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Autore: Cherry Berry    05/10/2011    1 recensioni
Disneyland acid trip. Perché?
Immaginiamo che la bella addormentata sia una ragazza qualunque con una grave malattia terminale, che per caso investe il cacciatore di Cappuccetto rosso e che quest'ultima sia una ragazzina decisamente strana... A cosa ci porterà questa mescolanza di fiabe che tutti conosciamo rivisitate in chiave moderna? Ad un disneyland acid trip, un viaggio piuttosto particolare fra le più famose fiabe di quando eravamo bambini.
"«Posso sapere perché ti porti dietro un fucile?»
L’uomo al suo fianco, infatti, aveva un fucile di precisione appoggiato sulle ginocchia.
«Ero a caccia.»
«A caccia di cosa?» A caccia nel pieno centro della città?!
«Cacciavo un lupo cattivo.»
Aurora non si voltò di nuovo nella sua direzione, pensando tra sé che quel tipo doveva essere completamente matto, oppure il suo trauma cranico era peggiore di quanto pensasse."
Genere: Azione, Fantasy, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dinseyland Acid Trip

4.  Unohly Confessions

I won't be the victim, but the first to cast a stone
Sedated nights to the bar room fights as metropolis takes its toll
And don't you try to stop me, it's a place you'll never know
Don't try to judge or take shots at me, I'll never let you seize control
[Trashed and Scattered, Avenged Sevenfold]

