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Autore: Schizophrenia    31/10/2011    2 recensioni
Buchenwald,Germania,1943.
"Il lavoro rende liberi".
Per quanto questa frase viene ricordata adesso con disprezzo, collegata ai numerosi campi di sterminio utilizzati ai tempi di Hitler, non è solo al lavoro che si badava. Non è il lavoro che devono affrontare i giovani di questa storia.
Bea Gurtsieva viene dalla Russia ed è comunista, per questo viene portata nel campo di concentramento di Buchenwald e viene affidata all'allora soldato semplice Mark Schreiber.
Mark Schreiber vuole solo andarsene. Mark Schreiber si è arruolato nell'SS sperando di essere mandato in guerra, ma si ritrova lì, con suo padre, con il quale non ha un rapporto esemplare, a gestire il campo di concentramento.
"Forse fu perché Mark non aveva mai visto un corpo così bello; forse fu semplicemente perché lo attirarono i lividi di cui era ricoperta la ragazza... ma il giovane Schreiber venne scosso da brividi profondi al basso ventre, prima di avvertire l'impulso pressante di prenderla, lì, con violenza; pur sapendo chi fosse."
Genere: Romantico, Storico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Ancora un altro abnorme ritardo, spero che ci abbiate fatto l'abitudine, ormai. xD
Pubblico subito il capitolo e torno a studiare, che ho intenzione di offrirmi per l'interrogazione di greco, tra un paio di giorni.
Spero vi piaccia. :3
Ahn, ovviamente se vi va di lasciare una recensione non mi offendo, anzi, mi farebbe molto piacere. Io continuerò a pubblicare anche se non lo farete, mi sembra ovvio. xD

Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
- thegreenlady
- mau07
- NemesiS_
- Selena_
- Ipazia
- LadyGiulia
- sweetstar
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
- ElleBi
- Dance
Coloro che la hanno inserita tra le preferite
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- Fairness
- Selena_
- lorenzablu
- orsetta
- Prusskij_Lazur
- Selena Marie
- Medea91h



Salviamoci la pelle.
-Katjuša.


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
1 Febbraio 1944
19:20

Finalmente poteva lasciare quell'ospedale. Ne aveva avuto davvero abbastanza: Walter era sempre lì, accanto a lui, ma non gli dava tregua, non faceva altro che parlare di Bea e di chiedergli dei suoi sentimenti; Mark cercava di convincerlo; cercava di fargli credere che quando aveva scritto quelle lettere era semplicemente disperato e non in grado di ragionare normalmente con la propria testa, ma non era del tutto inutile. Il miglior amico del ragazzo era convinto di vedere amore nei suoi occhi, e a volte il sergente temeva che avesse ragione. Era tutto un enorme sbaglio. Qualunque cosa provasse per quella ragazza -a meno che non fosse odio, ovviamente- era un enorme sbaglio e non poteva permettersene: ne dipendeva la vita di entrambi.
Suo padre era andato a prenderlo, quella fredda sera di febbraio, anche se non sembrava troppo felice di vederlo. << Il dottore ha detto che dovrai stare a riposo per un po' >> tentò di iniziare una conversazione, mentre tornavano a casa.
Il più giovane annuì, << e dovrò usare delle stampelle. Lo so, lo so. Mi ha già parlato >> aggiunse alle parole del padre, passandosi velocemente una mano tra i capelli. Odiava immensamente il fatto che non si fosse fatto vedere da quando era tornato in Germania, presentandosi solo per riportarlo a casa. Certo, non avevano avuto un bel rapporto, dopo la morte della madre, ma si aspettava che almeno sarebbe stato felice di sapere che suo figlio fosse tornato dall'Unione Sovietica sano e salvo, sebbene i nazisti avessero perso, quella volta. Al sergente questi particolari non interessavano più, non gli interessava più la politica estera o tedesca. Si era scocciato di tutto, voleva solo tornare a casa e conoscere le reali condizioni di Beatrisa.
Hans Schreiber annuì con poco interesse, come a confermare le parole del figlio, che in realtà non valevano poi così tanto. << Sei stato promosso a sergente, bravo >> disse soltanto, riguardo la promozione del figlio. Non si mostrò fiero di lui, né cerco di esternare qualsiasi altro sentimento; era semplicemente freddo, come era sempre stato dalla morte della moglie.
