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Autore: cheedori    13/11/2011    8 recensioni
In caduta libera.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Dominic Howard, Kate Hudson, Matthew Bellamy
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Disclaimer: giuro di essere una narratrice mentecatta, dica lo giuro - lo giuro! I Muse e quei poveretti che fanno loro da contorno in questa storia sono totalmente estranei ai fatti narrati, checché io ne dica.
Note: tante, troppe, specie se parliamo di Matt Bellamy. Ma no, ciaosonol'autrice! un giorno sono andata in overdose da tè e ho provato a scrivere qualcosa. Non ho avuto il modo di pensarci più di tanto, in realtà, perché se l'avessi fatto avrei cestinato tutto, o forse non avrei mai avuto il coraggio di pubblicare, chissà. Approfittando dunque dell'ora tarda (what a god taxi driver, sono le 04:17!), vi delizio con il primo capitolo, come una sorta di preludio, di una storia senza alcuna pretesa che si rivelerà essere una sega megagalatica, conoscendomi.
Allora... 'Meds' è una canzone dei Placebo (ma no, Brian non presenzierà in questa storia semplicemente perché non riesco a gestirlo - voglio dire, ho già i miei Bellamy, non complichiamoci ulteriormente la vita, uh?), e da questa prende il nome la nostra impresa. A narrare è Dominic, il batterista-leopardo (idraulico nel tempo libero), che possiede la grazia e la finezza di un muratore, lo so. Il punto è che non riesco ad immaginare queste persone impegnate in un monologo alla Jane Austen, mi dispiace. Comunque... non voglio dirvi altro. C'è un motivo per cui questa storia si trova qui e non nella sezione Muse. #sapevatelo
Altre annotazioni? No, ma vi chiedo immensamente e ripetutamente scusa perché io non scrivo dalle elementari, tipo. Potrei dunque considerare questo come il mio primo autentico approccio alla scrittura di fanfiction. Insomma, non vi sto dicendo che ho dimenticato le regole basi della grammatica italiana, solo che sono fuori fase, olè.
Pairing: mostly Bellamy/Howard (o BellDom, come preferite), ma non sono escluse varie ed eventuali ulteriori;
Commenti: che ve lo dico a fare? Tutti sanno che un commento fa la giornata di una fic-writer, quindi come at me, bwos! 

Enjoy <3


Meds

_I was alone

falling free
trying my best not to forget



*


Il giorno del mio quindicesimo compleanno mio padre mi portò a pescare.
Ricordo ancora come quella mattina di dicembre la mamma avesse provato a fermarci, in piedi sull’uscio della porta sul retro, avvolta nella sua vestaglia di pile preferita - quella rosa, rosa a righine azzurre e le maniche a sbuffo che la zia Cathy le aveva regalato qualche Natale prima.
“Bill, tu credi sia davvero necessario? Hai visto il tempo, lì fuori? Sta per venir giù un acquazzone!” aveva detto, lo sguardo colmo di rimprovero.
Papà aveva solo scrollato le spalle, offrendole poi un bacio sulla guancia ed un sorriso giovale in risposta.
“Saremo a casa prima di pranzo, aspetta noi per cucinare!” e si era fatto strada fuori in cortile, nel freddo bastardo della costa inglese, avvolto nel suo piumino verde muschio e tre giri di sciarpa che lo facevano sembrare due volte più grosso di quanto in realtà non fosse.
“Papà, aspetta!” mi ero già lanciato all’inseguimento di mio padre quando la mamma mi tirò indietro, verso di sé, stringendomi in un abbraccio che profumava di gelsomino.
“Auguri, piccolo, ti voglio bene” e poi mi aveva ricoperto i capelli, e la fronte e le guance di baci giocosi e soffi di risate, divertita dai miei tentativi di allontanarla e i ripetuti “ma’, dacci un taglio! Ho quindici anni, ormai!
In piedi in cortile, mio padre osservava la scena a braccia aperte. Rideva.
“Dom, figliolo, credimi, non si è mai troppo grandi per quello” aveva detto, e poi si era voltato facendomi cenno di seguirlo perché s’era fatto tardi.
Lanciai un’ultima occhiata relativamente malevola a mia madre, la quale ancora ridacchiava compiaciuta, e poi uscii assicurandomi meglio il berretto sulla matassa di capelli biondi (a quei tempi li portavo ancora lunghi), ricalcando le orme che gli scarponi di mio padre avevano lasciato sull’erba umida.
Quel giorno tornammo a casa senza neanche un pesce, bagnati fino alle vertebre e in ritardo per il pranzo (che mia madre s’era premurata comunque di cucinare, santa donna). In serata avvertivo già i primi sintomi della febbre del secolo, ma sgattaiolai via lo stesso per raggiungere i miei amici. Ricordo che mio padre mi vide, accovacciato in giardino, in fuga come un ladro. Quando ero ormai rassegnato all’idea della rinuncia, o quanto meno del rinvio della mia missione, lui attirò la mia attenzione picchiettando piano sul vetro della finestra; mi fece l’occhiolino, e poi spense la luce in camera, voltandomi le spalle. Non ci pensai due volte: ghignando come un matto, mi avventurai nella notte.

