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Autore: Aine Walsh    06/09/2011    8 recensioni
Noiosa. Ecco come si svolgeva la festa di Sara sotto il mio punto di vista.
Sì, Sara, la mia biondissima quanto simpatica compagna di banco nelle ore del corso di fotografia che frequentavo una volta a settimana dopo scuola, il pomeriggio.
Era una ragazza in gamba, ma la sua festa di compleanno si stava dimostrando un clamoroso fallimento, almeno per me, l’asociale a vita.
* * *
Prometto che mi farò venire in mente una Presentazione migliore!
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1° Capitolo
I Saw Her Standing There



Noiosa. Ecco come si svolgeva la festa di Sara sotto il mio punto di vista.
Sì, Sara, la mia biondissima quanto simpatica compagna di banco nelle ore del corso di fotografia che frequentavo una volta a settimana dopo scuola, il pomeriggio. Era una ragazza in gamba, ma la sua festa di compleanno si stava dimostrando un clamoroso fallimento… Almeno per me, l’asociale a vita.
Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua, lì, circondata da una marea di perfetti sconosciuti fighettini che abbordavano gli uni con le altre, alcuni anche in modo pesante.
Avrei dovuto dare retta alla nonna e restare a casa. Non ero ancora pronta a mischiarmi con i ventenni, anche se io di anni ne avevo diciassette.
Non mi piaceva proprio l’aria che si respirava e non avevo neppure provato a scambiare parola con qualcuno - merito anche della mia timidezza - perciò, dopo qualche minuto passato a cercare di gironzolare senza una precisa meta e senza nulla di preciso da fare nel locale stracolmo di gente, quando riuscii a prendere un attimo di respiro, mi sedetti su di uno sgabello accanto al bancone e presi a sorseggiare un bicchiere di Coca che mi ero appena versata, giusto per fare qualcosa.
Ogni tanto Sara si voltava nella mia direzione e, con un sorriso e un gesto della mano, mi invitava a ballare; invito che io gentilmente declinavo fingendo un attacco di mal di pancia. Mi piace ballare, ma solo quando sono a casa da sola, oppure quando c’è anche la nonna, lei non entra mai in camera mia se non dopo aver bussato. Il fatto è che ho la grazia di un tricheco in una cristalleria, io.
Mi misi a osservare la sala e tutti gli invitati, nel tentativo di dare l’impressione di essere anche abbastanza interessata all’ambiente.
Solo allora mi accorsi che tutto il locale era stato prenotato per Sara e per i suoi strani e più grandi amici.
C’erano ancora i palloncini per terra, sul pavimento di grosse e quadrate mattonelle marrone opaco, anche se mi sembrarono di meno in confronto a quelli che vidi entrando. Notai che erano tutti rossi (il mio colore preferito, nemmeno a farlo di proposito!), come i jeans che indossavo e che mi erano sembrati tanto inadeguati non appena avevo visto tutti gli altri sconosciuti invitati con indosso abiti neri lunghi fino alle ginocchia, giacche e cravatte, tacchi alti e una marea di paillettes e lustrini dappertutto; ma, in fin dei conti, con la mia lunga maglietta a righe bianche e nere, i miei jeans rossi e le mie Converse nero lucido, ero stranamente chic. Sorrisi al pensiero di essermi appena definita elegante, io, la persona che indossa sempre la prima cosa che trova dentro l’armadio!
Ma lasciai perdere il mio abbigliamento e tornai a concentrarmi sul momento.
Gli invitati erano parecchi, non c’erano finestre - questo perché eravamo di un piano sottoterra - e i riscaldamenti erano a palla, come la musica, che sembrava volesse spaccare le casse con la sua furia di parole e sinfonie elettroniche e metalliche per scappare altrove - cosa che avrei volentieri fatto anche io, preferendo di trovarmi da qualsiasi altra parte del pianeta in quei momenti. Il risultato di tutto ciò era un caldo soffocante, e io odio il caldo.
Come se non bastasse, guardandomi intorno, mi accorsi con un pizzico di stupore di essere l’unica ragazza rimasta sola. Erano tutti accoppiati, perfino Sara sembrava aver trovato un nuovo ragazzo con cui rimpiazzare il precedente lasciato un mese prima. Beata lei.
