aveva una forte passione per la musica e, quando ero piccola, si divertiva a suonare composizioni, con me seduta accanto a lei che l’osservavo, incantata. Una delle principali melodie che mi dedicava, per augurarmi la buonanotte, era Claire de Lune, di Debussy: una delle sue preferite.
«Isabella?». La voce di Edward, alle mie spalle, mi fece sobbalzare; ero totalmente persa nei miei pensieri, che non mi accorsi che si era avvicinato.

Mi voltai, trovandolo in piedi esattamente di fronte a me. «S-scusa, n-on ti avevo s-sentito», balbettai, cercando di dare un tono alla mia voce.
«Tutto bene? Mi sembri strana», sussurrò, spostandomi delicatamente i capelli dietro l’orecchio. Come poteva accorgersi, ogni singola volta, delle mie emozioni?
«Sì, tutto okay. Stavo guardando questo splendido pianoforte», mentii, accennando un sorriso. «E’ di tua madre?», domandai, cambiando argomento.
«No, veramente è mio», rispose pacatamente, come se fosse la cosa più ovvia al mondo.
“T-tuo? Tu s-suoni?”, chiesi, strabuzzando gli occhi, tanto che non mi sarei stupita se da un momento all’altro fossero usciti dalle orbite.
Rise, davanti alla mia espressione sorpresa o, meglio dire, da pesce lesso. «Sì, è una delle mie passioni da sempre, da quando ero bambino».
«Non lo sapevo», mormorai, stupita.
«Ci sono tante cose che non sai di me, Isabella, e io di te».
Aveva ragione, e quella frase mi fece male, tanto. Fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso. Perché era vero, nonostante ci conoscessimo da quasi due mesi, lui non sapeva praticamente nulla della mia vita.
Mi passai, nervosamente, una mano tra i capelli.
«Mi suoneresti qualcosa?», chiesi infine, sinceramente curiosa di sentirlo suonare. Per poi pentirmi, subito dopo, della mia sfacciataggine. «S-sempre se vuoi, ovviamente. Non voglio assolutamente obblig-». Posò un dito sulle mie labbra, che al suo tocco si schiusero leggermente, mettendo così a freno quel mio assurdo ed ingarbugliato monologo.
«Mi farebbe molto piacere», sussurrò, togliendo il dito dalle mie labbra, prendendo poi posto di fronte al pianoforte. Sorrise, battendo lievemente la mano sulla sedia vuota, in un chiaro invito ad accomodarmi accanto a lui. Invito che non tardai ad eseguire.
Prima di abbassare gli occhi sui tasti, mi rivolse un ultimo sguardo e mi sorrise dolcemente. Dopodichè, le sue dita affusolate, iniziarono a correre veloci sui tasti d’avorio e il salone si riempì del suono di una composizione tanto complicata, tanto rigogliosa, da non poter credere che fosse davvero lui a suonarla.
«Questa è la preferita di mia madre», mi disse, mentre la musica ci avvolgeva completamente.
«L’hai scritta tu?», domandai, a bocca aperta.
«Sì», mormorò, imbarazzato, guardandomi di sfuggita.
La musica rallentò, si trasformò in qualcosa di più morbido. Non avevo mai sentito quella sinfonia, ma tra le ondate di note, compresi che si trattasse di una ninna nanna.
«Questa, invece, è una ninna nanna?», chiesi, curiosa.
«Sì, è una ninna nanna, e l’hai ispirata tu», sussurrò a bassa voce. «Quella sera, quando hai rischiato di essere investita, alla fine sei svenuta e sei rimasta qui a dormire; ricordi?». Annuii impercettibilmente, incapace di parlare.
«Sono rimasto sveglio a guardarti mentre dormivi. Eri così rilassata, così… Splendida, che in quel momento avrei tanto voluto che il tempo si fermasse», mi confessò, continuando a fissare le sue mani, che velocemente continuavano a muoversi su quei tasti d’avorio.

