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Autore: Oscar_    21/11/2011    2 recensioni
Sottratto da un misterioso giovane alla propria catastrofica situazione familiare, il piccolo William si ritrova a combattere coi fantasmi di un passato oscuro, celato fra le innumerevoli ed abnormi camere della dimora di questo suo 'benefattore'.
Cosa nasconde Oscar? Per quale motivo benché riceva proiettili in corpo e coltellate al collo egli non muore? E come mai ha scelto proprio William?
{ I personaggi sono OC; la storia è completamente inventata. }
Genere: Avventura, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Silver tears

 
 
 
 






1. Darkness changes everything
 
 
 
 
 
 
 
 
 

I giorni erano scivolati lenti lungo il mese di settembre. Nulla si era smosso tranne le faccende politiche; e nemmeno più di tanto. Il mondo girava lento attorno ad un ciclo infinito e nulla pareva desiderare interromperlo.
Una settimana era trascorsa da quando William si trovava nell’alloggio del suo sconosciuto salvatore. Ed ancora non era riuscito a catalogarlo nelle tipologie di persona incrociate sino a quel momento nel suo breve cammino. Quant’era snervante; lui, un bambino intelligente e sveglio, che non riusciva a decidere se classificare quel giovane, sempre che fosse un giovane perché ancora in faccia non l’aveva mai visto, fra i buoni o i cattivi. Certo, l’aveva salvato dalle grinfie di quegli individui che avrebbe dovuto considerare genitori. Eppure non riusciva a fidarsi. In fondo nei film e nei cartoni animati i supereroi irrompevano sempre di giorno e vestivano colorati; eccetto Batman. E vivevano tutti in America.
Effettivamente nei nomi d’inizio e coda dei cartoni che vedeva nei piovosi pomeriggi d’inverno non vi trovava mai parole o riconoscimenti italiani. Tranne quelli alla voce ‘traduzione’, sempre che vi fosse inserita.
Rammentava una lontana mattina di chissà quando in cui sua madre gli aveva proposto di andare al cinema; le aveva chiesto cosa il cinema fosse. La sua risposta era stata ‘un salone con tanta gente dentro che guarda fisso un grandissimo schermo su cui si proiettano delle immagini bellissime. A lui era parsa una bella idea, così c’erano andati.
Mai l’avesse deciso! Quel film era stato il più tremendo della sua vita, non l’avrebbe rivisto mai, per nulla al mondo. Shelter* gli pare si chiamasse.
Un rumore lo destò dal ricordare quella buia serata, in quel momento rammentò, di gennaio, e gli fece voltare lo sguardo alla finestra. Il misterioso benefattore ne era appena entrato, anche in fretta. Non aveva idea del motivo, ma quando tornava di sera non entrava mai dalla porta. Era un tipo parecchio strano.
- Buona sera, mio caro William. Visto? Sono stato via solo mezz’ora, il tempo prestabilito. – Articolò fra gli ansimi provocati da una probabile corsa appena compiuta. Il bambino osservò un cronometro affianco a sé. 00:31:01:03, segnava.
- Mezz’ora significa trentuno minuti, un secondo e tre millesimi, signore? – Continuava a chiamarlo a quella maniera, benché egli gli avesse intimato più volte che lo faceva sentir vecchio, così. Il giovane, il viso costantemente mascherato dall’impermeabile e dal cappello, scoppiò a ridere. Quant’era innocente quell’angioletto di bambino!
- No, sono trenta minuti esatti. Ed io sono in ritardo. Desideri punirmi? – Domandò il ragazzo, inginocchiandosi ai piedi del divano dove il bambino sostava. Il piccolo assunse un’espressione perplessa e incuriosita.
- Che vuol dire ‘punire’, signore? – Chiese William, portandosi un ditino alle labbra socchiuse.
- Vuol dire fare del male o ordinare a un determinato individuo di fare qualcosa perché ha errato in un’azione o in un compito. Hai capito? – Rispose paziente il giovane, nascondendo il solito sorriso dietro le pieghe del giaccone. Il bambino annuì.
- Io però non voglio farle del male, signore... – Confessò il piccolo, sviando lo sguardo, appena imbarazzato.
- Come mai? – Domandò il ragazzo, improvvisamente ansioso.
- Perché lei mi ha salvato, non devo punirla. – Pronunciò la nuova parola con una lieve incertezza, incespicando, cosa che divertì non poco il giovane, che portò una mano sul capo del ragazzino, accarezzandolo fugacemente.
- Cosa vuoi per cena, William? – Disse l’uomo tornando in piedi, scuotendo il cappotto e i pantaloni da una polvere inesistente. Il piccolo parve pensarci su, prima di rispondere gioiosamente:
- Pizza! – Il giovane annuì, avviandosi nuovamente alla finestra da cui in precedenza era entrato e continuava a far via vai al calar delle tenebre. – Dove va? – Chiese William, scendendo dal divano per avvicinarsi al ragazzo, sul punto d’uscire.
- A comprare la pizza! Dieci minuti e ti porto la pizza migliore del mondo, quella con la mozzarella bollente tutta filante e il pomodoro più saporito della Terra! – Esclamò teatralmente, con un tono estremamente contento. – Sistema il cronometro, stavolta sarò puntuale. – Affermò con convinzione, annuendo per dar più credito all’esclamazione.
- Quando torna mi dice il suo nome, signore? – Sussurrò flebilmente William, portando una mano a stringere la giacca del ragazzo, che già aveva aperto la finestra senz’attendere la risposta del piccolo. Si voltò sorpreso, scrutando il visetto speranzoso del bambino appena ai suoi piedi. Sorrise anche se egli non poteva scorgerlo ed annuì, sparendo poi nei meandri della notte uscendo con uno scatto, richiudendosi la finestra alle spalle.
 