Non che stare da sola mi dispiacesse, del resto il detto recita meglio soli che male accompagnati - proverbio di cui io sono l’esempio vivente - ma mi dava fastidio l’idea di essere vista in compagnia di Mr. Invisibile e di essere, conseguentemente, derisa. Se l’avessi saputo avrei portato Seth, il cane dei vicini. Quel Cavalier King di undici mesi passa più tempo con me che con i suoi reali padroni.
Alla fine decisi di abbandonare quelle riflessioni sui vestiti, sul caldo e sulla solitudine alla quale mi ero improvvisamente ritrovata legata per dare un’occhiata più attenta al locale, scelta che avevo preso anche per il forte imbarazzo di essere stata scoperta da due coppie mentre le osservavo...
La sala, illuminata ora da una luce blu, ora da una verde, ora da una rossa, era grande, non la ricordavo così l’ultima volta in cui c’ero stata. Forse erano i tavoli spostati contro la parete laterale che me la fecero apparire tale.
Le pareti erano tappezzate di poster di tutti i tipi: locandine di vecchi film, foto di luoghi da dover visitare almeno una volta nella vita - frase riportata sotto un poster raffigurante l’Ayers Rock in Australia -, immagini di gruppi e cantanti famosi… In particolare, c’era una foto di Paul McCartney che mi piaceva tanto, anche se dovevo ammettere che non ne sapevo niente dei Beatles, allora. Conoscevo solamente alcune delle canzoni più famose, roba del tipo Yesterday, She Loves You e All You Need Is Love - quest’ultima, perché era la sigla del programma Stranamore -, ero a conoscenza del fatto che fossero quattro e che due si chiamassero John Lennon e Paul McCartney, mentre sconoscevo i due restanti - poveri Ringo e George!
Il Beatle era in piedi, ritratto in bianco e nero, con la sua solita divisa e il suo perfetto caschetto in stile Fab Four, e suonava il basso tutto sorridente, con il capo un po’ sollevato mentre guardava tutta quella folla di fans urlanti e adoranti.
La mia mente cominciò a divagare, approdando con la sua navicella nel mio universo parallelo, sul quale spesso mi capitava di perdermi risucchiata da un buco nero.
So che fisicamente ero lì e che stavo osservando senza battere ciglio un vecchio poster bianco e nero, ma mentalmente ero altrove, in un passato lontano, bianco e nero anch’esso. Dentro di me continuavo a chiedermi come si fosse sentito il cantante in quel momento. Credo che quella sia una delle sensazioni più belle che si possano mai provare; sapere che tutta quella gente è lì, per te, perché a loro piaci, perché loro ti vogliono bene, anche se tu non sai nemmeno che esistano, deve riempirti di una felicità immensa.
Vagavo ancora nella grande prateria dei miei pensieri, quando una voce alle mie spalle mi riportò alla realtà, obbligando la mia astronave a fare ritorno sul pianeta Terra.
«Nonostante gli anni, vedo che il Macca riesce ancora a fare conquiste. Di’ un po’, lo conosci?».
La musica era ancora sparata ad alto volume eppure io avevo sentito bene, quindi immaginai che l’estraneo mi fosse abbastanza vicino, anche troppo vicino dato che, quando mi voltai, mi ritrovai il suo orecchio ad un centimetro di distanza dalle mie labbra.
Era un ragazzo, questo l’avevo capito, e si era curvato accanto a me per sentire la mia risposta.
«Se non sbaglio, è Paul McCartney» risposi, ma non ero sicura che mi avesse sentita. David Guetta copriva le mie parole ed io non volevo urlargli contro, perciò, sebbene magari avessi avuto un tono di voce alto, la mia risposta suonò come un sussurro.
Il ragazzo annuì col capo e si rizzò, prendendo poi posto sullo sgabello alla mia destra.
Istintivamente lo guardai e lui fece lo stesso con me. Non riuscivo a vederlo bene a causa delle luci, ma il mio cervello, quasi fosse un essere pensante a sé stante, fuori da me, che dice, pensa e agisce per conto proprio, decretò subito che non fosse affatto male.
Parlò di nuovo.
«No, non sbagli, è lui. Sei una fan?» domandò ancora, e mi sembrò di cogliere una tonalità speranzosa.
«Mi dispiace deluderti, ma non lo sono. Non conosco bene né lui né gli altri Beatles. Sono più orientata verso altri generi».