Era facile fingere che fosse tutto normale. Era facile voltarsi dall’altra parte, ignorare i segnali sulla sua pelle pallida, tralasciare il fatto che cercasse sempre di non svestirsi, che si nascondesse agli occhi altrui, abbassasse lo sguardo quando gli si domandava come stava, rispondendo che tutto andava a gonfie vele. Così non era, ma poco importava a quel mondo, a quelle persone che in lui vedevano un ragazzino timido che veniva picchiato dal padre. Non poteva farci nulla purtroppo, se la gente non capiva e giudicava senza parlare, era dura per lui stare a scuola, dove tutti gli parlavano alle spalle e non avevano il coraggio di domandargli nulla o anche solo di rivolgergli un saluto quando lo incontravano nel piazzale dell’istituto. Era più facile fingere che quel ragazzino pallido, dai capelli biondi e la carnagione segnata da mille lividi, macchie indelebili di sofferenza, non esistesse. Per loro era come un fantasma, un essere che seguiva i loro stessi corsi, stava nelle loro stesse classi, ma in realtà non era reale, soltanto un’illusoria creazione della loro immaginazione. Quel ragazzino che era bravissimo in tutti gli sport, ma mai una volta l’insegnante indugiava nel lordarlo, fingeva semplicemente di non vedere i suoi ottimi risultati in qualsiasi cosa facessero. Aveva inoltre una spiccata intelligenza, di quelle brillanti, una memoria analitica prodigiosa ed era semplicemente perspicace. Eppure non mai un premio, non mai una nota di merito, nulla di nulla. Era come se fosse davvero inesistente e inconsistente, e con il passare del tempo quel bambino dai capelli corti e biondi crebbe, diventando un ragazzo, senza nessun cambiamento nella sua esistenza. Il padre continuava a maltrattarlo, nonostante tutto però lui non aveva ancora avuto il coraggio di denunciarlo. Forse era un comportamento stupido e soprattutto autolesionista, ma comunque andassero le cose era pur sempre suo padre, gli voleva bene, nonostante i ceffoni, i pugni, i calci, gli oggetti lanciati contro la sua persona, a volte evitati per fortuna, a volte presi in pieno viso anche solo per placare la sua ira, che scoppiava in accessi incontrollabili e lo terrorizzava, quando quell’omaccione bruno diventava tutto rosso in faccia, con le vene e le arterie che pulsavano in maniera visibile sulla sua fronte e sul suo collo, rendendo evidente la ferocia che investiva la sua mente e il suo corpo, in quegli attimi di pura follia quando, in preda a non si era ancora capito quale raptus di crudeltà, prendeva a menar le mani contro il figlio e la moglie. Fu al compiere dei suoi sedici anni che accadde la tragedia. Era da solo a casa con sua madre, stavano festeggiando in silenzio, mangiando una piccola torta che lei aveva preparato prima del suo ritorno da scuola. Il padre era di sopra, dormiva, tranquillo, in camera sua. Per uno sfortunato errore del caso a sua madre cadde dalle mani una brocca colma d’acqua che si schiantò sul pavimento, facendo un fracasso infernale. Suo padre venne probabilmente ridestato dal tonfo, e scese le scale imprecando. Vide il macello che si era venuto a creare sul pavimento e, in un accesso d’ira, prese la moglie e la scagliò contro la porta, domandandole, ovviamente gridando, cosa diavolo avesse in mente, perché avesse creato tutto quel fracasso. Le strinse le dita intorno alla gola finché non divenne paonazza, arrancando, non riusciva a respirare e faceva cenno al figlio perché l’aiutasse. Il ragazzo la fissava, terrorizzato, non sapendo bene come aiutarla. I suoi capelli biondo rossiccio le ricadevano ai lati del viso che cominciava a chiazzarsi di viola, per l’asfissia. Finalmente, con un gesto risoluto, il ragazzo raccolse un frammento di vetro dal pavimento e graffiò il braccio del padre, che si voltò verso di lui, emettendo un ringhio e lasciando andare finalmente la povera donna, che cadde a terra, svenuta, battendo il capo sui cocci di vetro, che le entrarono nella cute. L’omaccione si avvicinò pericolosamente al figlio, finché questi non prese il coltello con cui avevano tagliato poco prima la torta e glielo puntò contro, minacciandolo di colpirlo. Questi rise beffardamente di lui, tirandogli un ceffone e facendolo indietreggiare, contro il muro, giusto per dargli poi il tempo di schiacciare il numero per la chiamata d’emergenza sul telefono appeso alla parete. Lo sguardo crudele dell’uomo, che gli rivolse, gli fece gelare  il sangue nelle vene. Sentì distintamente il liquido prendere a scorrere più lentamente, come fosse cristallizzato e faticasse a passare attraverso i suoi organi, come se rallentando i suoi battiti il padre non avrebbe percepito la sua paura e forse l’avrebbe risparmiato. Di lì a poco sentirono le sirene lontane, alla fine dell’isolato. L’uomo gli diede un’altra occhiataccia di rimprovero e poi uscì dalla porta sul retro. Per sua sfortuna le sirene erano più vicine di quanto pensasse. Intanto, all’interno, il ragazzino biondo si chinò sulla madre, fissando il suo volto pallido. Sentiva le lacrime affluirgli agli occhi ma tenne duro e provò a percepire i battiti del suo cuore, accostando l’orecchio alla cassa toracica della donna e prendendole il polso tra le dita. Un flebile scorrere di sangue vi era ancora, ma pareva andarsi assottigliando, così come il respiro, che faticava a tornare regolare. Provò a farle la respirazione bocca a bocca, soffiando dolcemente aria nei suoi polmoni in modo che riprendesse a respirare. Non le spostò il capo, cosparso di schegge di vetro, per paura di aggravare la situazione. Di lì a poco la polizia entrò in casa, con suo padre ammanettato al seguito. Chiamarono un’ambulanza e dissero al ragazzo che aveva fatto un ottimo lavoro, e dovevano purtroppo interrogarlo riguardo i fatti della giornata. Ce l’avrebbe fatta a rispondere? Sì, erano certi che sua madre si sarebbe ripresa, le stavano già prestando soccorso e l’ambulanza sarebbe arrivata di lì a poco.

Sua mamma riscontrò parecchi danni al cervello, perché per un lungo lasso di tempo non le era arrivato abbastanza ossigeno da riuscire a mantenere le sue funzioni vitali inalterate. Era già tanto che fosse viva, gli avevano assicurato i medici. Inoltre aveva subito vari danni al sistema nervoso e ai centri della memoria. Praticamente sarebbe vissuta in una casa di cura per il resto dei suoi giorni, lui era solo e di ciò doveva ringraziare il padre, in quel momento in una qualche cella sudicia di un carcere qualsiasi.

 

«Sono diventato un cacciatore di taglie per vendicare mia madre, diciamo. All’inizio mi sono arruolato nell’esercito, appena compiuti i diciotto anni, ma poi ho deciso che non era la mia strada.»