William non saprebbe dire con esattezza quanto tempo passò dall’uscita del benefattore; ormai era solito pensarlo con tale soprannome. Forse un’ora, forse due. Ma in fondo non aveva chiara la divisione del tempo, a malapena sapeva che un minuto era composto di sessanta secondi e cosa fossero i millesimi.
Comunque un rumore lo svegliò verso le dieci, facendolo sussultare. L’enorme salone era immerso nella penombra notturna tranne che per una striscia di muro, malamente rischiarata dal chiarore lunare penetrante dalla grande finestra da cui il benefattore usciva sempre. Il bambino tese l’orecchio, forse in attesa di altri rumori che confermassero la chiara funzionalità del suo infantile udito; ed infatti la ragione del suo risvegliò si fece nuovamente avvertire. Era uno scatto secco, che si ripeteva a intermittenza, come lo schiaccianoci che frantuma il guscio di quei piccoli frutti. William si alzò tentando di comprendere la provenienza di quel rumore così continuo e forte; si perdeva nei meandri della grande casa, echeggiando fra i lunghi corridoi e le vuote stanze che il bambino aveva appena scorto la prima volta che era stato condotto lì dal benefattore. Anche perché in seguito egli stesso gli aveva, anche se delicatamente, proibito di visitarle o curiosare in esse. E gli aveva rivelato di non averle chiuse a chiave, poiché di lui si fidava. Peccato che il piccolo stesse per tradire la sua fiducia.
Si avvicinò alla porta di legno del salone e rimase a percepire il rumore qualche secondo, riuscendo a intuire che più o meno doveva provenire dalla stanza affianco o quella davanti. Mettendosi in punta di piedi alzò un braccio e pigiò con una mano sulla maniglia, lasciandola inclinarsi verso il basso, rivelando una palpabile oscurità appena oltre la porta. William deglutì, terrorizzato all’idea di doversi addentrare in quel buio così invalicabile. Si prese però coraggio, deciso più che mai a dar prova della sua spavalderia, quella di cui così tante volte e così tanto al lungo s’era vantato con il suo papà, nei pomeriggi d’estate, con un mantello blu che in realtà era uno strofinaccio, legato sulle spalle, ad imitare Superman, ma che gli faceva avvertire ancora più caldo e più afa e gli faceva ricevere solamente rimproveri dal genitore per via della sua ‘stupidità nel continuare imperterrito con atteggiamenti infantili persino in momenti nel quale era così ovvia la cosa giusta da compiere’.
Mosse timoroso il primo passo nel buio, mentre i suoi occhietti scuri si abituavano lenti all’oscurità nella quale si addentrava sempre di più. L’unico rumore oltre allo scatto continuo, che ora aveva compreso, proveniva proprio dalla stanza affianco, distante un metro e qualcosa dal grande salone, era il proprio affannoso respiro. Si disse che se un mostro fosse stato in agguato l’avrebbe subito sgamato e fatto a pezzi coi lunghi artigli quindi si posò una mano a celare le labbra e tentò di fare il meno rumore possibile, continuando a muovere piccoli passetti uno vicino all’altro, avvicinandosi lento alla sua mèta.
Una volta dinnanzi la porta, quella del salone gli parve più distante che mai. Tentò di farsi forza, concentrando l’attenzione sul rumore che imperterrito perseverava nel turbare la quiete notturna, e sfiorò con le tremanti dita di una mano la gelida maniglia della porta; l’indecisione lo divorava. Aprire la porta ed affrontare qualunque cosa si trovasse dall’altro lato? O tornarsene in salone, nascondersi sotto un mucchio di coperte e stringere gli occhi sperando nell’arrivo immediato del benefattore?
 
