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Autore: BrokenArrow    14/09/2011    5 recensioni
Confuso, mi avvicinai brancolando nel buio verso la luce lunare riflessa sul pavimento gelido. Quando la mia ombra si rifletté per terra, fui spaventato e incredulo di ciò che vidi, come un cieco che vede il mondo per la prima volta.
All’altezza delle spalle, dall’incavo delle costole, spuntavano un paio di ali nere.
Le mie parole uscivano a stento, soffocate dall’orrore che provai in quel momento. Impotente di fronte a quell’ombra che non mi apparteneva, mi piegai a terra e sbattei forte i pugni. Lacrime amare che non potevo fermare, scesero a fiotti, impregnando la pietra opaca.
Mentre prima sentivo le forze ritornare ora non ne possedevo più, nemmeno un briciolo. Mi sentivo come un contenitore senza alcuna utilità, svuotato da quella triste verità che ora mi apparteneva e che mi avrebbe segnato per sempre.
Ora lo sapevo... destino peggiore della morte era la dannazione eterna.
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando mi risvegliai il sole aveva già investito gran parte della mia camera con i suoi sottili raggi di luce che filtravano dalla persiana. Non mi sentii per nulla riposato, ero solo un po’ meno stanco di prima. Mi girai su un fianco e guardai l’orologio sul comodino: l'una passata, troppo tardi per andare a scuola. Mi misi supino e rimasi per un po’ a fissare la parete azzurro chiaro davanti a me, con affisso un poster dei Pantera di qualche anno prima.
Avrei voluto essere come quel pezzo di carta. Era rimasto lì, intoccabile. Il corso del tempo non lo aveva trasformato, magari era un po’ ingiallito, ma era ancora lì, come sempre, incurante del mondo.
Phil, il cantante della band metal, mi squadrava e sembrava volesse urlarmi qualcosa, incitarmi ad alzarmi e a continuare a vivere, come avevo sempre fatto, anche se con una piccola eccezione: ora ero cambiato, qualcuno mi aveva affibbiato un paio di ali, come se non avessi già abbastanza problemi. Stufo di girarmi i pollici, decisi di ascoltare Phil. Feci per sedermi sul letto e mi accorsi delle piume nere sparse sul letto solo dopo averle toccate. Un pensiero lampante mi passò in mente. Mi sfiorai la schiena e per la prima volta dopo la notte trascorsa, sorrisi.
Le ali erano scomparse e io non le avevo sentite chiudersi dentro di me. Com’era possibile? Ora ci capivo ancora di meno. Forse mi sarei potuto controllare in qualche modo. O forse la mia trasformazione era legata alla notte, mentre di giorno sarei ritornato il ragazzo di sempre, quello che suscitava pietà ogniqualvolta incrociasse lo sguardo di qualcuno che sapesse. Il ragazzo bravo a scuola e quasi sempre composto, simpatico alla gente e forse un po’ invidiato. Tutto sarebbe stato come prima, come se quelle ventiquattro ore fossero state cancellate per sempre dalla faccia della terra. Non potevo saperlo, ma soprattutto mi spaventava il fatto che non ero in grado di prevedere quando mi sarebbero rispuntate le ali e lo avrei scoperto soltanto quando sarebbe venuto il momento.
Sfiorai una piuma nera, la presi e l’osservai attentamente nel palmo della mia mano. Non potevo credere che una piuma tanto liscia e fragile, simile a quella di un corvo, fosse diventata tutto a un tratto parte del mio corpo.
Sentivo agitarsi dentro di me emozioni contrastanti. Non potevo negare che ciò mi suscitasse frustrazione e rabbia ma, pur essendomi estraneo questo nuovo corpo, volevo fuggire dalla monotonia che mi attanagliava già da troppo tempo. Forse sarebbe stata questa novità inaspettata a spezzare i miei giorni, sempre più uguali e ripetitivi.
La prima cosa da fare era senza dubbio scoprire chi fosse l’artefice di tutto questo; sapevo benissimo che non sarebbe stato per nulla facile ma la presi come una sorta di sfida nella quale avrei combattuto sotto forma di un nuovo essere. In un certo senso mi sentivo più sicuro e potente di quanto non lo fossi mai stato prima e questa certezza mi tranquillizzò un po’.
Mi alzai dal letto e con passo strascicato raggiunsi il bagno. Guardandomi allo specchio vidi il me stesso di sempre e anche questa evidenza mi rassicurò un poco. M’inondai il viso di acqua gelida, convinto che questo fosse il miglior modo per togliermi la spossatezza di dosso, ma funzionò ben poco. Ne approfittai per farmi una doccia che riuscì a svegliarmi del tutto. Mi asciugai velocemente i capelli sistemandomi i neri ciuffi ribelli che ogni mattina trovavo sempre nelle posizioni più strane. Presi dall’armadio una camicia azzurra e me la misi lasciandola leggermente sbottonata.
