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Autore: eli_sa    11/12/2011    1 recensioni
Il destino ci aveva messo in contatto, la noia ci aveva fatto parlare, la curiosità ci aveva fatto conoscere, l'affetto mi aveva fatto comprare un biglietto ferroviario poche ore prima.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il sussultare del treno mi svegliò di soprassalto. Fuori era buio e si intravedeva solo qualche fioca luce provenire dalle case sparse sulle montagne, le colonne di fumo che uscivano dai loro caminetti risplendevano al chiarore della luna.

Il neon che illuminava il corridoio si stava fulminando e lampeggiava insistentemente nel tentativo di riaccendersi, per poi spegnersi di nuovo, e così via, creando un'atmosfera di squallore e inquietudine.

Controllai la mia borsa, era tutto a posto. In altri tempi non avrei avuto il coraggio di addormentarmi in treno. Forse le ultime vicende mi avevano resa più forte, o forse inconsciamente non mi importava più di nulla. Sentivo di essere cambiata, qualcosa aveva portato via da me tutti i sentimenti e le sensazioni. Eppure mi sentivo tesa e mi prese una lieve angoscia. Mancavano solo venti minuti di viaggio e poi l'avrei incontrato.

Non avevo aspettative per quella serata. Volevo solo uscire, volevo solo accettare l'invito e godermi la scena. Non avrei forzato gli eventi, non avrei fatto in modo che le cose accadessero per forza, qualunque cosa avrebbe dovuto essere naturale ed io sarei stata lì, comoda, a guardare il film della mia vita che prendeva forma. Ero stanca, troppo stanca per ricommettere gli stessi errori del passato.

Fuori dal finestrino le luci diventavano sempre più numerose. Un brivido mi fece tremare, partendo dal collo, fino in fondo alla colonna vertebrale. Ero agitata e mi sentii per un attimo soddisfatta: provare un'emozione mi ricordò che ero ancora viva, l'apatia del periodo precedente non c'era più.

Una voce stridula e metallica annunciò la mia fermata. Feci un lungo sospiro, mentre osservavo l'avvicinarsi della stazione. L'avrei riconosciuto? O lui avrebbe riconosciuto me? La banchina brulicava di persone. I passeggeri del treno si stavano alzando, dirigendosi verso le porte di uscita. Io rimasi per un attimo seduta. Volevo scendere in maniera teatrale, come le donne in quei vecchi film in bianco e nero: con grazia, muovendo i capelli con eleganza, e non in maniera goffa spinta dalla folla che premeva per uscire.

Scrutai la banchina nella speranza di vederlo prima che lui vedesse me, ma c'erano troppe persone. Mi sembravano tutti uguali, cappotto, cappello, sciarpa, cellulare all'orecchio... i miei occhi non riuscivano a vederlo. E se non fosse venuto?

Era il momento di scendere. Infilai il braccio destro attraverso il manico della borsetta, sistemandola sulla spalla. Strinsi un po' la cintura del mio cappotto. Uno sguardo furtivo al finestrino, nel tentativo di controllare se i capelli erano in ordine. Poggiandomi delicatamente sul corrimano, scesi i tre gradini e feci qualche passo più avanti. Nessuno mi veniva incontro. Nessuno si sbracciava per farsi riconoscere. Lui dov'era?

Mi addentrai nel bar della stazione. Controllai il cellulare mentre sorseggiavo il mio bicchiere d'acqua. Ero in orario, e non c'erano chiamate perse o messaggi non letti. Anche l'orologio del bar segnava le ventidue in punto. Mi imposi di stare calma e poggiai il bicchiere vuoto sul bancone.

Le cose erano molto diverse da prima. La me di prima l'avrebbe riempito di messaggi durante il viaggio, qualcosa del tipo “sto partendo”, “non vedo l'ora di arrivare”, “sono arrivata e tu?”, ma non ero più quella persona, e neanche lui lo era.

