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Autore: xNewYorker__    14/08/2011    1 recensioni
«Tra tutte le persone di questo mondo, perché a lui?» Chiese Booth, dando un peso assurdo a tutte quelle lacrime riversate sulla camicia. «Conosco i rischi del mio lavoro, ma non pensavo arrivassero a tanto.» Brennan lo guardò. «Pensi che l'abbiano guardato in faccia? Svegliati, Booth!»
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Parker
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Broken Bones'
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Le parole di Brennan avevano messo a tacere la Julian, e le rimaneva un amaro in bocca che la faceva sentire calpestata. E Caroline Julian odiava essere calpestata. Rimase comunque lì, vedendosi le spalle voltate dall’antropologa ed osservandola andare via in silenzio, con quella che a lei sembrava proprio aria di sfida. Non aveva il diritto di sfidarla in questo modo. Booth se la sarebbe cavata male, secondo lei. Ci avrebbe guadagnato soltanto porte chiuse in faccia ad occuparsi del caso del proprio figlio. Ammesso e non concesso che fosse riuscito a risolverlo, non avrebbe più vissuto allo stesso modo, e la tentazione di uccidere sarebbe stata irrefrenabile.
Temperance risalì le scale con passo deciso, guardando verso il piano di sopra alla ricerca dello sguardo di qualche collega. Arrivata lì li trovò tutti dove stavano prima. «Beh…?» Chiese, inarcando un sopracciglio. «Vi aspettavate che non sarei tornata?» Hodgins fece un gesto con la mano, il quale indicava “beh, più o meno”. Angela gli diede una gomitata.
«Uhm…è andata bene.» Disse la dottoressa, sempre seria e impassibile. Booth le fece cenno di avvicinarsi a lui, seguendolo, e si allontanò di qualche metro dagli altri, lei lo seguì a ruota, incerta. «Cosa c’è?» Chiese. «Sono pronto a mettermi al lavoro. Ti va di aiutarmi?» La risposta sarebbe stata senz’altro positiva. Figurarsi se Brennan avrebbe rifiutato di aiutare il suo partner. «Naturalmente» venne detto quasi come un sussurro nel silenzio, che prendeva più volume verso la fine. Lui rispose con un sorriso, mentre ritornava da Hodgins e Angela.  «Cosa ci nascondete?» Chiese quest’ultima, con uno dei suoi sorrisetti maliziosi che, nonostante l’amicizia, facevano venire voglia a Temperance di darle un pugno. «Assolutamente nulla, parlavamo del caso» e come sempre si mise sulla difensiva in modo del tutto irritante.
 
