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Autore: Shadeyes    15/10/2011    2 recensioni
Il terzo capitolo di questa long-fic, assieme all'extra "Angelo Bianco", si è classificato secondo al "Love Canon Contest", indetto da sweetPotterina sul forum di EFP.
Vincitore del premio Cuore, per la storia d'amore più bella, e del premio Lacrima, per la storia più commovente.

Fiction dedicata a Carlisle ed Esme, una delle coppie più romantiche di Twilight.
Non vuole raccontare nulla più che la verità. Pochi, intensi capitoli sulla storia del loro amore travagliato, dal punto di vista di Esme.
Spero di riuscire ad emozionarvi :)
Alzai lo sguardo, scrutai in quelle iridi color miele e con sgomento vi trovai un dolore represso, un sentimento che non sarei mai riuscita ad attribuirgli.
Cancellai dalla mia mente ogni cosa, ogni pensiero razionale che avrebbe potuto frenarmi.
Mi sollevai sulle punte dei piedi e poggiai le mie labbra sulle sue.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Esme Cullen
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing Memories'
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Carlisle and Esme









Missing Memories









Passato IV









Tornai a casa a piedi, infradiciandomi gli stivaletti e l’orlo del mio lungo cappotto, ma non me ne curai granché.
Nonostante fosse un po’ spostata dal centro do Columbus, e piuttosto isolata, raggiunsi villa Evenson prima che il sole dicembrino tramontasse.
Non avevo alcuna voglia di rinchiudermi di nuovo fra quelle quattro, sontuose mura, così in contrasto con l’idea semplice e familiare che avevo del concetto di “casa”, eppure vi ero costretta da quel mostro di consuetudini che chiamavano società.
Erano mesi, ormai, che ignoravo le voci che giravano sul mio conto in città, ma la situazione stava diventando insostenibile. La gente non faceva altro che giudicarmi, etichettandomi come una pazza che aveva dimenticato il suo posto nel mondo, come donna e come moglie, e, anche se non avevo nulla di cui scusarmi, desideravo farli tacere, quindi, mio malgrado, dovevo continuare la mia vita in quell’orrenda casa, da brava mogliettina che attende preoccupata il ritorno del marito dalla trincea.
Era maligno come pensiero, lo so, ma, nonostante fossi sfavorevole agli scontri e alla violenza, per una volta bramai che quella maledetta guerra durasse per il resto della mia vita, o almeno per un decennio, o addirittura… la sua, di fine. Non chiedevo molto, dopotutto.
Scossi la testa e mi trascinai fin sul portico, trafficando nella borsa in cerca delle chiavi.
Non c’era nessuno ad accogliermi al mio ritorno, nemmeno la governante, che mi ero premurata di congedare dai suoi oneri settimane addietro. La sua presenza era diventata soffocante per me, così preferii crogiolarmi nella beata solitudine e vivere finalmente come avevo sempre sognato. Libera, o quasi.
Casa Evenson era piuttosto grande e impegnativa da tenere in ordine, ma pulire incessantemente non mi disturbava affatto. Anzi, riusciva a tenermi occupata la mente e, di conseguenza, a farmi stare meglio, anche se solo un poco.
Infilai la chiave nella serratura e cercai di dargli la mandata per farla scattare, ma non accadde nulla. Indispettita da quel fuori programma, afferrai il pomello per forzarlo, ma non fece resistenza. La porta si aprì con un mio sussulto.
Restai immobile, spaventata.
Ero certa di averla chiusa quella mattina. Sicurissima.
Un ladro, pensai.
Era stupida come supposizione, ma non avevo nessun’altra spiegazione per quello. Un malvivente avrebbe scardinato la porta, non l’avrebbe aperta così meticolosamente bene.
Accantonai quella riflessione afferrando il mio ombrello con entrambe le mani, saldamente, ed entrai.
Strisciai contro il muro dell’entrata lentamente, senza fare rumore, guardandomi intorno. Tutto era perfettamente in ordine, lasciandomi ancora più confusa. I vasi di porcellana c’erano ancora, mentre un rapinatore li avrebbe quasi certamente portati via per rivenderli al mercato ad un buon prezzo. Erano di valore, eppure erano lì, integri.
Nel cassettone in camera mia tenevo i miei gioielli e non potevo sapere se erano spariti o meno, ma a quel punto ne dubitavo.
Mi passai una mano sulla fronte, rilassando i muscoli. Stavo impazzendo.
Da sola, denigrata persino dalla mia stessa famiglia, in quella prigione nobile e imperiosa, stavo perdendo il senso di me stessa. La scuola era l’unica cosa che ancora mi teneva ancorata al presente, il resto era nulla.
Sussultai. Un rumore metallico, dal salotto.
Imposi alle mie mani di non tremare rinserrando la presa sul manico dell’ombrello. C’era qualcuno.
Tutti i pensieri scemarono dalla mia mente, svuotandomi, mentre un sudore freddo mi pervase tutto il corpo. Non ero in grado di combattere, né tantomeno di respingere un assalitore, ma che altro avrei potuto fare? Quella era casa mia e, per quanto la odiassi, ci vivevo ancora. Vivere nel terrore, sola com’era, non mi era concesso.
Respirai profondamente, silenziosa, e mi avvicinai alla stanza attigua con cautela, nascosta solo da un muro bianco e spoglio, ma abbastanza da oscurarmi alla vista dell’intruso.
Come avrei agito, non lo sapevo. Qualsiasi azione sembrava troppo pericolosa e avventata. Senza sapere con esattezza dove si trovasse ― il salotto era piuttosto grande e arredato ―, mi era impossibile progettare un assalto. Se avesse avuto un fucile, poi, non avrei nemmeno avuto il tempo di raggiungerlo. Sarei morta.
A quel pensiero avvertii una curiosa e insolita tranquillità. Mi fece stare… bene. O forse era soltanto semplice apatia. Ormai tutto mi rendeva indifferente, persino l’idea di morire.
Strinsi le dita attorno all’arma di legno improvvisata, portandola in alto, pronta a compiere quel gesto. Quale fosse non lo sapevo neanche io, in realtà, ma ero pronta a farlo comunque.
«Hai il respiro così pesante che ti si sente dall’ingresso, tesoro».
Fui scossa all’istante da un formicolio bollente che mi prese alla testa e mi scese fino al petto, come se di colpo l’aria si fosse fatta pesante e l’eccessiva pressione mi avesse schiacciato dall’interno. Era bastata quella sola voce, improvvisa, inaspettata, molesta. Odiata.
Quei mesi di silenzio non erano bastati a farmela dimenticare. Era tornata, ed era reale.
