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Autore: Aine Walsh    29/09/2011    8 recensioni
Noiosa. Ecco come si svolgeva la festa di Sara sotto il mio punto di vista.
Sì, Sara, la mia biondissima quanto simpatica compagna di banco nelle ore del corso di fotografia che frequentavo una volta a settimana dopo scuola, il pomeriggio.
Era una ragazza in gamba, ma la sua festa di compleanno si stava dimostrando un clamoroso fallimento, almeno per me, l’asociale a vita.
* * *
Prometto che mi farò venire in mente una Presentazione migliore!
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3° Capitolo
Hey Jude

La settimana passò normalmente, fra scuola, libri e chiacchierate al telefono, con la mamma che continuava occasionalmente a pranzare fuori e la nonna che rientrava per l’ora di pranzo, dopo aver passato la mattinata nell’asilo in cui aveva sempre lavorato e in cui avrebbe lavorato per un altro paio d’anni prima del pensionamento. Una settimana come tante altre, con i suoi alti ed i suoi bassi. Forse, per quanto mi riguarda, più bassi che alti data la surreale quantità di test e compiti in classe vari a cui ero sottoposta alla fine di ogni Trimestre.
Fino a quando non arrivò il sabato. L’atteso sabato.
Una volta terminato il pranzo, mi precipitai in camera mia, posizionandomi esattamente al centro tra l’armadio e lo specchio; quella volta non avrei potuto indossare la prima cosa che mi fosse capitata sotto gli occhi.
Dopo una lunga e ponderata riflessione, optai per un paio di jeans non troppo scoloriti e la camiciola in tessuto, quella a scacchi neri e verde muschio che, stretta sotto il seno, scende più larga fino al sedere.
Sarà stato pure un comportamento da inguaribili scettici o semplicemente da inguaribili imbecilli, ma possedevo un paio di scarpe portafortuna e, anche se stonavano completamente con ciò che avevo scelto di indossare, non mi feci problemi di nessun tipo ad allacciarle ai piedi. Erano le mie Converse a stelle e strisce, le scarpe più fortunate del mondo. Irene sosteneva che fosse pura e semplice coincidenza ma, casualità o meno, ogni volta che le indossavo accadeva sempre qualcosa di piacevole.
Una volta pronta, mi sforzai ad ammirare il mio riflesso allo specchio. Complessivamente ero passabile. La camicia mi faceva apparire un po’ più magra del solito e persino i miei capelli castano scuro perennemente scompigliati, per chissà quale forza, sembravano più ordinati.
Mi sistemai il colletto, tirai un sospiro e raggiunsi la porta d’ingresso, afferrando al volo la shopper nera che pendeva dall’attaccapanni.
Non dissi nulla alle due donne con cui vivevo, accennai solo che sarei andata in libreria dove avrei aspettato l’arrivo di Sara che mi avrebbe riconsegnato il famigerato cappotto.
Uscii di casa piuttosto in anticipo e mi diressi verso la fermata degli autobus più vicina; se i miei calcoli non mi ingannavano, avrei dovuto prendere tre corrispondenze.
La strada era poco trafficata, ogni tanto si vedeva anche qualche passante passeggiare tranquillamente per la via.
Alzai il capo a scrutare il cielo durante l’attesa. Era venuta fuori una bella giornata di sole e c’era un filino di caldo in più. Il maltempo arrivato improvvisamente la settimana precedente si era trattenuto ad incombere sulla città anche per i sei giorni seguenti, ma adesso la gente poteva tornare a respirare.
Marzo pazzo.
Sul terzo autobus, finalmente, riuscii a trovare un benedetto posto a sedere e non esitai ad occuparlo. Vista l’ora, sarei arrivata in ritardo di quindici o venti minuti, che rabbia. Fortuna almeno che fossi andata via prima. Nell’attesa infilai gli auricolari dell’mp3 nelle orecchie e appoggiai la testa contro il finestrino, mentre il veicolo iniziava a muoversi.
Ancora una volta a bordo di un autobus, incrociai i visi di gente curiosa. Sing for Absolution mi attraversava il capo da parte a parte ed io, intanto, osservavo sonnacchiosamente i movimenti di chi mi stava intorno.
C’erano una coppia di gemelle assolutamente identiche sedute nella terza fila che parlottavano fra loro e gesticolavano concitatamente, motivo per cui dedussi che, quello che avevano tra le mani, doveva essere un grosso affare; una donna nella quinta fila a destra che chiacchierava allegramente al telefono con qualcuno, non smettendo neppure un attimo di sbattere le sue lunghe ciglia nere mentre continuava a spostarsi senza sosta i capelli prima da un lato e poi dall’altro, lanciando occhiatine ad un uomo poco distante dal suo posto, troppo impegnato a leggere il suo giornale per accorgersi dell’interesse della passeggera; un ragazzino sui dieci anni chino sul suo Nintendo DS, estraniato dal resto del mondo, che...