-Naomi?- una calda voce pronunciava il mio nome, poggiandomi la mano sulla spalla. Mi voltai lentamente. Eccolo. I riccioli biondi, gli occhi chiari, non molto più alto di me.

-Daniele!-

Mi baciò sulla guancia, stringendomi a se in un breve abbraccio. Sorrideva.

-Mi aspetti da molto?-

Scossai la testa per dire di no, sorridendo. Mi sentivo felice come una bambina al luna park, ma non volevo darlo a vedere. Volevo fare un po' la sostenuta. Lui era un uomo, non un ragazzino.

Camminammo fino al parcheggio della stazione. Quella era la sua città, il suo territorio. Lui aveva proposto l'appuntamento. Era lui che aveva il controllo. Aveva un portamento elegante, sprezzante del freddo con il suo cappotto aperto che lasciava intravedere un maglioncino grigio a righe. Il jeans scuro cadeva perfettamente sulle sue Bikkembergs nere.

Si fermò davanti ad un'Audi A3 bianca che lampeggiò al tocco delle sue dita sulle chiavi.

-Dove vuoi mangiare? Ristorante fighetto o un'osteria un po' spartana?-

-Decidi tu, è la tua città!-

Con un ironico inchino mi invitò a salire. L'auto era profumata e pulita con maniacale meticolosità. La sua guida era sicura, come l'espressione sul suo volto, aveva lo sguardo fiero.

-Come stai Naomi? Sei ancora triste?-

-Non sono del tutto serena, però sto meglio. Sto cercando di non pensarci.-

Appoggiò la mano sulla mia, sorridendomi. Le sue mani erano grandi e calde, al contrario delle mie esili e gelide. Mi era stato vicino per tutto questo tempo. Vicino anche se lontano. Sempre pronto ad ascoltare le mie lamentele e i miei tormenti. Sempre pronto a elargire parole di conforto. Che l'avesse fatto con un secondo fine? Poteva essere, ma che importava. In fondo non mi aveva mai spinta a prendere una decisione.

Il tragitto in macchina non durò molto. Parcheggiò vicino al marciapiede con una semplice veloce manovra ed entrammo nel ristorante, le luci erano calde ed accoglienti, un cameriere ci accompagnò al tavolo. La clientela era molto varia, spaziava dalle coppiette a lume di candela, a grandi tavolate con bambini ed anziani. Il tavolo era vicino alla vetrata che dava sulla strada, aldilà della quale, oltre all'affollato marciapiede, una breve ma ripida scogliera giungeva al mare. La luce della luna rifletteva il suo bagliore sulle onde lievemente increspate da una leggera brezza. Tutti i movimenti sembravano lenti, i rumori attutiti. Le persone avevano un aspetto diverso, rilassato. Era come se la gente del posto fosse consapevole della bellezza della propria città e ne fosse pienamente appagata.

Era strano cenare con lui. Sapevo ciò che pensava, o cosa avrebbe risposto alle mie domande, quello che davvero mi sorprendeva era osservarlo: vedere come muoveva le labbra, come aggrottava e distendeva le sopracciglia, il modo di gesticolare con le mani, ma soprattutto vederlo sorridere. Mentre mostrava la bianchissima dentatura, increspava la sua pelle con deliziosi segni di espressione intorno agli occhi. Era un uomo. Mi spaventava il suo buon senso quanto mi sorprendeva il suo entusiasmo.

-Come ti trovi nella casa nuova?-

-Spaesata. Non la sento mia. Devo ancora fare l'abitudine ai rumori, agli scricchiolii, ai bambini dei vicini.. E poi ho ancora degli scatoloni da svuotare, in mezzo al soggiorno. Non ne ho neanche voglia...- poggiai la forchetta con la punta sul bordo del piatto, alzai lo sguardo verso di lui. Mi guardava incuriosito e un po' preoccupato dall'incupirsi del mio viso.

-...ogni volta che tiro fuori qualcosa, mi torna in mente...-

-Shh! Stai tranquilla, passerà! È solo questione di tempo!- le sue dita sfiorarono la mia guancia, spostandomi il ciuffo di capelli biondi dietro l'orecchio. I suoi occhi di ghiaccio erano fermi. Tranquilli. Rassicuranti.

