4. Unohly Confessions
Sedated nights to the bar room fights as metropolis takes its toll
And don't you try to stop me, it's a place you'll never know
Don't try to judge or take shots at me, I'll never let you seize control
Era
facile fingere che fosse tutto normale. Era facile voltarsi
dall’altra parte,
ignorare i segnali sulla sua pelle pallida, tralasciare il fatto che
cercasse
sempre di non svestirsi, che si nascondesse agli occhi altrui,
abbassasse lo
sguardo quando gli si domandava come stava, rispondendo che tutto
andava a
gonfie vele. Così non era, ma poco importava a quel mondo, a
quelle persone che
in lui vedevano un ragazzino timido che veniva picchiato dal padre. Non
poteva
farci nulla purtroppo, se la gente non capiva e giudicava senza
parlare, era
dura per lui stare a scuola, dove tutti gli parlavano alle spalle e non
avevano
il coraggio di domandargli nulla o anche solo di rivolgergli un saluto
quando
lo incontravano nel piazzale dell’istituto. Era
più facile fingere che quel
ragazzino pallido, dai capelli biondi e la carnagione segnata da mille
lividi,
macchie indelebili di sofferenza, non esistesse. Per loro era come un
fantasma,
un essere che seguiva i loro stessi corsi, stava nelle loro stesse
classi, ma
in realtà non era reale, soltanto un’illusoria
creazione della loro
immaginazione. Quel ragazzino che era bravissimo in tutti gli sport, ma
mai una
volta l’insegnante indugiava nel lordarlo, fingeva
semplicemente di non vedere
i suoi ottimi risultati in qualsiasi cosa facessero. Aveva inoltre una
spiccata
intelligenza, di quelle brillanti, una memoria analitica prodigiosa ed
era
semplicemente perspicace. Eppure non mai un premio, non mai una nota di
merito,
nulla di nulla. Era come se fosse davvero inesistente e inconsistente,
e con il
passare del tempo quel bambino dai capelli corti e biondi crebbe,
diventando un
ragazzo, senza nessun cambiamento nella sua esistenza. Il padre
continuava a
maltrattarlo, nonostante tutto però lui non aveva ancora
avuto il coraggio di
denunciarlo. Forse era un comportamento stupido e soprattutto
autolesionista,
ma comunque andassero le cose era pur sempre suo padre, gli voleva
bene,
nonostante i ceffoni, i pugni, i calci, gli oggetti lanciati contro la
sua
persona, a volte evitati per fortuna, a volte presi in pieno viso anche
solo per
placare la sua ira, che scoppiava in accessi incontrollabili e lo
terrorizzava,
quando quell’omaccione bruno diventava tutto rosso in faccia,
con le vene e le
arterie che pulsavano in maniera visibile sulla sua fronte e sul suo
collo,
rendendo evidente la ferocia che investiva la sua mente e il suo corpo,
in
quegli attimi di pura follia quando, in preda a non si era ancora
capito quale
raptus di crudeltà, prendeva a menar le mani contro il
figlio e la moglie. Fu
al compiere dei suoi sedici anni che accadde la tragedia. Era da solo a
casa
con sua madre, stavano festeggiando in silenzio, mangiando una piccola
torta
che lei aveva preparato prima del suo ritorno da scuola. Il padre era
di sopra,
dormiva, tranquillo, in camera sua. Per uno sfortunato errore del caso
a sua
madre cadde dalle mani una brocca colma d’acqua che si
schiantò sul pavimento,
facendo un fracasso infernale. Suo padre venne probabilmente ridestato
dal
tonfo, e scese le scale imprecando. Vide il macello che si era venuto a
creare
sul pavimento e, in un accesso d’ira, prese la moglie e la
scagliò contro la
porta, domandandole, ovviamente gridando, cosa diavolo avesse in mente,
perché
avesse creato tutto quel fracasso. Le strinse le dita intorno alla gola
finché
non divenne paonazza, arrancando, non riusciva a respirare e faceva
cenno al
figlio perché l’aiutasse. Il ragazzo la fissava,
terrorizzato, non sapendo bene
come aiutarla. I suoi capelli biondo rossiccio le ricadevano ai lati
del viso
che cominciava a chiazzarsi di viola, per l’asfissia.
