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Autore: Chia_aihC    24/08/2011    1 recensioni
«Mi ucciderai?» sibilò di nuovo, dopo un lungo silenzio da parte del suo carceriere.
Ancora silenzio.
«Sì, credo di sì.»
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1. Inizio

 
«Anghel! Anghel, svegliati!»

Anghel mugugnò qualcosa d’incomprensibile, giusto per far capire che aveva sentito. Nonostante i suoi sforzi di fingersi sveglia, i colpi alla porta non cessarono minimamente. Anzi, ripresero più vigorosi e la voce si fece più insistente.
«Sono sveglia! Sono sveglia!»gridò dopo un attimo.
Anche così, Sofia, la sua coinquilina, non cessò di darle il tormento. Imprecando mentalmente contro se stessa, scese dal letto e aprì la porta della sua stanza.
«Ok, ora sono veramente sveglia!»bofonchiò.
«Sì sì, come no! Hai una faccia che dice l’esatto contrario, mia cara! In ogni caso ho già messo su il caffè; sarà pronto tra un attimo!»le disse Sofia, voltandole le spalle e dirigendosi verso la cucina.
Erano sole in casa.
La sera prima Anghel aveva pregato Sofia di buttarla giù dal letto la mattina successiva, a qualsiasi costo. Doveva recarsi in segreteria il prima possibile per svolgere le pratiche per la laurea. Non poteva permettersi ore interminabili di attesa! E così, eccola in piedi alle 7:30.
Non capitava spesso di vederla alzata così presto. Riusciva ad addormentarsi solo molto tardi, la notte, e quindi dormiva per gran parte della mattinata. Aveva preso un ritmo di vita alquanto anomalo: riposava metà della notte e metà del giorno, più o meno...più di giorno che di notte a pensarci bene.
E quella sera non era stato differente. Aveva preso sonno solo due ore prima della sveglia di Sofia.
Strascicando i piedi si diresse verso la cucina, inciampando quasi nel suo gatto che, svegliato di soprassalto quanto lei, stava ora correndo verso la sua ciotola piena di croccantini.
«Alex, dannazione!»gli gridò contro.
«Allora? Com’è andata questa notte?»le domandò Sofia, versandole il caffè. «Ok, a te tutta la caffettiera da tre, se no mi sa che non ci arrivi in segreteria!»aggiunse poi, dopo averla guardata bene in faccia.
Anghel sorrise.
Viveva con Sofia da tre anni, si erano conosciute il primo anno di università, Sofia frequentava matematica, lei invece aveva scelto lingue e letterature straniere. Vivevano in quella casa dall’inizio della facoltà, era abbastanza vecchia, ma il proprietario l’aveva tenuta degnamente. Godevano di tutti i comfort desiderabili, eccetto la lavastoviglie, ma ad Anghel non seccava lavare i piatti: si divertiva a sentire prima il sapone e poi l’acqua calda scorrere lungo le sue dita. Vivevano in quattro lì dentro: lei, Sofia, Lisa e Claudia. Le ultime due si erano trasferite da poco, frequentavano il loro primo anno ed erano arrivate dallo stesso paese, occupavano l’unica stanza doppia della casa. Erano “a posto”.
Questo, per Anghel, significava che la lasciavano in pace, non la disturbavano né la importunavano. Esattamente come faceva Sofia.
Vivi e lascia vivere.
Così andava bene!
Certo, Sofia la conosceva da più tempo...alcune cose della propria vita Anghel si era persino spinta a raccontargliele. Come ad esempio che erano undici anni che non dormiva quasi mai di notte, ma non le aveva mai spiegato il motivo: quello lo conosceva  solo lei lì, a Padova.
Del resto, aveva scelto di frequentare l’università lontano da casa proprio per evitare che il suo cognome fosse ricollegato all’evento di cronaca che aveva visto coinvolta la sua famiglia undici anni prima. Era quasi impossibile che fosse così noto anche in quella città.
Anghel proveniva da un paese della Toscana, vicino a Siena. Vi avrebbe potuto studiare, come aveva fatto suo fratello, ma non ne aveva mai avuto intenzione. Non appena finito il liceo si era iscritta a Padova senza pensarci due volte: era lontana da casa e in una città non eccessivamente ampia e dispersiva. Si era trovata bene.
«Sofi...per caso sai dove ho messo la scatola con i croccantini di Alex?»domandò, dopo aver rovistato in lungo e in largo per la cucina.