Quella sera a casa di Ben Mitchell mancava Matt. Lo stronzo aveva tirato su un party di compleanno per me e poi aveva dato buca, per “altre robe” che aveva da fare, come mi disse Tom più tardi. Rimasi lì per non più di un paio d’ore, credo, bevendo birra e altri strani miscugli da grossi bicchieri di carta colorata ad ogni brindisi d’auguri che mi veniva proposto (“cheers!”), e dopo esser riuscito ad infilare le mani sotto la gonna di Jody Webb (un gran traguardo per lo sfigato-me dell’epoca), decisi di averne avuto abbastanza. Raccattai quel briciolo di lucidità che mi rimaneva e mi feci strada tra le viuzze di quella dannata cittadina - ah, dio, come l’odiavo quand’ero ubriaco. Continuai a camminare per qualche minuto, senza sapere realmente dove i miei piedi disgraziati mi stessero conducendo. Ero nei pressi della caserma quando lo vidi: una figurella accartocciata sul marciapiede e, intorno a lui, tre ragazzi più robusti, enormi se messi a confronto. Non ci volle molto a capire cosa stesse accadendo, e ancora meno a farmi muovere il primo passo verso la scena non appena mi accorsi che uno dei tipi teneva fermo Matt da dietro, mentre un secondo gli tirava calci nello stomaco. Non mi fermai a riflettere sul fatto che fossero chiaramente in vantaggio (e non solo numerico), né mi curai di notare il dettaglio del coltellino che scintillava nel pugno di uno di loro - quello che parlava. In realtà non so cosa cazzo mi dicesse la testa all’epoca, ma fatto sta che presi ad urlare come un diavolo dal centro della strada, tentando di attirare la loro attenzione e non solo, e... bingo.
Il più grosso dei tre, quello con un vistoso tatuaggio di un’aquila sul collo, si voltò a guardarmi, pur continuando a tirare falcate stavolta alle spalle di Matt, curve nel tentativo di proteggere le parti già lese.
“Torna a casa, riccioli d’oro” disse, scoppiando poi a ridere in una maniera che trovai quasi comica, come un cane o un doppiatore davvero scadente, la testa buttata all’indietro e il coretto incoraggiante degli altri due.
Ripeto, non so cosa mi dicesse la testa all’epoca. Fatto sta che nel 90% dei casi mi portava a dire o fare cazzate, come quella sera.
“Lasciatelo in pace, figli di puttana!” sbraitai infatti, stupidamente. Dovevano averlo pensato anche loro, che fosse una cosa stupida da dire, intendo, perché le risa raddoppiarono di volume, e poi Mr Aquila Rampante lasciò perdere Matt e si diresse verso di me, facendosi scrocchiare le dita in un’intimazione minacciosa. Da qualche parte, con la coda dell’occhio, riuscivo a vedere Matt, ancora piegato in due, ma finalmente libero, i pugni serrati contro l’addome, e i suoi occhi - i suoi occhi furibondi. Era stato pestato da tre tizi grossi il triplo di lui, insultato, molestato, probabilmente minacciato in qualsiasi modo perché - oh, chissà in che guaio s’era cacciato quel dannato figlio di puttana - eppure non era resa, o dolore, o disperazione quella che gli si leggeva in volto; no, Matt Bellamy era incazzato nero, e se la sua bocca sputava sangue a causa delle botte prese, i suoi occhi scoccavano frecce avvelenate di odio puro; era sconfitto, ma l’orgoglio bruciava, era debole, ma sempre più forte di me.
A volte mi faceva paura, altre lo ammiravo e basta, altre ancora ero così invidioso di lui che avrei voluto spaccargli la testa.
Il punto è che davvero non m’importava di prenderle per lui. Non ero nemmeno sicuro che Matt avrebbe fatto lo stesso per me, ma mi andava bene così. Sapevo che me ne sarebbe stato riconoscente a suo modo, era per quello che lo facevo. Punto.
Quando la ronda di quartiere ci incrociò, sia io che Matt eravamo ridotti in uno stato pietoso, chi più chi meno, e i tre bastardi se l’eran data a gambe, ragion per cui alle guardie venne facile pensare che ce le fossimo suonate di santa ragione tra di noi. Per fortuna bastarono poche parole da parte mia a convincerli del contrario, e dopo poco io accompagnavo Matt, appoggiato completamente a me, su per il viottolo. Non aveva detto una sola parola, né un grazie né altro - non che me l’aspettassi, a dire il vero. Arrivati sull’uscio di casa di sua nonna, aveva semplicemente aperto la porta, lasciandola poi aperta dietro di sé, in un invito nemmeno così chiaro ad entrare. Ovviamente, lo seguii.