Mark annuì, << Lo so >> confermò, non aiutando molto il padre nel fare conversazione. Non si aspettava di certo una festa di bentornato, né che gli dicesse che era fiero di lui, o che era felice che fosse tornato a casa con tutti gli arti al posto giusto, né gli era mai passato per la testa che avrebbe potuto abbracciarlo; ma almeno pensava che avrebbe sorriso, nel vederlo con una nuova medaglia e un nuovo ruolo, su quel letto d'ospedale. Non era morto e si era procurato quelle ferite come eroe della padre, sebbene per lui adesso non significasse molto.
Il padre annuì, continuando ad osservare la strada davanti a sé, << Ovviamente il tuo ruolo è cambiato. Adesso hai responsabilità e compiti maggiori >>
Il biondino si voltò di scatto a guardare il padre, con un'espressione esterrefatta stampata sul volto: non era possibile. Gli stava per caso dicendo che non avrebbe più dovuto -e potuto- portare la cena a Bea e avere così una scusa per passare del tempo con lei? Cercò di dimostrarsi poco sorpreso e soprattutto non infelice della cosa: non doveva esporsi, soprattutto con suo padre. << E cosa dovrei fare adesso? >> chiese, moderando il tono di voce, ma osservandolo con sospetto. Non era sicuro di voler conoscere la risposta alla sua domanda, era sicuro che la fortuna non l'avrebbe aiutato, quel giorno.
Il maggiore scrollò le spalle. << Non ne sono ancora sicuro; finché non ti riprendi potrai rimanere con me al campo, Hitler non vuole uomini non sani tra le sue file >> tagliò corto, e sembrava volesse chiudere definitivamente quel tentativo di dialogo appena avuto con il figlio.
Mark sorrise in modo sarcastico, abbandonandosi completamente contro il sediolino dell'autovettura. << Certo; e scommetto che ha fatto anche uno dei suoi bei discorsi su quanto sia dispiaciuto delle perdite umane e di tutti i feriti >>, ovviamente quella del ragazzo era una presa in giro rivolta a tutto ciò verso cui si era sempre indirizzato, spinto; vero tutto ciò che aveva sempre venerato come un fedele religioso.
Hans evidentemente non condivideva le opinioni del figlio, dato che si voltò in direzione di quest'ultimo solo per fulminarlo con lo sguardo. << Cosa stai dicendo del Führer, ragazzo? >>, sbottò, frenando improvvisamente e assottigliando lo sguardo. Non riusciva a pensare che proprio suo figlio, che aveva cresciuto con sani ideali nazisti, parlasse a quel modo. Nessun ragazzo tedesco aveva il minimo diritto di parlare a quel modo.
Il più giovane scosse appena il capo, ancora leggermente divertito. << Nulla >>, rispose, sebbene non fosse vero. Stava semplicemente cercando di distrarsi. Avrebbe tanto voluto chiedere al padre qualche informazioni in più su Bea, ma sapeva che non sarebbe stato affatto facile, avrebbe dovuto rivolgere le domande come se non gli interessasse davvero, come se fosse solo uno dei tanti argomenti di conversazione per far passare il tempo. Socchiuse gli occhi, pensando, o comunque sperando di addormentarsi. << Chi ha fatto il mio lavoro, mentre ero sul fronte? >> chiese in fine, usando un tono freddo, distaccato.
Il padre continuò a guidare, e scrollò appena le spalle alla domanda del figlio. << Un soldato semplice, dopotutto non era una cosa importante >>, fu la semplice risposta che tuttavia tranquillizzò moltissimo Mark: voleva dire che non avevano ancora pensato di ucciderla; ma ormai l'Unione Sovietica aveva vinto, che se ne facevano di lei? << Ovviamente per adesso non saresti in grado nemmeno di fare quello >>, aggiunse poco dopo Hans Schreiber, fulminando il figlio con lo sguardo, come se lo stesse rimproverando di essere tornato ferito.
Mark scosse appena il capo: << Bene, ne approfitterò per riposarmi >> cercò di tagliare quel discorso assurdo. Ne aveva abbastanza di stare ad ascoltare suo padre e tutte le sue pretese, ne aveva abbastanza di non sentirsi mai alla sua altezza, ne aveva abbastanza di quella guerra e di Hitler. Voleva solo tornare a quindici anni prima, quando sua madre era ancora viva e tutto andava per il meglio sotto ogni aspetto.
