Ancora
un altro abnorme ritardo, spero che ci abbiate fatto l'abitudine,
ormai. xD
Pubblico
subito il capitolo e torno a studiare, che ho intenzione di offrirmi
per l'interrogazione di greco, tra un paio di giorni.
Spero
vi
piaccia. :3
Ahn,
ovviamente se vi va di lasciare una recensione non mi offendo, anzi,
mi farebbe molto piacere. Io continuerò a pubblicare anche
se non lo
farete, mi sembra ovvio. xD
Ringrazio
le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
-
Bbw87
-
Fairness
-
Mareike Tiaycia
-
OlandeseVolante
-
Nadine_Rose
-
niacara07
-
Norine
-
Prusskj_Lazur
-
ChyoChan
-
la_regina
-
Luc
-
thegreenlady
-
mau07
-
NemesiS_
-
Selena_
-
Ipazia
-
LadyGiulia
-
sweetstar
Coloro
che la hanno inserita tra le ricordate:
-
fedecaccy
-
Rayne
-
ElleBi
-
Dance
Coloro
che la hanno inserita tra le preferite
-
xxGiuls.
-
kikka23
-
elly04
-
Karota
-
Luna_LoveDark
-
liz89
-
Fairness
-
Selena_
-
lorenzablu
-
orsetta
-
Prusskij_Lazur
-
Selena
Marie
-
Medea91h
Salviamoci
la pelle.
-Katjuša.
Campo
di
sterminio di Buchenwald, Germania.
1
Febbraio 1944
19:20
Finalmente
poteva lasciare quell'ospedale. Ne aveva avuto davvero abbastanza:
Walter era sempre lì, accanto a lui, ma non gli dava tregua,
non
faceva altro che parlare di Bea e di chiedergli dei suoi sentimenti;
Mark cercava di convincerlo; cercava di fargli credere che quando
aveva scritto quelle lettere era semplicemente disperato e non in
grado di ragionare normalmente con la propria testa, ma non era del
tutto inutile. Il miglior amico del ragazzo era convinto di vedere
amore nei suoi occhi, e a volte il sergente temeva che avesse
ragione. Era tutto un enorme sbaglio. Qualunque cosa provasse per
quella ragazza -a meno che non fosse odio, ovviamente- era un enorme
sbaglio e non poteva permettersene: ne dipendeva la vita di entrambi.
Suo
padre era andato a prenderlo, quella fredda sera di febbraio, anche
se non sembrava troppo felice di vederlo. << Il dottore
ha
detto che dovrai stare a riposo per un po' >>
tentò di
iniziare una conversazione, mentre tornavano a casa.
Il
più
giovane annuì, << e dovrò usare
delle stampelle. Lo so, lo
so. Mi ha già parlato >> aggiunse alle parole
del padre,
passandosi velocemente una mano tra i capelli. Odiava immensamente il
fatto che non si fosse fatto vedere da quando era tornato in
Germania, presentandosi solo per riportarlo a casa. Certo, non
avevano avuto un bel rapporto, dopo la morte della madre, ma si
aspettava che almeno sarebbe stato felice di sapere che suo figlio
fosse tornato dall'Unione Sovietica sano e salvo, sebbene i nazisti
avessero perso, quella volta. Al sergente questi particolari non
interessavano più, non gli interessava più la
politica estera o
tedesca. Si era scocciato di tutto, voleva solo tornare a casa e
conoscere le reali condizioni di Beatrisa.
Hans
Schreiber annuì con poco interesse, come a confermare le
parole del
figlio, che in realtà non valevano poi così
tanto. << Sei
stato promosso a sergente, bravo >> disse soltanto,
riguardo la
promozione del figlio. Non si mostrò fiero di lui,
né cerco di
esternare qualsiasi altro sentimento; era semplicemente freddo, come
era sempre stato dalla morte della moglie.
Mark
annuì, << Lo so >>
confermò, non aiutando molto il
padre nel fare conversazione. Non si aspettava di certo una festa di
bentornato, né che gli dicesse che era fiero di lui, o che
era
felice che fosse tornato a casa con tutti gli arti al posto giusto,
né gli era mai passato per la testa che avrebbe potuto
abbracciarlo;
ma almeno pensava che avrebbe sorriso, nel vederlo con una nuova
medaglia e un nuovo ruolo, su quel letto d'ospedale. Non era morto e
si era procurato quelle ferite come eroe della padre, sebbene per lui
adesso non significasse molto.