Matt mi aspettava ai piedi delle scale, appoggiato al muro, gli occhi chiusi. Qualcosa mi diceva che fosse imbarazzato perché non sarebbe riuscito a salirle se non l’avessi aiutato, ma che non voleva ammetterlo a se stesso. Perciò quando mi avvicinai e gli feci passare un braccio attorno alla vita - sottile, sottilissima - per offrirgli un supporto, feci finta di ignorare la smorfia infastidita che gli si dipinse in volto. Ah, di nuovo, l’orgoglio.
Arrivammo in camera sua dopo due minuti di prese scomode e silenzi imbarazzati, e lì mi lasciai andare sul suo letto, accusando per la prima volta tutta la stanchezza di cui m’ero fatto carico durante la serata. Matt accese la lampada sulla scrivania e poi si tolse la felpa oversize che indossava, rivelando un busto esile ricoperto di macchie violette e altre cicatrici passeggere. Calcolai quindici battiti, quindici come gli anni che compivo, e poi me lo ritrovai lì disteso al mio fianco, sporco di sangue e terriccio. Puzzava di sudore, e un po’ di erba, e dovevo essere davvero ubriaco, ma ricordo di averlo trovato bellissimo quando si era girato a guardarmi, gli occhi blu che brillavano nella stanza illuminata a malapena.
“Sei un coglione” aveva detto, ma non lo pensava sul serio.
“Grazie mille, non c’è di che” risposi, distogliendo lo sguardo.
Passarono alcuni minuti prima che uno di noi parlasse di nuovo, e alla fine cedetti per primo. Come sempre.
“In che guaio ti sei cacciato stavolta, Matt?”
La risposta venne ancor prima che avessi terminato di fargli la domanda, puntuale come sempre.
“Non sono cazzi tuoi”
Aveva chiuso gli occhi mentre lo diceva, sospinto certamente dal peso di qualcosa più grande di lui. Matt poteva fare il figo quanto voleva, ma non mi fregava.
“Quanto ti serve?”
Avevo perso il conto delle volte in cui gli avevo prestato dei soldi che non mi eran più tornati indietro - ancora una volta, la cosa non mi interessava.
La risposta, comunque, fu un quanto mai irritato “ho detto che non sono cazzi tuoi” e poi, subito dopo “Dom, Dom, per favore, lascia perdere, sì? Com’era la festa?”, e le sue dita nervose tra i capelli.
Sbuffai.
Matt rotolò di fianco e poggiò la testa contro la mia spalla.
Sbuffai ancora, ma non aggiunsi nulla.
“Allora? Dom?”
Matt mi cinse con un braccio, stringendo forte, poi le sue labbra spaccate erano contro la mia tempia, fredde e ruvide. In quel momento avrei potuto dirgli di tutto, con la scusa di essere ubriaco e stanco morto, avrei potuto scostargli quella stupida ciocca di capelli dal viso, soffiargli sul naso, avrei potuto fargli il solletico fino a quando avesse implorato pietà, o dirgli che era il mio migliore amico e che mi faceva paura e che volevo baciarlo e che gli volevo bene e che volevo picchiarlo perché doveva smetterla di non pensare, doveva smetterla con quella cazzo d’erba, doveva smetterla con quel gruppo di sfigati del Pier, doveva -
“Oggi sono andato a pescare con mio padre. Ho preso un persico, ma mi è scappato mentre tiravo la lenza”
Il mio cervello doveva essere tarato.
“Poi pioveva, e siamo tornati a casa a mani vuote - papà ha proposto di comprare del pesce al mercato, però si è accorto di aver lasciato il portafogli a casa”
Matt emetteva suoni gentili contro il mio collo. Era piacevole, perciò continuai.
“Abbiamo mangiato pollo a pranzo. Emma mi ha regalato un orologio, è subacqueo. Poi lo zio ha sganciato un po’ di grana, potrei pensare di comprarmi un ride nuovo, sai, sostituire quello vecchio. Potremmo andare ad Exeter uno di questi giorni, uh? Verresti con me?”
Non mi aspettavo una risposta, in realtà. Per questo quando arrivò mi colse di sorpresa.
“Oggi ho preso dei soldi a Dick. Non li ho proprio rubati, erano soldi che mi doveva. Ci volevo comprare... una cosa. Poi quel tizio, Rob, se ne accorge e pretende la sua parte - la solita merda, no? Lui mi prende i soldi e mi dà il pacco, e mi dice ‘tieni un terzo’, e dentro - dentro, Dom, dentro c’era... c’era roba pesante, polvere bianca, Cristo. E allora io gli dico ‘fottiti’, gli dico... ‘fottiti’ perché io quella roba, Dom, io - quando qualche anno fa ero a casa dei miei, ricordi, quando - quando abitavo ancora sulla collina? Un giorno ero lì che giocavo con questo specchio, cazzo, nemmeno so come, cade e si rompe, e mia - c’era vetro ovunque per terra, okay, ed era colpa mia, e mi tagliai un dito perché volevo... ma mi disse di lasciar perdere, dei sette anni di sfiga che - che io - ”
Ricordo di averlo interrotto a quel punto, perché Matt stava tremando e io non riuscivo sopportarlo. L’avevo stretto e gli avevo detto “zitto, sei un coglione, sono un coglione, sta’ zitto”, e poi “Matt, Cristo, Matthew”.