Rimasero in silenzio per tutti il resto del viaggio. Non ci furono tentativi di conversazione da parte di nessun altro. Quando arrivarono al campo di concentramento, Hans Schreiber lasciò fuori l'auto e aiutò il figlio con le stampelle, prima di mostrare piastrine e documenti vari agli ufficiali nazisti incaricati di controllare l'accesso al campo: svolgevano bene il loro lavoro, questo era sicuro: mai nessuno, senza permesso scritto o senza documenti, era riuscito ad entrare; a meno che non si fosse trattato di Hitler in persona, ma quello era completamente un altro discorso ed un'occasione rarissima.
<< Puoi andare nella tua stanza, ti farò portare la cena >> furono le uniche parole che il maggiore Schreiber rivolse al figlio.
Il sergente non disse nulla, iniziando a camminare verso gli alloggi dell'SS, aiutandosi con le stampelle. Più camminava, più si guardava intorno, più non riusciva a credere a tutto quello che aveva intorno: i deportati sembravano essersi moltiplicati, dovevano esserne arrivati troppi prima che il carico precedente fosse mandato ai forni crematori. Continuava a camminare e vedeva donne e uomini spaccarsi la schiena, al freddo di una Germania che aveva perso il lume della ragione. Era da circa un mese che le donne venivano mischiate agli uomini nel campo di lavoro di Buchenwald, forse era un nuovo modo per togliere completamente loro ogni sorta di individualismo. Cos'ha più a farle affermare di essere donna, uno scheletro con un pigiama a righe e senza capelli, che lavora vedendo davanti a sé solo il buio della morte?
Vide anche devi bambini. Aveva ucciso tante persone in Unione Sovietica e un po' di violenza non avrebbe dovuto traumatizzarlo, ma fu peggio: lo spaventò. Lo spaventò il fatto fosse proprio la razza a definirsi pura l'artefice di quello scempio. Si passò una mano tra i capelli, biondi, mentre rifletteva: non doveva essere giusto accettare una situazione simile, ma cosa avrebbe mai potuto farci? Disertare era un suicidio. Avrebbe solo voluto salvare Bea e, in un modo o nell'altro, ci sarebbe riuscito.
Strinse i denti, avvertendo una fitta alla gamba: l'effetto della morfina doveva essere completamente svanito per ridurlo in quel modo, ma aveva sopportato di peggio nemmeno un mese prima, adesso era determinato a rivedere quella ragazza, quella ragazza a cui aveva scritto delle lettere, che adesso erano custodite con attenzione nel suo zaino, quella ragazza di cui -a detta di Walter- era innamorato.
Il sergente Schreiber non aveva mai creduto nell'amore, non era come il suo migliore amico e non pensava che quel sentimento avrebbe mai potuto risolvere qualche problema, ma si ritrovò a chiedersi cosa provasse realmente per Bea. Non era solo un'amica, questo era inutile negarlo, ma cosa sarebbe mai potuta diventare? Non poteva immischiarsi in qualche sentimento o relazione strana con lei: se non fosse riuscito a farla scappare, sarebbe sicuramente morta, e non avrebbe sopportato di assistere alla morte di una persona per la quale aveva ammesso di provare qualcosa di immenso. Per questo motivo, Mark Schreiber si rifiutava di essere coinvolto in qualsiasi modo in una relazione con Bea Gurtsieva.
Entrò in quella casa, quella che non era casa sua, ma che gli aveva riservato troppe sorprese per non esservici in qualche modo legato. Sospirò, guardandosi intorno: il legno caldo del pavimento era invitante quasi quanto lo scoppiettio del caminetto acceso: avrebbe tanto voluto sedersi sul tappeto e assaporare il torpore del fuoco a meno di un metro dalla pelle gelata, ma voleva riposare. Salì le scale, senza troppa fretta e facendo attenzione a dove mettere le stampelle. Raggiunto il bagno, si spogliò e prese un asciugamano: la bagno d'acqua calda e iniziò a bagnarsi e lavarsi via i segni della guerra, stando attento a non inumidire troppo le bende sul braccio e sulla gamba.