«Hai guardato in camera tua?»le chiese l’amica.
Anghel le rivolse uno sguardo in tralice. E corse in camera. In effetti era lì, appoggiata alla scrivania sopra i libri che stava consultando per la tesi. Che sciocca! Sempre disordinata! Ma dove aveva la testa?
Dopo aver nutrito il suo gatto, ed essersi convenientemente preparata, uscì di casa e si diresse verso la segreteria studenti. Un giorno come tanti altri, nel mezzo della primavera. La città era soleggiata, passeggiare per il centro era un piacere che lei non si negava praticamente mai. Abitava nelle vicinanze della Basilica del Santo, doveva attraversare quasi tutto il centro storico per giungere alla segreteria, ma non aveva importanza. Era una giornata fantastica.
Come molte altre.
Ma quello non era un giorno qualsiasi. Da undici anni a questa parte, quel giorno aveva smesso di essere come tutti gli altri.
Anghel aveva avuto ancora gli incubi, quella notte. “Dannazione, già che non dormo molto, pure quelle poche ore devono esser rovinate?” pensò mentre percorreva la Riviera dei Ponti Romani. Lo stesso sogno, ancora.
 
Un telefono che squilla, la camera di casa sua, in Toscana, tinta di azzurro freddo e blu e nero...suo fratello che entra e si staglia di fronte a lei. Non lo vede chiaramente, ma sa che le sta sorridendo. È buio, lui solo un’ombra scura che le sorride mesto. La chiama per nome, dolcemente, come è solito fare. È sempre protettivo nei suoi confronti, perché lei è piccola e fragile. La chiama ancora e le tende una mano. Le dice “sono qui, Anghel, sarò sempre con te!”, lei gli prende la mano. È bagnata e appiccicosa. Lui si allontana e lei lo chiama ancora, improvvisamente ha paura perché sa che le sue parole sono bugie, sa che non sarà sempre con lei! Perché le ha mentito? E quel sorriso? Perché così triste? Si scosta dal letto e accende la luce e tutta la sua stanza è un mare di sangue. E grida.
 
Sempre lo stesso sogno. Ogni anno. Da undici anni. Dalla notte in cui suo fratello fu ucciso.
Anghel alzò gli occhi al cielo. Era arrivata in via Altinate, non mancava ancora molto...Basta con questi pensieri tristi!
La giornata trascorse tranquilla, come sempre. Consegnò tutti i documenti che doveva consegnare, andò a parlare con il suo relatore di tesi, si rinchiuse in biblioteca per un paio d’ore. E poi ritornò a casa sua.
Sofia era andata a studiare fuori, non sarebbe rientrata fino a quando non le avrebbero chiuso le porte dell’aula studio in faccia. Lisa e Claudia non sarebbero ritornate prima della settimana successiva. Aveva la casa tutta per sé e per Alex. Mise della musica nello stereo dell’ingresso e lasciò che tutto l’ambiente si riempisse di note, poi cominciò a rassettare. Adorava quegli istanti, poteva quasi concedersi una giravolta, un ballo. Alex le girava tra le gambe, danzando con lei. Se lo prese in braccio, affondando il viso nel suo pelo grigio nebbia e ruotando intorno, le note che la trasportavano impedendole di sentire quel senso d’angoscia che l’aveva presa dal risveglio.
Non servì.
Lasciò andare Alex, che cominciava ad agitarsi in maniera insopportabile. Guardò la sua lunga coda pelosa sparire dietro la porta di camera sua e decise di seguirlo. La tapparella era ancora abbassata, la stanza aveva un che di spettrale con la luce artificiale e l’odore di chiuso e di notte che ancora vi si respirava. Alex si era infilato sotto il letto, il suo angolo preferito. Ripensò al primo gatto che aveva avuto. Anche quello era grigio, ma a pelo corto. E gli occhi erano azzurri, non verdi come quelli di Alex. Si chiamava Icaro. Era morto anche lui undici anni fa, lo stesso giorno in cui....
“Basta Anghel! Non è che pensarci tutto il giorno farà cambiare le cose!”
Ma non c’era verso.