Rimasi incantata ad osservarlo per non un tempo interminabile, fino a quando la canzone che stava suonando, non giunse agli ultimi accordi.
Ero senza parole, letteralmente.
Alzò lo sguardo, e i nostri occhi s’incontrarono.
«E’ bellissima, davvero. Io non trovo le parol-». Mi bloccai, incapace di terminare il discorso. Gli occhi mi divennero lucidi, talmente forte era l’emozione che stavo provando in quel momento. Mi sporsi dalla sedia e mi avvicinai a lui, posando le mie labbra sulla sua guancia in un dolce bacio. «Grazie», mi limitai a sussurrare, accanto al suo orecchio.
«Prego». Sorrise, spostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Chiusi istintivamente gli occhi, a quel tocco così delicato. La sua mano scese fino alla mia guancia, dove vi lasciò una tra le più dolci carezze.
Sorrisi e mi rilassai, poggiandomi completamente al palmo della sua mano.
«Sai una cosa?», la sua voce mi riportò alla realtà. Aprii gli occhi, e tornai a guardarlo. «Alla fine la grandine non ha portato solamente conseguenze negative».
Lo guardai, confusa, attendendo che continuasse a parlare.
«Voglio dire… Sono qui, con te, e al momento non vorrei essere in nessun altro posto. Sto bene, così» bisbigliò, fissandomi intensamente. Mosse lievemente il braccio, nel chiaro gesti di allontanare la sua mano dalla mia guancia, ma glielo impedii, posando la mano sinistra sulla sua e ne accarezzai teneramente il dorso.
«Anch’io sto bene qui», sorrisi timidamente e le mie guance s’imporporarono a quell’ammissione.
Si mosse dalla sedia, sporgendosi verso di me. Mi sorrise, dolcemente, avvicinando il suo viso al mio. Si muoveva lentamente, come se avesse paura che potessi scappare da un momento all’altro, ma non poteva sapere che le sue paure erano totalmente infondate.
I suoi occhi erano puntati nei miei, i nostri sguardi erano intrecciati. Poggiai una mano sulla sua gamba, e posai la fronte contro la sua, chiudendo gli occhi. Molto probabilmente si avvicinò ancora, perché riuscii a sentire il suo respiro sulle mie labbra dischiuse.
Avrei tanto desiderato fermare il tempo, e rimanere così per sempre.
«Bella», sussurrò, posando la mano libera sul mio braccio.
Appena sentii quel nome uscire dalle sue labbra, m’irrigidii immediatamente. Spalancai gli occhi e, istintivamente, balzai in piedi.
«Cosa…?», blaterò, visibilmente sorpreso dalla mia reazione. «Ho fatto qualcosa di male?», domandò, alzandosi in piedi, raggiungendomi.
«No, no. Non è…», non riuscii nemmeno a dire una frase di senso compiuto.
«Allora perché ti sei allontanata?», chiese, in cerca di una spiegazione.
Aprii la bocca, pronta a parlare e rassicurarlo, fingendo che andasse tutto bene. Però le mie buone intenzioni andarono in fumo quando si avvicinò e pronunciò nuovamente quel nome, che mai più avrei voluto sentire.
«Bella…», ripetè, tendendo una mano nella mia direzione.
Sussultai e, senza pensarci due volte, mi allontanai di scatto. Notando la mia reazione, la ritirò velocemente, guardandomi dispiaciuto. I suoi occhi emanavano una tristezza infinita, e quello fu per me un colpo al cuore.
«Io credevo che…», iniziò a dire, senza però concludere la frase. «Che stupido sono stato», sussurrò atono, scuotendo lievemente il capo per dare enfasi alle sue parole.
«Edward, no, io…».
«Tu cosa?» domandò, visibilmente deluso.
«Io…». Non sapevo cosa dire, le parole non ne volevano sapere di venir fuori.
«Non c’è bisogno di spiegazioni, tranquilla. Ho capito ciò che vuoi dire, ho frainteso le tue intenzioni; ripeto: sono stato uno stupido», disse, alzando leggermente la voce. «Ma ora non ho più voglia di parlarne. Se hai bisogno di una doccia, il bagno è al piano superiore. Prima porta a sinistra», cambiò discorso così, senza preavviso. Non aspettò neanche una mia risposta, mi voltò le spalle e si avvicinò al pianoforte, sistemando alcuni spartiti.
La mia presenza, in quel momento, era così poco gradita, da inventarsi la scusa della doccia?
Scossi la testa, incredula, e iniziai a salire le scale. Però, una volta arrivata a metà percorso, mi ritornarono in mente le sue parole, sputate con tutta la delusione che provava nei miei confronti. Aveva voluto trarre supposizioni di testa sua, arrivando così alla conclusione sbagliata. Fui pervasa dalla rabbia, come diavolo si permetteva?