Era da quaranta minuti bloccato da due poliziotti proprio dinnanzi a sé. Non poteva fare un passo più avanti che l’avrebbero notato e certamente bloccato. Chi osava a quell’ora occupare le viuzze più nascoste di Roma se non i mendicanti, gli ubriachi e le prostitute? E siccome lui non rientrava in nessuna di queste tre categorie, l’avrebbero certamente inserito nella quarta: individuo sospetto. Quindi trattenuto e interrogato a dovere, quasi fino allo sfinimento totale.
Non avendo intenzione di ricevere un trattamento del genere, e non potendo fare dietrofront, se ne stava lì, a congelare nell’oscurità di un vicolo che puzzava di piscio e alcool, maledicendosi per aver scelto quella strada; che peraltro non imboccava mai.
Una scaletta di ferro che saliva incerta lungo il muro affianco a sé pareva la via per il Cielo. Ma se vi fosse salito, data la probabile avanzata età dell’appiglio in questione, esso si sarebbe staccato facendolo precipitare al suolo, attirando certamente l’attenzione di quei maledetti poliziotti proprio davanti a lui.
Sbuffò contrito, rilasciando dalle sottili labbra, vittime del gelo e perciò screpolate, del bianco fumo simile a quello che solitamente fuoriusciva dopo che aveva esalato il prezioso tabacco da una sigaretta. Ah che avrebbe dato in quel momento per una sigaretta!
Si decise a ficcare la pizza per William in una tasca interna del giaccone, dove venendo a contatto col proprio petto gelido si raffreddò all’istante rendendo vana la promessa della pizza con la mozzarella bollente, e mordendosi il labbro inferiore per evitare di gemere nel caso si fosse ferito, afferrò il primo piolo della scala con una mano, saltando lungo il muro per potervisi aggrappare. Una volta compiuto il primo passo, il secondo avrebbe dovuto essere più semplice; e quando mai?
Nel posare il piede sul piolo dal quale aveva appena tolto la mano scivolò, sbattendo il mento sul piolo dove stava per adagiare la mano guantata. Strinse gli occhi evitando per un soffio di gemere e continuò la sua salita, pensando al piccolo William e a come l’avrebbe trovato deluso nel constatare che anche lui, al pari dei suoi genitori, lo lasciava da solo ore intere. La prossima volta, per quanto disgustosa sarebbe venuta fuori, l’avrebbe fatta lui, con le sue mani, la pizza.
 