Il mio stomaco brontolò, protestando per la fame, perciò raggiunsi il soggiorno, accesi la tv e mi fiondai in cucina per prepararmi delle uova col bacon. Ci misi un attimo, soddisfatto delle doti culinarie ereditate da mia madre, anche se preparare due cose in croce non era un impresa da eroe, ma prima o poi qualcuno avrebbe avuto l’onore di apprezzare i miei piatti, ne ero certo. Mi sedetti nel tavolo del soggiorno e, mentre degustavo la colazione che mi ero cucinato, fui catturato dalla notizia che stavano dando al telegiornale locale. Una giornalista poco esperta stava annunciando un omicidio.
"Trovata una donna venticinquenne sbranata da due rottweiler nei pressi di Boundary Street a Salem. I mastini dopo aver aggredito anche un passante, ora in gravi condizioni, sono fuggiti senza lasciare tracce. La donna è stata trovata dissanguata in mezzo a un mare di piume bianche. Non è ancora stato svelato il motivo di questa particolare circostanza, che si crede sia stata una coincidenza, sta di fatto che le autorità stanno facendo il possibile per ritrovare i due mastini e un possibile colpevole dietro a questa macabra vicenda."
Seguiva poi una fotografia della donna con sotto scritto il suo nome: Clare Geralds. Era bionda, con una pelle diafana e ancora giovane e sorrideva, forse anche troppo, alla morte che l’aveva reclamata.
Spensi la tv e rosicchiai il bacon, pensando a quella strana circostanza in cui era stato ritrovato il cadavere di quella donna: in mezzo a un mare di piume, aveva detto la giornalista. Nel caso non si fosse trattato di una coincidenza che nesso avevano delle piume con un omicidio? Senza contare che non era stato visto un assassino vero e proprio ma solo due mastini con istinti omicidi.
Nel caso ci fosse dietro un assassino, allora si sarebbe trattato di uno schizofrenico che si era voluto divertire un po’. Nel caso fossero stati esclusivamente i due cani ad aggredirla, allora si sarebbe solo trattato di pura casualità, seppure insolita. Forse degli uccelli assassini avevano banchettato sul suo corpo. Scrollai la testa. Era una spiegazione poco plausibile e troppo fantasiosa. Mi sforzai di pensare ad altro, ma non ci riuscivo. Quella notizia mi aveva lasciato un vago senso di inquietudine e turbamento.
Il silenzio del soggiorno era rotto dal ticchettio incessante e monotono dell’orologio a pendolo accanto alla libreria, cosa che faceva aumentare il mio disagio.
l tempo passava e non riuscivo a togliermele dalla testa. Piume. Le stesse che ora erano diventate parte di me. La mia testa si riempì di supposizioni e ipotesi a cui nemmeno io volevo credere e a cui non volevo dare ascolto. Sperai che si trattasse solo di una coincidenza. Chiusi gli occhi per concentrarmi e lo ripetei più volte nella mia testa. Solo una coincidenza, una fottutissima coincidenza. Ma anche dopo averlo ripetuto cento volte, non mi sentivo affatto convinto.
Stavo sgombrando il tavolo quando i miei pensieri furono interrotti bruscamente da qualcuno che bussò forte alla porta. Andai ad aprire, sperando di non trovarmi davanti il solito venditore di cianfrusaglie inutili o peggio ancora un falso mendicante.
“Ehilà! Come andiamo, Hayden?” Mio zio Jared mi salutò con un sorriso smagliante stampato in faccia.
“Ciao zio, a che devo l’onore di questa visita?” chiesi, sarcastico.
“Vedo che sei sempre di buonumore!” mi rispose, con un sorriso per niente turbato.
“Volevo sapere come stavi, tutto qua.” Eccola. La domanda che tutti quelli che incontravo mi facevano sempre e a cui rispondevo sempre mentendo, che stavo bene, ma a lui non potevo mentire.
“Come vuoi che stia? Non c’è affatto bisogno che tu me lo chieda…” dissi, cercando di mantenere un tono educato. Ma era difficile.
“Hai ragione, scusami. Allora? Hai intenzione di farmi entrare o mi lascerai qui per sempre?”
“Vorrei tanto lasciarti qui sulla porta, ma dato che sei il mio tutore e visto che io sono molto “intelligente”, mi tocca proprio farti entrare.”
“Che nipote simpatico che ho!" disse, ridendomi in faccia. "A proposito, non hai ancora fatto aggiustare il campanello…” Mi guardò di traverso, con un tono di lieve accusa e rimprovero.
“Prima o poi lo farò.”
“Ah…se non ci fossi io” stava finendo la frase ma io lo interruppi.