Il mezzo si arrestò di colpo, ridestandomi. Sollevai il capo e lanciai uno sguardo fuori dal finestrino: potei scorgere il Poco Loco pochi metri più avanti, scesi e mi diressi da quella parte. Conoscevo il locale per sentito dire, ma non vi ero mai entrata e non avevo idea dell’ambiente che mi sarei trovata di fronte.
Ferma davanti all’ingresso, mi dondolai prima su un piede e poi sull’altro, indecisa se dover aspettare là fuori o meno, prima di risolvermi a spingere la porta di vetro scuro. Sapevo che era strano entrare in un ristorante alle quattro e mezza del pomeriggio e mi mossi piano, timidamente.
Era un bel posto, mi piaceva. Come si poteva intuire dal nome, il proprietario si era ispirato alla penisola Iberica e all’America Latina nell’allestimento del locale. Mi saltarono subito agli occhi i colori caldi delle pareti, delle tovaglie stese sui tavoli e perfino delle candele sopra ognuno di essi. Le mura erano adornate da sombreros che si alternavano a maracas verdi, nere o marroni. L’aria era riempita da un profumo di spezie misto ad un lieve odore di frittura. La sala era completamente vuota; mi avvicinai verso la cucina mentre dagli altoparlanti situati in ogni angolo qualcuno cantava che non valeva la pena d’innamorarsi  - in spagnolo, ovviamente.
«Ma salve!» esclamò una voce alle mie spalle.
Sobbalzai vistosamente. «S-sei tu» dissi a fatica, portandomi una mano al cuore per lo spavento.
Durante il mio tentativo di calmarmi e riportare i battiti al solito ritmo di sempre, il bel faccino di Matteo rideva divertito. «Scusami, non volevo spaventarti».
«Non è niente, non c’è problema».
Che idiota sono.
«Deve essere stato terrificante, ci sei solamente tu qui. Starò più attento, la prossima volta».
Mi morsi un labbro. «Va bene, forse - evidenziai bene la parola - mi sono un pochino spaventata».
Calò un imbarazzante silenzio che accennava a volersi protrarre per tanti, troppi secondi.
Abbassai lo sguardo ad ammirare le mie scarpe; percepivo il calore inondarmi le guance. Aveva puntato gli occhi su di me, lo sapevo.
«Vado a prenderti il cappotto» esordì infine.
Con mio grande e momentaneo sollievo, annuii e restai ferma sul posto mentre lo guardavo sparire dietro una porta. Pensai che stesse impiegando più tempo del dovuto, quando invece, una volta tornato nella sala principale, notai che si era anche cambiato: aveva sostituito la camicia blu della divisa con una felpa grigio perla che gli stava tremendamente bene e che, in qualche strana maniera, s’intonava anche al verde dei suoi occhi, che ebbi l’impressione - non so se a torto o a ragione - cercassero i miei.
«Eccolo qua» me lo porse.
Sorrisi grata intanto che prendevo il cappotto tra le mie braccia, pensando che, almeno per quel giorno, sarei stata risparmiata dalla furia di mia madre che riusciva a cambiare radicalmente atteggiamento e ad arrabbiarsi in un attimo nelle giornate no.
Donne quarantenni divorziate che scelgono improvvisamente di dedicarsi quasi esclusivamente al lavoro: valle a capire.
Matteo era lì, ritto, il suo sguardo che mi percorreva dall’alto in basso e viceversa. Ma il suo non era sguardo losco, stralunato o addirittura perverso - che mi era capitato di incontrare in altra gente - ma era piuttosto amichevole e curioso.
A rischiare, non avrei perso nulla. Se mi avesse risposto di no, beh, non lo conoscevo neppure, la mia vita avrebbe continuato il suo percorso. Se avesse risposto di sì, sarei stata a vedere cosa ne sarebbe derivato.
Mi schiarii impercettibilmente la voce, raccolsi tutta la sicurezza che avevo in corpo e domandai: «Ti andrebbe di... Fare un giro?».
Sia chiaro, sono timida con le persone che non conosco, ma una volta presa confidenza mi mostro per quello che sono realmente, con pregi e difetti - soprattutto difetti. Non riesco proprio a fare l’estroversa con gli sconosciuti, ma con lui dovevo provare. E dovevo farlo perché mi ispirava fiducia, perché sentivo che non mi avrebbe fatto del male, il che è anche parecchio strano se consideriamo il fatto che non lo conoscessi nemmeno. Era come se la forza di gravità mi attirasse verso di lui ed io non riuscissi a porre una forza maggiore per potermi ritirare. Una piccola graffetta che lotta con una maxi calamita, insomma.
«Stavo per chiedertelo anche io» rispose cordiale.
Buona educazione o meno, sincerità o meno, aveva accettato.
E a quel punto dovetti prestare attenzione a non far scomparire dal mio viso quell’espressione tutto sommato sveglia che ero riuscita a far venir fuori in favore di una da ebete.