Conoscevo la storia dello specchio, me l’aveva raccontata sua nonna, una volta, mentre mi versava il tè e lui nell’altra stanza finiva i suoi esercizi al pianoforte. I suoi genitori avevano divorziato un anno prima, e Matt non aveva mai smesso di farsene una colpa. La cosa lo lacerava, anche se lui avrebbe negato fino alla morte. Faceva tanto il duro e poteva anche essere un idiota che coltivava marijuana sul terrazzino di casa sua, ma non era uno di quegli idioti là. Non so con quale sicurezza riuscissi a dirlo all’epoca, neanche lo conoscevo da molto, in fin dei conti, ma quel ragazzino problematico con gli occhi di porcellana e la famiglia in fumo mi aveva aperto un varco, nel cuore, nello sterno, nel cervello, io non so - che nessun altro riusciva a colmare con la propria presenza. E, paradossalmente, mentre invidiavo fortemente il suo carattere, l’intelligenza e il suo essere perennemente in rivolta, mi ritrovavo ad essere a mia volta, in maniera del tutto inconsapevole, oggetto di invidia da parte sua. Ciò che più faceva male, naturalmente, era che a Matt mancassero cose che io davo invece per scontate o totalmente ordinarie: andare a pesca con papà, litigare con Emma per il volume dello stereo, le raccomandazioni della mamma ogni qual volta uscissi di casa...
L’avevo tenuto fino a quando non riconobbi un ringhio esasperato, l’autoimposizione di fare tutto meno che piangere, l’enorme contraddizione che era Matt lì tra le mie braccia e poi non più, alla ricerca di una via di fuga da me, da quella stanza, dal suo riflesso, da tutto.
“Non - io volevo prenderti qualcosa, un regalo, ma non - ”
Si rivestiva, mentre parlava, forse più per darsi da fare che per altro.
Un regalo, voleva farmi un regalo e si era ritrovato in affari più grandi di lui. Ma no, la colpa non era neanche del regalo, perché prima o poi Matt ci si sarebbe ritrovato comunque - quello, era quello che gli bruciava, e che tirava calci come un bastardo adesso contro il termosifone, la libreria, il letto, la mia gamba.
“Matt, Matthew - e che cazzo, Matt!”
Ero saltato su anche io, spintonandolo fino a quando la sua schiena aveva incontrato la parete, ma piano, senza fargli troppo male.
“Matt, ascolta” iniziai, ma non lo guardavo, perché adesso sapevo che non voleva che lo vedessi così “Matt, devi promettermi una cosa. Mi ascolti?”
Matt aveva emesso un verso debole, quasi sconfitto. Lo sentii annuire, e questo mi bastò.
“Promettimi che la prossima volta che avrai voglia di fare a botte chiamerai me. Promettimi che se avrai mai di nuovo bisogno di soldi, li chiederai a me”
Matt annuì, una volta e poi anche due. Gli credetti.
“Matt” ripresi, stavolta guardandolo. Aveva un sopracciglio spaccato, il viso sporco di fango sul lato sinistro, lì dove probabilmente l’avevano tenuto premuto a terra. I capelli erano un po’ sporchi come al solito, lunghi ad incorniciargli gli spigoli in evidenza degli zigomi, la linea della mascella non ancora definita. Mi stupì ancora una volta il fatto che sotto quella maschera sicura ci fosse poco più di un bambino, unica eccezione fatta per gli occhi, già duri, già adulti, abituati a vedere cose che un ragazzino di 14 anni non avrebbe dovuto vedere neanche in tv. Tanto per cambiare.
Provai un moto di tenerezza, sentendomi in parte responsabile per lui - era come se avessi fatto un voto, quella sera, quando lo avevo sentito arrancare e balbettare nel suo discorso sullo specchio; tutto il mio mondo si ritrovò concentrato su quelle labbra minuscole e screpolate, sulle quali giaceva la richiesta muta di aiuto, l’invito e la negazione. Mi avvicinai, facendo poggiare la mia fronte alla sua, ridacchiando quando lo sentii fare lo stesso.
“Matt, promettimi che la smetti con quella roba. Me lo prometti?”
Era stato solo un breve movimento del capo, un cenno e basta, e poi Matt aveva preso a trafficare con le tasche dei suoi jeans per tirarne fuori un pacchettino dall’aria malconcia, la fronte sulla mia spalla, e aveva cominciato, balbettando, a dire “non è quello che - è un’altra cosa, perché - non sapevo se - poi andiamo ad Exeter insieme, a proposito, sì certo - senti Dom scusa, io”, ma io l’avevo zittito strappandoglielo di mano.
“Per una buona volta nella tua vita, Bellamy: taci”
Matt aveva riso, e poi aveva fatto una battuta squallida sui pacchi, ed io avevo riso ma solo perché lui rideva a sua volta, e via così fino alle quattro del mattino.