“Già, se non ci fossi tu…” gli dissi con un sorrisetto, lasciandogli illudere il seguito della frase. Accennò un sorriso, mostrando due piccole fossette, una caratteristica di famiglia.
Lo feci entrare e subito si accomodò sul divano. Si guardò intorno per un po’ ad ispezionare la casa come un assistente sociale poi sfogliò una rivista di moto che lasciò perdere quasi subito.
Mi sedetti anch’io sul divano di fronte a lui e l’osservai di nascosto per un istante. Sembrava tormentato da pensieri irraggiungibili e impenetrabili che sembrava non volessero lasciarlo in pace. Si guardò un po’ intorno e il suo sguardo si soffermò sul pianoforte a coda davanti alla vetrata che dava sulla veranda. Sapevo cosa stava per chiedermi.
“Non l’hai più suonato?” mi chiese. Gli occhi ancora fissi sul pianoforte. Sembrava ipnotizzato.
“No…” risposi. Tornò improvvisamente a guardarmi come se avessi schioccato le dita davanti ai suoi occhi e lo avessi risvegliato dalla trance in cui era immerso.
“E’ davvero un peccato, lo sai? Hai sempre avuto un talento speciale per la musica e tuo padre se n’era accorto.”
Non risposi. Non sapevo proprio cosa dire. Non avevo più toccato quel pianoforte da dopo l’incidente dei miei genitori. Nonostante questo, amavo suonare più di ogni altra cosa. Ogni volta che suonavo, le singole note scaturite dai tasti neri e bianchi formavano una melodia bellissima dentro di me che mi toccava l’anima. Suonare era la cosa che più mi faceva sentire vivo. Ma come potevo sopportare quella sensazione di angoscia e smarrimento ogni volta che il mio sguardo si posava su quel pianoforte? Ricordai la prima volta che avevo iniziato a suonare: la mia prima lezione. Mi apparve come in un sogno: proprio là, davanti a me, vidi un bambino eccitato, seduto sulla seggiola nera, che spingeva con le sue dita sottili dei tasti a caso, impaziente di incominciare la lezione e un uomo alto, con gli occhiali, in piedi accanto a lui, una mano appoggiata delicatamente sulla sua spalla, segno che la lezione stava per incominciare. Come potevo scacciare via quei ricordi dalla mia mente? Semplicemente non potevo, ecco.
Accortosi del mio lungo silenzio, zio Jared decise di cambiare discorso e mi spiazzò con questa domanda, diretta e tagliente come un rasoio.
“Sei sempre sicuro di voler vivere qui da solo? Non è che per caso hai cambiato idea?” Il suo volto era pieno di speranza.
“No, rimango della stessa opinione: questa è la mia casa e non ho intenzione di andarmene. E’ stata una mia decisione, se non ricordo male.” gli dissi, pronto e sicuro di quello che dicevo, guardandolo dritto negli occhi. Lui sospirò.
“Lo so che sei un ragazzo che nei momenti difficili si chiude in se stesso e non vuole l’aiuto di nessuno. Sei sempre stato così fin da quando eri piccolo, ma la solitudine non ti fa bene. Potresti venire a vivere con zia Gin, Ian e me...” Questa proposta me l’aveva fatta un miliardo di volte e io, un miliardo di volte, gli avevo risposto di no.
Non volevo far parte di un’altra famiglia. Ormai la mia l’avevo già persa con la morte dei miei genitori. Non sarei mai riuscito a vivere con i miei zii e il mio cuginetto. Sebbene fossero miei parenti e fosse giusto stare con loro, non ce la facevo ad accettare la sua proposta, senza contare lo spiacevole inconveniente che mi era capitato la notte scorsa. No, era proprio impossibile.
“Mi dispiace, ma non ho intenzione di venire a vivere con voi. Mi stai chiedendo troppo.”
“Ok, scusami se te lo chiedo così tante volte, è che non voglio che tu possa pensare che ti stia abbandonando dopo quello che è successo. Lo so che hai diciannove anni e se potessi ti porterei subito da me.” Aveva gli occhi colmi di disperazione e la voce quasi gli si spezzò, ma continuò a parlare. “A parte questo, quando vorrai venire a vivere con noi, sarai sempre il benvenuto.”
Nemmeno per lui era facile superare la morte di suo fratello. Quell’apparente normalità avvolta in una palla di cristallo, con cui aveva oltrepassato la soglia di casa mia, ora si era frantumata in tanti pezzi che non riusciva più a ricomporre.
Mi sentii in colpa per come mi ero comportato con lui, la persona che più si preoccupava per me e la più cara, così rimediai subito.
“Sono contento che ci sia tu con me, zio.” Lui subito si illuminò, sapendo che ero stato sincero. Un sorriso attraversò il suo viso. Dopodiché si alzò di scatto. Aveva incominciato a raccogliere i pezzi di vetro della sua palla di cristallo.