Il buio che avvolgeva la stanza da cui il rumore proveniva era ancora più impenetrabile di quello in corridoio e nel salone. Là, almeno, lievi spiragli di chiarore lunare aiutavano a non inciampare. Invece in quella camera dal fine sconosciuto nulla si poteva distinguere, tranne la provenienza del rumore, che arrivava certamente da un punto alla sinistra di William. Non appena però il piccolo aprì la porta, il rumore cessò qualche istante, per poi riprendere più forte e più vicino di poco prima. Due barlumi scarlatti rischiararono la stanza. Due occhi. William si sentì immobilizzare dal terrore. Quella creatura infernale, qualsiasi cosa fosse, stava per farlo fuori senza esitazioni. Era sul punto d’inghiottirlo tra le sue fauci ricolme di fiumi di sangue e denti aguzzi, che chissà quanti altri poveri innocenti bambini avevano distrutto.
Istintivamente si portò le mani al viso, chiudendo gli occhi ed indietreggiando. Peccato, non aveva avuto il tempo di sapere il nome del benefattore. Succede. Ecco, avvertiva chiaramente gli artigli della creatura incombere sul suo collo e la sua cupa risata di scherno riecheggiare tutt’intorno; doveva essere una stanza parecchio grande, quella. Rimbombava tutto come in chiesa. Il respiro dell’essere si poteva percepire da metri di distanza, mentre il piccolo William aveva la sfortuna di sentirlo proprio sulle proprie mani, che sostavano a coprire il terrorizzato visetto. Che tristezza morire così. Il suo coraggio era svanito come il benefattore. Il rumore secco continuava a risuonare all’orecchio del bambino, che non poteva far nulla per permettergli di cessare. Tlick-tlack-tlick-tlack.
Ed ecco ad un tratto un lampo illuminare la stanza, un lampo che però rimase a rischiarare la tenebra tutt’intorno. William scostò lentamente le mani dal viso, notando che qualcuno aveva acceso la luce nella stanza ed ora gli stava di fianco. Un giovane dai capelli neri e la pelle così bianca da parer composta di neve; gli occhi scuri di un colore poco definito vagavano sulla creatura, ora inerme, che tanto aveva spaventato William ma che in realtà si rivelò essere un macabro burattino, con dipinto un ghigno in faccia e gli occhi scarlatti, ora immobili, a fissare il vuoto eternamente aperti.
- Non ti sei fatto male, vero? – Sussurrò il ragazzo affiancò a William, voltando gli occhi, che si rivelarono marrone scuro, sulla sua piccola figura, con un lieve sorriso a rasserenare l’espressione mite. Aveva una voce dolce e rassicurante.
- No... Cos’era quello, signore? – Non c’era niente da fare, oramai la sua pessima abitudine di chiamare tutti gli individui di sesso maschile ‘signore’ l’aveva ipnotizzato. Il giovane rise; possedeva una risata limpida e leggera, come un arpeggio suonato da dita angeliche.
- Una marionetta. Lo sai chi l’ha costruita? – Domandò in tono malizioso, chinandosi affianco al bambino. Egli scosse il piccolo capo. – Il mio fratello gemello. È molto bella, vero? – Sussurrò, assorto in un altro mondo troppo lontano perché il piccolo potesse coglierlo; infatti si limitò ad annuire, osservando l’espressione improvvisamente malinconica che s’era impadronita del visetto tanto dolce e bello del giovane che l’aveva salvato dal baratro del terrore. Gli posò una manina su una guancia, facendolo sussultare e poi arrossire appena.
- Perché è triste, signore? – Mormorò William, sporgendo il labbro inferiore con fare infantile, forse offeso dal repentino cambiamento d’umore del nuovo benefattore.