Il padre
annuì, continuando ad osservare la strada davanti a
sé, <<
Ovviamente il tuo ruolo è cambiato. Adesso hai
responsabilità e
compiti maggiori >>
Il
biondino si voltò di scatto a guardare il padre, con
un'espressione
esterrefatta stampata sul volto: non era possibile. Gli stava per
caso dicendo che non avrebbe più dovuto -e potuto- portare
la cena a
Bea e avere così una scusa per passare del tempo con lei?
Cercò di
dimostrarsi poco sorpreso e soprattutto non infelice della cosa: non
doveva esporsi, soprattutto con suo padre. << E cosa
dovrei
fare adesso? >> chiese, moderando il tono di voce, ma
osservandolo con sospetto. Non era sicuro di voler conoscere la
risposta alla sua domanda, era sicuro che la fortuna non l'avrebbe
aiutato, quel giorno.
Il
maggiore scrollò le spalle. << Non ne sono
ancora sicuro;
finché non ti riprendi potrai rimanere con me al campo,
Hitler non
vuole uomini non sani tra le sue file >>
tagliò corto, e
sembrava volesse chiudere definitivamente quel tentativo di dialogo
appena avuto con il figlio.
Mark
sorrise in modo sarcastico, abbandonandosi completamente contro il
sediolino dell'autovettura. << Certo; e scommetto che ha
fatto
anche uno dei suoi bei discorsi su quanto sia dispiaciuto delle
perdite umane e di tutti i feriti >>, ovviamente quella
del
ragazzo era una presa in giro rivolta a tutto ciò verso cui
si era
sempre indirizzato, spinto; vero tutto ciò che aveva sempre
venerato
come un fedele religioso.
Hans
evidentemente non condivideva le opinioni del figlio, dato che si
voltò in direzione di quest'ultimo solo per fulminarlo con
lo
sguardo. << Cosa stai dicendo del Führer,
ragazzo? >>,
sbottò, frenando improvvisamente e assottigliando lo
sguardo. Non
riusciva a pensare che proprio suo figlio, che aveva cresciuto con
sani ideali nazisti, parlasse a quel modo. Nessun ragazzo tedesco
aveva il minimo diritto di parlare a quel modo.
Il
più
giovane scosse appena il capo, ancora leggermente divertito.
<<
Nulla >>, rispose, sebbene non fosse vero. Stava
semplicemente
cercando di distrarsi. Avrebbe tanto voluto chiedere al padre qualche
informazioni in più su Bea, ma sapeva che non sarebbe stato
affatto
facile, avrebbe dovuto rivolgere le domande come se non gli
interessasse davvero, come se fosse solo uno dei tanti argomenti di
conversazione per far passare il tempo. Socchiuse gli occhi,
pensando, o comunque sperando di addormentarsi. << Chi ha
fatto
il mio lavoro, mentre ero sul fronte? >> chiese in fine,
usando
un tono freddo, distaccato.
Il padre
continuò a guidare, e scrollò appena le spalle
alla domanda del
figlio. << Un soldato semplice, dopotutto non era una
cosa
importante >>, fu la semplice risposta che tuttavia
tranquillizzò moltissimo Mark: voleva dire che non avevano
ancora
pensato di ucciderla; ma ormai l'Unione Sovietica aveva vinto, che se
ne facevano di lei? << Ovviamente per adesso non saresti
in
grado nemmeno di fare quello >>, aggiunse poco dopo Hans
Schreiber, fulminando il figlio con lo sguardo, come se lo stesse
rimproverando di essere tornato ferito.
Mark
scosse appena il capo: << Bene, ne
approfitterò per riposarmi
>> cercò di tagliare quel discorso assurdo. Ne
aveva
abbastanza di stare ad ascoltare suo padre e tutte le sue pretese, ne
aveva abbastanza di non sentirsi mai alla sua altezza, ne aveva
abbastanza di quella guerra e di Hitler. Voleva solo tornare a
quindici anni prima, quando sua madre era ancora viva e tutto andava
per il meglio sotto ogni aspetto.
Rimasero
in silenzio per tutti il resto del viaggio. Non ci furono tentativi
di conversazione da parte di nessun altro. Quando arrivarono al campo
di concentramento, Hans Schreiber lasciò fuori l'auto e
aiutò il
figlio con le stampelle, prima di mostrare piastrine e documenti vari
agli ufficiali nazisti incaricati di controllare l'accesso al campo:
svolgevano bene il loro lavoro, questo era sicuro: mai nessuno, senza
permesso scritto o senza documenti, era riuscito ad entrare; a meno
che non si fosse trattato di Hitler in persona, ma quello era
completamente un altro discorso ed un'occasione rarissima.