“Bene, ora sarà meglio che vada,” mi abbracciò forte, “Ian mi aspetta per la partita a scacchi, è un portento quel ragazzo!” esclamò, orgoglioso di suo figlio, come tutti i padri del resto. Sorrisi tristemente. Come mio padre.
Zio Jared assomigliava un sacco a lui. Aveva gli stessi capelli corvini, che avevamo ereditato un po’ tutti in famiglia, e le folte sopracciglia nere. Anch’io assomigliavo un po’ a mio padre, a parte gli occhi chiari che avevo ereditato da mia madre. Mio zio invece gli assomigliava persino nel carattere: era sempre ottimista e spensierato.
Seguii zio Jared fino all’ingresso e prima di varcare la soglia sobbalzò di colpo, facendo sussultare anche me che gli ero dietro.
“Ah! Quasi dimenticavo, hai sentito dell’omicidio della scorsa notte? Quello operato da due rottweiler? incredibile, non è vero?” Sussultai ancora, non appena sentii di quale omicidio si trattava.
Per un po’ di tempo zio Jared mi aveva fatto dimenticare la vicenda e ora era proprio lui che me la faceva tornare in mente.
“Sì, l’ho visto mezz’ora fa alla tv.” Risposi, con aria falsamente indifferente.
“E’ sconcertante che una cosa del genere sia accaduta proprio a Salem! E poi quelle piume trovate intorno e sul corpo di quella donna… uno cosa dovrebbe pensare?” mi chiese con aria interrogativa e piuttosto indagatrice come se da me si aspettasse veramente una risposta.
“Non ne ho la minima idea.” dissi secco. In realtà un’idea ce l’avevo, ma era veramente azzardata e non osavo esporla.
“Nemmeno io, ci vediamo, Hay.” Uscì dalla porta.
“Ciao, zio.”
“Stammi bene, d’accordo?” mi disse, apprensivo, mentre era già sul marciapiede della strada.
“Ci proverò.” gli risposi accennando un sorriso forzato e chiusi la porta. Mi appoggiai con la testa ad essa, gli occhi fissi sul soffitto. Restai in attesa, i passi di zio Jared che si allontanavano sempre più. Passò un minuto, poi due. Chiusi gli occhi esausto e sospirai, scivolando giù fino a terra.
Mio zio aveva ragione, ero solo. La mia vita sociale si era ristretta a casa e scuola. Uscivo sempre meno spesso, se non per le cose necessarie come comprare da mangiare, andare a scuola, fare benzina e solo altre cose di prima necessità. Certe sere, quando non riuscivo a dormire, uscivo di casa, salivo sulla mia moto e sfrecciando come un pazzo raggiungevo la costa, fino ad arrivare a Lincoln City. Amavo quel posto, soprattutto amavo camminare sulla spiaggia, resa selvaggia dalle onde furiose del mare che minacciavano di inghiottire le case costruite sulla sabbia, e dalle scogliere impervie a strapiombo sul mare. C'erano volte in cui mi fermavo per ore a contemplare il moto infinito di quelle onde, inspirando piacevolmente la fresca aria della notte. In quel posto apparentemente perfetto, spesso perdevo la cognizione del tempo e capitava che rimanessi semplicemente ad ascoltare, tutta la notte, per poi ritornare a casa all’ alba. Amavo quelle notti insonni, fuori di casa, perché il posto in cui mi trovavo era esattamente dove avrei voluto essere in quel momento, lontano dal mondo e da tutti. Senza un'anima viva nel raggio di chilometri. Solo io e il mare.
Però zio Jared aveva ragione: mi stavo chiudendo sempre di più in me stesso. Una tartaruga nascosta nel suo guscio che non aveva la minima voglia di uscire allo scoperto, ecco cos’ ero diventato. Sapevo che sarei peggiorato e questo non lo volevo di certo, ma non trovavo più una ragione per cui valesse la pena vivere. Per chi dovevo alzarmi ogni giorno e vivere la mia vita? Per i miei zii, per i miei amici, certo, ma per chi altri? Per me stesso? Avevo smesso di pensare a me stesso già da un bel po’.
Sentii un lieve pizzicore negli occhi: senza accorgermene era scesa qualche lacrima. Mi asciugai velocemente con la manica della camicia. Non volevo sfogarmi in questo modo. Dovevo trovare un modo per liberarmi da questa angoscia ormai divenuta quasi sempre presente. Non volevo restare in questa situazione per sempre, avrei trovato un modo.
Mi convinsi di ciò e andai in camera mia. Pescai una felpa a caso dall’ armadio e per prima cosa decisi di uscire.
Con decisione sbattei forte la porta, lasciandomi alle spalle la casa che ormai era diventata la mia tomba.
 
  
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