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Autore: Chia_aihC    15/08/2011    3 recensioni
«Mi ucciderai?» sibilò di nuovo, dopo un lungo silenzio da parte del suo carceriere.
Ancora silenzio.
«Sì, credo di sì.»
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PREMESSA

 

Dolore.

Le spalle lanciavano piccole fitte, come aghi che s’infilavano lentamente e inesorabilmente sotto la pelle. Le braccia non le percepiva nemmeno più, innaturalmente tese sopra la sua testa. La sensibilità tornava nelle vicinanze dei polsi, legati da pesanti catene di ferro duro e tagliente.

Dolore.

Il pavimento sotto di lui era freddo, come il muro cui era appoggiato. Aprì gli occhi per non vedere assolutamente nulla: era avvolto nel buio più totale e questo gli impediva di capire anche la posizione in cui era messo il resto del suo corpo. E tutto attorno a lui c’era un odore nauseante, di chiuso e umido e muffa e qualcos’altro, che gli causava conati di vomito.
«Ti sei risvegliato...»
La voce gli arrivò come un soffio leggero, dinanzi a lui. Era chiaramente una voce maschile, fredda e distaccata.
«Chi sei?» biascicò.
Persino le sue corde vocali non rispondevano più alla sua volontà. Volse la testa attorno, senza scorger nulla, nemmeno una piccola fonte di luce, nemmeno un movimento o uno spostamento d’aria per fargli capire dove si trovava.
«Chi sei?» ripeté a voce più alta.
Ancora nulla. Cercò di muovere le gambe, ma non rispondevano ancora; cercò di divincolare le braccia, ma ottenne solo di tagliarsi i polsi ancor più profondamente e di far scorrere un po’ di sangue.

Un tocco.

Lieve, leggero, più simile a un refolo d’aria che a un contatto fisico. Proprio accanto alle sue catene. Scivolò leggero e impalpabile tra le sue braccia, frenando la goccia di sangue che aveva preso a scorrervi sopra.
«Chi sei?» urlò questa volta, rabbrividendo per quel tocco.
«Qualcuno che fa molto meno rumore di te.» la voce proveniva nuovamente davanti a lui, sempre distante, sempre distaccata, senza traccia d’ironia.
Non poteva esser certo che fosse stato il suo interlocutore a toccarlo, non sapeva quanto era lontano da lui. Ma non l’aveva nemmeno sentito muoversi! Chi diavolo era vicino a lui, allora?

Passò ancora del tempo, in silenzio. Non sapeva nemmeno lui quantificare i minuti che erano trascorsi da quando si era svegliato. Il suo corpo, però, aveva ripreso completamente vita. E forse un po’ gli dispiaceva: ora non erano solo le spalle e i polsi a dolergli, ma tutto. A cominciare dal sedere, poggiato sul freddo pavimento, per finire con i piedi, innaturalmente storti e incatenati anch’essi. E il petto, così tirato a sostener lo sforzo delle spalle. Stava per impazzire.

«Dove mi trovo?» provò a chiedere, con poca speranza di ottenere una qualche risposta.
«Non vedi da solo? Gli occhi ce li hai.» fu la risposta che ottenne.
Quella voce cominciava a irritarlo: lo stava prendendo in giro? Come poteva vedere in quel buio! Eppure, nel tono della risposta ancora una volta non vi era traccia d’ironia, era solo forse un po’ scocciato.
«E’ troppo buio! Non vedo nulla!» provò allora a dire.
«Troppo buio....» ripeté la voce, sempre davanti a lui.
Sembrava quasi sorpresa.
“Ho a che fare con un pazzo squilibrato cretino?” si trovò a pensare, per metà arrabbiato e per metà preoccupato. Ma come diavolo era finito in quella situazione?

