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Autore: Solieh    18/09/2011    1 recensioni
Tutta questa neve che ora, come allora, cade e si posa leggera su se stessa, che senso ha? Che senso ha restare a guardarla tenendo per mano Kaito?
Dio, colei che mi strugge, ancora oggi porta il nome Aoko.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Kaito Kuroba/Kaito Kid
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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“Ciao Aoko,ne è passato di tempo” sorride “Quanti? Sei?”
“Otto” accompagno il suo sorriso con il mio.
“Allora tanti auguri Aoko,per i tuoi venticinque anni” sorride ancora più forte e più triste “La bambina che porti per mano chi è? Una figlia di conoscenti?” la guarda preoccupato.
“Prova un po’ ad indovinare?” il mio sguardo si è spento di nuovo.
 
È sempre stato alquanto complicato per me portare le cose fino in fondo. Correre per un giro intero, dormire tutta la notte, stare ferma per tutto il tempo che mi veniva chiesto di farlo. Studiare un intero capitolo. Non era nel mio stile rimboccarmi le maniche e stringermi una fascia intorno alla fronte gridando che il domani sarebbe stato migliore di oggi. Non era nel mio stile credere nel domani, credere nella vita, credere in me. Non riuscivo a studiare per un intero anno scolastico, non riuscivo a sorridere per un intero giorno, non riuscivo a dormire per un’intera notte. Mai. Era per quel motivo che avevo cominciato a scrivere una storia, per quanto ridicola e inverosimile fosse, che aveva per protagonisti ragazzi capaci di credere in loro stessi, nel domani e nella vita. Io avevo paura di tutto, piangevo spesso e parlavo con voce sommessa seppur graziosa. Inoltre le cose non andavano mai come io avevo previsto. Il che non faceva altro se non alimentare la mia insoddisfazione. Avevo così tanto dolore nell’anima che se fossi stata un personaggio di un racconto fantascientifico, con un raggio energetico avrei raso al suolo la terra. Tanto era l’odio che covavo nel corpo, che avrei distrutto tutto.
“Non sei andata a scuola neppure oggi” mio padre parlava a voce bassa quando fumava.
“No,sto male” sorrisi.
“E che hai?”
“Mal di stomaco, mi gira la testa e mi fa male la schiena”.
Mi aveva guardata poco soddisfatto e quando io avevo fatto per andarmene di sopra in camera mia lui aveva ripreso parola “Di nuovo non vai più a scuola, la primavera ti fa male”.
“Ma papà, se siamo ancora a Febbraio?”
“Errato. Primo Marzo, proprio oggi”. Che poi comunque non era primavera.
Qualche anno più tardi mi son chiesta perché per me quell’inverno sia stato il più speciale se neppure mi accorsi della sua fine. La risposta è un qualcosa al quale non sono arrivata subito, bisogna soffrire prima di farlo. E quando ci sono arrivata ho sofferto ancora di più. Dunque non ha senso, me ne rendo conto.
“Aoko” mi girai verso mio padre “Kaito, che fine ha fatto?” mi guardava pensieroso “Sta venendo a scuola?”.
“Si” più che un’affermazione il mio era un sussurro. Sorrisi a denti stretti.
“Perché mi dici bugie?” aveva tossito burbero.
“Scusa”
“Non so quello che ti ha detto ma … si è trasferito” le pupille, alle parole di mio padre, si restrinsero e il cuore mi fece così male che d’impulso mi infilai le scarpe e corsi verso la residenza Kuroba.
Le luci erano spente e il cancello chiuso col lucchetto, mi accasciai in terra nella neve fredda. Più volte ho pensato che è più facile morire per colpa della vita piuttosto che per colpa della morte stessa. Più volte sono morta, quella non fu certo la prima. Eppure sembrava un dolore nuovo. Senza Kaito ero persa. Ero conscia di odiarlo per certi versi, ma sapevo che l’amore che provavo per lui era in grado di azzerare quell’odio all’istante. Kaito era sempre stato sorridente dalla prima volta che l’avevo visto. Anche se suo padre era morto, anche se sua madre era troppo dolce perché lui potesse esserle grato come si meritava, anche se pensava che la sua vita non avesse un senso, lui sorrideva perché aveva una missione. Probabilmente il senso della sua vita gliel’avevo strappato io. Perciò pensavo che non dovevo starmene con le mani in mano a pensare che senza di lui non potevo vivere. Due lacrime rigarono le mie guance e andarono a morire nella neve. Quando sarei tornata a casa mi sarei tolta la vita. Ci pensai seriamente e voltai le spalle alla casa di Kaito per andarmene da questo mondo il più in fretta possibile. Piangevo perché ero consapevole che una volta arrivata a casa non avrei fatto niente. Pensavo cose come “se decidi di morire fallo immediatamente, basta un attimo di ripensamento e non lo fai più” e io mentre sarei corsa verso casa, ci avrei ripensato sicuramente. Mi sedetti di nuovo nella neve. Non piangevo neanche più. Non sapevo neppure cosa pensare.