<<
Puoi andare nella tua stanza, ti farò portare la cena
>>
furono le uniche parole che il maggiore Schreiber rivolse al figlio.
Il
sergente non disse nulla, iniziando a camminare verso gli alloggi
dell'SS, aiutandosi con le stampelle. Più camminava,
più si
guardava intorno, più non riusciva a credere a tutto quello
che
aveva intorno: i deportati sembravano essersi moltiplicati, dovevano
esserne arrivati troppi prima che il carico precedente fosse mandato
ai forni crematori. Continuava a camminare e vedeva donne e uomini
spaccarsi la schiena, al freddo di una Germania che aveva perso il
lume della ragione. Era da circa un mese che le donne venivano
mischiate agli uomini nel campo di lavoro di Buchenwald, forse era un
nuovo modo per togliere completamente loro ogni sorta di
individualismo. Cos'ha più a farle affermare di essere
donna, uno
scheletro con un pigiama a righe e senza capelli, che lavora vedendo
davanti a sé solo il buio della morte?
Vide
anche devi bambini. Aveva ucciso tante persone in Unione Sovietica e
un po' di violenza non avrebbe dovuto traumatizzarlo, ma fu peggio:
lo spaventò. Lo spaventò il fatto fosse proprio
la razza a
definirsi pura l'artefice di quello scempio. Si passò una
mano tra i
capelli, biondi, mentre rifletteva: non doveva essere giusto
accettare una situazione simile, ma cosa avrebbe mai potuto farci?
Disertare era un suicidio. Avrebbe solo voluto salvare Bea e, in un
modo o nell'altro, ci sarebbe riuscito.
Strinse
i denti, avvertendo una fitta alla gamba: l'effetto della morfina
doveva essere completamente svanito per ridurlo in quel modo, ma
aveva sopportato di peggio nemmeno un mese prima, adesso era
determinato a rivedere quella ragazza, quella ragazza a cui aveva
scritto delle lettere, che adesso erano custodite con attenzione nel
suo zaino, quella ragazza di cui -a detta di Walter- era innamorato.
Il
sergente Schreiber non aveva mai creduto nell'amore, non era come il
suo migliore amico e non pensava che quel sentimento avrebbe mai
potuto risolvere qualche problema, ma si ritrovò a chiedersi
cosa
provasse realmente per Bea. Non era solo un'amica, questo era inutile
negarlo, ma cosa sarebbe mai potuta diventare? Non poteva
immischiarsi in qualche sentimento o relazione strana con lei: se non
fosse riuscito a farla scappare, sarebbe sicuramente morta, e non
avrebbe sopportato di assistere alla morte di una persona per la
quale aveva ammesso di provare qualcosa di immenso. Per questo
motivo, Mark Schreiber si rifiutava di essere coinvolto in qualsiasi
modo in una relazione con Bea Gurtsieva.
Entrò
in quella casa, quella che non era casa sua, ma che gli aveva
riservato troppe sorprese per non esservici in qualche modo legato.
Sospirò, guardandosi intorno: il legno caldo del pavimento
era
invitante quasi quanto lo scoppiettio del caminetto acceso: avrebbe
tanto voluto sedersi sul tappeto e assaporare il torpore del fuoco a
meno di un metro dalla pelle gelata, ma voleva riposare.
Salì le
scale, senza troppa fretta e facendo attenzione a dove mettere le
stampelle. Raggiunto il bagno, si spogliò e prese un
asciugamano: la
bagno d'acqua calda e iniziò a bagnarsi e lavarsi via i
segni della
guerra, stando attento a non inumidire troppo le bende sul braccio e
sulla gamba.
Avrebbe
voluto correre da Bea, e si ripromise che lo avrebbe fatto, quella
notte stessa, quando nessuno avrebbe potuto notarlo; almeno per
quella sera, finché suo padre non si fosse addormentato,
doveva
mostrare indifferenza verso quella che era solo una ragazzina russa,
anche comunista.