 Nell’abitacolo del SUV di Booth regnava il silenzio più totale, e così rimase la situazione per i dieci minuti seguenti, mentre lui e Brennan si dirigevano verso il distretto dell’FBI per fare un identikit dei probabili assassini di Parker, intravisti un secondo tra il terrore dall’uomo. Sapeva che rivivere quel momento non l’avrebbe aiutato a superarlo, ma doveva fare giustizia per suo figlio come l’aveva fatta per tutti gli altri. Sudava freddo, mentre svoltava a sinistra, e le parole che voleva rivolgere alla collega gli morirono in gola, e rimasero bloccate lì. Provò a scuoterle con un colpo di tosse che la fece voltare.
Rimase in silenzio anche lei, quasi a contemplarlo in un momento in cui non era osservata. Era successo anche altre volte, da quando si conoscevano, ma non molte, a lei non piaceva “spiare”, e per lei guardarlo in quel modo era come spiarlo in un momento d’intimità tra sé e sé. Nessuno avrebbe mai capito quel che c’era all’interno del mondo della dottoressa Brennan.
L’assenza di parole tra loro era sempre stato un sinonimo di “qualcosa non quadra”, ma questa volta sembrava diverso. Erano sì, soli coi loro pensieri, ma profondamente uniti da qualcosa di impercettibile e solo loro.
Booth accostò e si fermò, ancora senza guardarla. Scese, sbattendo lo sportello, come in uno sfogo del nervosismo represso che aveva in corpo. Venne seguito dall’antropologa, ed entrarono nel grande edificio, che al momento appariva così tetro da far paura persino a Seeley. Non era tanto il distretto a procurargli quel nodo in gola, quanto più il ruolo assunto da esso in quel preciso istante della sua vita. Per la prima volta si ritrovava ad essere l’interrogatore e l’interrogato al contempo, ed era una cosa che lo preoccupava parecchio. Temperance se n’era accorta. Lo accompagnò fino alla stanza in cui venivano effettuati gli identikit. All’uscita di essa, di fronte ai due passava gente totalmente terrorizzata. Gente che aveva visto la morte coi propri occhi, gente che v’era scampata, gente che aveva perso una parte di sé. Gente, solo gente. Il lato umano della donna uscì allo scoperto al momento in cui dovette accompagnare il suo partner all’interno.
Non riusciva neppure a muoversi, paralizzato dal dolore proveniente dalla parte del cuore recante il segno della recente recisione.
Gli prese la mano e gliela strinse, come per dargli coraggio. «Puoi farcela…» sussurrò, e queste due parole si dissolsero nel rumore della gente che usciva sbattendo le porte o che urlava dalle altre sale presenti al piano.
Entrarono.
Booth si sedette in silenzio di fronte a quello che chiamava ironicamente “il tizio dei disegni”, con lo sguardo basso di chi soffriva così tanto da non poter respirare. Era bloccato, come una statua marmorea posizionata su uno sgabello in precario equilibrio.
Il tizio dei disegni non si aspettava di vederselo presentare davanti. Non lui, non l’agente Seeley Joseph Booth. Non disse nulla, all’inizio. C’era un motivo se si trovava lì, e sicuramente farglielo pesare non era il suo compito. «Agente Booth…» disse, come a salutare. Poi il suo sguardo arrivò alla Brennan. «dottoressa Brennan.» aggiunse, sempre per salutarla. Lei rispose con un muto cenno del capo. In un certo senso il suo silenzio era una sorta di rispetto nei confronti di Booth, che nel frattempo rimaneva immobile con lo sguardo fisso sulla parte dei pantaloni neri che gli copriva le ginocchia. Il tizio non accennò a parlare, per dargli modo di riuscire a riprendersi. «Agente…ora…possiamo procedere?» chiese, dopo qualche istante. «Oh, certo» sollevò il capo e lo guardò dritto in faccia. La sua espressione diceva “sono pronto”, ma la sua mente non era d’accordo. Era per questo che attese le domande, non voleva farsi scappare nulla di scomodo.
«Iniziamo, allora. Quanti erano?» la sua serietà dimostrava anche un infinito rispetto verso di lui. Lo trattava come una qualsiasi persona venuta lì per fare un identikit. Lo conosceva, più o meno, e sapeva che non era il tipo da desiderare privilegi nei suoi confronti per via del suo ruolo.
«Tre, uomini. Due alti intorno al metro e ottanta, uno leggermente più alto. Niente passamontagna. Possibilmente fratelli, data la somiglianza. Occhi castani, mascella squadrata e capelli castani.» Lì si fermò. «Non ha notato più nulla?» Beh, effettivamente alla descrizione fornita dall’agente corrispondevano fin troppi volti e fin troppi nomi. Non li avrebbero mai trovati in quel modo.
 
Rimasero grossomodo un’ora dentro quella stanza, così conosciuta e così ignota a lui allo stesso tempo. Appena conclusa la più dettagliata descrizione di una persona della sua vita, lui e la Brennan strinsero la mano al “tizio dei disegni” ed uscirono, senza scambiarsi sguardi o parole, neppure sussurri o respiri comuni. Alla fine sapevano soltanto di essere in macchina, insieme. Nient’altro. Quel silenzio, che prima li aveva uniti, iniziava a distruggerli pian piano dall’interno.
«Bones…» disse, spezzandolo, in un sussurro. «Si?» . «…niente» e da lì ricominciò la discesa verso quel baratro oscuro di silenzio. Era come se non riuscissero più a parlarsi, e non era piacevole.
 