Uscimmo in strada e passeggiamo così, senza sapere dove fossimo diretti, costeggiando il lungomare.
Il mare alla mia destra era blu intenso e non particolarmente mosso, tanto che c’erano tre barche a vela non molto distanti tra di loro, poco più sotto della linea dell’orizzonte.
«Ti chiedo scusa per il ritardo di prima, purtroppo il secondo autobus ha avuto problemi nel partire e sono stata costretta ad aspettare il successivo».
«Nessun problema, - gesticolò come ad enfatizzare quelle due parole - sei arrivata lo stesso».
Dato che eravamo insieme e stavamo tranquillamente passeggiando, decisi che sarebbe stata la giusta occasione per cercare di conoscerlo meglio. E poi, dovevo a tutti i costi cercare di sopraffare, in qualche modo, la timidezza che cercava di fare breccia per manifestarsi.
«E’ da molto che lavori al Poco Loco?».
«All’incirca da un anno. Una volta preso il diploma avrei dovuto subito iniziare l’Università, ma mi è stato impedito, in un certo senso… E allora ho incominciato a lavorare».
Possibile che avessi colto una minima, microscopica, minuscola nota d’agitazione nella sua voce? Perché mai? Non mi sembrava di avergli chiesto qualcosa di strano.
Rabbrividii al pensiero di aver già sbagliato una mossa e credo sia abbastanza inutile dire che iniziai a provare una voglia matta di sprofondare.
Prima figuraccia: riuscita.
«Tu vai ancora a scuola, invece».
«Sì, frequento un liceo Linguistico».
Si lisciò il mento e disse, interessato: «Cosa vorresti diventare?».
«Se me l’avessi domandato un anno fa, ti avrei risposto l’hostess».
«E adesso no?».
«Non più. Credo che mi piacerebbe diventare una giornalista».
«Uhm, figo. - giudicò - Io mi sono diplomato in un Istituto d’Arte e nei miei piani futuri c’era l’intenzione di prendere una laurea in Architettura. Immaginavo già l’insegna accanto alla porta del mio ufficio: “Dottor Matteo Jude Ardenne, Architetto”», recitò.
Mi unii alle sue risa, per poi chiedere: «Aspetta un attimo. Jude? E’ il tuo secondo nome?».
«Sì. Mia nonna si chiama Judith, ma i miei genitori decisero che non fosse un nome adatto a me e sto ancora a chiedermi il perché… Comunque sia, Jude. Chissà, forse è anche per questo motivo che ascolto i Beatles» concluse allegro.
Una manciata di secondi in silenzio.
«Suppongo che ti piaccia disegnare» osservai.
«Me la cavo. Di solito le nature morte ed i paesaggi mi riescono bene».
«Hai proprio l’animo dell’artista» sorrisi voltandomi a guardare la strada di fronte a noi. Avevamo camminato parecchio, potevo già scorgere un’altra fermata degli autobus in lontananza. A pensarci bene, salendovi, sarei arrivata proprio sotto casa. Magari me ne fossi ricordata prima!
«Perché?» domandò con semplicità, le sopracciglia poco inarcate.
«Perché suoni la chitarra e hai un diploma in Arte» spiegai.
«Beh, tu suoni il pianoforte».
«Suonavo. Sinceramente, l’idea di prendere lezioni di piano non mi ha mai entusiasmata molto e per questo ho abbandonato, quattro mesi dopo. Avrei preferito saper suonare la chitarra, come te».
«Non è mai troppo tardi» sentenziò, agitando scherzosamente il dito sotto il mio naso.
«Per cosa?».
«Per tutto e, in questo caso, per imparare a suonare la chitarra».
«Non posso permettermi di pagare un insegnante» sbuffai.
Fece spallucce. «Io non sono ancora un insegnante, quindi tu non devi pagarmi».
Lo guardai con gli occhi sgranati, stupita.
Si stava proponendo per darmi lezioni? Gratis, poi?
Diedi voce ai miei pensieri e glielo domandai.
«Sarei felice di farlo, sì» fu la risposta.
Mi sorpresi nel sentire ancora la mascella attaccata al resto della faccia, quando invece pensavo fosse caduta giù sull’asfalto.
In quel momento, l’autobus arancione ci passò accanto. Lo seguii con lo sguardo e lo vidi fermarsi qualche metro più avanti.
«Wow, sono senza parole, non so davvero come ringraziarti. Però scusami, è appena arrivato l’autobus e devo proprio tornare a casa. Mi mandi una mail?» dissi tutto d’un fiato, riuscendo a prendere coscienza in un attimo.
«Se vuoi, possiamo anche decidere adesso. Che ne dici di giovedì prossimo?».
Giovedì, giovedì. Me lo ripetei più e più volte in mente.
«Non ho nulla di particolare da fare» ricordai infine.
«Bene, giovedì. Credo che ti serva il mio numero, nel caso ti perda».
Ci scambiammo velocemente i numeri, mi segnai il suo indirizzo sul cellulare, ci salutammo e corsi verso l’autobus che accennava a ripartire.
«Ria! - lo sentii esclamare mentre stavo per salire sul mezzo - Non dimenticartene» aggiunse, una volta più vicino.
«Hey Jude, don't be afraid» canticchiai, con impresso sul mio volto un sorriso a trentadue denti che avrebbe potuto certamente fare concorrenza a Garfield.