Scesi di corsa le scale e piombai in soggiorno, dove lui era ancora lì, a fingersi impegnato con quei maledetti spartiti.
«Le tue conclusioni sono sbagliate, tremendamente sbagliate». La mia voce lo fece sobbalzare, non si aspettava di trovarmi lì; molto probabilmente era totalmente convinto che io fossi realmente andata al piano superiore.
«Non direi», rispose, voltandosi nella mia direzione.
Aveva un tono pacato, tranquillo, come se fosse realmente convinto delle sue supposizioni. Questo non fece altro che innervosirmi ulteriormente. Strinsi i pugni e mi morsi la lingua, per evitare di aggredirlo verbalmente.
«Tu non capisci niente. Hai sparato un casino di cazzate, prima!», urlai. Fece per rispondere, indignato, ma lo bloccai con un gesto della mano. «Come credi di poter sapere ciò che mi passa per la testa, se non mi dai nemmeno il tempo di parlare, eh?! Hai preferito voltarmi le spalle e spedirmi al piano superiore con una scusa bella e buona, piuttosto che affrontare immediatamente la questione. Sei uno stupido! La colpa è stata mia, non tua. Tu non centri niente. E non è vero, non puoi capire, proprio per niente. Io volevo que-», mi bloccai.

Io volevo questo bacio.
Ecco, cosa stavo per dire.

Scossi la testa, sentendo gli occhi diventarmi lucidi.
«Hai ragione, tu non sai niente di me, e mai lo saprai», mormorai infine. Non gli lasciai nemmeno il tempo di replicare, gli voltai le spalle e corsi via, salendo le scale.
L’unica cosa che desideravo, in quel momento, era allontanarmi da lui. Trovai immediatamente il bagno, entrai e chiusi la porta velocemente.
Appoggiai la schiena contro il legno della porta, e mi lasciai scivolare, fino a ritrovarmi seduta per terra. Sentii un nodo alla gola, e le lacrime minacciavano di uscire da un momento all’altro. Strinsi forte le palpebre, per evitare che accadesse e con una gran forza di volontà riuscii a ricacciarle indietro.
Portai le ginocchia al petto, e nascosi il viso tra le mie gambe.

Bella. Bella. Bella. Bella.

Quel nome continuava a ripetersi incessantemente nella mia mente, come un disco rotto. Un singhiozzo sfuggì dalla mia bocca, ma mi morsi il labbro inferiore, imponendomi di non piangere. Regolarizzai il respiro, poco a poco.
Sperai con tutta me stessa che Edward non aprisse quella maledetta porta e mi vedesse in quelle condizioni; fortunatamente le mie preghiere vennero esaudite. Non volevo farmi vedere in quelle condizioni.
Rimasi per un tempo interminabile in quella posizione, fino a che non trovai la forza di alzarmi. Sospirai, e sperai vivamente che il getto d’acqua calda della doccia mi aiutasse a calmarmi.

***

Scendo, o non scendo?
Scendo, o non scendo?
Scendo, o non scendo?

Continuavo a ripetere questa domanda da ormai dieci minuti. Non avevo la minima idea di cosa fare, perciò mi feci coraggio e optai per la prima opzione.
Sospirai e, dopo un secondo d’indecisione, poggiai la mano sulla maniglia. Aprii leggermente la porta e per poco non urlai.
Una figura, in ombra, si trovava esattamente davanti a me. Ci misi un pò a metterla a fuoco.
«Edward! Che ci facevi qui appartato davanti alla porta? Mi hai fatto prendere un colpo», portai una mano al cuore, terrorizzata.
«E’ da circa un’ora che l’acqua ha messo di scorrere. Ho aspettato un altro po’, ma dato che non sei scesa, stavo iniziando a preoccuparmi», ammise, portandosi una mano tra i capelli, imbarazzato.
«Preoccupazioni infondate, puoi vedere con i tuoi occhi che sto bene», risposi con voce tagliente, sorpassandolo.
La sua mano si strinse delicatamente intorno al mio polso. «Aspetta, non puoi dormire vestita così. Ti ho portato questa, sarà un po’ lunga, ma dovrebbe andarti bene», disse, porgendomi una maglietta. Molto probabilmente la sua, dedussi dalle dimensioni.
«Grazie», risposi, prendendola.
«Puoi utilizzare la camera di Alice, stanotte. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, la mia camera è quella accanto».
«Okay, grazie, Edward».
«Senti… Per ciò che è successo prima…», lo bloccai, con un cenno del capo. Non volevo ascoltare ciò che mi voleva dire.
«Non importa, non è successo niente. Buonanotte, Edward», lo salutai, con tono impassibile. E, prima che potesse rispondere, entrai in camera.
«Buonanotte, Bella», lo sentii sussurrare, prima di chiudermi la porta alle spalle.