La fotografia di famiglia le rimandava quattro sorrisi sbiaditi. Non aveva più fotografie così vere. Non aveva più visto né sua madre né suo padre sorridere in quel modo. Nemmeno lei ne era poi così capace...fingeva il sorriso, ma raramente era spontaneo. Sarebbe dovuta tornare a casa, dopo la tesi, per almeno un paio di mesi, fino a quando non riprendevano i corsi della specializzazione almeno. Non ne aveva voglia, per niente.
I suoi genitori non avevano mai voluto lasciare la loro casa, quella in cui lei e suo fratello Alex erano nati e cresciuti. Troppi ricordi a cui erano affezionati, troppi legami che temevano di rompere andandosene. La camera di Alex era rimasta identica, chiusa a chiave il più delle volte, per tutti quegli anni. Ad Anghel non era permesso entrarvi, le veniva fatto credere che nessuno ci passava più del tempo. Ma sapeva che sua madre, tutte le sere, vi stava per un’ora almeno. A piangere. L’aveva sentita molte volte, nelle sue notti insonni. Non aveva mai detto ai genitori della sua fatica ad addormentarsi, così avevano creduto che le occhiaie e la fiacchezza mattutina fossero causati da una qualche patologia, da una debolezza costituzionale. E le avevano impedito di sforzarsi: non aveva mai praticato sport, a scuola aveva sempre avuto l’esonero da educazione fisica. Le era stato impedito di uscire di casa la sera fino ai diciotto anni. O meglio, gliel’avevano impedito anche dopo! Aveva cominciato ad andare fuori liberamente la sera solo lì, all’università.
Non che lei avesse mai avuto molta voglia di uscire.
Il buio le ricordava perfettamente la notte di undici anni prima. Lo aveva trovato lei...
Alex era sparito da due giorni. I genitori avevano chiamato tutti i suoi amici, gli ospedali e infine la polizia. Interrogati, i suoi compagni erano concordi nel ricordare che era uscito dal “Ground”, il pub del paese, intorno all’una e di averlo visto dirigersi verso casa come sempre. E poi non lo avevano più sentito. Anghel, che non era altro che una bambina di undici anni, si era rinchiusa in camera sua per tutti e due i giorni in cui non si era saputo nulla di suo fratello. La polizia aveva controllato a tappeto tutti i dintorni. Quella notte fu la prima volta che lei ebbe l’incubo. Come accadde poi ogni anniversario della sua morte, Alex apparve nella camera della sorella e le sorrise mesto, lasciandola poi in un mare di sangue.
Quella notte Anghel si svegliò urlando. E scese dal letto, correndo.
«Anghel! Anghel amore, che succede?»aveva gridato sua madre.
Ma lei non le aveva prestato ascolto. Il cuore le batteva forte e in pigiama era corsa fuori casa, giù per le scale a piedi nudi e fuori dal portone del palazzo. Suo padre era uscito subito dietro di lei. Ma Anghel era già in strada, incapace di frenarsi, quasi come una sonnambula che non sentiva il freddo della notte, né le voci che le gridavano di fermarsi, né le macchine che le sfrecciavano attorno. Seguiva un’ombra, l’ombra di suo fratello che le aveva sorriso triste e le aveva detto che sarebbe rimasto con lei per sempre. Lo inseguiva, perché lui l’aveva chiamata, per non farlo andare più via da sé. Passò senza rendersene conto il “Ground” e girò nel vicolo buio che faceva angolo con l’ingresso del locale. Non c’era niente. Qualche bidone dell’immondizia e nulla più. Si era fermata ansante in mezzo al vicolo, i piedi gelati a contatto con l’asfalto sporco di fango...aveva piovuto quella mattina.
«Anghel! Anghel per l’amor di Dio, fermati!»suo padre l’aveva rincorsa fino a lì.
A lei non importava. Aveva visto di nuovo l’ombra di Alex ferma, contro il muro del vicolo. Poi era scomparsa, come inghiottita dal terreno. Si era diretta senza paura in quel punto. Era suo fratello, la stava chiamando. Cosa mai doveva temere da lui? C’era un tombino lì, lievemente smosso. Se Alex era sceso, poteva farlo anche lei. Stava giocando, forse? Stava giocando con lei a nascondino, come quando era più piccola? Lo avrebbe preso a pugni, una volta ritrovato. E poi lo avrebbe abbracciato e si sarebbe fatta stringere al suo collo, come sempre. Alex era forte.
Il padre di Anghel aveva visto sua figlia sparire in un tombino non appena girato l’angolo. E l’aveva seguita.