Ad occhi
chiusi, riportò alla mente la figura di lei: il viso pallido
che
esprimeva dolcezza, dalla pelle morbida e delicata; gli occhi grandi,
di quel verde intenso che riusciva soltanto a fargli venire in mente
una vasta distesa d'erba, baciata dal sole, contornati dalle ciglia
lunghe; i boccoli lunghi che all'epoca le arrivavano a metà
spalle,
dovevano esserle cresciuti, doveva essere ancora più bella
con
quella massa di capelli corvini, lucidi e lunghissimi.
Ricordò la
figura piccola e delicata.
Si morse
il labbro inferiore, scuotendo il capo: non poteva perdersi in
pensieri simili e pretendere di mantenere il controllo quella notte,
con lei. Pensare che fosse così vicina lo scaldava, sia
all'interno
che all'esterno, ed il fatto che fosse inverno la diceva lunga.
Campo
di
sterminio di Buchenwald, Germania.
2
Febbraio 1944
2:48
Era buio
quando Mark si rigirò nel suo letto, incapace di prendere
sonno.
Controllò l'orario ancora due volte, prima di decidersi a
raggiungerla, ormai non sentiva provenire più rumori
dall'interno
della casa, suo padre doveva aver compilato anche gli ultimi affari
da ufficio. Scostò le coperte pesanti dal letto e si mise a
sedere,
stringendo i denti per il dolore alla gamba: i dottori si erano
raccomandati almeno tre volte perché stesse a riposo, ma
quella era
un'occasione importante, non poteva permettersi di ascoltarli, non
quel giorno.
Infilò
un paio di pantaloni ed una giacca prima di iniziare ad incamminarsi
lentamente e riuscì ad attraversare tutto il corridoio senza
fare
troppo rumore; non aveva mai pensato che quella casa di notte, senza
nessun rumore, potesse essere capace di metterlo così in
soggezione,
forse dipendeva dal fatto che lì non era mai sentito
propriamente a
casa, stava davvero meglio a casa di Walter, anche se erano un paio
d'anni che non rimaneva a dormire dal suo migliore amico. Con il
tempo aveva scoperto che era divertente passare la notte con una
ragazza, ma aveva rinunciato anche a quello da tempo, trovandolo
tremendamente insignificante e vuoto.
Come se
mancasse qualcosa.
Aprì
la
porta, lentamente, con la sua chiave: l'aveva nascosta in un cassetto
della sua camera prima di partire: era la sua copia delle chiavi
della camera designata a Bea, era l'unico modo che avesse di vederla.
La stanza era buia, e i riflessi della luna quasi assenti quella
notte: riusciva soltanto a vedere delle ombre, e i suoi occhi si
stavano abituando al buio. Andando a tentoni, con le stampelle, si
avvicinò a dove ricordava fosse il letto di Bea. Sorrise,
nel
riconoscere la familiare figura stesa sul letto. Aveva avuto ragione:
i capelli le erano cresciuto fino alla fine della schiena. Tremava,
nel sonno, probabilmente per il freddo.
Sorrise,
avvertendo qualcosa muoversi, dentro di sé. Sentiva il
calore
irradiarsi naturalmente dal proprio corpo e non riusciva più
a
togliersi quel sorriso stupido dal viso. Si sedette accanto a quella
che in fondo era soltanto una ragazzina. Le sfiorò
leggermente il
braccio, voleva svegliarla, voleva parlarle. Sentì dei brevi
mugolii
provenire dalla bocca della ragazza, prima che questa si voltasse,
infreddolita, dall'altra parte del letto.
<<
Beatrishka >> mormorò, passandole una mano tra
i capelli,
dolcemente, usando un tono che non utilizzava da quando era partito.
Non ricordava di essersi mai rivolto così a nessuno al
mondo, tranne
che a quella ragazza, così unica e allo stesso tempo
perfetta. Non
avrebbe mai creduto che sarebbe successo proprio quello, ad una
persona come lui.
Vide la
ragazza alzare piano le palpebre, per poi riabbassarle subito dopo.
Sembrava però che si stesse svegliando, infatti le
riaprì poco
dopo, cercando di tirarsi su a sedere su quel letto malandato. Vi
riuscì solo con l'aiuto di Mark, che la tenne delicatamente
per le
spalle, aiutandola a sedersi.
Gli
occhi di Bea lo osservarono a lungo e lui si aprì nel
più grande
sorriso che avesse mai fatto: avvertiva di nuovo, più forte,
quella
strana sensazione di pienezza all'altezza del petto. Si sentiva bene,
come se non avesse bisogno di nient'altro al mondo; persino i
problemi relativi a tutta la Germania e a loro due soltanto erano
spariti dalla mente del sergente; non esisteva più qualcosa
che
dovesse essere chiamato problema, nella sua mente.