Aurora lo fissò un attimo, con sguardo stupito e ammirato al contempo, e forse anche un po’ annebbiato dall’alcol che prepotente le scorreva nelle vene, mischiandosi al suo sangue e dandole una piacevole sensazione di calore. Che quel ragazzo sedutole dinanzi fosse un prodigio umano non v’erano dubbi, e se fosse rimasta a fissarlo un altro po’ con quell’espressione ebete non solo l’avrebbe presa per pazza ma anche per stupida. Si ricompose e abbassò lo sguardo al suo bicchiere vuoto, scostandolo di lato. E lei che si preoccupava dei suoi problemi. Intanto era viva, con tutte le funzioni vitali al massimo. Sì, sarebbe potuta crepare da un giorno all’altro senza preavviso, ma perlomeno il suo cervello funzionava alla perfezione e non aveva bisogno di nessuno che l’aiutasse, per nessun motivo, che fosse esso meramente pratico oppure cognitivo. Aveva davvero paura più della morte (apparente o reale che fosse) che di ridursi a un vegetale, seduta ventiquattro ore al giorno su una sedia davanti a una finestra luminosa? Doveva essere un’esperienza terribile, anche se forse il coma che l’attendeva non era per nulla dissimile da quello che la povera madre di Brian stava passando in quel preciso istante. Sperava soltanto che fosse come un lungo sonno senza sogni, o direttamente l’annullamento totale di sé. Sarebbe stato meglio che essere imprigionata nel proprio corpo per tutto il resto della sua vita, percependo ciò che le accadeva intorno ma non riuscendo a fare nulla, a rispondere agli stimoli, a fuggire dal dolore.

«Cosa ti preoccupa?»

Alzò lo sguardo color assenzio sul viso dell’interlocutore, che ora, dopo aver raccontato tutti i suoi più terribili incubi a una sconosciuta, pareva sentirsi decisamente sollevato.

«Niente.» mentì lei, abbassando nuovamente gli occhi al bicchiere vuoto che magicamente era stato sostituito da uno pieno d’alcol, pronto per essere nuovamente svuotato.

«Solitamente sono bravo a capire le persone, e quel broncio sulla tua faccia non mi pare che significhi proprio niente

Le sorrise, incoraggiante, mostrandole i denti bianchi e perfetti, e in quel baluginio bianco rivide il sorriso malvagio della ragazzina che poco prima avevano accompagnato in commissariato. Un brivido le percorse la spina dorsale, si strinse nelle braccia e buttò giù d’un fiato la bevanda che le stava posata davanti. Si sentiva davvero in dovere di raccontare a uno sconosciuto, un completo sconosciuto, ciò che la angustiava da tutta la serata, anzi dai giorni precedenti? O forse era anni che si portava quel peso sul cuore, in quel momento l’unica cosa che le pareva sensata fare era scoppiare in lacrime e raccontare tutto, tutto quanto, al ragazzo che, con sguardo leggermente preoccupato dal suo silenzio, la fissava. Aveva dei begli occhi, color cioccolato, premurosi e dolci. Probabilmente si stava immaginando tutto, ma pazienza, ormai aveva deciso. E in poco tempo si ritrovò a raccontare al biondino la sua storia, senza troppi fronzoli o arricchimenti, giri di parole che le avrebbero fatto perdere tempo. Tempo prezioso, che le scorreva fuggevole tra le dita, come fosse neve, che lei tentava di afferrare, con l’illusoria apparenza di riuscirci. Eppure quando apriva la mano per ammirare il fiocco di neve delicato esso si era già sciolto, lasciando dietro di sé null’altro che un alone di bagnato, un po’ di umido, dove un tempo c’era stato un bellissimo cristallo di ghiaccio. Così il tempo le dava l’impressione di regalarle attimi, ricordi meravigliosi, che però presto sarebbero evaporati, lasciandola in un buio infinito.

*************

Nda


Ciao bella gente! Eccomi qui, al seguito di un'interminabile assenza, con questo (orripilante) capitolo.  Non volevo attendere così tanto per continuare, però purtroppo ho avuto una mezza crisi dello scrittore e non sono riuscita a produrre nulla per un’interminabile periodo, in cui mi ero dedicata ad altro (un fallimentare altro, se devo dire la verità). Ringrazio sentitamente chi ha letto e recensito, siete voi che mi mandate avanti. Al prossimo (si spera più veloce) aggiornamento. Per chi stesse leggendo la mia fic sugli A7X, non disperi. A breve arriverà il nuovo capitolo. ♥

  
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