Anghel si era trovata in fondo alla fognatura. Un piccolo sentiero di pietra delineava un passaggio che lei, decisa, aveva preso a percorrere. Il cunicolo era scarsamente illuminato. Alla fine vide una piccola fonte di luce, tenue, ma in quel buio era più che sufficiente per segnarle la strada.
«Anghel! Anghel, che stai facendo qua? Voi sparire anche tu?»
Suo padre l’aveva raggiunta, girata di forza, e ora le teneva le spalle strette tra le mani, il viso contratto dalla tensione e segnato dal dolore. Sembrava sul punto di piangere. Anghel l’aveva guardato, sorpresa, quasi sconcertata. Non capiva il perché della sua rabbia.
«Ma papà! Sto andando da Alex!» aveva spiegato con semplicità, indicando il punto luminoso alle sue spalle.
Suo padre aveva alzato lo sguardo e si era bloccato. Fu un attimo, mollò lievemente la tensione e la figlia schizzò via dalla sua stretta. Inutile fermarla ora, così si era deciso a seguirla.
Il corridoio finiva in una piccola stanza quadrata con un tavolo e una sedia posti proprio di fronte all’ingresso. E una candela ormai quasi completamente consumata sul bordo del tavolo, lontano dalla sedia.
«Alex? Alex sei qui? Ti ho trovato!» gridò la bambina, saltando i tre gradini che la separavano dalla stanza e finendo proprio nel centro.
Suo padre dietro di lei.
«Anghel! NO!»
Lo sentì gridare.
Troppo tardi.
La mano grande e calda del padre aveva tremato quando era andata a contatto con i suoi occhi, per coprirli, per impedirle di vedere quel che ormai aveva già visto. Addossato al muro, di fronte al tavolo, c’era Alex. Legato mani e piedi da catene pesanti di ferro. Il capo chinato sul petto, come se dormisse. Il petto immobile. Per coperta il suo stesso sangue.
 
Anghel si risvegliò di soprassalto.
Si era addormentata...e non se ne era nemmeno resa conto.
Si alzò ancora più irritata di quanto lo era quella mattina. Era buio. Guardò l’orologio: le 19:30.
“Merda...”pensò distratta. I supermercati avrebbero chiuso dopo poco. E non aveva ancora fatto la spesa.
Uscì di corsa senza nemmeno dare una carezza ad Alex il quale, offeso, si rimise sotto il letto a sonnecchiare. Aveva dato a quel gatto il nome di suo fratello. Avevano entrambi gli occhi verdi. Sua madre detestava quell’animale, ma non aveva avuto cuore di toglierglielo. Quando lei e suo padre erano tornati a casa dall’ospedale, in cui lei aveva riposato per una settimana dopo lo shock causato dalla vista del corpo del fratello, le venne detto che Icaro era morto, perché aveva ingerito veleno per topi. Senza proferire parola, Anghel aveva superato sua madre e si era chiusa in camera sua. Non aveva parlato. Non avrebbe più parlato fino all’età di quindici anni.
I suoi genitori avevano consultato tutti gli specialisti del settore, anche quelli un po’ meno qualificati. Da tutti avevano avuto la stessa risposta: «Parlerà quando vorrà lei. Il suo è un disturbo post-traumatico da stress, lasciatele tempo.» Avevano provato a mandarla in terapia, a darle farmaci, qualsiasi cosa tranne cambiar casa.
Riprese a parlare il giorno in cui, tornando da scuola il primo anno di liceo, trovò per la strada un cucciolo grigio e impolverato, gli occhi verdi come quelli di suoi fratello. Spaurito e tremante. Buttato nel mondo troppo presto. Ricordava di aver pensato “Come me...” quando lo aveva raccolto. Era entrata in casa e corsa in cucina, dove sua madre stava preparando il pranzo.
«Posso tenerlo?» aveva chiesto.
Sua madre si era girata, lasciando cadere il coltello sul banco della cucina. Le lacrime agli occhi. Non lo voleva quel gatto, ma sua figlia aveva parlato. Solo per questo sarebbe potuto rimanere.
Davanti ai suoi Anghel lo chiamava semplicemente Gatto, per non urtarli. Ma quando era sola lo chiamava Alex. Avevano lo stesso sguardo. Non poteva dargli un nome differente.