Scrollò le spalle. «Figurati, non mi deludi affatto: ognuno fa ciò che gli pare. Se posso, verso quali altri generi sei orientata?».
La sua curiosità mi sorprese. Non pensavo che qualcuno avrebbe avuto voglia di perdere tempo con me, quella sera. Invece era arrivato lui e in una manciata di minuti mi aveva già rivolto tre domande.
«Muse. - risposi - Sono per il rock alternativo dei Muse, ma non disdegno le altre produzioni».
Restò un attimo in silenzio, come se stesse pensando, prima di dire: «Il trio capitanato da Matt Bellamy?».
«Sì, esatto. Proprio Matt Bellamy, l’unico uomo che sposerei se mai decidessi di fare una cosa simile».
Mi resi conto di aver detto quella frase solo dopo averla terminata.
Si poteva dire una cosa più stupida e insensata ad uno sconosciuto qualunque?
No.
Riuscivo già ad immaginare la scena successiva: lui sarebbe scoppiato a ridere, si sarebbe alzato e avrebbe riferito a tutti il mio imbarazzante sogno, che per anni avevo accuratamente tenuto nascosto nell’angolo più buio e profondo del cassetto dei desideri sotto l’etichetta Pura Fantasia e che, a parte me, conosceva solo Irene, la mia migliore amica (che, dal canto suo, si sarebbe accontentata di sposare Dom, visto e considerato che il suo amato Chris era felicemente accasato e con ben cinque bei bimbi che scorrazzavano a destra e a sinistra).
Risultato finale: sarei stata derisa da una sessantina di ventenni figli di papà.
Un brivido di terrore mi percorse tutta la schiena non appena lo vidi dispiegare le labbra sottili in un sorriso.
Lanciai uno sguardo veloce all’orologio: erano le ventitré in punto.
Mamma sarebbe venuta a prendermi tra più o meno mezz’ora, non avrei sofferto molto. Sarei sparita nel nulla e nel giro di due giorni tutti si sarebbero dimenticati di me e di quella mia orrenda figura ed io non li avrei mai più rivisti (eccetto Sara, ma di lei mi sarei occupata dopo).
Lui si passò una mano fra i capelli, ancora con il sorriso impresso sul volto.
In un fremito d’impazienza, mi chiesi cosa aspettasse prima di prendermi in giro.
«Beh, io mi chiamo Matteo, sono di origine inglese per parte di madre, ho gli occhi chiari e suono la chitarra. Direi che sto già un pezzo avanti» sentenziò con una nota allegra.
Dio solo sa come non caddi dalla sedia preda di qualche strano spasmo o di qualche crisi.
Mi sentii le guance avvampare e benedissi quelle luci colorate che gli impedivano di notarlo.
Sul serio aveva detto una cosa simile?
«E tu?», proseguì amichevolmente.
Mi afferrai il braccio sinistro con la mano destra, a disagio. Speravo solo che la voce non mi ingannasse, uscendo con il solito tremolio che mi prende nei momenti di imbarazzo.
Maledissi la mia timidezza.
«Mi chiamo Adriana, sono al cento per cento italiana, i miei occhi sono color nocciola e ho preso lezioni di pianoforte quando avevo sette anni».
Mi sorpresi non poco udendo la mia voce: era regolare, limpida e ‘senza intoppi’.
Mi porse la destra e gliela strinsi. La sua mano era più calda della mia, che in inverno aveva l’abitudine di essere sempre particolarmente fredda.
«E non hai soprannomi? Devo sempre chiamarti Adriana?».
«Per la mia famiglia sono Adri, ma per il resto del mondo sono Ria».
«Ria, - sembrò ripetere più a se stesso che a me - Ria. Mi piace».
Dopo aver mollato la stretta, ripresi a guardare i ragazzi e le ragazze che ballavano al centro della pista, impacciata, senza sapere che fare e credo che anche Matteo abbia fatto lo stesso.
Sapevo di dover fare qualcosa, ma non avevo la minima idea sul comportamento da dover assumere. Cercavo con foga dentro il mio cervello, nella speranza di dire qualcosa di carino o di aprire una conversazione sensata. Avevo avuto che l’impressione che fosse un appassionato di musica, tale e quale la sottoscritta, ma non ne ero sicura e poi avrei rischiato di cadere nel ripetitivo aprendo l’argomento, giusto?