Non sapevo che fare, se lasciar cadere l’ombrello ai miei piedi e sorridere o se stringerlo convulsamente tra le mani tremanti. Non dissi nulla, immobile, il respiro trattenuto, ancora con la schiena appoggiata a quel muro che mi separava da lui. Solo di poco. Troppo poco.
«Vieni qui, figlia dell’imprenditore, e accogli tuo marito come si converrebbe», mi ordinò con tono duro e autorevole. Mi chiamava sempre così quando voleva canzonarmi, figlia dell’imprenditore, ricordandomi che di fatto non ero nessuno. Io non ero Esme, ma la figlia di mio padre, la moglie del capitano Evenson. Non avevo mai avuto un’identità che fosse solo mia e che non dipendesse da altri. Speravo di poterla ottenere un giorno, anche “la maestra” mi sarebbe andato bene, ma in quel momento mi resi conto di quanto tutto fosse stato soltanto una mera illusione.
Oh, piccola Esme… sciocca Esme!
Lasciai che l’ombrello mi scivolasse dalle mani e cadesse a terra, sbattendo sul tappeto con un tonfo silenzioso. Il mio sguardo si abbassò quasi automaticamente, le spalle si incurvarono un poco. Staccai la schiena dal muro ed entrai in salotto, lentamente, sbirciando la sua figura austera accanto al camino che a sua volta mi fissava con un ghigno che significava tutt’altro che un semplice sorriso sghembo. Non avevo ancora imparato a decifrare quell’espressione o, più banalmente, l’avevo intenzionalmente rimossa dalla mia testa.
«Bentornato, Charles», mormorai soltanto. Perché era rincasato così, da un giorno all’altro, senza avvertire? La guerra era finita? Non ci eravamo scritti nessuna lettera in quei mesi, ma il suo rientro in città avrebbe dovuto essere sulla bocca di tutti da giorni! Per quale motivo usare una tale riservatezza?
«Dov’è finita la governante, Esme? E il resto della servitù?», mi domandò serio. La sua mano faceva ondeggiare freneticamente un bicchiere di scotch. «Dove sono finiti tutti? Hanno scelto di andarsene, in mancanza del padrone?».
Scossi la testa, incapace di aprire bocca. L’aria s’era improvvisamente fatta opprimente e così, senza nulla a dividermi da lui, mi sentivo terribilmente fragile e spoglia.
Quando mi si avvicinò di un passo, dovetti reprimere l’istinto di indietreggiare. Forse avrei semplicemente dovuto voltarmi e correre via, ma avevo troppa paura per farlo. Ogni parola, ogni gesto poco calibrato avrebbe potuto provocarlo e scatenargli reazioni a cui non volevo partecipare. Dovevo stare attenta, lo sapevo, ma avevo la sensazione che questa volta qualcosa fosse già scattato.
«E tu dov’eri, bambina sventata?».
Rimasi in silenzio, inghiottendo l’insulto e mantenendo uno sguardo basso e sottomesso. Non avrebbe approvato una simile emancipazione da parte mia. In città, davano la colpa di tutto a lui, al marito, incapace di tenere la moglie tra le briglie. Se solo avesse saputo, mi avrebbe spedita dritta all’inferno.
In un attimo il suo umore apparentemente calmo mutò. Scagliò il bicchiere contro la parete alle mie spalle, frantumandolo in mille pezzi, facendomi trasalire dallo spavento e tremare da quello che sarebbe potuto succedere di lì a poco.
Mi afferrò le braccia con entrambe le mani, scuotendomi rabbiosamente.
«Rispondi!». Mi fiatò a pochi centimetri dal viso, nauseandomi con l’odore di alcol e di sigaro.
«Io… io ero da Bernice. L’aiuto con il bambino…».
Mi lasciò così bruscamente da farmi vacillare, ridendo.
«Oh, Esme… disobbediente e pure bugiarda me la sono sposata!», esclamò con tono beffardo. «La giovane maestrina!».
Non mostrai nessuno sgomento a quell’affermazione, ma ero terrorizzata. Come l’aveva scoperto, se era tornato solo da qualche ora? Poi pensai che forse si trovava già a Columbus da giorni, nella tenuta di campagna del padre, e che avesse avuto tutto il tempo per informarsi delle mie scelleratezze. Maledizione!
«Hai licenziato la mia servitù, e con quale diritto? Hai lasciato che la mia stalla cadesse in rovina e hai provato a fare lo stesso con la mia casa!». Si avvicinò di nuovo, stringendomi le braccia più forte di prima. «Quante libertà ti sei presa in mia assenza? Sentiamo, cosa insegni ai tuoi piccoli e ingenui allievi? Ad essere dei ribelli come te, dei pazzi ingrati?», urlò rabbioso.
Mi spinse con tutta la sua forza, facendomi cadere rovinosamente sul duro parquet. La disperazione aveva preso il soppravvento sulla paura, schiacciandomi ancora una volta nell’umiltà più assoluta.
Non potevo fare niente. Subivo e basta, sperando ogni volta che si stancasse il più in fretta possibile.
I pianti lo facevano infuriare ancora di più, ma non riuscii a trattenermi. Soffocai un gemito, mentre le lacrime iniziavano a rigarmi il volto silenziose, anch’esse sottomesse da quella spaventosa figura che mi fissava dall’alto.
Si chinò su di me, sopraffacendomi col suo peso, e mi afferrò per i gomiti. Non feci resistenza, scongiurando almeno una violenza fisica peggiore. Ormai avevo imparato a capire cosa voleva, almeno un poco.
«Mi prendo anch’io queste libertà, ora. Che ne pensi, moglie? Voglio essere un pazzo proprio come hai voluto esserlo tu. Vediamo se così ti piace!».
Piansi, perché già sapevo cosa mi avrebbe fatto. Piansi per dolore, per vergogna, per umiliazione. Piansi perché avrei desiderato morire, prima di indossare quell’abito bianco o quello stesso giorno, sotto le sue mani rudi e volgari. Non mi importava più.
«Fammi vedere, Esme! Fammi vedere cosa insegni a quei mocciosi!».
Mi sollevò la gonna con rabbia e mi strappò via i collant, prendendomi a forza, facendomi male, spingendosi dentro di me con tutta la furia che aveva in corpo.
Non ero più Esme, ma una bambola incapace di muoversi o di reagire quando viene malamente sbattuta su un ripiano della camera. Resta zitta, ancora sorridente e la bocca rosea, ma con gli occhi perennemente lucidi.
Giurai in quel momento di soffocare ogni mio istinto. Di non amare, né essere mai amata; di non avere pietà e di non essere mai compatita; di non sposarmi e di non essere mai data in sposa, finché non fosse giunta la fine.
Se avevo già contratto matrimonio, solo loro me l’avrebbero rinfacciato. Dio sapeva fin dall’inizio che i miei voti non avevano alcun significato per il mio cuore, e non mi avrebbe punito per essere stata sincera con lui e con me stessa. No, mi avrebbe dato una seconda possibilità, alla fine.
E se non me l’avesse data, me la sarei concessa da sola. Alla fine.