L’ultima cosa che ricordava era di essersi chiuso la porta di casa alle spalle, di aver dato da mangiare al gatto di sua sorella, di essersi cambiato e infilato nel letto. Doveva essere l’una di notte quando era rientrato a casa. E poi? Lo squillo di un telefono, se non ricordava male...ma la sua mente non riusciva a ricollegare le immagini. Ricordava perfettamente la sua camera, illuminata da quella luce bluastra che passa dagli spiragli delle tapparelle la notte, la luminosità sufficiente per non andare a sbattere contro il letto, per intravvedere i mobili della propria stanza. Ricordava il rumore fastidioso di un telefono che squillava e di aver maledetto gli scocciatori notturni. Ma non riusciva proprio a rammentare di essersi alzato per rispondere oppure se si era rigirato tra le coperte, sbattendo la testa sotto il cuscino.
Buio.
La sua memoria era buia esattamente come quella stanza.
«Tu davvero non vedi nulla....» sbottò la voce, il tono sembrava quasi quello di un bambino che scopriva per la prima volta qualcosa, come per esempio che il fuoco brucia...
Non gli rispose. Gli sembrava ridicolo! Sicuramente quell’uomo si stava prendendo gioco di lui! Sicuramente aveva un qualche marchingegno che gli permetteva di veder nell’oscurità. Come quegli occhiali a raggi infrarossi che vedeva spesso usare dalle spie nei film che gli piaceva tanto guardare!
«Perché sono qui...» bisbigliò, più a se stesso che all’altro.
«Perché ti ci ho portato io.» gli rispose, con una semplicità disarmante.
«Perché io!» gridò allora.
La situazione cominciava a inquietarlo terribilmente. Era sveglio ormai da un po’ e il suo cervello riprendeva a lavorare in modo lucido. Si trovava chissà dove in compagnia di chissà chi. Incatenato. Non ricordava nulla. La persona che si trovava dinanzi a lui era chiaramente uno squilibrato: o si divertiva a prenderlo in giro oppure era completamente privo di ogni legame con la realtà! Era stato rapito? Per cosa? Per un ricatto? La sua famiglia non era particolarmente ricca, né nota. Suo padre lavorava come impiegato presso un ufficio contabile e la madre era casalinga. Sua sorella andava ancora alle medie, troppo piccola. Velocemente il suo cervello cercava una motivazione valida, ma nemmeno il lavoro del padre, in quell’ufficio, poteva esser vagamente ricollegato a un motivo di rapimento. Allora si trovava sicuramente in balia di uno squilibrato e non era stato rapito...
Cosa poteva volere da lui?
“Calmo! Dannazione, devo rimanere calmo!”
E se si trovava davanti a un serial killer? Non aveva sentito di assassinii nella zona in cui abitava...che lui fosse la sua prima vittima?
Panico panico panico!
“Calma! Non saltare a conclusioni affrettate!” si disse.
“Ma quali conclusioni affrettate?! Sono rinchiuso in un posto buio e puzzolente, legato mani e piedi come fossi un salame! E parlo con qualcuno che non vedo, che sembra venir da marte e che ha il pieno controllo su di me!!”
«Che intenzioni hai?» gli chiese lui allora.
Malgrado tutti gli sforzi che fece, non poté impedire alla propria voce di tremare.
«Al momento? Sono stanco, penso riposerò e poi mi rimetterò a lavorare.» sospirò la voce.
«NON PRENDERMI PER IL CULO, PEZZO DI MERDA!» gridò allora.
“Pessima mossa”, si disse. “Farmi prendere dal panico e aggredirlo! Bravo! Irritalo bene, così se potevi avere qualche possibilità di sopravvivere te le sei giocate tutte!” e il pensiero successivo: “Ma sì...come speravo di liberarmi? Impietosendolo? Se proprio deve uccidermi, che sia alla svelta!”
«Tu mi hai chiesto le mie intenzioni e io te le ho dette. Perché mi insulti?» fu la risposta che ottenne, pacata e distante come tutte le altre.
Rimase spiazzato. Che rispondergli ora? Si agitò lievemente, le catene tintinnarono fastidiosamente tutto attorno a lui. Il buio perenne lo snervava, il dolore era quasi diventato una costante del suo corpo, tanto da non percepirlo più.
«Perché ti agiti tanto?» gli chiese l’altro, tranquillamente.
«Secondo te? Non sono mica steso su un divano e sommerso da cuscini, ti pare?» sbottò lui, sempre incapace di tenere a freno la paura tramutata in rabbia.