Lasciai cadere i miei vestiti per terra, ed indossai la maglia di Edward.
Era talmente lunga che mi arrivava fino alle ginocchia.
Avrei tanto desiderato concludere la serata in modo diverso. Era stata una giornata splendida, ma avevo rovinato tutto.
Rovinavo sempre tutto, sempre. Ero un completo disastro.
Mi sdraiai e mi accoccolai sotto il piumone, stringendomi le braccia al petto.
Ero talmente esausta che mi addormentai subito, con addosso la maglia di Edward… che emanava il suo profumo.

***

“L’auto sfrecciava sulla strada, eravamo diretti verso casa.
L’atmosfera era allegra; Renée e Phil non facevano altro che sorridermi, come sempre.
Li amavo, con tutta me stessa. Erano la mia vita… La mia famiglia.

L’unica cosa che rovinava quella splendida atmosfera era la pioggia, che diveniva sempre più fitta. Una luce accecante, una brusca frenata, delle urla e poi… il nulla.
Un lampo squarciò il cielo, seguito da altri”.

Mi svegliai di soprassalto, dopo aver emesso un grido strozzato.
La pioggia batteva incessantemente sui vetri delle finestre, rompendo il silenzio che vi era nella stanza.

E’ stato solo un incubo, è stato solo un incubo”. Mi ripetevo come una mantra, cercando di calmarmi.

Però, il rumore improvviso di un lampo, seguito da un altro e un altro ancora, mi fece sobbalzare. Stava tuonando forte, esattamente come quella notte, e d’allora i tuoni divennero una delle mie peggiori paure.
Il mio respiro divenne affannoso ed iniziai a tremare come una foglia. Mi appoggiai contro il muro, priva di forse, e mi lasciai scivolare sul pavimento. Mi rannicchiai in un angolino, al buio, portando le ginocchia al petto. Le lacrime presero a rigarmi il viso, seguite da singhiozzi spezzati. Mi morsi violentemente il labbro inferiore, tentando di frenare quell’improvvisa crisi che mi aveva travolta. Sperai che nessuno mi avesse sentita.

Speranza vana; due secondi dopo sentii la porta della camera aprirsi di scatto, e dei passi avvicinarsi a me. Trattenni il fiato, continuando però a tremare inesorabilmente.

«Bella?». La voce di Edward si fece sempre più vicina. Sentii le sue mani posarsi sulle mie braccia. «Bella?», ripetè, alzando leggermente la voce.

Avrei tanto voluto rispondergli, ma non ci riuscii. Mi limitai a rannicchiarmi, ancora di più, su me stessa.

Non sentii più il pavimento sotto di me, segno che mi aveva sollevata da terra. Scese di corsa le scale con me in braccio. Chiusi forte gli occhi e strinsi la sua maglia tra i miei pugni. Mi depose su qualcosa di morbido, dedussi fosse il divano.

«Bella», sussurrò di nuovo, accarezzandomi teneramente il viso. «Ti prego, guardami», implorò.
Mi resi conto, solo in quel momento, di tenere ancora gli occhi chiusi. Li aprii, lentamente, e mi scontrai con due splendide pozze verdi, che mi osservavano con preoccupazione. Era inginocchiato accanto a me, e la sua mano era poggiata ancora sulla mia guancia.

Tremai, ancora, e lui se ne accorse immediatamente.

«Hey, va tutto bene», sussurrò, stringendo le mie dita con la mano libera. «E’ tutto okay», ripetè, con tono rassicurante.

«N-no», dissi. La mia voce uscì come un flebile sussurro tremante. «I t-tuoni», balbettai.
«Hai paura dei tuoni?», mi domandò ed io annuii, tremante.