Il supermercato, per sua fortuna, era ancora aperto e semi deserto. Meglio, nessuna coda alla cassa. Sarebbe tornata a casa in fretta, avrebbe coccolato Alex e preparato la cena anche per Sofia. Uscì dal supermercato con la sporta della spesa stretta in una mano mentre con l’altra tentava di chiudere la borsetta.
Qualcosa frenò la sua corsa. Qualcosa di morbido che però la fece rimbalzare indietro. Quando alzò lo sguardo, incontrò quello di un giovane che poteva avere si e no la sua età. Il viso sereno e tranquillo, come se nulla fosse successo. La guardava senza sorridere e senz’espressioni. Ma al contempo sembrava analizzarla. Era quasi buio, i lampioni erano già accesi e mandavano strane ombre su quel volto estraneo.
«Scusami!» sbottò Anghel.
Si sentiva infastidita da quegli occhi. Così verdi, pensò distratta mentre evitava il ragazzo e tornava a passo svelto verso casa sua.
«Anghel, grazie al cielo ci sei tu!»
Anghel volse lo sguardo, improvvisamente irritata. Vide arrivare Sofia, trafelata, e si trattenne a stento dal darle uno schiaffo. Si volse lievemente verso il ragazzo a cui era andata addosso. Era ancora là, fermo immobile, a guardarla con lo stesso sguardo inespressivo. Aveva sentito di certo il suo nome e la cosa la rendeva inspiegabilmente nervosa.
«Per fortuna che ti sei ricordata di andare a far la spesa! Non abbiamo nulla nel frigo e avremmo dovuto digiunare!»
Sofia non aveva nessuna colpa. E del suo nome quel ragazzo non se ne sarebbe fatto nulla. Quindi le sorrise, mascherando l’irritazione. Si diressero verso casa e passarono una serata in tranquillità. E presto Anghel si dimenticò del giovane. Ma lui non scordò per nulla lei.
 
***
 
Alam si guardò attorno.
Eccolo ancora a Padova. Non era poi così diversa dalle altre città che aveva visto in tutti i suoi viaggi. Ora doveva solo trovare un posto abbastanza riparato in cui sostare. Poggiò a terra il pesante borsone che aveva a tracolla, lasciandolo cadere con un tonfo. Padova era piena di vecchie chiese. Una cripta? No...non aveva tempo di girare per tutte le chiese di quella città per trovarne una sufficientemente buia e nascosta. Aveva bisogno di conoscere l’impianto fognario del luogo...e aveva fame...molta...
Ma prima un nascondiglio!
Si guardò attorno. I cancelli dei giardini reali erano già sbarrati. Questo voleva dire che non ci sarebbe stato nessuno dentro. O quasi comunque. Bene. Meglio. Poteva recuperare cibo e casa.
Nessuno notò uno sbuffo di polvere davanti ai cancelli. Nessuno si accorse della sparizione di un ragazzo vestito di nero.
Alam si accucciò dietro un albero, nel caso che qualcuno fosse passato in quell’istante. Con uno scatto si avvicinò al tombino più vicino e, fulmineo, vi s’infilò dentro richiudendosi il coperchio alle spalle.
«Ehi Andre! Allora, ce l’hai?»
Voci, sopra di lui. Bisbigliavano.
Non erano il massimo, il loro sangue era di sicuro poco pulito, ma meglio di niente! Doveva agire in fretta, se non voleva che si drogassero proprio prima del suo pasto.
Con un altro balzo si attaccò a testa in giù, tenendosi alle fessure del tombino. Poteva vederli, proprio accanto all’albero dietro cui si era nascosto lui. Avevano tirato fuori qualcosa, lo guardavano attentamente, vogliosi, non vedevano l’ora di provarlo.
Che strano...proprio come lui....
Alam piegò la testa di lato. Troppa fame. Smosse il coperchio del tombino, lentamente. Del resto, avrebbe potuto anche far rumore. Era molto vicino ai due, non gli sarebbero scappati, nessuno dei due. Meglio. Aveva fame. Troppa. Ancora un po’ e sarebbe esploso dalla fame.
I due giovani non si accorsero nemmeno di quel che accadde. Non vi fu un grido, solo due ansiti di sorpresa. Poi più nulla.
Alam alzò lo sguardo verso la strada. Una giovane coppia stava passeggiando. Lei rideva, stringendo il braccio a lui, e si dondolava un po’ camminando sui tacchi troppo alti a cui, evidentemente, non era abituata. Lui le sorrideva. Il vampiro piego la testa di lato.