Gli venne un terribile dubbio...se l’ultimo ricordo era il suo letto, voleva dire che il tizio lo aveva rapito in casa...che ne era della sua famiglia? Aveva preso solo lui? E se non fosse così? Insomma...abitavano al quarto piano in un condominio della zona residenziale...come aveva fatto a entrare in casa e uscire col suo corpo? Dov’erano i suoi famigliari?...
«Ti sbagli. Non sei mai rientrato a casa questa notte...Ti stai confondendo...» gli rispose l’altro.
Alzò la testa, di scatto, procurandosi così uno strappo muscolare. Aveva ragionato a voce alta senza accorgersene, evidentemente. Altrimenti come poteva avergli risposto?
«Cosa vuoi dire?» chiese, insospettito.
«Che non ti ho preso in casa tua, come credi. Ti ho preso nel vicolo del locale dal quale sei uscito. Quello con l’insegna rossa.» spiegò tranquillo.

Rimase fermo un istante, immobile. Dannazione, aveva ragione lui! La telefonata nel mezzo della notte era arrivata la settimana scorsa. Questo sabato lui era andato al “Ground” con gli amici...c’era la festa di compleanno di Davide...era tornato a casa da solo...come sempre...
«Perché hai preso me? Perché ero da solo, vero?» sussurrò.
«In parte. È più facile, quando girate soli. In parte no, non ne ho veramente bisogno al momento...»
«Bisogno di cosa?» sibilò tra i denti, stretti per evitare che si mettessero a battere e per trattenere l’urlo di rabbia e paura che gli era sorto dentro al sentire quelle parole, al suono di quella voce fredda e distante.
«Mi ucciderai?» sibilò di nuovo, dopo un lungo silenzio da parte del suo carceriere.
Ancora silenzio.
«Sì, credo di sì.» rispose l’altro.

Non un suono, non un tono particolare, non un’inflessione: non c’era gioia, soddisfazione, paura o chissà che altro in quella voce. Nulla. Nulla di nulla! Una sillaba, una semplice constatazione, come affermare che l’acqua bagna.
«Allora fallo subito, maledetto!» gridò lui in risposta. «Che aspetti? Che invecchi legato qui a questo muro, dannato bastardo?»
«Te l’ho già detto. Non è necessario ora. Non ne ho bisogno.» sempre calmo, come se i suoi insulti non lo sfiorassero nemmeno, come se la sua rabbia e la sua paura per lui non fossero che aria smossa.
«Allora perché? Perché mi hai preso?»
«C’è una cosa che ho perso. Mi sembra di ricordare che fosse una cosa importante. Forse sei tu che puoi aiutarmi a ritrovarla.»
Puntò lo sguardo là dove gli sembrava provenire la voce e digrignò i denti:
«Vaffanculo!» scandì bene le sillabe di quell’insulto. «Mi vuoi uccidere e dovrei aiutarti? Sei un cretino!» ringhiò.
«Non vedo motivi per cui tu debba insultarmi. Non c’è niente di personale in quel che ti potrei fare...» rispose l’altro, pacato.
«Vuoi uccidermi! Se permetti c’è eccome qualcosa di personale! Per me!» gridò, esasperato, muovendo le catene e alzando sempre più il tono della voce per sovrastare il rumore.
«No! Non c’è!»
Si bloccò. Per la prima volta percepiva la presenza fisica dell’altro. Una massa grande di fronte a lui, imponente. La voce...la voce sembrava aver preso consistenza, diventando pesante, terribile. E per la prima volta ne ebbe veramente paura. Una paura folle.
Rimase immobile, si sentì come avvolgere da quella presenza, l’odore nauseabondo di quel luogo si fece ancora più pregnante e gli fece venir voglia di vomitare.