-Non preoccuparti, sto bene. Era la decisione giusta da prendere. Fa solo un po' male però sono contenta di aver preso quella decisione!-

Mi guardò un po' rincuorato.

-E tu invece nella casa nuova? Da quanto ci stai?-

-Mi sono trasferito un anno fa. Mi piace la libertà sai? Ho aspettato troppo a staccarmi dai miei. Col senno del poi l'avrei fatto diversi anni fa!-

Finita la pizza e il caffè, Daniele chiese il conto e insistette per pagare.

Fuori la temperatura si era abbassata, c'era meno gente a passeggio nel viale alberato con la vista sul mare. La brezza si era fatta più pungente.

-E così è qui che vieni a correre alle più improponibili ore del mattino?-

-Si. Questo posto mi rilassa.-

-Lo credo, è molto bello. C'è un buon profumo.-

-Questa sera è più bello del solito...-

Mi fissava, dopo quella sua frase a effetto, uscita quasi senza volerlo, era in imbarazzo. Gli sorrisi impacciata, tendendo le labbra senza mostrare i denti. Teneva le mani dentro le tasche dei jeans. Mi avvinghiai intorno al suo braccio sinistro, poggiando la testa sulla sua spalla mentre continuavamo a camminare senza una precisa meta. Sentivo il sangue pulsarmi forte nei polpastrelli, lo sentivo scorrere dal cuore alle dita, sentivo il rumore del mio respiro nelle orecchie. Di nuovo quella sensazione di ovattato, il tempo era smorzato dall'emozione.

Avevo passato molto tempo pensando a “noi”. A un ipotetico incontro. A un ipotetico flirt. A un'ipotetica storia insieme. Noi, distanti quattrocento chilometri, con dodici anni di differenza... talmente diversi da sembrare incompatibili. Ma il destino ci aveva messo in contatto, il lavoro ci aveva fatto parlare, la curiosità ci aveva fatto conoscere, l'affetto mi aveva fatto comprare un biglietto ferroviario poche ore prima.

-E' mezzanotte, sarai stanca, hai lavorato tutto il giorno e poi hai fatto tre ore di treno...-

-Si, mi accompagni in hotel?-

L'hotel era poco distante, in una bella zona con viali alberati e palazzi pieni di vetrine. Mi fermai sulla scalinata che conduceva all'entrata dell'hotel.

-Domattina ti porto in spiaggia, se ti va.-

-Certo che mi va! Buonanotte Daniele.-

Mi strinse a se baciandomi sulla guancia. Il suo abbraccio aveva un'energia diversa dalla volta precedente. Non poggiò la guancia sulla mia, ma poggiò le labbra. Fu lento a distaccarsi, o almeno così mi sembrò. Non ero sicura di avere una giusta cognizione del tempo in quel momento.

Entrai in quell'hotel dalle luci quasi abbaglianti, cercando di mantenere un portamento elegante e tranquillo sui miei tacchi alti. Una pioggia di faretti pendeva dal soffitto nella grande hall, quasi cadendo al centro della tonda fontana architettonica che decorava l'ambiente con il piacevole suono dell'acqua che vi scorreva.

Una volta entrata in camera persi le forze, mi infilai a stento la sottile camicia da notte che avevo piegato nella borsa, e crollai sul letto. Nel grigiore di quella camera buia, si rifletteva sul soffitto la quadrata scia luminosa che entrava dalla finestra ogni volta che un'auto passava davanti all'hotel. Gli occhi si chiudevano, esausti, ma la mia mente era ancora sveglia. Forse troppo. Continuavo a pensare a lui. Allo strano modo in cui l'avevo conosciuto, al calore delle sue mani, alla premura dei suoi gesti. Il cuore si dibatteva, nel suo ritmico canto che non mi dava pace. -Devo dormire!- pensavo, -Devo dormire!- ma la mia mente divagava.

  
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