Avrebbe voluto correre da Bea, e si ripromise che lo avrebbe fatto, quella notte stessa, quando nessuno avrebbe potuto notarlo; almeno per quella sera, finché suo padre non si fosse addormentato, doveva mostrare indifferenza verso quella che era solo una ragazzina russa, anche comunista.
Ad occhi chiusi, riportò alla mente la figura di lei: il viso pallido che esprimeva dolcezza, dalla pelle morbida e delicata; gli occhi grandi, di quel verde intenso che riusciva soltanto a fargli venire in mente una vasta distesa d'erba, baciata dal sole, contornati dalle ciglia lunghe; i boccoli lunghi che all'epoca le arrivavano a metà spalle, dovevano esserle cresciuti, doveva essere ancora più bella con quella massa di capelli corvini, lucidi e lunghissimi. Ricordò la figura piccola e delicata.
Si morse il labbro inferiore, scuotendo il capo: non poteva perdersi in pensieri simili e pretendere di mantenere il controllo quella notte, con lei. Pensare che fosse così vicina lo scaldava, sia all'interno che all'esterno, ed il fatto che fosse inverno la diceva lunga.


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
2 Febbraio 1944
2:48

Era buio quando Mark si rigirò nel suo letto, incapace di prendere sonno. Controllò l'orario ancora due volte, prima di decidersi a raggiungerla, ormai non sentiva provenire più rumori dall'interno della casa, suo padre doveva aver compilato anche gli ultimi affari da ufficio. Scostò le coperte pesanti dal letto e si mise a sedere, stringendo i denti per il dolore alla gamba: i dottori si erano raccomandati almeno tre volte perché stesse a riposo, ma quella era un'occasione importante, non poteva permettersi di ascoltarli, non quel giorno.
Infilò un paio di pantaloni ed una giacca prima di iniziare ad incamminarsi lentamente e riuscì ad attraversare tutto il corridoio senza fare troppo rumore; non aveva mai pensato che quella casa di notte, senza nessun rumore, potesse essere capace di metterlo così in soggezione, forse dipendeva dal fatto che lì non era mai sentito propriamente a casa, stava davvero meglio a casa di Walter, anche se erano un paio d'anni che non rimaneva a dormire dal suo migliore amico. Con il tempo aveva scoperto che era divertente passare la notte con una ragazza, ma aveva rinunciato anche a quello da tempo, trovandolo tremendamente insignificante e vuoto.
Come se mancasse qualcosa.
Aprì la porta, lentamente, con la sua chiave: l'aveva nascosta in un cassetto della sua camera prima di partire: era la sua copia delle chiavi della camera designata a Bea, era l'unico modo che avesse di vederla. La stanza era buia, e i riflessi della luna quasi assenti quella notte: riusciva soltanto a vedere delle ombre, e i suoi occhi si stavano abituando al buio. Andando a tentoni, con le stampelle, si avvicinò a dove ricordava fosse il letto di Bea. Sorrise, nel riconoscere la familiare figura stesa sul letto. Aveva avuto ragione: i capelli le erano cresciuto fino alla fine della schiena. Tremava, nel sonno, probabilmente per il freddo.
Sorrise, avvertendo qualcosa muoversi, dentro di sé. Sentiva il calore irradiarsi naturalmente dal proprio corpo e non riusciva più a togliersi quel sorriso stupido dal viso. Si sedette accanto a quella che in fondo era soltanto una ragazzina. Le sfiorò leggermente il braccio, voleva svegliarla, voleva parlarle. Sentì dei brevi mugolii provenire dalla bocca della ragazza, prima che questa si voltasse, infreddolita, dall'altra parte del letto.
<< Beatrishka >> mormorò, passandole una mano tra i capelli, dolcemente, usando un tono che non utilizzava da quando era partito. Non ricordava di essersi mai rivolto così a nessuno al mondo, tranne che a quella ragazza, così unica e allo stesso tempo perfetta. Non avrebbe mai creduto che sarebbe successo proprio quello, ad una persona come lui.
Vide la ragazza alzare piano le palpebre, per poi riabbassarle subito dopo. Sembrava però che si stesse svegliando, infatti le riaprì poco dopo, cercando di tirarsi su a sedere su quel letto malandato. Vi riuscì solo con l'aiuto di Mark, che la tenne delicatamente per le spalle, aiutandola a sedersi.