«Non c’è niente di personale: tu sei il mio cibo. Se non ti mangio, non sopravvivo. Niente di personale.» ripeté la voce.
E dopo aver detto quelle parole, la presenza si dissolse, la voce tornò incorporea.
Ma la paura rimase...
“Se non ti mangio...Oddio! Un seria killer, cannibale per di più! Oddio, oddio, oddio!” le lacrime cominciarono a scender sul suo viso, incapace di controllarle. Lo avrebbe mangiato, lo avrebbe divorato...non aveva possibilità di salvezza...
«Che cosa fai?» gli chiese l’altro.
Non rispose. Non aveva senso. Non più.
«Che cosa fai?» tornò a chiedergli, con più insistenza.
Era tornata normale, o meglio, come all’inizio. Perché di normale quella voce non aveva assolutamente nulla.
«Vaffanculo...vaffanculo...» ripeté sottovoce.
Che senso avevano tutte quelle domande...che senso aveva tutto questo? aveva solo vent’anni. Si divertiva con gli amici, studiava legge all’università, portava fuori a giocare la sua sorellina e la proteggeva. Doveva andare in vacanza in tenda con gli amici quest’estate, fare il giro di tutta l’Europa in treno...doveva fare ancora un sacco di cose...ma non doveva rispondere a lui. Questo non era stato previsto...
«Ti ho fatto una domanda...»
«CHE CAZZO VUOI? Prima mi dici che mi vuoi uccidere, che non è personale! E poi pretendi pure che sia gentile con te e rispetti le buone maniere?! FOTTITI! Non sarà personale per te, psicopatico di merda, ma quello che vuoi mangiare è il MIO corpo! Quindi per me è personale!»
«Non ho mai detto di voler mangiare il tuo corpo...» rispose l’altro.
La voce di un bambino ingenuo che non riesce a collegare bene tutte le parole, che non comprende i collegamenti astratti. La situazione lo irritò sempre di più:
«Perché diavolo dovrei risponderti? Non ti fai nemmeno vedere, vigliacco! E io dovrei prestarmi ai tuoi giochetti sadici? Prima mi dici che vuoi mangiarmi e ora ritratti? Ma che cazzo sei?» gli gridò contro.
Più che a lui gridò al buio, come aveva fatto da quando si era risvegliato.
«Ah già...l’aveva scordato. Tu non riesci a vedermi...hai detto che per te è troppo buio...mmmh...»
Dopo qualche istante una piccola candela si accese a qualche metro da lui. Era piccola, ma gli ferì comunque gli occhi.
«Così va meglio?» gli disse la voce.

Lentamente l’oscurità si tinse di giallo, lieve, poteva solo vedere le ombre ancora, qualche oggetto come il tavolo su cui la candela era sistemata. Non molto altro. Vide parte del suo corpo: le gambe erano piegate di lato, le caviglie legate da una grossa catena di ferro arrugginita e i jeans impolverati e strappati da un lato. Non indossava più il cappotto nero e nemmeno la felpa leggera, evidentemente glieli aveva levati. Aveva solo la maglietta blu, semplice, anche quella strappata e con un alone sospetto di colore cupo sul fianco sinistro. Era ridotto peggio di quel che si era immaginato...Volse gli occhi intorno.

E gridò.

