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Autore: Ulissae    08/09/2011    5 recensioni
[Vita, morte e miracoli di Aro. Personale interpretazione della sua vita]
"Sarai pronto a perdonarmi?"
Genere: Dark, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro personaggio, Aro, Volturi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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- Questa storia fa parte della serie 'L'enciclopedica visione dei Volturi'
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Historia Apollinis

Non ero mai stato alle terme, mai. La cosa mi aveva sempre incuriosito, ma ero un semplice schiavo, per di più neanche troppo amato dai miei padroni, per cui le terme mi erano sempre state negate. Fui trascinato per tutto il percorso, passammo quasi l'intera mattinata in giro per le strade affollate di Roma, salimmo fino al Celio e la salita mi sembrò infinita, visto che quel bastardo di Gaio non faceva altro che tirare il collare che mi avevano messo al collo. Superata porta Celimontana, ci inoltrammo nella città, aggirando il Colosseo, e continuando imperterriti fino alle Terme. Le avevo viste da lontano, quando mi ero inoltrato nel mercato lì vicino. A quei tempi, però, mi erano sembrate solo magnifiche, grandiose; il bianco splendente del marmo che le ricopriva mi aveva accecato e la loro struttura imponente mi aveva reso, anche se per un istante, orgoglioso di essere un cittadino dell'Impero -anche se, cittadino, non lo ero propriamente.
Quella volta, però, non vidi la candida pietra se non di sfuggita, venni immediatamente condotto negli antri scuri delle caldaie, nel sipario di un teatro oscuro, lì dove lavorano i non attori, i miseri falegnami. Poco alla volta, man mano che mi avvicinavo alle fornaci, i visi delle persone che ci passavano accanto erano sempre più tetri e rovinati, fino a diventare neri di fuliggine.
Gaio, lo schiavo che mi aveva accompagnato, ricevette un sacchetto pieno di monete e io una spinta, che mi fece prostrare controvoglia ai piedi di un uomo di costituzione massiccia, che mi fissava con gli occhi piccoli e rossi, a causa della polvere e del fumo.
Avrei servito l'Impero. Fino alla morte”.
Aro prese un profondo respiro, poi chiuse gli occhi e sussurrò: “Dimmi, Dio, perché hai lasciato che il mondo continuasse a marciare sulle spalle dei tuoi figli più deboli? Eh? La schiavitù... dimmi, dannazione, dimmi perché esiste ed è esistita. Dimmi perché la mia schiena doveva riempirsi di ferite, perché i miei occhi non potevano vedere la luce del giorno, perché le mie mani dovevano servire ingrati uomini liberi. E perché loro erano liberi?
Dammi una risposta e poi dimmi perché dovrei accettarla!”
Il fervore delle sue parole sembrava essere solo un'illusione, visto che l'eco sparì immediatamente, come se non avesse detto nulla.
Gli occhi si erano chiusi e respirava a fatica, come se cercasse di trattenersi dal balzare verso l'alto e distruggere quel viso che non sembrava volergli degnare la minima attenzione. Le discussioni infervorate con Didyme parvero assalirlo tutto d'un colpo e il suo corpo tremò dall'agitazione. Ma come in precedenza, in poco tempo, riuscì a riacquistare la tranquillità e, scostando solamente lo sguardo, riprese a narrare.
Michelangelo e il suo Dio erano stati messi da parte, ora riservava i suoi racconti agli uomini di Botticelli.
“Lavoravo come un animale. Passavo le mie giornate rinchiuso in quelle fornaci, ascoltano nient'altro che lingue a me sconosciute. Sentivo ogni tanto la frusta dell'uomo, Claudius, colpirmi ferocemente, per incitarmi a lavorare ancora di più. Ma, se da una parte il giorno era un vero e proprio tormento, la notte era libera, finalmente.
L'Impero era un padre con troppi figli illegittimi, il custode che ci tratteneva era a sua volta uno schiavo e il suo referente uno schiavo a sua volta, e così via. Sparire di notte era facile, se non facilissimo. Bastava assicurargli di tornare all'alba e di lavorare come se si avesse dormito tutta la notte. Così, in breve tempo, io e la mia figura emaciata iniziammo ad aggirarci per i vicoli di Roma, scoprendo una città a me sconosciuta.
Non c'erano più le lettighe profumate né le botteghe dai mille colori, i vestiti di tutti erano scuri e quei tutti erano per lo più ladri e assassini, che, vedendomi coperto di stracci e lercio, mi lasciavano presto stare. La cosa più importante che imparai era che bisognava stare ben lontano dai carri e di camminare rasentando le pareti, per non rischiare di venire ammazzato.