Gli occhi di Bea lo osservarono a lungo e lui si aprì nel più grande sorriso che avesse mai fatto: avvertiva di nuovo, più forte, quella strana sensazione di pienezza all'altezza del petto. Si sentiva bene, come se non avesse bisogno di nient'altro al mondo; persino i problemi relativi a tutta la Germania e a loro due soltanto erano spariti dalla mente del sergente; non esisteva più qualcosa che dovesse essere chiamato problema, nella sua mente.
<< Ah. Sei tu >>, le parole della ragazza lo sorpresero, e non in senso positivo. Lo sorpresero tanto da fargli sparire un po' di quel bel sorriso che aveva messo su.
Le sfiorò una guancia con la mano, stranamente calda. Non riusciva a spiegarsene il motivo, qualche ora prima quelle stesse mani erano freddissime; forse stare in casa aveva aiutato a renderle di una temperatura più accettabile, o forse era semplicemente la presenza della ragazza a donare calore al suo corpo. << Sono tornato un po' di tempo fa, ma mi hanno tenuto in ospedale >> rispose, accarezzandole lentamente la pelle candida. Yelena doveva averlo ascoltato: Bea era pulita e profumata.
La vide ritrarre improvvisamente il volto, come disgustata da quel contatto, << Saresti potuto rimanere a combattere sul fronte, per quanto mi riguarda >> la voce era acida, e stranamente sembrava essersi ripresa subito dal sonno in cui l'aveva trovata Mark.
Stavolta l'espressione del ragazzo s spense del tutto, trasformandosi in un immenso punto interrogativo, anche abbastanza deluso. Il pensiero di lei era stata l'unica cosa a riuscire a tenerlo in vita tanto a lungo da farlo tornare a casa, non si sarebbe mai aspettato una risposta simile. << Che dici? La battaglia a Leningrado è finita: i russi hanno vinto >>, le annunciò, credendo che la vittoria della sua patria sarebbe riuscita a rallegrarla almeno un po'.
<< Grazie per avermi avvertita, ma stavo dormendo >>, Mark non aveva mai visto il lato forte di Bea, ma era sicura che lo fosse, stava solo aspettando che quella parte di lei salisse a galla, ma adesso che era successo non sapeva se esserne felice o meno. Soprattutto se si comportava così con lui, che le era sempre stato vicino.
Il biondo la osservò per qualche istante, prima che lei voltasse il capo per non incontrare gli occhi di lui. << Vuoi che vada via? >> le chiese cautamente. Ovviamente non aveva alcuna intenzione di farlo, ma aveva bisogno di sentire una risposta a quella domanda. Aveva sopportato ferite e dolore per lei; aveva ucciso delle persone per tornare da lei, non aveva alcuna intenzione di andarsene, quando era finalmente riuscito a tornare a casa quasi completamente intero. Quella non era la sua casa, lo sapeva bene, ma ormai lei era diventata la sua casa. Era il suo rifugio, il suo posto sicuro, la sua fonte di calore e protezione; e una casa non era forse questo?
<< Sì >>, non si voltò a guardarlo, pronuncio solo quella risposta monosillabica.
Mark la guardò, parecchio stranito, prima di poggiarle una mano sul mento, costringendola a guardarlo, << E saresti anche così gentile da spiegarmene il motivo? >> quasi sbuffò, ma si trattenne. Non voleva mostrare la sua indole da ragazzino cocciuto proprio a lei, proprio in quel momento.
Bea abbassò lo sguardo, non reggendo quei occhi nocciola, così intensi, colmi di dolore e di qualcos'altro a cui non era ancora riuscita a dare un nome. << Perché sei esattamente come loro >>, disse la verità. Non era così forte come voleva far credere, ma per lei sarebbe stato importante dimostrare il contrario.