«ODDIO! ODDIO! ODDIO!»
«Perché gridi? Perché ti agiti?» domandò la voce.
«NON AVVICINARTI MOSTRO!» gridò ancora.
Poteva scorgerlo ora, solo un’ombra che si accucciava lontano dalla candela. Serrò gli occhi per non vedere. Ma ora l’odore che lo aveva nauseato al risveglio aveva un nome: cadaveri...cadaveri in evidente stato di putrefazione.
Dovevano essercene almeno tre attorno a lui. Cadaveri di giovani, due uomini e una donna. Legati, esattamente com’era legato lui. Dovevano trovarsi lì da settimane... si contorse per evitare di vomitarsi sui vestiti.
«Che cosa ti succede? Sei tu che hai chiesto la luce!» sbottò la figura davanti a lui.
“Ti diverti, non è vero, pezzo di merda?” pensò ansimando, con in bocca un sapore amaro e i muscoli del collo che gli dolevano. Ma era la cosa più facile da credere. In realtà, come prima, nella voce di quell’uomo non vi era traccia di divertimento, non sembrava compiacersi di quella situazione. Certo, non sembrava nemmeno dispiaciuto o rammaricato. Era come se per lui tutto quello fosse normale, come se tenere tre cadaveri legati a catene e porvi in mezzo la quarta vittima fosse più che normale!
“Certo! Come no! Venite a vedere il mio bell’arredamento! Lo trovate accogliente? Quando sono solo guardo i volti delle mie vittime e mi tengono compagnia! Vuole un cadavere da salotto signora? Glielo consiglio caldamente!” pensò, sempre più schifato.
«Uccidimi in fretta, ti prego!» disse, ma più che una preghiera sembrava quasi un ordine, se ne accorse anche lui.
«Ti ho già ripetuto che non ne ho bisogno ora.» disse.
Vide l’ombra muoversi, spostare il peso da una parte all’altra. Stava lavorando, o facendo chissà cosa seduto al tavolo su cui poggiava la candela. Aveva messo quella luce il più lontano possibile da se stesso, in modo da rimanere in ombra.
«Se non ti servo come pasto, allora perché diavolo mi tieni qui? Ti diverte giocare col cibo?» ringhiò, cercando di esser sprezzante.
Aveva focalizzato lo sguardo su di lui, cercando di ignorare i tre cadaveri, cosa alquanto difficile per altro. Aveva bisogno di aggredirlo, lo reputava necessario.
«Ti ho già detto anche che mi servi per cercare quello che ho perso. Altrimenti no, non ti avrei preso. Non si gioca col cibo, mai. Il cibo è qualcosa di utile alla sopravvivenza e nulla più, non è un piacere, non è un gioco. Pensavo lo sapessi, credevo fosse una delle vostre regole basilari che v’insegnano da bambini.» rispose, con la solita calma che ormai lo stava facendo andar su tutte le furie, come se stesse ripetendo una lezione mandata a memoria.
«Che diavolo sei, tu?» disse, spiazzato da quella risposta.
Lui si alzò dalla sedia, poggiando sul tavolo quello a cui stava lavorando. Non riusciva a vedere cosa fosse, l’ombra del suo carnefice si stava stagliando ormai davanti a lui. Era ancora solo un’ombra, ma già poteva distinguerne alcune caratteristiche. Non che vi fosse molto da notare, dato che era perfettamente normale, sia d’altezza che di costituzione: né particolarmente alto né particolarmente robusto ecco. Più o meno aveva la sua stessa corporatura. Era vicino ormai, in piedi di fronte a lui. Indossava abiti normali, un paio di jeans scoloriti e una maglia nera a maniche lunghe. Chissà perché quando lo aveva visto muoversi si era immaginato indossasse un lungo cappotto ampio...o un mantello...
Avrebbe potuto vederlo in volto, ma non osava alzare lo sguardo. Doveva esser lui a chinarsi, almeno questo glielo doveva! “Stupido senso d’orgoglio...” si disse, ma non desiderava affatto rinunciarvi.
L’altro si chinò.
Un viso normale: corti capelli castano scuro, lisci e spettinati. Un viso pulito con la bocca ben disegnata, le ragazze lo avrebbero trovato carino, sì, ma nulla di più. Persino lo sguardo era normale, forse un po’ ingenuo ecco. Un bambino, esattamente come aveva pensato sentendolo parlare. Lo sguardo pacato e ingenuo di un bambino. Ma non limpido. C’era come una patina offuscata che glielo velava, rendendogli gli occhi verdi vagamente cupi.
Ma tutto considerato a prima vista era un ragazzo più o meno della sua età perfettamente anonimo. Insospettabile...
«Mi chiamano Alam...» disse.
La voce con cui pronunciò il proprio nome era soffice, come una carezza.
«Io...io sono...»
«Non te l’ho chiesto.» Alam sorrise, nel dire queste parole, tranquillo. «Tu chiedi il nome al cibo che mangi?»
Si irrigidì. Come poteva esser così calmo e normale e al contempo dire cose così terribili. Il suo volto assunse una smorfia disgustata e di panico nello stesso istante. Alam mutò la sua espressione, corrucciando le sopraciglia dubbioso:
«Che ti succede? Perché fai quella faccia?»
«E che faccia dovrei fare? Mi dici tranquillamente che vuoi mangiarmi e io dovrei star tranquillo e calmo?» gridò.
«Capisco...è perché non ti ho chiesto il nome...va bene, puoi dirmelo se ti fa piacere.»
“Ma è proprio scemo?” pensò, ma pensò anche che era stufo di cercar una logica in tutto quello. Avere il volto di Alam così vicino al proprio era un vantaggio: gli impediva di veder gli altri cadaveri. Se non lo assecondava, sarebbe tornato a fare quel che stava facendo prima al tavolo, lasciandolo solo in quell’orrore.
«Il mio nome è  Alex.  Mi chiamo Alex.» rispose allora.
«Ci chiamano quasi allo stesso modo, allora. Bene! E ora che sai chi sono, hai altre domande Alex?»
«Mi lasceresti andare?»
Ci aveva provato. Non che si aspettasse un risultato, ma intanto ci aveva provato.
«No. Altro da chiedere?» tranquillo, non aveva sorriso, non aveva cambiato minimamente espressione.
«Che cos’è che hai perso?» gli domandò.
Forse...forse se lo aiutava, lo avrebbe risparmiato. Forse poteva calmarlo, poteva riuscire a farselo amico e...
«Non ne ho idea. Se lo sapessi non avrei bisogno di te, non credi? Se sai cosa cerchi puoi cercarlo da solo, non ti pare?»
«Ok...ok...» era meglio assecondarlo.
Alam sembrò fermarsi un secondo sul suo viso, un’espressione riflessiva dipinta sul volto. Senza aggiungere altro si alzò e tornò al tavolo. E così i tre cadaveri ricomparvero a occupare visuale di Alex.
«Chi...chi erano loro?» gli domandò.
Senza alzare gli occhi dal tavolo, Alam rispose:
«Che importanza ha?»
«Immagino nessuna per te, ma per me ne ha!» sbottò Alex.
In realtà non si sentiva particolarmente empatico nei confronti di quei tre corpi, ma parlare e concentrarsi su Alam risultava quasi più facile che stare in silenzio a pensare a quanti minuti, ore o giorni mancavano alla sua morte. Alam, in ogni caso, non colse la sua ultima provocazione.