No.
Era sazio. Anche troppo. Questa volta aveva esagerato!
Ma erano tre giorni che non mangiava quasi nulla perché aveva perso tempo a muoversi solo di notte e a dormire di giorno. Non aveva avuto la possibilità di cacciare. La fame era stata troppa, non aveva saputo controllarsi.
Eppure era consapevole che non gli avrebbe fatto bene!
“Ecco, ti sei ingozzato. E ora ti farà male lo stomaco perché hai mangiato velocemente!”pensò, tranquillo.
Con un gesto fluido prese un corpo per mano e, dopo aver controllato che per la strada non girasse più nessuno, si rituffò nel tombino trascinandosi dietro gli avanzi della sua cena.
Erano tre anni che andava e veniva da Padova ininterrottamente. Non vi poteva sostare a lungo. E lei non aveva intenzione di muoversi così spesso. Doveva occuparsi di lei, ma non poteva circoscrivere così marcatamente il territorio di caccia. Lo avrebbero scoperto facilmente.
Del resto, l’ultima volta lo avevano quasi preso...
Per questo ora aveva bisogno di un altro nascondiglio. Quello sotto Prato della Valle non era più sicuro.
Da undici anni la guardava da lontano. Non si avvicinava mai. Il perché non lo sapeva nemmeno lui. Per un qualche motivo aveva la certezza che non avrebbe potuto tenerla con sé, se si fosse mostrato a lei. Non ancora almeno. Lui, che l’aveva cercata per molto tempo, ora non poteva starle accanto. Era fastidioso. Quasi quanto la fame trattenuta per giorni. Ma era la cosa migliore da fare per sopravvivere. Avvicinarsi a lei equivaleva a morire. Allontanarsene portava allo stesso risultato. Rimanere a metà strada non era proprio la soluzione ideale, ma sembrava quella più appetibile.
Quel condotto fognario portava ad un allargamento proprio sotto la cappella degli Scrovegni, almeno secondo i suoi calcoli. Sarebbe andato più che bene, per il momento. Con l’ultimo attacco avevano quasi distrutto il suo nascondiglio. Per poco non crollava il tetto sopra di loro...
Lo stavano braccando, e da molto. Lo sentiva nell’aria, sentiva il loro odore, l’odore del cacciatore. Lo volevano, ad ogni costo. Per cosa era un mistero anche per lui. I vampiri non si nutrono tra loro, questo è certo. Quindi non volevano mangiarlo. E allora cosa mai potevano volere da lui? Non possedeva neanche un tamer...
Va bene! In quel momento non erano nei paraggi. Forse lo stavano ancora cercando tra le Alpi al confine francese. Li doveva aver seminati più o meno in quelle zone, quindi poteva uscire liberamente e andare a controllarla. Non la vedeva da un po’. Guardò i suoi avanzi accasciati per terra. Lo spazio era piccolo, non poteva ammucchiarli. Diede loro fuoco in modo da ridurli in cenere e in un attimo tornò all’aperto, nei giardini dell’arena.
Era ancora presto. Alcuni umani giravano per le strade, nonostante fosse solo lunedì. Sapeva per esperienza che di rado gli uomini si muovono di notte il lunedì sera. Sembra che sia, per loro, una sera diversa dalle altre. Cosa mai avesse di diverso Alam proprio non capiva. Quando avrebbe potuto unirsi al suo tamer glielo avrebbe chiesto. In ogni caso, meglio non correre pericoli inutili. Si era appena rifocillato, sarebbe stato sciocco esporsi ora, nel pieno delle sue energie. Veloce si nascose dietro un albero e ne uscì subito dopo, con l’aspetto di un gatto. Un elegante soriano dagli occhi gialli, un gatto comune.
La visuale non era proprio delle migliori. Ma non aveva importanza. Vedeva bene, anche meglio di un gatto normale. Con qualche balzo da un balcone all’altro arrivò rapido sui tetti. Era anche più agile di un gatto qualsiasi e l’oscurità gli garantiva una certa protezione da occhi indiscreti. Il suo istinto, inoltre, gli diceva che non aveva inseguitori alle sue spalle quella notte.