Il sergente Schreiber la osservò, e stavolta sbuffò davvero, arrabbiato. Si alzò dal letto, iniziando a camminare per la stanza, << E cosa ti spinge a credere che sia come loro, eh? Mi pare di aver imparato abbastanza, dopo quella volta >> non stava urlando, ma ci era molto vicino, si tratteneva solo perché era notte fonda e in quella casa dormivano tutti. Quell'incontro era segreto e doveva rimanere tale, se non voleva altri problemi, oltre a quelli già innumerevoli che erano improvvisamente tornati a fare bella mostra di sé nella sua mente. << ... mi pare di averti sempre rispettata e trattata come un essere umano; non ti ho mai obbligata a far nulla, né preteso da te niente. Non ti ho mai insultata, né picchiata, non ti ho mai detto che sei una sporca comunista come avrebbe fatto qualsiasi altro soldato in questo posto >>, buttava fuori tutto come se fosse necessario farlo, senza riuscire più a fermarsi, colmo di rabbia. Parlava velocemente e con gli occhi accesi da un sentimento che conosceva bene: il dolore, la sensazione di essere stato rifiutato, ancora una volta, da una persona in cui credeva, e soprattutto, tra tutte quelle emozioni, l'ira la faceva da sovrana. << Non ti ho mai trattata come se fossi quello che sei... >> continuò, ovviamente tralasciando la prima violenza sessuale, per cui credeva di essersi già scusato abbastanza in precedenza.
Si fermò solo quando la sentì singhiozzare, alle sue spalle. Sorpreso, si volto verso di lei e la osservò, tremante e in preda alle lacrime. << Mi hai abbandonata >>, la risposta lo scosse completamente, facendo sparire tutta la rabbia che lo aveva tormentato nei minuti precedenti.
Colpevole, Mark si avvicinò a Beatrisa, accucciandosi nuovamente sul letto, accanto a lei. Aveva provato talmente tante emozioni in così poco tempo che era arrivato a comprendere solo in quel momento il motivo per il quale non lo volesse attorno. Avvolse quel corpicino fragile e scosso dai singhiozzi tra le sue grandi braccia, sentendola poco dopo sistemarsi meglio, contro il suo petto. Lui non riusciva a dire niente, come se le sue corde vocali si fossero divertite ad annodarsi, creandogli anche un forte fastidio alla gola. La sentiva stringersi a lui, aggrapparsi alla camicia che usava per dormire e le lacrime di lei che la bagnavano. Era incapace di fare qualcosa oltre che darle piccoli baci sui capelli e stringerla ancora di più tra le braccia. << Non volevo abbandonarti >> disse, in fine.
Aveva capito perfettamente cosa era successo: quando lui se n'era andato, lei si era ritrovata completamente sola, senza nessuno su cui fare affidamento, senza nessuno da poter considerare vicino a lei come lui stesso era stato. Era una cosa complicata da spiegare, ma mentre lui si era fatto forza e aveva tirato avanti solo per tornare da lei, lei non ci era riuscita; si era sentita come se fosse già morto e l'avesse abbandonata al suo destino, un destino che non la voleva viva.
<< Ho aspettato tanto per rivederti, Beatrishka >> le sussurrò ancora all'orecchio, stringendola a sé. Non riusciva a credere di starsi finalmente aprendo alla ragazza, ma doveva farlo: non riusciva a vederla in quello stato, soprattutto se c'era anche solo un minimo di ragione di pensare che fosse stata colpa sua. << Non ho mai smesso di pensarti >>, il fiato caldo del ragazzo solleticava la pelle gelida di lei, che aveva iniziato a calmarsi, limitandosi a leggere e silenziose lacrime che scivolavano veloci dalla guance sino al lenzuolo leggero che era poggiato sul materasso in maniera disordinata.
Le baciò il capo, dolcemente, prima di scostarsi quel tanto che bastava da permettergli di vedere quegli occhi verdi, sebbene al buio della stanza, << Scusami >> mormorò, prendendole il volto tra le mani. << Ti prometto che non ti lascerò mai più da sola. Mi prenderò cura di te, sei l'unica cosa che m'interessi >> ammise, sincero come non lo era mai stato; i suoi occhi potevano testimoniarlo: non c'era ombra di dubbio, non erano menzogne, e non erano scuse campate in aria, lo sentiva sul serio.
Quando si fu calmata del tutto, Bea di scostò, guardandolo negli occhi, << Mi sei mancato >> ammise, sebbene avesse qualche difficoltà a parlare correttamente, dovuta al fatto di aver appena finito di piangere.
Mark le sorrise, con dolcezza estrema, prendendo una ciocca di capelli tra le dita ed indiziando a giocarvi. << Come ti senti, adesso?>> le chiese, prima di invitarla con un cenno del capo ad accomodarsi nuovamente tra le sue braccia.