Passò ancora del tempo. Il suo carceriere rimaneva sempre fermo seduto al tavolo, intento a fare sempre la stessa ignota attività, nel silenzio.
«Da quanto tempo è che sono qua?» domandò.
«E’ passato un giorno, sta trascorrendo la seconda notte.» rispose Alam, con calma.
«Ho sete.» sussurrò Alex.
Alam alzò lento lo sguardo dal tavolo:
«Anche io un po’, ma si può resistere. Non mi hai ancora aiutato a trovar quel che cerco...» disse, il tono della voce con una lieve intonazione di quella che poteva parer indisponenza.
«Come faccio ad aiutarti se non so in cosa devo aiutarti! E sono anche immobilizzato qui!» gridò Alex, esasperato.
Non ottenne risposta. Era inutile parlare con lui. Non lo avrebbe aiutato di certo! Sembrava completamente disinteressato a lui, disinteressato anche a ciò che aveva perso. Eppure aveva detto che era una cosa importante...
Importante...

Chiuse gli occhi.

Il telefono squillava. E lui si era appena coricato. “Dannazione! Cosa vogliono a quest’ora della notte?!”. Si era alzato, scaraventando le coperte giù dal letto, e con passo pesante si era diretto in salotto. Dalla porta della camera di Anghel apparve uno spiraglio di luce. Sua sorella si era svegliata. Non ci badò, perché il trillo del telefono lo reclamava urgentemente.
«Pronto!» urlò nella cornetta.
«E’ lei Alex Weeder?» un uomo, la voce calma e tranquilla con un’inflessione chiaramente straniera, come se avesse chiamato alle tre di pomeriggio e non all’una di notte.
«Sì, sono io! E lei chi diavolo sarebbe?» disse senza preoccuparsi minimamente di mascherare l’irritazione.
Dall’altra parte vi fu un istante di silenzio:
«Per caso, le dice niente il nome Alexander Hawker?»
La voce di quell’uomo era particolarmente seria e compita. Aveva cancellato in un istante la rabbia di Alex.
«No...no, mi spiace...quel nome non mi dice nulla...perché me lo chiede?»
«Sono il detective Hampton. Alexander Hawker è scomparso la settimana scorsa, qui a New York. Tra i suoi effetti personali abbiamo rinvenuto un’agenda in cui era annotato il suo nome. Lei è di origini americane, signor Weeder?»
«Mio...mio padre è americano, ma si è trasferito in Italia prima di sposare mia madre...non sono mai stato a New York e non conosco nessun Alexander Hawker...non ho proprio idea di come il mio nome possa esser finito in quell’agenda, mi spiace...» balbettò.
«Come immaginavo...se avrò ancora bisogno di lei, la contatterò. Scusi il disturbo.» e aveva riattaccato.
Alex era rimasto col telefono a mezz’aria per una manciata buona di minuti. Cos’aveva voluto dire quella telefonata? Si volse lento verso la porta del salotto e vide sua sorella, Anghel, che lo guardava con gli occhi spalancati e una mano stretta attorno al collo del pigiama.
«Anghel, che ci fai ancora in piedi?» le chiese. «Forza, a letto! Non c’è nulla di cui aver paura!»
La ragazzina si era attaccata al suo collo, non appena lui le aveva teso le braccia. Tremava, ancora così piccola. Undici anni e un corpo e una mente da bambina. Così fragile...