Non ci mise molto a percorrere la strada che lo separava dalla sua meta. Lei abitava poco distante dalla chiesa più grande della città, dalla finestra poteva vederne le guglie. Con destrezza si pose sul poggiolo della casa di fronte. Da lì aveva la visuale perfetta della camera di lei, di un’altra stanza, abitata da altre umani, e della cucina. Aveva imparato che era specialmente in quest’ultimo ambiente che questi esseri si riunivano con più probabilità tutti assieme. Per il cibo, aveva pensato lui subito. La sua tamer però non amava molto stare in compagnia più del necessario e si richiudeva spesso nella sua stanza appena terminato il suo pasto.
Stavano ancora pranzando. La finestra un po’ aperta. Non poteva avvicinarsi di più. C’era un gatto in quella casa, non gli avrebbe consentito l’accesso. La vide mangiare, in silenzio. L’altra umana non smetteva un attimo di muovere la bocca. E non tanto per ingurgitare qualcosa.
“Che senso hanno tutti quei preparativi se poi non ti nutri?”si chiedeva spesso.
Non era forse più facile come faceva lui? Hai fame, esci, prendi e mangi. Semplice, efficace. La fame sparisce, il corpo sta bene, ti puoi muovere tranquillamente. Quando non hai fame non mangi. Se hai fame e non mangi, per molto almeno, muori. Ecco. Semplice.
Gli umani complicavano troppo le cose.
Piego il capo di lato. La sua tamer aveva finito di mangiare. Si alzò e andò in camera sua. La terza finestra alla sua sinistra si illuminò di colpo. La campana della basilica rintoccò le dieci di sera. La giovane accese il suo computer e iniziò a battere i tasti. Ogni tanto si fermava, guardava un oggetto alla sua destra, poi riprendeva. Qualche volta usciva dalla stanza e andava in cucina... per bere. Alam si accucciò, cercando una posizione più comoda per quel corpo felino. Una volta trovata avrebbe potuto resistere fermo immobile per ore. L’aveva già fatto.
Stanca di battere i tasti, la sua tamer si alzava ancora e si accendeva la televisione. Il campanile rintoccò la mezzanotte. Alam non si muoveva. La sua tamer non si addormentava mai presto. Nemmeno lui dormiva di notte, quindi non doveva essere un problema, no? Certo, era consapevole che lei fosse umana, ma non capiva la necessità del sonno notturno. Passarono altre due ore. Alam si sgranchì le zampe e decise di fare un giro perlustrativo della zona. Era più facile proteggerla quando stava a casa. Si sentiva fortunato per il fatto che uscisse così di rado. Trovava insopportabile doverla seguire tra la folla: rimanere con il suo solito aspetto gli sembrava rischioso e non aveva ancora trovato un animale sufficientemente agile da muoversi in mezzo a tutta quella massa, ma grande abbastanza da non esser schiacciato. Lei usciva sempre solo il mercoledì sera.
Da quel che aveva capito, era quasi un obbligo. La sua tamer doveva andare a confondersi in una massa di corpi per un’ora o due la settimana, tenendo in mano qualcosa da bere.
La prima volta che Alam si era trovato in piazza Erbe il mercoledì sera, aveva avuto quasi un capogiro. Si era sentito euforico, eccitato. Ricordava di aver pensato “Perché ho mangiato prima di uscire?”. Si era trovato davanti un’immensa dispensa di cibo a sua completa disposizione: niente più caccia! Ma aveva dovuto riprendersi in fretta. Doveva tenerla d’occhio, non aveva tempo di nutrirsi. E poi era già sazio. Sarebbe stato solo un capriccio.
Il mercoledì andava sempre da lei a stomaco pieno, per non rischiare. Ma era comunque fastidioso tutto quell’ammasso di corpi e profumi.
Le altre sere era più facile. Lei stava in casa, lui perlustrava la zona circostante, aspettava che si addormentasse e poi tornava nel suo rifugio, per riposarsi anche lui, dopo aver cenato. Era una routine che andava avanti da undici anni. Da quando l’aveva trovata. Doveva proteggerla. Gli veniva naturale quasi quanto mangiare. E aveva anche lo stesso motivo: sopravvivere. Senza di lei, sentiva che non sarebbe salvato.
Ritornò alla sua finestra. Rintoccarono le tre di notte. La luce ancora accesa. Si rimise comodo.
Alle quattro lei spense e si coricò a letto. Intravide la sagoma scura del suo gatto sgusciar da sotto il letto e mettersi alla finestra. Gli occhi verdi del felino incontrarono i suoi. Alam rimase immobile. Quel gatto...