Accantonai la Musica.
Di cosa parla la gente di solito?
Di tante cose.
E perché non me ne veniva in mente nemmeno una?
Ero così impegnata nel tentativo di venire a capo di quel problema, che non mi accorsi del fatto che si stesse nuovamente avvicinando a me.
«Non vorrei sembrarti un maniaco, ma mi stavo domando se ti andrebbe di uscire fuori per prendere una boccata d’aria. Qui si soffoca».
Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, lo so, però, spinta da chissà quali forze gravitazionali alzai e lo seguii verso le scale senza nemmeno rifletterci sopra .
Il piano superiore era colmo di gente quasi quanto quello inferiore, se Matteo avesse tentato di aggredirmi, lo avrebbero visto tutti, ed io non ero ancora così stupida da allontanarmi da sola con lui.
Aprì la porta d’ingresso e mi fece uscire, come un vero gentleman inglese. Lo ringraziai con un mormorio appena udibile nello sforzo immane di evitare di guardarlo in viso. Nello stesso istante in cui il mio volto sporse verso l’esterno, una ventata d’aria gelida lo colpì e solo allora ricordai di aver dimenticato di prendere il cappotto dall’attaccapanni.
L’inverno vero e proprio era ormai passato, essendo arrivati ai primi giorni di Marzo, ma il freddo non ne voleva ancora sapere di andarsene. Per quanto mi riguardava, andava benissimo così.
L’esterno del locale si articolava all’incrocio tra una piccola stradina ed una strada più grande, trafficata da abbastanza auto. Mi sedetti sulla prima sedia nera di plastica che vidi, affianco al tavolo, e Matteo fece la stessa cosa. Lassù le luci non mancavano affatto, e quelle che c’erano non erano fioche o colorate e consentivano una perfetta visuale.
Per non sembrare scortese, mi costrinsi ad alzare il capo. Era ovvio che prima o poi ai miei occhi sarebbe capitato di scontrarsi bene con i suoi.
Diedi in parte ragione al mio cervello, non aveva sbagliato del tutto.
Non è che Matteo non fosse male, anzi; era quello che Ire, nel suo linguaggio fatto di iperboli che si accozzavano l’un l’altro, avrebbe sicuramente definito un tremendo figo da paura.
I capelli scompigliati erano a metà strada tra il biondo cenere e il castano chiaro, in una tonalità che nemmeno Franck Provost, Paul Mitchell, i parrucchieri della pubblicità Sunsilk e tutti gli altri parrucchieri del mondo avrebbero saputo definire. Notai che tre ciocche gli ricadevano sulla fronte e che non gli stavano per nulla male. Il naso era dritto, anche se minutamente largo, come la bocca dalle sottili labbra rosa pallido che pochi minuti prima mi erano state molto vicine. I lineamenti del viso erano perfetti. Non erano da bambino, ma nemmeno da uomo, e costituivano una molto attraente combinazione. Il suo fisico, alto e snello, era fasciato da un paio di jeans, una camicia bianca e una sciarpa a scacchi bianchi e neri che lasciava un po’ intravedere il pomo d’Adamo.
Ma se c’era una parte di lui che mi colpì più del naso, della bocca, della fronte o dei bei capelli su cui non vedevo l’ora di affondare le mie dita, erano i suoi occhi e il suo sguardo. Uno sguardo verdissimo, intenso, degno di quello di Johnny Depp. Gli occhi da cerbiatto erano grandi e le iridi di smeraldo andavano scurendosi fino alla pupilla, diventando di un colore simile al mio nocciola. Sarebbe riuscito a suscitare persino l’invidia del mare con i suoi occhi.
Quando mi accorsi di star correndo troppo con l’immaginazione, scossi il capo e cercai di impegnarmi ad avviare una conversazione decente.
«Quanti anni hai?», domanda banale, ma poteva essere un inizio.
«Diciannove, e so che a voi ragazze l’età non si chiede, e spero che tu non me ne voglia male, ma rigiro».
«Diciassette. A Dicembre diventerò maggiorenne».
«Sei piccolina...» commentò.
Probabilmente lo fulminai involontariamente con lo sguardo quando sentii di essere stata definita ‘piccolina’, perché si affrettò ad aggiungere, ridendo: «Vista e considerata l’età media degli invitati. Cosa ti ha portata qui?».