«Non può essere solo per questo. Hai avuto una crisi, Bella, eri sotto shock», mormorò. «Ti prego, parlami. Permettimi di aiutarti», m’implorò, stringendo la presa sulla mia mano, accarezzandone delicatamente il dorso con movimenti circolari.

Scossi la testa, terrorizzata, e liberai le dita dalla sua stretta.

Si alzò e si sedette accanto a me, sul divano. «Quando avrai bisogno di qualcuno con cui sfogarti, sappi che io ci sono. Oggi, domani, dopo domani… Sempre. Quando te la sentirai di parlarmi, io sarò qui, pronto ad ascoltarti. Non dimenticarlo», sussurrò, avvicinandosi, e baciandomi dolcemente la fronte.

Tutta quella dolcezza non me la meritavo, io non meritavo niente.

Mi alzai di scatto dal divano e sotto il suo sguardo sbigottito, gli voltai le spalle, allontanandomi di alcuni passi. Mi sentivo persa senza lui accanto, così mi circondai la vita con le braccia, iniziando a tremare per l’ennesima volta.

Aprii la bocca ed iniziai a parlare, senza nemmeno rendermene conto.

«Quando avevo cinque anni, mia madre e Charlie divorziarono; così lui decise di trasferirsi qui a Forks. I loro rapporti non erano tra i migliori, soprattutto perche lui l’amava ancora. Un anno dopo Renée trovò un nuovo compagno, Phil; un eccellente giocatore di football e amante dello sport… Un grande uomo. Quando venne a scoprirlo, Charlie ne rimase deluso; tanto da ritornare a Phoenix solamente nelle festività, lo faceva solo ed esclusivamente per me. Questo fino a quando non raggiunsi i dodici anni, poi le visite diminuirono… fino a mancare. Quando sono venuta qui, era da tre anni che non lo vedevo, né sentivo», raccontai parte della mia vita, e le mie mani si strinsero a pugno.

Non sentii nessun rumore alle mie spalle, così capii che Edward mi stava ascoltando.

«Quella parte della mia vita che mancava fu colmata dalla presenza di Phil, che divenne come un padre per me. Noi tre eravamo così felici, erano la mia famiglia», bisbigliai. «Una sera, decisi di uscire con gli amici e passai dalla libreria, dove trovai il libro che desideravo da mesi: “Orgoglio e pregiudizio”. Era stata una giornata pesantissima ed iniziò a piovere, non avevo la minima voglia di tornarmene a casa a piedi, così feci loro una telefonata, implorandoli di venirmi a prendere. Non se lo fecero ripetere due volte, e in mezz’ora arrivarono. Ero così entusiasta del mio nuovo acquisto, che non smettevo di parlare», un sorriso amaro si dipinse sul mio viso, al ricordo di Renée e Phil che mi prendevano in giro. Mi parve di sentire il suono della loro risata. «La pioggia divenne sempre più fitta, e il cielo fu squarciato da lampi, proprio come questa notte. Tanto che le auto faticavano a vedere la strada», un brivido mi percorse. Aumentai la stretta delle mie braccia intorno alla vita, tentando di placare quel senso di vuoto che si era impossessato di me.

Senza che me ne rendessi conto le lacrime presero a rigarmi le guance; mi morsi con forza il labbro inferiore, con l’intento di ricacciarle indietro.

Due mani si strinsero delicatamente intorno alle mie braccia, e con un lieve strattone mi obbligarono a voltarmi dalla parte opposta. Non riuscii ad oppormi, e mi voltai, scontrandomi così con il viso preoccupato di Edward. Ero talmente presa dal mio racconto, che non mi ero nemmeno resa conto che si fosse avvicinato.

Parve accorgersi, solo in quel momento, dell’acqua salata che bagnava il mio viso. Sgranò gli occhi, completamente stupito, e lasciò la presa sulle mie spalle.

«Bella…», sussurrò, posando una mano sulla mia guancia. Mi allontanai immediatamente, conscia che quando avrebbe saputo tutta la verità, mi avrebbe abbandonata anche lui. Quindi era meglio se mi abituassi già da ora alla mancanza del tocco delle sue dita affusolate.

«N-no, p-perfavore», implorai, con voce flebile. Aprì la bocca, pronto a parlare, ma lo bloccai con un gesto della mano. Annuì, titubante, e si mise le mani in tasca.