Aprì gli occhi e si guardò attorno di nuovo...
Era nella stanza buia, la candela era stata sostituita. Evidentemente aveva dormito per un bel po’. Alam era ancora ostinatamente chino sul tavolo. Guardò i tre cadaveri. E si sforzò di rimaner concentrato su quello che sembrava in uno stadio più avanzato di decomposizione. Non era molto portato né in chimica né tantomeno era un coroner, ma non gli risultò difficile individuare quello che cercava...
«Per caso...questo ragazzo arriva da New York?» domandò titubante.
Alam sembrò pensarci per qualche istante. Poi annuì come se nulla fosse.
«Si chiamava Alexander Hawker?» domandò ancora.
«Non ne ho idea. Te l’ho detto. Di solito non parlo con ciò che mangio...»
«Te lo sei portato dietro da New York?» proruppe orripilato Alex.
«Perché? Cosa c’è di sbagliato? Tu, se vai a fare un viaggio, non ti porti qualcosa da mangiare con te di solito?» la voce di Alam, pur mantenendo il tono piatto e inespressivo di sempre, aveva qualcosa di diverso.
Inspiegabile...qualcosa come di consistente, di corporeo, più concreta e cruda, più tagliente. Più terrificante...e parlava lentamente, quasi ansando, come se si stesse sforzando.

Alex cercò di non pensare a quel che voleva dire “portarsi qualcosa da mangiare per il viaggio” e a tutte le conseguenze che questa frase poteva avere. Rimase a pensare al fatto che ora lui si trovava lì, in compagnia del cadavere di un ragazzo americano che conosceva il suo nome e lo aveva annotato in un’agenda...perché?
Era stanco, dannazione, terribilmente stanco! Non mangiava da un giorno ormai, aveva fame e sete...se serviva ad Alam, perché allora non si era premurato di farlo mangiare? Voleva forse sfinirlo? Come poteva essergli d’aiuto? La mente si annebbiò un’altra volta per la fiacchezza.
«Ho sete...» sbottò Alam, improvvisamente.
Si alzò lento dal tavolo.
«E’ passato il secondo giorno...sta per trascorrere la terza notte...» ansimava visibilmente.
Gli si avvicinò di nuovo. In effetti, gli occhi di Alam sembravano proprio affaticati, quasi cerchiati. Erano passati quindi due giorni da quando era rinchiuso lì dentro! Come avevano fatto a passar così veloci? Che cosa stava succedendo?
«Hai trovato quel che cerco?» gli chiese Alam, debolmente.
«Ti ho già detto che non posso trovare qualcosa se non so cosa cercare!» era stanco anche lui, avrebbe voluto urlarglielo in faccia, ma non ne aveva la forza.
Alam abbassò lento il capo, come dispiaciuto. Ma il suo volto non era dispiaciuto, né soddisfatto...il suo volto non era niente.
«Vuol dire che non sei nemmeno tu...» sospirò lievemente.
Sembrava accaldato. Si era chinato nuovamente davanti a lui, ma questa volta tra le mani reggeva un piccolo oggetto. Si accorse che Alex lo guardava con interesse.
«Ci sto lavorando dalla sera in cui ti ho preso.» disse, inespressivo come sempre.
Era un tondo di legno, grande quanto il palmo della mano di Alam, su cui aveva disegnato a basso rilievo un falco che sorvolava un campo d’erbacce; dietro il falco, più piccola per creare prospettiva, una torre solitaria. Era perfetto, persino nei dettagli delle piume e nei fili d’erba del campo.
«E’ molto bello...» disse Alex.
Ma ad Alam non interessava la sua opinione, evidentemente, perché non commento, non disse nulla, rimase solo a fissare il disco di legno su cui aveva lavorato per due giorni.
«Cos’è che non sono?» domandò Alex.
Si sentiva stremato, il corpo ormai aveva perso sensibilità e se non avesse mangiato qualcosa sarebbe svenuto di certo; ma la vicinanza di Alam lo inquietava così tanto, che il farlo parlare gli sembrava la scelta migliore.
«Il mio tamer...non sei il mio tamer...»
«E’ questo che stai cercando? Stai cercando questo “tamer”?» improvvisamente Alex si risollevò.
Aveva una possibilità di uscire da quella situazione! Poteva fingere di dimostrarsi disponibile ad andare a cercare questo “tamer” e poi si sarebbe dileguato! E addio Alam! E al diavolo la sua follia di cercare il “domatore”!!! Non gli importava sapere a quale gioco sado-masochista potesse mai corrispondere, non voleva più essere coinvolto dal delirio di quel pazzo!
Alam sembrò pensare per qualche istante, fissando il viso di Alex come in cerca di qualche cosa.
«No...quel che è certo è che tu non sei il mio tamer...questo vuol dire che non puoi esser tu ad aiutarmi a trovar quel che ho perso...» bisbigliò.
Sembrava quasi stanco, anche se il suo corpo non mostrava il benché minimo segno di debolezza. Si era rialzato e passeggiava in mezzo alle sue vittime con aria assente, distaccata. Alex era certo che se mai fosse riuscito a rimettersi in piedi, sarebbe di certo crollato a terra. La vista gli si annebbiò ancora. “No, dannazione! Non ora che ho una possibilità di fuga! Rimani sveglio, razza di cretino!”
«Se...se mi lasci andare, potrei andare in giro a cercare il tuo “tamer”! Potrei darti una mano, ti pare?» tentò ancora.
“Fa che se la beva! Insomma, non è di certo una cima di uomo! Se mi crede sono salvo! Fa che se la beva, ti prego!” gridò nella sua mente, cercando di mantenersi il più vigile possibile.
Ma Alam non sembrava nemmeno rendersi conto della sua presenza lì.
«Che sete...troppa...ora è troppa...» bisbigliò per un istante.
Si fermò a guardare quel che rimaneva di Alexander Hawker. Lo vide toccare lievemente il collo e la pelle esposta del giovane, come se lo stesse analizzando. Piegò il capo di lato, pensieroso. Poi armeggiò con qualcosa che teneva tra le mani e che prima, evidentemente per la stanchezza, Alex non aveva notato. Improvvisamente, sotto i suoi occhi terrorizzati, il corpo di Alexander prese fuoco e in meno di un minuto già non era rimasta che cenere e puzza di carne bruciata, che andava a mescolarsi con gli altri odori rivoltanti a cui Alex ormai non faceva più caso. Subito passò agli altri due corpi e anch’essi ebbero la stessa sorte di Alexander.