Rosa blu










Buongiorno, fanciulle e fanciulli!
Lo so, mi devo vergognare. Non aggiorno questa storia da luglio o.o Non è ammissibile un'attesa del genere!
Purtroppo, ragazze, scuse a parte, si scrive quando si ha tempo e soprattutto quando si ha ispirazione q.q E spesso non basta.
Non sono granché soddisfatta di questo capitolo, ma era esattamente ciò che dovevo dire, niente di più niente di meno. Il rating è arancione, quindi non potevo esagerare con la violenza ^^' E francamente non volevo. Insomma, questa storia è narrata da Esme per vari motivi, tra cui la dolcezza che il personagio mi ispira. Di certo non potevo essere troppo volgare, perché Esme non lo sarebbe mai stata. Beh, avete letto quello che ne è uscito, e spero che vi abbia soddisfatto :)

Vi invito a leggere l'extra di Missing Memories, Angelo Bianco, che racconta del matrimonio di Esme dal punto di vista di Carlisle, vincitore del premio Cuore, per la storia d'amore più bella, e del premio Lacrima, per la storia più commovente. Ringrazio il giudice del contest, sweetPotterina, per aver assegnato i bannerini personalizzati che troverete postati all'inizio della one-shot :)


Un bacio!






Hilary




   
 
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