 
Crazy Little Thing Called Love...

Boinsor, gente :) Come state? Vi chiedevate dove fossi finita? *Credo proprio di no*
A scuola, ecco dov'ero. Cioè, non è che abbia passato tutti i giorni tutto il giorno a scuola, ma anche quando sono a casa i compiti mi impegnano parecchio, e per questo ho ritardato un po'.
Voi che ne dite di questo capitolo? Io non so che pensare xD
Ho qualcosina da comunicare, quindi ricorro ad una bella lista...
1. Mi ero assolutamente ripromessa di non cercare immagini che potessero in qualche modo rappresentare i personaggi, per lasciarvi libere di pensarli come volevate... Ma ecco, ho visto la foto di una ragazza... Ok, prendetemi pure una pazza, vi autorizzo, ma quando l'ho vista ho subito pensato: "Ecco, questa è Ria".
Se qualcuna volesse vederla, la lascio qui... (Vi chiedo solo di cercare di non fare troppo caso alle ciocche bionde che non sono riuscita ad eliminare T.T)
2 A questo punto, credo ci sia bisogno di cercare anche un Matteo... Giusto?
Sareste disposte ad aiutarmi? Perchè, in tutta sincerità, non ho la minima idea di chi possa essere...
Vi riporto la sua descrizione fisica, giusto per ricordarvi com'è :)


I capelli scompigliati erano a metà strada tra il biondo cenere e il castano chiaro, in una tonalità che nemmeno Franck Provost, Paul Mitchell, i parrucchieri della pubblicità Sunsilk e tutti gli altri parrucchieri del mondo avrebbero saputo definire. Notai che tre ciocche gli ricadevano sulla fronte e che non gli stavano per nulla male.
Il naso era dritto, anche se minutamente largo, come la bocca dalle sottili labbra rosa pallido che pochi minuti prima mi erano state molto vicine.
I lineamenti del viso erano perfetti. Non erano da bambino, ma nemmeno da uomo, e costituivano un’attraente combinazione.
Il suo fisico, alto e snello, era coperto da un paio di jeans, una camicia bianca e una sciarpa a scacchi bianchi e neri che lasciava un po’ intravedere il pomo d’Adamo.
Ma se c’era una parte di lui che mi colpì più del naso, della bocca, della fronte o dei bei capelli su cui non vedevo l’ora di affondare le mie dita, erano i suoi occhi e il suo sguardo. Uno sguardo verdissimo, intenso, degno di quello di Johnny Depp.
Gli occhi da cerbiatto erano grandi e le iridi di smeraldo andavano scurendosi fino alla pupilla, diventando di un colore simile al mio nocciola. Sarebbe riuscito a suscitare persino l’invidia del mare con i suoi occhi.


Caspita, l'NdA è diventato quasi più lungo del capitolo stesso... O.o
Ragion per cui evaporo...
Grazie a tutti quanti abbiano la pazienza di seguirmi <3
Un bacio,

Alan

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Amate Johnny Depp? Bene, ho la fic che fa al caso vostro!
Una bellissima storia non a due, non a tre, ma a ben venti mani che, sono sicura, vi piacerà tanto :D
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*Adesso sparisco davvero*
  
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