«Chiusi gli occhi, completamente rilassata, senza valutare la situazione. Eravamo ad un incrocio e u-una m-macchina è passata con il rosso, ci ha t-travolto in p-pieno», tremai, mentre il ricordo di quella notte tornò vivo nella mia mente. «L’unica cosa che ricordo è una luce accecante, le urla di mia madre e Phil. Rimasi incosciente per circa due giorni. Mi risvegliai in ospedale, attaccata a dei tubi, ero sconvolta; per questo aspettarono un altro giorno per dirmi che loro… erano morti», la voce mi uscì bassa, spezzata dal forte dolore che stavo provando. Portai una mano al cuore, che batteva all’impazzata, e cercai di regolarizzare il respiro.

«Bella» mormorò flebilmente, avvicinandosi di qualche passo.

Mi tappai le orecchie al suono di quel nome, non volevo sentire più niente. Volevo solamente fuggire da tutto quel dolore che mi stava sommergendo.

«No, no. Loro mi chiamavano così, no», scossi energicamente il capo. «Un attimo prima, erano li accanto a me e un attimo dopo, loro non c’erano più. Se solo non mi fossi fatta venire a prendere, loro a quest’ora sarebbero ancora vivi. E’ stata colpa mia, tutta colpa mia!», esclamai, tremando, mentre altre lacrime bagnarono le mie guance.

Annullò quei pochi passi che ci separavano e si avvicinò velocemente, circondandomi le spalle con le sue braccia. M’irrigidii all’istante, divenendo un pezzo di ghiaccio..

«Non devi toccarmi, hai capito? Lasciami!», sibilai, furiosa, spingendolo lontano da me.

In quel momento il suo viso si trasformò in una maschera di dolore, ma non me ne importava. Avrei preferito che si allontanasse, averlo vicino mi faceva soffrire ancora di più. Sapevo l’emozione che provava, ora, nei miei confronti: compassione.

«Io ti odio. Ti odio. Ti odio!», urlai, furiosa, spingendolo di nuovo.

Sgranò leggermente gli occhi, i quali divennero lucidi. «Bella, ti prego…», la sua voce non era altro che un flebile sussurro.

«Come puoi guardarmi ancora in questo modo?! Come puoi farlo, nonostante tu sappia la verità su di me? Come puoi?!», urlai, sempre più arrabbiata e… sofferente.

«Non è stata colpa tua…», bisbigliò, avanzando di un passo.

«Non ti avvicinare!», gridai, ma lui non mi ascoltò, e tese una mano nella mia direzione. «So cosa stai provando in questo momento, ed io non voglio la tua pietà. Non la voglio!», indietreggiai, fino a quando non toccai il muro con le spalle.

Ignorò completamente le mie parole. «Non è stata colpa tua», ripetè nuovamente, con tono più deciso. I suoi occhi ardevano di sincerità.

«Basta, smettila di ripeterlo», mormorai, trattenendo le lacrime.

«Sai che non è così, non potevi prevederlo. Il destino è imprevedibile», negò con la testa, e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.

«E’ stata colpa mia, cazzo! Solamente colpa mia», urlai, avvicinandomi al tavolo. In preda ad un attacco di rabbia, afferrai il vaso che giaceva su di esso, e lo scaraventai a terra.

Non guardai la sua reazione a quel mio gesto improvviso; la rabbia che avevo provato poco fa scomparve immediatamente, lasciando spazio ad un grande dolore.

«Sarei dovuta morire io in quell’incidente. Io, non loro», sussurrai, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. «Loro meritavano di vivere, io no. Sono… niente». Ero priva di forze, tanto che dovetti appoggiarmi al muro per sostenermi.

Sì avvicinò velocemente, tanto velocemente che faticai a vederlo, e mi prese per le spalle. «Non voglio mai più sentirti dire una cosa del genere, mi hai capito? Mai, mai più, voglio sentire queste cazzate uscire dalla tua bocca, è chiaro?», alzò la voce, scuotendomi leggermente. «Sei una ragazza splendida, Bella, non dimenticarlo», sussurrò, addolcendo il tono.

Con uno strattone mi allontanai, staccandomi nuovamente dalla sua presa.

Le gambe mi tremarono e non riuscirono più a reggere il peso del mio corpo, così mi accasciai a terra, esausta.

Non fui più in grado di trattenere le lacrime e, presto, mi rigarono le guance.