<<
Ah. Sei tu >>, le parole della ragazza lo sorpresero, e
non in
senso positivo. Lo sorpresero tanto da fargli sparire un po' di quel
bel sorriso che aveva messo su.
Le
sfiorò una guancia con la mano, stranamente calda. Non
riusciva a
spiegarsene il motivo, qualche ora prima quelle stesse mani erano
freddissime; forse stare in casa aveva aiutato a renderle di una
temperatura più accettabile, o forse era semplicemente la
presenza
della ragazza a donare calore al suo corpo. << Sono
tornato un
po' di tempo fa, ma mi hanno tenuto in ospedale >>
rispose,
accarezzandole lentamente la pelle candida. Yelena doveva averlo
ascoltato: Bea era pulita e profumata.
La vide
ritrarre improvvisamente il volto, come disgustata da quel contatto,
<< Saresti potuto rimanere a combattere sul fronte, per
quanto
mi riguarda >> la voce era acida, e stranamente sembrava
essersi ripresa subito dal sonno in cui l'aveva trovata Mark.
Stavolta
l'espressione del ragazzo s spense del tutto, trasformandosi in un
immenso punto interrogativo, anche abbastanza deluso. Il pensiero di
lei era stata l'unica cosa a riuscire a tenerlo in vita tanto a lungo
da farlo tornare a casa, non si sarebbe mai aspettato una risposta
simile. << Che dici? La battaglia a Leningrado
è finita: i
russi hanno vinto >>, le annunciò, credendo
che la vittoria
della sua patria sarebbe riuscita a rallegrarla almeno un po'.
<<
Grazie per avermi avvertita, ma stavo dormendo >>, Mark
non
aveva mai visto il lato forte di Bea, ma era sicura che lo fosse,
stava solo aspettando che quella parte di lei salisse a galla, ma
adesso che era successo non sapeva se esserne felice o meno.
Soprattutto se si comportava così con lui, che le era sempre
stato
vicino.
Il
biondo la osservò per qualche istante, prima che lei
voltasse il
capo per non incontrare gli occhi di lui. << Vuoi che
vada via?
>> le chiese cautamente. Ovviamente non aveva alcuna
intenzione
di farlo, ma aveva bisogno di sentire una risposta a quella domanda.
Aveva sopportato ferite e dolore per lei; aveva ucciso delle persone
per tornare da lei, non aveva alcuna intenzione di andarsene, quando
era finalmente riuscito a tornare a casa quasi completamente intero.
Quella non era la sua casa, lo sapeva bene, ma ormai lei era
diventata la sua casa. Era il suo rifugio, il suo posto sicuro, la
sua fonte di calore e protezione; e una casa non era forse questo?
<<
Sì >>, non si voltò a guardarlo,
pronuncio solo quella
risposta monosillabica.
Mark la
guardò, parecchio stranito, prima di poggiarle una mano sul
mento,
costringendola a guardarlo, << E saresti anche
così gentile da
spiegarmene il motivo? >> quasi sbuffò, ma si
trattenne. Non
voleva mostrare la sua indole da ragazzino cocciuto proprio a lei,
proprio in quel momento.
Bea
abbassò lo sguardo, non reggendo quei occhi nocciola,
così intensi,
colmi di dolore e di qualcos'altro a cui non era ancora riuscita a
dare un nome. << Perché sei esattamente come
loro >>,
disse la verità. Non era così forte come voleva
far credere, ma per
lei sarebbe stato importante dimostrare il contrario.
Il
sergente Schreiber la osservò, e stavolta sbuffò
davvero,
arrabbiato. Si alzò dal letto, iniziando a camminare per la
stanza,
<< E cosa ti spinge a credere che sia come loro, eh? Mi
pare di
aver imparato abbastanza, dopo quella volta >> non stava
urlando, ma ci era molto vicino, si tratteneva solo perché
era notte
fonda e in quella casa dormivano tutti. Quell'incontro era segreto e
doveva rimanere tale, se non voleva altri problemi, oltre a quelli
già innumerevoli che erano improvvisamente tornati a fare
bella
mostra di sé nella sua mente. << ... mi pare
di averti sempre
rispettata e trattata come un essere umano; non ti ho mai obbligata a
far nulla, né preteso da te niente. Non ti ho mai insultata,
né
picchiata, non ti ho mai detto che sei una sporca comunista come
avrebbe fatto qualsiasi altro soldato in questo posto >>,
buttava fuori tutto come se fosse necessario farlo, senza riuscire
più a fermarsi, colmo di rabbia. Parlava velocemente e con
gli occhi
accesi da un sentimento che conosceva bene: il dolore, la sensazione
di essere stato rifiutato, ancora una volta, da una persona in cui
credeva, e soprattutto, tra tutte quelle emozioni, l'ira la faceva da
sovrana. << Non ti ho mai trattata come se fossi quello
che
sei... >> continuò, ovviamente tralasciando la
prima violenza
sessuale, per cui credeva di essersi già scusato abbastanza
in
precedenza.