Non lo lasciava avvicinare a lei nemmeno nel sonno. Da anni ormai. Quasi sei anni che non poteva starle accanto mentre dormiva, se non rimanendo sul davanzale della finestra, senza mai poter entrare. Non capiva...forse era perché erano due cacciatori. Ma non aveva importanza. Se lui, Alam, non poteva avvicinarsi, allora anche nessun altro aveva il potere di starle accanto, o di farle del male. Era al sicuro. La zona l’aveva controllata bene, dall’alto e dal basso. Il suo istinto era tranquillo. Chinò il muso in direzione dell’animale. Lo vide quasi muovere il capo allo stesso modo, come rispondendo con un inchino. Quindi, con un balzo, Alam scese da poggiolo e s’incamminò con sembianze umane verso il rifugio.
Erano le cinque di notte. Avrebbe albeggiato tra qualche tempo, doveva procurarsi la cena ora. E non sarebbe stato così facile! “Ingordo! Potevi tenerne un po’ per adesso, no?” si disse, ripensando ai due ragazzi nei giardini. Stava già prendendo in considerazione l’idea di dover andare a dormire a stomaco vuoto quando vide qualcosa muoversi alla sua sinistra. Un lampo nero. Tra le sue mani il collo di un uomo sulla cinquantina, sporco e spettinato, ricoperto di giornali, sollevato da terra. Aveva imparato, in quegli anni, che uomini del genere vivono per la strada. Gli stringeva la gola, tanto da non lasciargli modo di gridare. L’uomo lo guardava con una strana espressione sul viso. L’aveva vista spesso, nei suoi pasti, ma non capiva cosa volesse dire. “Non è esattamente il genere di cibo a cui son abituato, ma in mancanza di altro...” si disse, sospirando.
Quindi, spalancò al bocca. L’espressione di quell’uomo si fece ancora più strana, gli occhi sgranati, la bocca aperta a dismisura eppure storta, le sopracciglia inarcate, le mani che gli afferravano i polsi. Quasi non le sentiva, un tocco leggero sotto la maglietta scura. Alzò lievemente il pollice, con cui aveva bloccato la giugulare, per crearsi uno spazio. Si era portato la gola dell’uomo all’altezza del viso. Non che gli piacesse molto mangiare in piedi, ma era tardi e lui aveva sonno. Il vicolo era buio, nessuno lo avrebbe visto. Lo infastidiva essere guardato da qualcuno mentre mangiava. Con decisione ficcò i canini superiori nella giugulare dell’uomo. Questi sussultò un attimo al suo tocco. Poi morse con i denti dell’arcata inferiore per ampliare il taglio. La carne aveva un sapore orribile. Ma tanto non era quella che avrebbe dovuto mandar giù. Quindi succhiò.
Era quasi disgustoso. Ma mai come il sangue dei due tossici che aveva assaggiato al suo arrivo. Sapeva un po’ di vecchio, questo sì, ma almeno non aveva un retrogusto metallico. Bevve fino a saziarsi. Una mano in tasca, l’altra che sosteneva la preda dal collo. Quando si sentì sazio, lasciò andare la presa e l’uomo cadde riverso a terra. Alam lo guardò sovrappensiero. Poi spostò lo sguardo verso i cassoni dell’immondizia vicini. Sarebbe stato più facile. Perché non poteva buttare i suoi avanzi come facevano gli esseri umani? Se l’era chiesto molte volte. Ma era sempre stato il suo istinto a dargli una risposta.
Quindi si caricò l’uomo sulla spalla e, veloce, corse nel suo rifugio. Nessuno lo avrebbe potuto vedere, neanche se si fosse sporto dalla finestra in quel momento e avesse guardato la strada. Era troppo veloce.
Arrivato, bruciò anche quel corpo e si preparò un qualcosa di simile a un giaciglio con ciò che aveva nella sua sacca da viaggio. Appena fu pronto, sentì le campane, molto in lontananza, scoccare le sei. Tra meno di un’ora sarebbe sorto il sole. Ripensò un attimo al suo tamer.
Ora era lì, a pochi metri di distanza. Finalmente era lì con lei. Avrebbe potuto trovar quello che cercava. Il non poter starle accanto lasciava un senso di vuoto che nessun umano, per quanto pieno di sangue potesse essere, riusciva a riempire.

Alam aveva fame di Anghel.
 
  
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