Bea lo ascoltò, lasciando che si stendesse, prima di raggomitolarsi contro il petto di lui. << Meglio grazie >>, rispose, osservando il soffitto, mentre poteva bearsi del respiro regolare dl ragazzo, e del suo petto che si alzava ed abbassava seguendo un ritmo preciso. << Tu come stai? Com'è andata? >>, chiese a sua volta, allungando una mano sul materasso, cercando quella di lui.
La mano di lui raggiunse in fretta quella della mora, intrecciando le dita a quelle sottili e fredde di lei. << Sto bene, abbiamo dovuto combattere molto, anche se per un periodo non l'ho fatto: mi hanno ferito alla gamba ed al braccio, ma alla fine l'Armata Rossa ha vinto. Questa volta >> sintetizzò gli avvenimenti: non aveva voglia di parlare con le della guerra che aveva appena vissuto, non era importante. Una cosa importante sarebbero potute essere le lettere, ma non aveva voglia di parlarle nemmeno di quelle: stava già benissimo in quel momento, non c'era alcuna ragione di crearsi dei problemi che non volevano presentarsi.
La russa si voltò velocemente, lanciandogli uno sguardo preoccupato, << E adesso come sta? >>, chiese, subito, con un tono che fece sorridere Mark.
<< Cammino con le stampelle e dovrei rimanere un po' a riposo, ma sto comunque molto meglio >>, rispose, allungando la mano che non era intrecciata a quella di lei per accarezzare e giocare con alcune ciocche scure dei capelli della ragazza, che sembrò tranquillizzarsi alle sue parole.
Annuì, << Quindi Leningrado ha vinto? >> chiese ancora, curiosa.
<< Sì, esatto >>, Mark aveva forse intuito dove intendesse arrivare e sebbene non sperasse di affrontare quell'argomento subito, ne avrebbero dovuto parlare, prima o poi.
Bea annuì, << Quindi mi uccideranno? >>
L'altro sospirò, senza sapere esattamente cosa risponderle: anche lui aveva gli stessi dubbi, ma non sapeva con chi parlarne, tranne che con Walter, e non era che lui se ne intendesse molto di questioni politico-militari. << Non lo so, Milde, per ora vogliono che tu rimanga in vita >>, rispose soltanto, anche se non conosceva nemmeno lui il motivo. Continuò a giocare con i suoi capelli per alcuni minuti, stringendosela al petto di tanto in tanto.
Contemplavano entrambi il soffitto di legno della camera, che probabilmente era privo di alcun significato, ma erano troppo impegnati a tratte piacere dalla rispettiva vicinanza per rendersene conto. Passarono alcuni minuti, prima che il tedesco potesse nuovamente sentire la voce dolce e melodiosa della ragazza russa intonare una canzone: << Poplyli tumany nad rekoj / Vychodila na bereg Katjuša / Na vysokij bereg, na krutoj** >>
Mark non capì tutte le parole della canzone -a dire il vero non riuscì a tradurne nessuna- ma adorò sentire il suono della voce della ragazza, sebbene stesse canticchiando a bassa voce, essendo notte, << Cos'è? >> chiese, interessato, smettendo per un attimo di giocare con gli splendidi capelli di lei.
La ragazza sorrise, arrossendo appena, << Una canzone russa >>
<< Di cosa parla? >>
<< Una ragazza, Katjuša, che soffre per la lontananza del suo amato, via per il servizio militare >>, rispose lei, semplicemente.
Il sergente Schreiber la osservò, incantato, << Continua a cantare, dev'essere bellissima >> mormorò.
<< Vychodila, pesnju zavodila / Pro stepnogo, sizogo orla / Pro tovo, kotorogo ljubila / Pro tovo, c'i pis'ma beregla / Oj, ty pesnja, pesenka devic'ja / Ty leti za jasnym soncem vsled / I bojcu na dal'nem pogranic'e / Ot Katjuši peredaj privet / Pust' on vspomnit devušku prostuju / Pust' uslyšit, kak ona poët / Pust' on zemlju berežët rodnuju / A ljubov' Katjuša sberežët*** >>


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
5 Febbraio 1944
17:35

<< Forse dovresti darle quelle lettere >>, gli suggerì Walter, rimanendo seduto sulla sedia, a sfogliare con poca attenzione un libro trovato sulla scrivania di Mark. In realtà non gli interessava nemmeno molto, ma odiava dover rimanere fermo senza far nulla.