Si
fermò
solo quando la sentì singhiozzare, alle sue spalle.
Sorpreso, si
volto verso di lei e la osservò, tremante e in preda alle
lacrime.
<< Mi hai abbandonata >>, la risposta lo
scosse
completamente, facendo sparire tutta la rabbia che lo aveva
tormentato nei minuti precedenti.
Colpevole,
Mark si avvicinò a Beatrisa, accucciandosi nuovamente sul
letto,
accanto a lei. Aveva provato talmente tante emozioni in così
poco
tempo che era arrivato a comprendere solo in quel momento il motivo
per il quale non lo volesse attorno. Avvolse quel corpicino fragile e
scosso dai singhiozzi tra le sue grandi braccia, sentendola poco dopo
sistemarsi meglio, contro il suo petto. Lui non riusciva a dire
niente, come se le sue corde vocali si fossero divertite ad
annodarsi, creandogli anche un forte fastidio alla gola. La sentiva
stringersi a lui, aggrapparsi alla camicia che usava per dormire e le
lacrime di lei che la bagnavano. Era incapace di fare qualcosa oltre
che darle piccoli baci sui capelli e stringerla ancora di
più tra le
braccia. << Non volevo abbandonarti >>
disse, in fine.
Aveva
capito perfettamente cosa era successo: quando lui se n'era andato,
lei si era ritrovata completamente sola, senza nessuno su cui fare
affidamento, senza nessuno da poter considerare vicino a lei come lui
stesso era stato. Era una cosa complicata da spiegare, ma mentre lui
si era fatto forza e aveva tirato avanti solo per tornare da lei, lei
non ci era riuscita; si era sentita come se fosse già morto
e
l'avesse abbandonata al suo destino, un destino che non la voleva
viva.
<<
Ho aspettato tanto per rivederti, Beatrishka >> le
sussurrò
ancora all'orecchio, stringendola a sé. Non riusciva a
credere di
starsi finalmente aprendo alla ragazza, ma doveva farlo: non riusciva
a vederla in quello stato, soprattutto se c'era anche solo un minimo
di ragione di pensare che fosse stata colpa sua. << Non
ho mai
smesso di pensarti >>, il fiato caldo del ragazzo
solleticava
la pelle gelida di lei, che aveva iniziato a calmarsi, limitandosi a
leggere e silenziose lacrime che scivolavano veloci dalla guance sino
al lenzuolo leggero che era poggiato sul materasso in maniera
disordinata.
Le
baciò
il capo, dolcemente, prima di scostarsi quel tanto che bastava da
permettergli di vedere quegli occhi verdi, sebbene al buio della
stanza, << Scusami >> mormorò,
prendendole il volto tra
le mani. << Ti prometto che non ti lascerò mai
più da sola.
Mi prenderò cura di te, sei l'unica cosa che m'interessi
>>
ammise, sincero come non lo era mai stato; i suoi occhi potevano
testimoniarlo: non c'era ombra di dubbio, non erano menzogne, e non
erano scuse campate in aria, lo sentiva sul serio.
Quando
si fu calmata del tutto, Bea di scostò, guardandolo negli
occhi, <<
Mi sei mancato >> ammise, sebbene avesse qualche
difficoltà a
parlare correttamente, dovuta al fatto di aver appena finito di
piangere.
Mark le
sorrise, con dolcezza estrema, prendendo una ciocca di capelli tra le
dita ed indiziando a giocarvi. << Come ti senti,
adesso?>>
le chiese, prima di invitarla con un cenno del capo ad accomodarsi
nuovamente tra le sue braccia.