«A parte l’invito di Sara? Non ne ho idea» confessai reprimendo un sospiro.
Accavallò le gambe. «Io sono un imbucato» dichiarò a sua volta.
«Un imbucato?» ripetei sorpresa.
«Già. Hai qui davanti a te il cugino del migliore amico dell’ex della festeggiata, mandato in missione per ‘sondare’ - parafrasò con un gesto delle dita - il campo. Mi sento una specie di ECHELON». Sorrise, e dovetti sforzarmi di restare lucida e di non imbambolarmi.
Mi divertiva, era interessante e volevo stare al gioco.
«E come procede? Cosa hai scoperto?».
«Che questa festa è veramente annoiante, che Sara ha trovato un rimpiazzo, che nessuno, a parte te, si è ancora accorto della mia presenza e che il migliore amico di mio cugino è un emerito idiota».
Emerito idiota, non tutti i ragazzi che conoscevo avrebbero usato un’espressione simile.
«Forse sbaglio, - proseguì - ma non mi è parso di vedere che tu ti stessi divertendo molto, vero?».
I miei tentativi di apparire interessata erano risultati del tutto vani, alla fine.
La prossima volta mi sarei impegnata maggiormente.
«Sinceramente non pensavo che la festa potesse avere il solo scopo di rimorchiare. In pratica, è una serata riservata alle coppie».
«E tu sei sola» concluse.
Annuii.
Lo vidi trafficare con la tasca sinistra dei pantaloni.
«Fumi?», mi chiese porgendomi un pacchetto di Merit.
«Oh, no» rifiutai.
Sorrise. «Dal tuo tono sdegnato, capisco che non ne hai intenzione. Meglio così, io sono felice di aver smesso».
Mi chiesi il motivo per cui teneva del fumo con sé, dato che diceva di aver smesso e, quasi come mi avesse letto nel pensiero, disse: «Mio cugino me le ha regalate in segno di… Che so? Forse come ‘ricompensa’. E’ sicuro del fatto che io tornerò a fumare, presto o tardi».
Un’auto si accostò al marciapiede e abbagliò nella nostra direzione: era mia madre.
«Devo andare, - dissi alzandomi - è arrivata la mia ora».
«Cenerentola deve tornare a casa» replicò alzandosi.
«Grazie per la compagnia».
«Grazie a te per avermi creduto quando ti ho detto di non essere un maniaco. - mi tese la mano - E’ stato un piacere parlare con te, Ria».
Arrossii. «Anche per me», ed era vero.
Mi voltai e salii in macchina. L’aria calda che vi trovai all’interno mi fece sentire subito meglio.
«Ciao Mamish» salutai mentre allacciavo la cintura. Mamish era un soprannome che le avevo dato quando avevo quattro anni, non ricordo bene come accadde, ma da allora continuai a chiamarla con quel buffo nomignolo.
«Ciao festaiola. E’ andato tutto bene?».
«Sono sopravvissuta».
Mamma mise in moto.
Fuori dal finestrino, vidi Matteo rientrare dentro il locale.
Peccato.


Good Day, Sunshine! :D
(ovvero, il mio NdA)

Hola!
Allora... Da dove cominciamo?
Forse dal fatto che, dopo ere, ho trovato l'ispirazione per una nuova long *_*
Sì, lo so che come primo capitolo è orrendo, ma la storia è già tutta nella mia mente e, fidatevi (se volete), quando vi dico che migliorerà. Io ce la metterò tutta u.u

Avrei dovuto fare una lista delle cose da scrivere... Come sempre, dimentico tutto -.-'
Beh, mi auguro che a qualcuno possa piacere 'sta cosina qui e spero anche che non ci siano errori di nessuna natura (avrò letto questo capitolo una trentina di volte...).
Questo era solo un assaggino, una prova se vogliamo, il secondo capitolo è in fase di lavorazione ma non so quando lo posterò; prima devo finire alcune storie per dei contest.

Credo davvero sia tutto, non mi viene in mente altro.
Ringrazio tutti coloro che leggeranno, recensiranno, preferiranno, seguiranno, ricorderanno e apriranno (anche per sbaglio) la pagina. Grazie! :D

Alan

  
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