Finalmente, con un gesto
risoluto, il ragazzo raccolse un frammento di vetro dal pavimento e
graffiò il
braccio del padre, che si voltò verso di lui, emettendo un
ringhio e lasciando
andare finalmente la povera donna, che cadde a terra, svenuta, battendo
il capo
sui cocci di vetro, che le entrarono nella cute. L’omaccione
si avvicinò
pericolosamente al figlio, finché questi non prese il
coltello con cui avevano
tagliato poco prima la torta e glielo puntò contro,
minacciandolo di colpirlo.
Questi rise beffardamente di lui, tirandogli un ceffone e facendolo
indietreggiare, contro il muro, giusto per dargli poi il tempo di
schiacciare
il numero per la chiamata d’emergenza sul telefono appeso
alla parete. Lo
sguardo crudele dell’uomo, che gli rivolse, gli fece gelare il sangue nelle vene.
Sentì distintamente il
liquido prendere a scorrere più lentamente, come fosse
cristallizzato e
faticasse a passare attraverso i suoi organi, come se rallentando i
suoi battiti
il padre non avrebbe percepito la sua paura e forse l’avrebbe
risparmiato. Di
lì a poco sentirono le sirene lontane, alla fine
dell’isolato. L’uomo gli diede
un’altra occhiataccia di rimprovero e poi uscì
dalla porta sul retro. Per sua
sfortuna le sirene erano più vicine di quanto pensasse.
Intanto, all’interno,
il ragazzino biondo si chinò sulla madre, fissando il suo
volto pallido.
Sentiva le lacrime affluirgli agli occhi ma tenne duro e
provò a percepire i
battiti del suo cuore, accostando l’orecchio alla cassa
toracica della donna e
prendendole il polso tra le dita. Un flebile scorrere di sangue vi era
ancora,
ma pareva andarsi assottigliando, così come il respiro, che
faticava a tornare
regolare. Provò a farle la respirazione bocca a bocca,
soffiando dolcemente
aria nei suoi polmoni in modo che riprendesse a respirare. Non le
spostò il
capo, cosparso di schegge di vetro, per paura di aggravare la
situazione. Di lì
a poco la polizia entrò in casa, con suo padre ammanettato
al seguito.
Chiamarono un’ambulanza e dissero al ragazzo che aveva fatto
un ottimo lavoro,
e dovevano purtroppo interrogarlo riguardo i fatti della giornata. Ce
l’avrebbe
fatta a rispondere? Sì, erano certi che sua madre si sarebbe
ripresa, le
stavano già prestando soccorso e l’ambulanza
sarebbe arrivata di lì a poco.
Sua
mamma riscontrò parecchi danni al cervello,
perché per un lungo lasso di tempo
non le era arrivato abbastanza ossigeno da riuscire a mantenere le sue
funzioni
vitali inalterate. Era già tanto che fosse viva, gli avevano
assicurato i
medici. Inoltre aveva subito vari danni al sistema nervoso e ai centri
della
memoria. Praticamente sarebbe vissuta in una casa di cura per il resto
dei suoi
giorni, lui era solo e di ciò doveva ringraziare il padre,
in quel momento in
una qualche cella sudicia di un carcere qualsiasi.
«Sono
diventato un cacciatore di taglie per vendicare mia madre, diciamo.
All’inizio
mi sono arruolato nell’esercito, appena compiuti i diciotto
anni, ma poi ho deciso
che non era la mia strada.»
Aurora
lo fissò un attimo, con sguardo stupito e ammirato al
contempo, e forse anche
un po’ annebbiato dall’alcol che prepotente le
scorreva nelle vene,
mischiandosi al suo sangue e dandole una piacevole sensazione di
calore. Che
quel ragazzo sedutole dinanzi fosse un prodigio umano non
v’erano dubbi, e se
fosse rimasta a fissarlo un altro po’ con
quell’espressione ebete non solo l’avrebbe
presa per pazza ma anche per stupida. Si ricompose e abbassò
lo sguardo al suo
bicchiere vuoto, scostandolo di lato. E lei che si preoccupava dei suoi
problemi. Intanto era viva, con tutte le funzioni vitali al massimo.