Bea lo
ascoltò, lasciando che si stendesse, prima di raggomitolarsi
contro
il petto di lui. << Meglio grazie >>,
rispose, osservando
il soffitto, mentre poteva bearsi del respiro regolare dl ragazzo, e
del suo petto che si alzava ed abbassava seguendo un ritmo preciso.
<< Tu come stai? Com'è andata?
>>, chiese a sua volta,
allungando una mano sul materasso, cercando quella di lui.
La mano
di lui raggiunse in fretta quella della mora, intrecciando le dita a
quelle sottili e fredde di lei. << Sto bene, abbiamo
dovuto
combattere molto, anche se per un periodo non l'ho fatto: mi hanno
ferito alla gamba ed al braccio, ma alla fine l'Armata Rossa ha
vinto. Questa volta >> sintetizzò gli
avvenimenti: non aveva
voglia di parlare con le della guerra che aveva appena vissuto, non
era importante. Una cosa importante sarebbero potute essere le
lettere, ma non aveva voglia di parlarle nemmeno di quelle: stava
già
benissimo in quel momento, non c'era alcuna ragione di crearsi dei
problemi che non volevano presentarsi.
La russa
si voltò velocemente, lanciandogli uno sguardo preoccupato,
<<
E adesso come sta? >>, chiese, subito, con un tono che
fece
sorridere Mark.
<<
Cammino con le stampelle e dovrei rimanere un po' a riposo, ma sto
comunque molto meglio >>, rispose, allungando la mano che
non
era intrecciata a quella di lei per accarezzare e giocare con alcune
ciocche scure dei capelli della ragazza, che sembrò
tranquillizzarsi
alle sue parole.
Annuì,
<< Quindi Leningrado ha vinto? >> chiese
ancora, curiosa.
<<
Sì, esatto >>, Mark aveva forse intuito dove
intendesse
arrivare e sebbene non sperasse di affrontare quell'argomento subito,
ne avrebbero dovuto parlare, prima o poi.
Bea
annuì, << Quindi mi uccideranno?
>>
L'altro
sospirò, senza sapere esattamente cosa risponderle: anche
lui aveva
gli stessi dubbi, ma non sapeva con chi parlarne, tranne che con
Walter, e non era che lui se ne intendesse molto di questioni
politico-militari. << Non lo so, Milde, per ora vogliono
che tu
rimanga in vita >>, rispose soltanto, anche se non
conosceva
nemmeno lui il motivo. Continuò a giocare con i suoi capelli
per
alcuni minuti, stringendosela al petto di tanto in tanto.
Contemplavano
entrambi il soffitto di legno della camera, che probabilmente era
privo di alcun significato, ma erano troppo impegnati a tratte
piacere dalla rispettiva vicinanza per rendersene conto. Passarono
alcuni minuti, prima che il tedesco potesse nuovamente sentire la
voce dolce e melodiosa della ragazza russa intonare una canzone:
<<
Poplyli tumany nad rekoj / Vychodila na bereg Katjuša / Na
vysokij
bereg, na krutoj** >>
Mark non
capì tutte le parole della canzone -a dire il vero non
riuscì a
tradurne nessuna- ma adorò sentire il suono della voce della
ragazza, sebbene stesse canticchiando a bassa voce, essendo notte,
<<
Cos'è? >> chiese, interessato, smettendo per
un attimo di
giocare con gli splendidi capelli di lei.
La
ragazza sorrise, arrossendo appena, << Una canzone russa
>>
<<
Di cosa parla? >>
<<
Una ragazza, Katjuša, che soffre per la lontananza del suo
amato,
via per il servizio militare >>, rispose lei,
semplicemente.
Il
sergente Schreiber la osservò, incantato, <<
Continua a
cantare, dev'essere bellissima >> mormorò.
<<
Vychodila, pesnju zavodila / Pro stepnogo, sizogo orla / Pro tovo,
kotorogo ljubila / Pro tovo, c'i pis'ma beregla / Oj, ty pesnja,
pesenka devic'ja / Ty leti za jasnym soncem vsled / I bojcu na
dal'nem pogranic'e / Ot Katjuši peredaj privet / Pust' on
vspomnit
devušku prostuju / Pust' uslyšit, kak ona
poët / Pust' on zemlju
berežët rodnuju / A ljubov' Katjuša
sberežët*** >>
Campo
di
sterminio di Buchenwald, Germania.
5
Febbraio 1944
17:35
<<
Forse dovresti darle quelle lettere >>, gli
suggerì Walter,
rimanendo seduto sulla sedia, a sfogliare con poca attenzione un
libro trovato sulla scrivania di Mark. In realtà non gli
interessava
nemmeno molto, ma odiava dover rimanere fermo senza far nulla.