Il giorno del mio quindicesimo compleanno, Matt mi regalò una musicassetta di ‘Nevermind’ dei Nirvana. Ce l’avevo già, naturalmente, ma poco importava.


Vent’anni dopo mi ritrovo seduto da solo come un coglione sul letto di una lussuosissima suite. Non so dove mi trovo, ma probabilmente sono ancora in Inghilterra, forse addirittura a Londra. La testa mi pesa come un grave nel vuoto, le gambe pure - da qualche parte nei recessi meandri del mio cervello registro anche una sensazione simile al freddo, ma forse è dovuto al fatto che sono nudo dalla vita in giù. Il perché mi sfugge, ma non lo inseguo.
Mi è stato insegnato dalle mie recenti ignobili compagnie, che la migliore soluzione in questi casi è chiudere di nuovo gli occhi e aspettare che il soffitto la smetta di girare, che le sabbie mobili del letto cessino di provare ad inghiottirmi.

Cessino. Cesso, ah-ha, devo andare al cesso, devo proprio andare al cesso!

Ho provato a chiamarlo quattro volte da quando mi sono svegliato, ma naturalmente non risponde. Volevo chiedergli dove sono e se mi viene a prendere con la macchina nuova, quella che mi piace, quella blu-viola-notte. Forse ho sbagliato numero, o forse in realtà non l’ho davvero chiamato. Non ricordo. Cosa dovevo ricordare? Ricorda Dom. Ricorda - ero andato a pesca con mio padre e avevo quasi preso un persico, poi mi era sfuggito mentre tiravo la lenza - Sono andato allo Skin stasera - Matt aveva rotto uno specchio e piangeva ma non si faceva guardare - Thierry mi ha dato della neve ed io ho riso - la vestaglia della mamma era a righe rosa e blu... no, rosa e azzurro e le maniche a sbuffo - sono tornato in camera con TiziaA e TiziaB ma non mi si alzava perché ero troppo fatto - le orme di papà nell’erba bagnata erano enormi - Matt non risponde al cellulare, Matt non mi vuole più bene - il giorno del mio quindicesimo compleanno...






Note di fine capitolo:
'Neve' è uno dei nomi che viene utilizzato per indicare la cocaina;
Il pesce persico è un pesce d'acqua dolce, ma non volevo che Dominic pescasse sardine, so deal with it. Inoltre, a Teignmouth c'è anche un fiume, quindi sono a posto con la coscienza;
La storia dello specchio è vera. Matt ruppe uno specchio antico quando aveva 13 anni, e sua madre rimproverandolo gli disse che avrebbe causato sette anni di sfortuna alla famiglia; un anno dopo i genitori di Matt divorziarono, e lui non riuscì mai a scacciare dalla mente il pensiero che potesse esser stato lui ad aver causato indirettamente la loro separazione quando aveva rotto quello specchio. Povero piccolo, ecco. :(
Non mi viene in mente altro. Buonanotte.


  
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