“Aoko,allora sei venuta?” la voce di Kaito mi raggiunse dall’altra parte del cancello, all’improvviso. Come se all’improvviso la sua voce avesse spazzato via tutta la neve e il freddo. Le mie guance presero colore e d’impulso balzai in piedi guardandolo negli occhi spaventata.
“Kaito” ero sorpresa sempre più mentre lui apriva il cancello per farmi entrare “che ci fai tu qui?” lo guardavo incredula. Avevo un espressione truce, avrei voluto piangere ancora, anche se avevo diciassette anni e mi sembravano troppi per farlo. Avrei dovuto farlo.
“Non è vero che mi sono trasferito, non ancora almeno. Ho chiesto a tuo padre di reggermi il gioco per farti venire qui” sorrise facendomi entrare in casa.
La casa era calda e il rosso delle mie guance saliva sempre di più.
“Che vuol dire “non ancora”?” mi tolsi il giacchetto posandolo su una poltrona del salotto. Kaito sedette di fronte a me così io tenevo lo sguardo rivolto a sinistra, per non incontrare i suoi ingannevoli occhi.
“Aoko-ch..”
“Non stiamo insieme quindi vedi di prendere le distanze, per favore. Non chiamarmi Aoko-chan” ero così poco convinta che spinsi lo sguardo ancora più lontano.
“Ti chiamo così da quando abbiamo cinque anni”
“Affar tuo. Nakamori-san, così devi chiamarmi” la parte destra del labbro superiore mi si tirava su, come fanno i felini quando ringhiano. Digrignavo i denti in segno di nervosismo.
“Nakamori-san” ripeté lui dispiaciuto. Prese fiato “Non sono bravo a parole…”
“Ma non mi dire. E pensare che il famoso ladro Kid inganna un sacco di belle ragazze con le parole” ero più cinica che mai all’apparenza, ma il mio sguardo era sempre più lontano. Le gambe mi tremavano perché il cuore pregava il cervello di non dar loro l’impulso di alzarsi e correre via. Cos’è che stavo aspettando?
Cos’è che aspettavo?
“Aoko … io ti amo” aspettavo già allora che Kaito mi desse una buona ragione perché le gambe smettessero di tremare.
“Si, lo so. Però sono stanca di seguire i tuoi improvvisi sbalzi d’umore” arrossii guardandolo finalmente negli occhi.
“Vuoi dire che non t’importa il perché, vero? Non ti importa di sapere quello che provo quando impersono Kid?” era apatico e un velo appannava lo scintillio solito dei suoi occhi.
“Certo che m’importa, cosa credi che sia stupida? Smettila di essere Kid, Kaito! Ti rendi conto dei rischi che corri e non a livello fisico sciocco, io parlo di come ti senti dentro” lo guardavo arrabbiata e impietosita. Lui mi guardava mantenendo un sorriso sghembo e sfacciato sulle labbra. Come se non credesse neppure a una parola.
“Guarda che è la stessa cosa che stai facendo tu” aveva distolto lo sguardo “Quella stupida storia, ti avevo chiesto di bruciarla e non l’hai fatto” era arrabbiato davvero.
“Ti ha sconvolto così tanto?” mi ero alzata in piedi guardandolo con disprezzo e sconforto.
Lui era rimato sul divano di fronte a me “Se tu bruci quella storia io smetterò di essere Kid” aveva chiuso gli occhi nel dirlo.
“Io continuerò a scrivere” avevo abbassato la testa. Continuai a ripetere a me stessa che non l’avrei più visto. Aveva pronunciato un “non ancora” di troppo.
“Io continuerò a volare” a quelle parole ero corsa verso la porta, avevo infilato le scarpe ed ero scappata via. Con forza e ridicolezza avevo aperto il cancello per mettermi a correre nella neve. D’improvviso una luce accecante di un auto si piazzò dritta davanti a me, tanto che riuscivo a percepirla anche con gli occhi chiusi. Forse, di tutte le volte che ho chiuso gli occhi per le troppe lacrime, quella è stata la più sfortunata. Non ricordo granché di quel momento. Ricordo la voce di Kaito che si apriva in un urlo, il cuore che andava all’impazzata. Poi la testa che impazzisce di dolore perché ha violentemente sbattuto contro un muro. Ricordo solo l’auto che ripartiva a gran velocità e le mani di Kaito intorno al mio viso e alla mia testa e il suo corpo sopra il mio, nell’intento di proteggermi. Riaprii gli occhi che mi facevano male.
“Non ti sei fatta niente, hai solo dato una capocciata al muro perché ti ci ho spinta con poca delicatezza” pareva ancora arrabbiato. Dopo pochi minuti di silenzio mi era anche passato abbastanza il mal di testa.
“Ti prego smettila di fare Kaito Kid” avevo detto piangendo ancora quando lui aveva fatto per tornarsene a casa “Kaito – chan facciamo pace, facciamo pace”. Lui se n’era andato senza che me accorgessi lasciandomi col suo solito sorriso sghembo e superiore. Quel sorriso che io conoscevo troppo bene, perché era lo stesso sorriso che spesso avevo io. E così capivo anche perché lui sorrideva in quel modo. Si sentiva forte perché la superiorità, l’intoccabilità, l’orgoglio erano una sensazione così piacevole da macchiare anche il suo vestito bianco.
 

Spero di aver scritto bene anche questo capitolo. Spero vi piacerà <3
  
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