Ogni tanto, sgattaiolando in superficie, ero riuscito a spacciarmi per un servo addetto agli spogliatoi, guadagnando qualche spicciolo che spendevo immediatamente nei bordelli e nelle osterie aperte di notte. Per lo meno, potevo sfogarmi sulle prostitute e godere di piaceri che fino a quel momento erano stati semplici e quasi sciatti, consumati con servette che a malapena sapevano di essere donne.
Ma la mia vita cambiò d'un tratto la notte del 12 aprile del 115, quando lo conobbi.
Dolce Gitone ingannatore, che allietava le serate di ubriaconi e finti credenti.
L'osteria “Il Porco” era una tra le più grandi e malfamate di tutta la Roma notturna; Lucio, il proprietario, era un uomo secco e smilzo, piccolo e sempre nervoso, con un occhio completamente vitreo e cieco. Era un uomo burbero, che però adorava chiacchierare e avere tanti clienti - e soldi - e non era inusuale che organizzasse spettacolini durante le feste.
Se poi si trattava di onorare il dio Bacco, che gli portava non pochi incassi, aveva deciso che poteva pure chiamare una compagnia di teatro quasi seria.
Entrai nel locale che era tutto in fermento: i tavolacci erano stati spostati verso l'entrata, ammucchiati, e la gente stava seduta sopra, sorseggiando il vino speziato; in fondo, delle tendacce - probabilmente i teli che coprivano i barili nel carro - formavano le quinte, nascondendo alcuni centimetri di spazio, dedicato alla preparazione. Mi avvicinai con cautela e mi misi in un angolo, bevendo il vino che sapeva di miele, e aspettai per capire cosa stesse succedendo.
All'improvviso, un uomo dai lineamenti delicati e la pelle scura spuntò da fuori le tende, facendo sobbalzare l'intera stanza.
«Oh, Ascilto, copriti e sbrigati, il tuo amico Encolpio sta qui giungendo e non apprezzerà mai che il mio gentile corpo sia stato toccato dalle tue forti mani!» la voce dell'attore era acuta, da ragazzino, e anche il viso sottile ne tradiva la giovane età.
Di colpo un uomo più alto di lui e più muscoloso entrò a sua volta sul palco improvvisato, girandosi intorno e coprendosi il corpo con uno straccio.
«Bel Gitone, che ci fa quell'idiota qui intorno? Non sta forse a parlar di retorica con vecchi babbioni barbosi?»
La sala scoppiò a ridere e anche io mi divertii, sentendo il tono strafottente del personaggio.
«Ah, non so, magari gli manco come manco a te!» lo punzecchiò il giovane, neanche degnandolo di uno sguardo. Le gambe erano magre e snelle e coperte solo da una leggera e scura peluria.
«Gitone! Che ci fai...» il terzo protagonista era entrato e fissava sconvolto il cosìdetto Ascilto. La mascella rimaneva aperta, in segno di stupore.
«Maledetto! Hai toccato il mio giovane e bel Cupido?! Devo forse ammazzarti!?»
«Oh, no, Encolpio, no!» immediatamente il ragazzino dai folti e scuri capelli ricci si era buttato tra le braccia del nuovo personaggio, stringendolo e lasciandosi stringere. La voce lacrimevole lo pregò di risparmiare il suo amante e di perdonarlo.
Rimasi sconvolto io stesso da tutto ciò, dalla sincerità con cui quell'attore recitava, dalla naturalezza con la quale rivestiva ogni gesto e ben presto mi innamorai io stesso del dolce e giovane Gitone. Mi chiesi chi fosse, chi possedesse quegli occhi tanto bianchi, incastonati in quel viso da piccolo dio del sud. Mi spostai più avanti come attratto irresistibilmente da lui, fino a finire in prima fila e poter osservare così i suoi bellissimi lineamenti e la sua figura snella e magnifica.
Le labbra piene pronunciavano parole che sembravano più dolci del miele che avevo bevuto disciolto nel vino e il suo naso leggermente schiacciato fremeva ogni qualvolta doveva pronunciare una battuta più lunga.
Ero rimasto folgorato dalla sua bellezza e dalla sua bravura e quando tutto finì, quando le risate cessarono e molte più teste erano posate sui tavoli, perché la maggior parte dei clienti era ubriaca, mi avvicinai agli attori, che stavano risistemando le loro cose.
Molti di loro portavano ancora i vestiti di scena e i loro visi erano truccati per metà, visto che il sudore aveva sciolto i cosmetici casalinghi, velocemente sistemavano quella poca scenografia che avevano disegnato grossolanamente e tiravano giù la tenda. Erano sì e no cinque persone. Il ragazzo dalla pelle scura non si vedeva, ma, al contrario, notai un anziano che stava parlando animatamente con Lucio, contrattando sul prezzo. Capii che probabilmente era il proprietario della compagnia e quando si voltò, tornando dai suoi attori, zoppicava, tenendosi in equilibrio grazie a un bastone.