Seduti sul divano dell’appartamento di Booth, non parlavano certo di più. Due parole, al massimo, per chiedersi “cosa ti va di mangiare?” o “vuoi della birra?”, poi nulla più. Stavano seduti vicini, ma entrambi guardavano fisso un punto sul muro di fronte, come se l’altro non esistesse, o non ci fosse.
A suo malgrado, quell’assenza di parole servì alla dottoressa per riflettere sull’irrazionalità di tutto quello che stava accadendo. Si sentiva colpevole di quel troppo prolungato silenzio tra loro due, pur non c’entrando nulla. «Booth…» questa volta fu lei a richiamare la sua attenzione. Per un secondo le parve di essere ignorata, ma poi lo vide voltarsi in sua direzione con uno sguardo assente e privo di qualsiasi interesse. Sicuramente non era una cosa che le faceva piacere, niente affatto. «che ti succede?» domandò, appoggiandosi alla spalliera. «Niente, rifletto…» rispose, con la noncuranza di prima che faceva sentire Brennan una presenza assolutamente inutile. «Io ho riflettuto…» già, aveva riflettuto fin troppo, quella sera. Il silenzio gliene aveva dato modo. «non posso continuare così.» e diceva questo solo dopo neanche un giorno. Tecnicamente non stavano ancora neanche insieme. «Così come?» . «Così. Guarda…non c’è qualcosa di strano?» . «Cosa?» . «Il silenzio. Dove sono finite le nostre chiacchierate?» . «Adesso stiamo parlando…» . «Non fare lo stupido, sai cosa intendo.» . «Non darmi dello stupido.»
Inarcò un sopracciglio nel guardarlo. «Mi dispiace, ma non posso andare avanti così, non sono la persona giusta.» . «Giusta per cosa? Per sopportarmi in questi momenti difficili? Beh, grazie, Bones!» . «Io non…non volevo dire questo» . «So che volevi dire questo, smettila. Sappiamo entrambi che non sei “umana” e che non puoi capire come io mi senta in questo momento. Capisco che tu ti senta ignorata, ma ho altro a cui pensare, e non puoi farmelo pesare come tutte le altre cose!» Le ultime parole fecero spezzare qualcosa all’interno del “meccanismo” della Brennan. Il cuore, quell’insieme di pulsazioni e battiti, era come spezzato dall’interno. Tacque, non essendo in condizione di dire nulla, in quel momento.
Booth rifletté e smise di respirare per un istante. «Bones, io…io n – non…» provava a rimediare, in qualche modo. Infondo la Brennan era sempre stata lì per lui nei momenti più difficili, non gli aveva mai fatto pesare nulla, aveva sempre cercato al meglio di sollevarlo e di farlo andare avanti. Perché aveva detto quelle parole? Non se ne capacitava neppure lui stesso. Era fuori di sé. Beh, era anche comprensibile, la sua reazione. Aveva appena perso un figlio, mica una partita a scacchi.
«Non mi interessano le tue scuse» disse, quasi facendogli cadere le braccia a terra. E il suo lato umano era ritornato dentro la corazza, molto infondo, in modo che nessuno potesse dire che ne aveva uno. «Bones…non penso davvero quello che ho detto…mi dispiace. Non ho riflettuto, ho detto cose che non pensavo e ho sfogato la mia rabbia su di te come non avrei mai dovuto fare…ti prego, perdonami…» il suo sguardo cercava conforto più di come avesse mai fatto in precedenza. Non sarebbe riuscito ad andare avanti senza di lei.
«Non sono davvero la persona giusta, è a me che dispiace. Ho provato a comprenderti, ma sono dell’opinione che dovresti rimanere un po’ da solo a riflettere sulle tue parole e sulle tue azioni, prima di venire ad urlarmi contro» . «Non ho mai urlato contro di te!» . «Per caso hai misurato i decibel?» . «Booones!» . «Stai ancora urlando! Senti, ne riparliamo domani, va bene? Io vado a casa» stavolta non aveva avuto il coraggio di lasciarlo andare, e in quel momento realizzò che non lo avrebbe mai fatto. Lui se ne accorse, nonostante il tono di voce e la piega presa dalla discussione.
«Va bene…buonanotte, Bones…» rimase lì, fermo sul divano, mentre adocchiò qualcosa sul tavolo a poca distanza che non gli piacque affatto. «Aspetta, prima di andare…puoi controllare cosa c’è lì sopra?» Inarcò un sopracciglio. «Ti sembra il caso di chiedermi certe sciocchezze in un momento così?» . «Bones, ti prego!» . «Va bene, va bene!» si diresse al tavolo e prese in mano un bigliettino giallo. Sopra c’erano scritte, quasi incise, due parole in corsivo, inchiostro nero. “Qualcuno morirà”.
Istintivamente mollò la presa e il biglietto svolazzò a terra, mentre lei rimaneva bloccata e fissava Booth con aria decisamente spaventata.
«Cosa c’è?» immaginava qualcosa, nonostante non avesse letto. Un biglietto in casa sua senza che lui ce l’avesse messo era già una cosa strana di suo.
Brennan indicò il biglietto a terra, e lui si piegò a prenderlo e lo lesse. Nel leggerlo si alzò in piedi e andò verso la collega, abbracciandola. «Sta’ tranquilla, non accadrà nulla» . «Magari non a me, ma a te? Sicuro di voler rischiare?» . «Non iniziare con le tue supposizioni e le tue prediche, non adesso» . «Okay, non inizio, ma tu stanotte vieni da me. Sarai più al sicuro» . «D’accordo, se lo dici tu…» in certi casi era meglio non contraddirla, quello che aveva dato era un ordine.
 
Appena usciti dall’appartamento e poi dal palazzo, ad un chilometro di distanza, udirono un rumore che avrebbero preferito non udire più in vita loro. Di colpo, Booth si voltò e vide il fuoco divampare al di fuori delle finestre. Se non avesse ascoltato la collega…qualcuno sarebbe morto. Si voltò anche lei, in seguito, vedendolo non reagire più. «Porc…per fortuna siamo usciti in tempo» riuscì a dire, palesemente allarmata. «Bones…lì…ogni cosa mi ricordava P – Parker… e adesso…»  gli occhi divennero lucidi in pochi secondi. Aveva perso tutto.
Fu lei ad abbracciarlo questa volta, provando a conferirgli quella sicurezza che non poteva più avere all’istante. La storia non sarebbe di certo finita così. Avrebbero trovato i responsabili: non l’avrebbero passata liscia. 
   
 
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