Sì,
sarebbe potuta crepare da un giorno all’altro senza
preavviso, ma perlomeno il
suo cervello funzionava alla perfezione e non aveva bisogno di nessuno
che l’aiutasse,
per nessun motivo, che fosse esso meramente pratico oppure cognitivo.
Aveva
davvero paura più della morte (apparente o reale che fosse)
che di ridursi a un
vegetale, seduta ventiquattro ore al giorno su una sedia davanti a una
finestra
luminosa? Doveva essere un’esperienza terribile, anche se
forse il coma che l’attendeva
non era per nulla dissimile da quello che la povera madre di Brian
stava
passando in quel preciso istante. Sperava soltanto che fosse come un
lungo
sonno senza sogni, o direttamente l’annullamento totale di
sé. Sarebbe stato
meglio che essere imprigionata nel proprio corpo per tutto il resto
della sua
vita, percependo ciò che le accadeva intorno ma non
riuscendo a fare nulla, a
rispondere agli stimoli, a fuggire dal dolore.
«Cosa
ti preoccupa?»
Alzò
lo sguardo color assenzio sul viso dell’interlocutore, che
ora, dopo aver
raccontato tutti i suoi più terribili incubi a una
sconosciuta, pareva sentirsi
decisamente sollevato.
«Niente.»
mentì lei, abbassando nuovamente gli occhi al bicchiere
vuoto che magicamente
era stato sostituito da uno pieno d’alcol, pronto per essere
nuovamente
svuotato.
«Solitamente
sono bravo a capire le persone, e quel broncio sulla tua faccia non mi
pare che
significhi proprio niente.»
Le
sorrise, incoraggiante, mostrandole i denti bianchi e perfetti, e in
quel
baluginio bianco rivide il sorriso malvagio della ragazzina che poco
prima
avevano accompagnato in commissariato. Un brivido le percorse la spina
dorsale,
si strinse nelle braccia e buttò giù
d’un fiato la bevanda che le stava posata
davanti. Si sentiva davvero in dovere di raccontare a uno sconosciuto,
un
completo sconosciuto, ciò che la angustiava da tutta la
serata, anzi dai giorni
precedenti? O forse era anni che si portava quel peso sul cuore, in
quel
momento l’unica cosa che le pareva sensata fare era scoppiare
in lacrime e
raccontare tutto, tutto quanto, al ragazzo che, con sguardo leggermente
preoccupato dal suo silenzio, la fissava. Aveva dei begli occhi, color
cioccolato, premurosi e dolci. Probabilmente si stava immaginando
tutto, ma
pazienza, ormai aveva deciso. E in poco tempo si ritrovò a
raccontare al
biondino la sua storia, senza troppi fronzoli o arricchimenti, giri di
parole
che le avrebbero fatto perdere tempo. Tempo prezioso, che le scorreva
fuggevole
tra le dita, come fosse neve, che lei tentava di afferrare, con
l’illusoria
apparenza di riuscirci. Eppure quando apriva la mano per ammirare il
fiocco di
neve delicato esso si era già sciolto, lasciando dietro di
sé null’altro che un
alone di bagnato, un po’ di umido, dove un tempo
c’era stato un bellissimo
cristallo di ghiaccio. Così il tempo le dava
l’impressione di regalarle attimi,
ricordi meravigliosi, che però presto sarebbero evaporati,
lasciandola in un
buio infinito.
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Nda
Ciao bella
gente! Eccomi qui, al
seguito di un'interminabile assenza, con questo (orripilante) capitolo.
Non
volevo attendere così tanto per continuare, però
purtroppo ho avuto una mezza
crisi dello scrittore e non sono riuscita a produrre nulla per
un’interminabile
periodo, in cui mi ero dedicata ad altro (un fallimentare altro, se
devo dire
la verità). Ringrazio sentitamente chi ha letto e recensito,
siete voi che mi
mandate avanti. Al prossimo (si spera più veloce)
aggiornamento.
Per chi stesse leggendo la mia fic sugli A7X, non disperi. A breve arriverà il nuovo capitolo. ♥