Mark
sbuffò, alzandosi le coperte fino a coprirsi anche il volto,
<<
Si può sapere chi ti ha fatto entrare, eh, Walter?!
>> sbottò,
irritato. Non poteva alzarsi e andarsene solo perché la gama
gli
arrecava troppo dolore, ma l'avrebbe fatto molto volentieri. Sentire
il suo migliore amico ripetersi le stesse cose almeno cinque volte di
seguito non era esattamente il massimo, nemmeno per un soldato
addestrato a morire per la propria patria.
Il
ragazzo dagli occhi azzurri sorrise, divertito dalle reazioni
dell'altro. << Mio padre >> rispose, con
sarcasmo. <<
e comunque non è colpa mia: sei innamorato, sarebbe evidente
anche
ad un cieco >>, gli fece notare ancora; non avevano
ancora
capito se quel sentimento sarebbe stato un male o un bene: era
felicissimo che l'amico l'avesse finalmente conosciuto, ma lo provava
per una ragazza impossibile da avere, non perché Beatrisa
Gurtsieva
non volesse ipoteticamente appartenere a Mark Schreiber, ma
perché
era decisamente sbagliato da parte di entrambi.
L'altro
sbuffò, cercando di coprirsi le orecchie con un cuscino,
<<
Sembriamo due ragazze di dodici anni che si confidano una cotta
>>,
sbuffò, irritato. << Perché non mi
racconti qualcosa di tuo,
invece? Sono stanco di parlarne di me e Bea >>, aggiunse,
subito dopo.
Walter
Hoffmann abbassò il capo, senza più riuscire a
guardare negli occhi
l'amico. Nonostante il gesto, Mark riuscì a vedere le gote
dell'altro tingersi di un rossore tenue. << Non ho niente
da
raccontarti >>, mentì. Era qualcosa di cui non
poteva
assolutamente parlare con lui, o con qualsiasi altro ragazzo o
persona.
Mark
abbassò appena le coperte per guardarlo, accigliato,
<< Cosa è
successo? >>, era abbastanza infastidito che non gliene
avesse
parlato subito. Di solito tra migliori amici si parlava di tutto,
anche delle cose che non si sopportavano, o almeno loro avevano
sempre fatto così, sin da bambini.
Walter
scrollò appena le spalle, << Davvero, non
è importante, solo
che non ho voglia di parlarne >>
Ma il
sergente Schreiber lo conosceva da troppo tempo per farsi ingannare
da quelle bugie; solo che Walter era sempre stato spontaneo, un po'
timido, certo, ma non con lui, non aveva mai esitato a raccontargli
niente, che fossero sogni o paura, come mai non voleva farlo quel
pomeriggio? Doveva essere sul serio una cosa grossa. Il biondo si
tirò lentamente a sedere, in modo da poterlo guardare bene,
<<
Sei sicuro di non volerne parlare? >>, almeno aveva
ammesso di
avere qualcosa, era già un passo importante, e Mark era
sicuro che
quando l'altro fosse stato pronto a rivelargli cosa mai potesse
essergli capitato, sarebbe venuto da solo.
L'altro
annuì, convinto. << Ne sono sicuro, Mark,
grazie >>
disse, prima di alzarsi dalla sedia dov'era ed iniziare a fare avanti
e indietro per la stanza. Adesso doveva solo trovare un modo per
risolvere la situazione -alquanto disastrosa- per Mark e Beatrisa.
<<
Mi fai venire il mal di testa, Walter >>
*
Milde
= Dolcezza, figurativo. (tedesco)
**
La
nebbia scivolava lungo il fiume / Sulla sponda camminava Katjusha /
Sull'alta, ripida sponda (Katjuša - Matvei Blanter &
Michail
Isakovskij, 1938)
***
Camminava e cantava una canzone / Di un'aquila grigia della steppa /
Di colui che lei amava / Di colui le cui lettere conservava con cura
/ O canzone, canzone di una ragazza / Vola seguendo il sole luminoso
/ E al soldato sulla frontiera lontana / Porta i saluti di Katjusha /
Fagli ricordare una semplice giovane ragazza / Fagli sentirla cantare
/ Possa lui proteggere la terra natia / Come Katjusha protegge il
loro amore (Katjuša - Matvei Blanter & Michail
Isakovskij, 1938)