Edward s’inginocchiò accanto a me e cercò di abbracciarmi, ma ancora una volta, non glielo permisi. Non volevo la sua pietà, non la volevo.

«Vattene, non voglio la tua pietà. Vattene». Mi rannicchiai contro il muro, allontanandomi maggiormente da lui.

«La mia non è compassione. Non starei mai accanto a te solamente per pietà, Bella. Io ti voglio bene», mormorò, fissandomi intensamente.

Sgranai gli occhi, incredula, e il dolore mi mozzò il respiro.

«Perché sei così dolce con me, perché? Smettila, non lo merito!», gridai, battendo i pugni contro il suo petto, costringendolo ad arretrare. «Io non merito niente», terminai in un sussurro, continuando a colpirlo. Non mi bloccò le mani, semplicemente non mi toccò, lasciando che continuassi ad inveire contro di lui.

«Bella…», mormorò, sofferente. «Ti voglio bene». Il bisbiglio di Edward fu in grado di scuotermi l’anima. La sua dolcezza fu in grado di far crollare tutte le mie barriere.

Smisi di colpirlo e, stremata, mi lasciai cadere in avanti.

Le sue braccia, prontamente, mi afferrarono. Mi circondò le spalle e mi strinse con forza al suo petto. Mi adagiai contro di lui, priva di forze. I singhiozzi mi squarciarono il petto, e dei gemiti incontrollati sfuggirono dalle mie labbra.

«Mi dispiace tanto, piccola
», mi tenne stretta contro di sè, sfregando la guancia contro la mia tempia. «Ssh, va tutto bene, sono qui», sussurrò, portando una mano sulla mia nuca, affondandola tra i miei capelli; premendo il mio viso contro il suo petto. Piansi ancora più forte, aggrappandomi alla sua maglietta con tutta la forza che avevo, per paura che scomparisse da un momento all’altro.
«N-non l-lasciarmi, t-ti p-prego», implorai flebilmente, stringendomi a lui con tutte le mie forze. Automaticamente, le sue braccia mi strinsero con maggiore forza, quasi fino a farmi mancare il respiro.

«Non ti lascio, Bella. Sono qui, non ti lascio», sussurrò, accarezzandomi delicatamente la schiena e i capelli. «Non ti lascio, te lo giuro». Mai parole risuonarono più vere.

Un singhiozzo, più forte dei precedenti, mi scosse completamente, facendomi sussultare e le sue braccia, ancora una volta, aumentarono la stretta.

«N-non lasciarmi», continuai a ripetere, come una nenia disperata.

«Ssh, io sono qui. Potrai sempre contare su di me, sono qui. Non ti lascio», ripetè con voce dolce e decisa allo stesso tempo, cullandomi dolcemente.

Continuai a piangere, incapace di fare altro. «Sfogati, io sono qui. Sfogati», mormorò.

Ascoltai le sue parole, e strinsi la presa delle mie dita intorno alla sua maglia.

«Ti voglio bene, Bella», bisbigliò al mio orecchio, continuando a cullarmi ed a carezzarmi teneramente. Affondai ancora di più il viso nel suo petto caldo e accogliente, sentendomi, per la prima volta, a casa.

Pian piano, il mio respiro cominciò a regolarizzarsi; le palpebre a farsi sempre più pesanti, ed iniziarono a tremolare.
Lui se ne accorse. «Dormi, Bella. Ci sono qui io accanto a te. Dormi, non ti lascio», sussurrò, continuando a stringermi a sé, depositando teneri baci sul mio capo.
Rassicurata da quelle parole, chiusi definitivamente gli occhi. Mi lasciai andare, addormentandomi tra le braccia calde e confortanti di Edward, accompagnata dal suo profumo.
Per una volta non mi sentii sola.

Mi sentii, finalmente, a casa.


Ringrazio di cuore chi è arrivato fin qui.
Grazie di cuore alle 12 persone che hanno recensito. E' davvero importante, per me, il vostro parere.

Grazie di cuore anche a chi mi ha aggiunta tra le seguite (189),
chi tra i preferiti (70),
chi tra le ricordate (24).
e infine chi mi ha aggiunta tra gli autori preferiti (9).

Spero di avere anche in questo capitolo un vostro parere. (:

GRAZIE DI CUORE A TUTTI. <3

Un bacione, _Dreams_.

  
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