Mark sbuffò, alzandosi le coperte fino a coprirsi anche il volto, << Si può sapere chi ti ha fatto entrare, eh, Walter?! >> sbottò, irritato. Non poteva alzarsi e andarsene solo perché la gama gli arrecava troppo dolore, ma l'avrebbe fatto molto volentieri. Sentire il suo migliore amico ripetersi le stesse cose almeno cinque volte di seguito non era esattamente il massimo, nemmeno per un soldato addestrato a morire per la propria patria.
Il ragazzo dagli occhi azzurri sorrise, divertito dalle reazioni dell'altro. << Mio padre >> rispose, con sarcasmo. << e comunque non è colpa mia: sei innamorato, sarebbe evidente anche ad un cieco >>, gli fece notare ancora; non avevano ancora capito se quel sentimento sarebbe stato un male o un bene: era felicissimo che l'amico l'avesse finalmente conosciuto, ma lo provava per una ragazza impossibile da avere, non perché Beatrisa Gurtsieva non volesse ipoteticamente appartenere a Mark Schreiber, ma perché era decisamente sbagliato da parte di entrambi.
L'altro sbuffò, cercando di coprirsi le orecchie con un cuscino, << Sembriamo due ragazze di dodici anni che si confidano una cotta >>, sbuffò, irritato. << Perché non mi racconti qualcosa di tuo, invece? Sono stanco di parlarne di me e Bea >>, aggiunse, subito dopo.
Walter Hoffmann abbassò il capo, senza più riuscire a guardare negli occhi l'amico. Nonostante il gesto, Mark riuscì a vedere le gote dell'altro tingersi di un rossore tenue. << Non ho niente da raccontarti >>, mentì. Era qualcosa di cui non poteva assolutamente parlare con lui, o con qualsiasi altro ragazzo o persona.
Mark abbassò appena le coperte per guardarlo, accigliato, << Cosa è successo? >>, era abbastanza infastidito che non gliene avesse parlato subito. Di solito tra migliori amici si parlava di tutto, anche delle cose che non si sopportavano, o almeno loro avevano sempre fatto così, sin da bambini.
Walter scrollò appena le spalle, << Davvero, non è importante, solo che non ho voglia di parlarne >>
Ma il sergente Schreiber lo conosceva da troppo tempo per farsi ingannare da quelle bugie; solo che Walter era sempre stato spontaneo, un po' timido, certo, ma non con lui, non aveva mai esitato a raccontargli niente, che fossero sogni o paura, come mai non voleva farlo quel pomeriggio? Doveva essere sul serio una cosa grossa. Il biondo si tirò lentamente a sedere, in modo da poterlo guardare bene, << Sei sicuro di non volerne parlare? >>, almeno aveva ammesso di avere qualcosa, era già un passo importante, e Mark era sicuro che quando l'altro fosse stato pronto a rivelargli cosa mai potesse essergli capitato, sarebbe venuto da solo.
L'altro annuì, convinto. << Ne sono sicuro, Mark, grazie >> disse, prima di alzarsi dalla sedia dov'era ed iniziare a fare avanti e indietro per la stanza. Adesso doveva solo trovare un modo per risolvere la situazione -alquanto disastrosa- per Mark e Beatrisa.
<< Mi fai venire il mal di testa, Walter >>


* Milde = Dolcezza, figurativo. (tedesco)
** La nebbia scivolava lungo il fiume / Sulla sponda camminava Katjusha / Sull'alta, ripida sponda (Katjuša - Matvei Blanter & Michail Isakovskij, 1938)
*** Camminava e cantava una canzone / Di un'aquila grigia della steppa / Di colui che lei amava / Di colui le cui lettere conservava con cura / O canzone, canzone di una ragazza / Vola seguendo il sole luminoso / E al soldato sulla frontiera lontana / Porta i saluti di Katjusha / Fagli ricordare una semplice giovane ragazza / Fagli sentirla cantare / Possa lui proteggere la terra natia / Come Katjusha protegge il loro amore (Katjuša - Matvei Blanter & Michail Isakovskij, 1938)
   
 
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