«MA CHE FAI?!» gridò, disgustato, fissando la macchia nera che prima era stata un ragazzo.
Alam si volse di nuovo a guardarlo, le sopraciglia lievemente inarcate, come se solo in quel momento si fosse reso conto di avere uno spettatore:
«Mi pare ovvio! Non potevo più nutrirmi di loro, non ti pare? Tu cosa fai degli avanzi? Ah, già...voi li buttate nelle discariche, li ammucchiate tutti assieme e poi date fuoco una volta che ne avete accumulati quantità esorbitanti. Bè...è la stessa cosa, no?»
«Ma che diavolo sei? Sei un pazzo? Non sei umano di certo!» gridò, più per smuovere quel suo essere apatico che per altro.
«Certo che non sono umano! Mi sembra più che logico, dal momento che è di voi umani che io mi nutro!» sbottò Alam, come se Alex avesse detto una grande banalità mascherata da scoperta.
«E allora che cosa sei?» Alex ne aveva abbastanza di questa storia, di Alam, della sua follia.
“Uccidimi e basta, dannato pazzo! Non far impazzire anche me prima di farlo!” pensò esasperato.
«Pensavo fosse più che evidente.» disse Alam, osservandosi attentamente.
Non c’era nulla di diverso in Alam, nulla di diverso nell’aspetto da un qualsiasi altro ragazzo incontrato da Alex.
«Ho sete, Alex. Tu sei la mia prossima cena. E io sono il vampiro che ora ti mangerà.» e nel dirlo, aprì la bocca più del dovuto, mostrando i due canini molto pronunciati e appuntiti.

La risata di scherno che era nata in Alex, morì nella sua gola.

E il giovane cadde.

  
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