Io ero vestito come uno stracciaiolo, anzi, ero uno schiavo, ero vestito come uno schiavo, per di più uno schiavo di bassa lega; mi squadrò a lungo, cercando di capire cosa volessi e io ricambiai le occhiate: portava una barba corta e ispida, che donava al suo viso allungato un'aria ancora più emaciata, gli occhi erano piccoli, ma vispi, non opachi, come spesso li avevano gli uomini della sua età, ma di un verde acceso. Mi fissavano intensamente, dandomi l'impressione di immobilità pura.
Il corpo era avvolto in una tunica troppo larga e le gambe magre riportavano varie ferite.
«Chi sei?» mi domandò brusco, spostandomi con una spallata e sedendosi a un tavolo dietro di me.
Lo seguii con lo sguardo e risposi.
«Uno schiavo»
Si voltò e alzò un sopracciglio, per poi tornare a darmi le spalle, dicendo seccato: «e perché ti rivolgi a me, che sono un cittadino libero?»
«Non mi sono rivolto a voi»
Si zittì, anche il rumore dei soldi tintinnati, che stava dividendo, si interruppe. Si voltò lentamente e mi scrutò a lungo.
«Perché sei qui, il tuo padrone non ha bisogno di te?»
«Ero venuto a complimentarmi» sorrisi, aggirando tranquillamente la domanda. Lui scoppiò a ridere, amaro. «I complimenti di uno schiavo, che grande onore. Ora sì che Traiano ci chiamerà alla sua corte e ci farà diventare uomini rispettabili!»
Strinsi le labbra, cercando di tenere a bada la lingua che aveva una tremenda voglia di rispondere a quel sarcasmo gratuito. Avvertii nella sua voce l'accento aspro della Grecia del nord, probabilmente l'Epiro o perfino la Macedonia, lo guardai e ripetei: «Siete stati molto bravi»
«Hai un nome, schiavo?» chiese lui, ignorando con tranquillità il mio secondo tentativo di complimentarmi.
«Aro» sospirai, amaro.
«Lavori la terra, Aro?» rise, divertito. Si era voltato del tutto, avendo finito di dividere i soldi. Sette pile, sei uguali e una più grande di appena due monete.
«No, ma ora come ora lo desidererei»
«Allora cosa fai, Aro?» sembrava volesse ripetere a tutti i costi il mio nome.
«E voi, come vi chiamate?» risposi secco io.
Nuovamente rimase in silenzio e poi scoppiò a ridere, scuotendo la testa: « Saggio e furbo, sicuro di essere ancora uno schiavo? Perché saresti perfetto per qualche commediola di Plauto... »
«Oh, non sapete quanto mi farebbe piacere...» dissi, fingendo calma e conoscenza. Non avevo la più pallida idea di chi fosse, quel Plauro.
«Comunque, io sono Demostene, mando avanti questa baracca da due soldi» indicò gli attori che ormai si erano seduti e stavano consumando allegri del vino, snocciolando tra i denti delle olive marinate.
«Dove sta Gitone?» risi, sedendomi tranquillamente accanto a lui, cercando di dimostrarmi il più sciolto possibile, come se fossi un suo pari «è andato a cercare un altro amante?»
Il greco mi guardò a lungo, poi scoppiò a ridere e scosse la testa, come se la cosa l'avesse terribilmente divertito.
«Eccolo» me lo indicò con la punta del bastone. Mi voltai e vidi la sua figura magra e piccola, fine, che si chinava verso il tavolo dei suoi colleghi ridendo.”
Aro prese un lungo respiro, chiudendo gli occhi e sussurrando: “Dio, dimmi... è così sbagliato amare incondizionatamente qualcuno? Qualunque sia questa persona? Tu ami ladri, assassini, ci dicono... perché ora usano le parole di vecchi pastori spacciandole per tue? Amai quel ragazzo all'istante, non appena vidi posare i suoi occhi scuri sul suo datore di lavoro e sorridergli gentilmente. A quel tempo era normale, non provavo vergogna e mi chiedo... perché ora, invece, l'amore deve essere ghettizzato, rinchiuso in celle asettiche, dove parole false e bugiarde, pompate, e manipolate marchiano la sua pelle?”
Si mise a sedere e lasciò a se stesso quel Dio proteso, passando a studiare gli uomini di Botticelli, che decoravano le pareti di lato.