- Non sono triste, tesoro. E comunque non chiamarmi signore, mi fai sentire vecchio. – Rispose dolcemente il ragazzo, posando un dito sulla mano del giovane; era così caldo, il suo dito; e così lungo e pallido; pareva quello d’un musicista. Eppure quella frase il bambino l’aveva già udita in precedenza. Massì! Dalle labbra dell’altro benefattore! Aveva detto esattamente la stessa frase. Che fosse lui il gemello di quel ragazzo così effeminato che in quel momento gli accarezzava perso una mano?
- Come si chiama, signorino? – Gli avevano imposto così tanta educazione che alla fin fine non riusciva a mutare di molto il soprannome da dare agli sconosciuti. Il giovane alzò gli occhi al soffitto, gesto che a William rammentò la madre quando lui rompeva qualcosa; la differenza era che il ragazzo effeminato/ neo-benefattore sorrideva.
- Il mio nome è Oskar, chiamami così, intesi? – Chiese il giovane, tornando a guardarlo. William annuì, ripetendo fra sé, in sussurri, il nuovo nome imparato.
Una voce fece ad entrambi voltare il capo verso il salone:
- William? Sono a casa! Ti ho portato la pizza! – Esclamò il benefattore dalla stanza affianco. Finalmente ce l’aveva fatta a tornare! - William? Dove sei? - Domandò perplesso. Un rumore di passi lenti, poi sempre più rapidi, sino al punto in cui si trovavano William e Oskar. - Oh eccoti! Ma come mai non rispondevi? E che fai qui, tutto solo? - Il piccolo fece per indicare il secondo benefattore ma egli era svanito nel nulla, come evaporato. Sbattè più volte le palpebre, senza risultati. 
- Ho sentito un rumore e sono venuto a vedere. - Rispose flebilmente, chiedendosi che fine avesse fatto Oskar. Il giovane annuì e dopo averlo preso in braccio spense la luce tornando in salone. Posò la pizza sul tavolo innanzi il divano e poi vi si sedette, tenendo ancora in braccio il bambino. 
- Non devi andare nelle altre stanze, te lo ricordi? - Sussurrò il benefattore; d'improvviso appariva un'ombra d'inquietudine nel suo tono solitamente allegro. 
- Sì, scusi signore. - Mormorò sporgendo il labbro inferiore, mortificato d'aver 'sbagliato' nel fare qualcosa. 
- Beh, volevi sapere come mi chiamo, no? Ebbene, il mio nome è Oscar. - William credette di non aver udito correttamente. 
- Scusi, potrebbe ripetere? - Domandò voltando il capo nella sua direzione, cercando incredulo il suo sguardo, che non trovò.
- Sì: mi chiamo Oscar. - Ripeté pazientemente il ragazzo, non comprendendo l'espressione del bambino, che discese dalle sue gambe silenziosamente, andando a sedersi al tavolo per poter assaggiare la pizza, ora fredda, su cui il benefattore aveva pianificato così al lungo e così a fondo. Il suo sguardo senza fondo rimase a vagare al lungo sulle imperfezioni della mozzarella sciolta sulla pizza fra il pomodoro e l'impasto. Poi l'addentò non proferendo parola alcuna, senza essere cosciente di ciò che ancora l'ignoto futuro gli serbava. 


***


*Shelter: flm horror uscito nel gennaio 2011 (n.d.a)

Ebbene eccomi tornata col secondo capitolo! Mi rincresce che non seguiate in molti ma comprendo che il successo arriva lentamente e per chi sa pazientare; quindi mi sistemo comodamente sulla mia sedia da studio che cade a pezzi ed attendo un vostro parere, positivo, negativo o indifferente che sia. È strano che aggiorni così in fretta, solitamente le mie storie rimangono incomplete. Sarà che mi sto immedesimando. Mi auguro che recensiate, grazie per aver letto anche qui~

 
   
 
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