“Sono così fallaci, Dio... Così tremendamente fallaci, questi uomini. Esseri che vivono un battito di ciglia, ma che modellano questo mondo che tu gli hai donato a loro piacimento. E tu li ami... e questo amore dovrebbe essere più giusto di mille altri. Mi confonde, questa tua religione, lo ha sempre fatto”.
Aro si morde un labbro e si rimise giù, riportando lo sguardo contro il suo interlocutore.
“Si faceva chiamare Apollo”, riprese, “e, tolti i capelli scuri e la fisionomia del sud, per me era un vero dio. Lo osservai in silenzio mentre parlava e gesticolava, feci attenzione al tono della sua voce, al suo accento, al modo in cui pronunciava la “c”, leggermente troppo decisa.
«Si chiama Apollo» disse calmo Demostene, bevendo dal calice. Un uomo si alzò e venne a chiedere il suo mucchietto di monete. Il vecchio gliele passò sorridendogli, come per ringraziarlo del buon lavoro. Dopo di lui lo seguirono altri, solo Apollo rimase seduto, in silenzio per mancanza di interlocutori.
Quando si alzò anche il mio corpo si tese: ero estremamente voglioso di stringerlo tra le mie braccia e riempire di baci quella bocca dalle grandi e morbide labbra rosate. Sorrise a Demostene e si sedette accanto a lui, ignorandomi.
Aveva braccia morbide e aggraziate, muoveva poco le mani, tenendole posate sul tavolo. Queste erano piccole e leggermente paffute, come quelle dei bambini, desiderai nel profondo stringerne una e portarmela sul viso.
«Questo servo è venuto a farti i complimenti, Apollo»
Il ragazzo si voltò verso di me e i suoi ricci neri ondeggiarono leggermente, mi guardò a lungo poi ripeté: «servo?»
Sospirai, tristemente e cercai di sembrare comunque amichevole.
«Sì, sono un servo» 
Ma a differenza di Demostene, Apollo mi sorrise gentile, mostrandomi i denti bianchi; notai che gli incisivi inferiori erano leggermente accavallati.
«Come ti chiami?»
«Aro» questa volta provavo il bisogno di dirgli tutto, di fargli sapere quante più cose possibili su di me.
«Dove lavori?»
«Alle terme» risposi prontamente. Demostene emise uno sbuffo e sogghignò: «a un vecchio come me non le dici certe cose»
«Bhé, è o non è Apollo? Non posso non rispondere alle domande di un dio»
Il ragazzo scoppiò a ridere, una risata cristallina, quasi, femminea. Poi si alzò, sempre allegro.
«Inizio a tornare a casa, Demostene»
L'uomo lo guardò tetro, come se lo stesse ammonendo; pensai che le strade di Roma a quell'ora, per un ragazzo bello e giovane come lui, potessero essere molto pericolose.
«Loreno mi accompagnerà, non preoccuparti» 
Senza aggiungere altro lasciò il tavolo, salutandomi con un cenno del capo, dirigendosi verso l'uscita. Lo seguii con lo sguardo, rapito come mai mi era capitato in tutta la mia vita. Non appena sparì dalla mia visuale mi voltai verso Demostene, febbricitante.
«Quando posso rivedervi?»
«Non avvicinarti ad Apollo, ti farai solo male, giovinotto»
Lo ignorai.
«Quando posso rivedervi? Quando metterete nuovamente in atto una cosa del genere?» lo guardai negli occhi, seriamente, «ve lo chiedo per favore» conclusi.
Alzò un sopracciglio, poi si alzò a sua volta, anche se tenendosi a malapena in piedi.
«Al matrimonio di Lucius Frigus, il tintore dell'Aventino» tagliò corto, borbottando qualcos'altro in greco e lasciandomi lì”.



Angolo autrice:
come si nota che sta per riniziare scuola?
perché ho fatto fare ad Aro il mio stesso percorso per andare al mio liceo, solo che lui è andato a fare lo schiavo alle terme. È un messaggio assai poco subliminale per esprimere la concezione che ho, attulamente, dell'inizio del mio ultimo anno di liceo.
Il Satyricon non veniva rappresentato a teatro, non credo neanche ci fosse un copione, per cui le battute sono mie, come una sorta di riscrittura dell'opera di Petronio. Ho cercato di ricostruire più fedelmente possibile la fisionomia della città, ripescando qua e là vecchie cartine in 3D e ricordi di visite guidate varie.
Non credo ci sia molto altro da dire... spero che il capitolo vi sia piaciuto ;) ci vediamo giovedì!


Vi lascio anche la solita linea temporale (: qui.
La storia fa parte della raccolta L'Enciclopedica visione dei Volturi.
   
 
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