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Autore: Jericho XVIII    07/01/2012    0 recensioni
L’intorpidimento di quel corpo era nauseante, il peso delle membra quasi intollerabile e il candore di quella sua pelle bianca, troppo bianca, troppo mortale, un marchio troppo vergognoso perché lei potesse sopportarlo. Così decise di liberarsene. Timidamente stese una gamba che teneva stretta al petto. Il suo piede sottile tastò l’aria dell’abisso.
Attaccata alla spalla le rimaneva un’unica, tenebrosa piuma di corvo.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Appoggiato su di un cuscino di velluto. Con le ali leggermente dispiegate, la testa reclinata su una spalla.

Il trapezista lo guardava in silenzio. A gambe incrociate davanti a lui, una mano appoggiata accanto al suo piccolo corpo, due dita a sfiorarne la coda.

Il corvo era una statua bluastra affondata nel velluto argenteo. Il suo becco grigiastro era dischiuso. Accanto all’ala sinistra, la prima piuma.

C’era uno squarcio su quella spalla, là dove la piuma nera si era staccata. Dallo squarcio si irradiava una luce violenta e chiarissima, che illuminava il trapezista in viso e faceva luccicare i suoi occhi da gatto, di quel colore azzurro vetro tanto chiaro da sembrare bianco.

La tenda faceva calare un’oscurità confortevole attorno a loro. Copriva tutti i sei metri di quel piccolo tempio, tranne che sopra il cuscino di velluto; il Pagliaccio non aveva voluto sentire ragioni, quella piccola porzione di tela doveva dare sul cielo. Le nuvole temporalesche dell’isola vi danzavano dentro, strette in quel quadrato, come sforzandosi di rientrarvi per sbirciare.

Il trapezista allontanò la mano dalla coda del corvo e raccolse la piuma. Se la portò alle labbra, ne accarezzò la forma, poi la infilò in una tasca dei suoi larghi pantaloni.

Si alzò senza far rumore ed indietreggiò fino ad uscire all’aria aperta. Solo dopo aver scostato la tenda dell’ingresso e poggiato i piedi nudi sull’erba dell’accampamento si voltò, dirigendosi verso la sua roulotte.


La mezza ondata di applausi si fermò al gesto del Pagliaccio, e mentre gli assistenti liberavano il palco lui si sistemò comicamente il microfono in una narice.

- Ed ora - fiatò, e la prima fila scoppiò a ridere - lo spettacolo di un professionista.

Silenziosamente, le funi calarono in mezzo ai trampolini. Il tamburino dai capelli a punta iniziò la rullata. Le luci rotearono sul pubblico e abbagliarono il Pagliaccio, che immobile allargava le braccia e con quell’ampio gesto indicava dietro di sé.


Kamala lo vide arrivare mentre arrostiva della carne sul fuoco. Era discostata dagli altri, con le sue poche valigie e l’attrezzatura della danza del fuoco sparsa accanto lei. Appoggiata ad un tronco, tendeva sulle fiamme una mezza bistecca. Quando il trapezista le si avvicinò e si sedette sul giaciglio di pelli davanti a lei, gli fece cenno di avvicinarsi e lo fissò con aria complice.

- Shht, eh - mormorò. Alzò un lembo del panno che copriva una macchina voluminosa e scoprì la porta aperta di una gabbia di acciaio.

All'ombra del panno, il ghepardo del circo ricambiò immobile lo sguardo del trapezista, con gli occhi che riflettevano il fuoco. Kamala gli grattò la testa amorevolmente e gli mise tra i denti un brandello di bistecca.

- Non una parola - raccomandò al ragazzo. Quindi ravvivò il fuoco, nascondendo di nuovo il felino dietro la stoffa.

- Ti farà a pezzi - osservò Ghabi con la sua voce profonda. Era uscito dalla roulotte e si era appoggiato alla scala di ferro che usavano per il loro numero. Kamala si strinse nelle spalle e si gettò indietro i capelli intrecciati. Ghabi, per nulla sorpreso dalla reazione, continuò pacifico ad accarezzarsi la barba. Poi si sedette accanto al trapezista.

Il fuoco scoppiettante riluceva sulla pelle color tizzone dei due africani. Entrambi gli offrirono da bere, ma come sempre lui rifiutò. Mangiò invece il loro pane, e ascoltò Kamala snocciolare la sua giornata, col ghepardo accoccolato contro le ginocchia.

Quando ebbe finito, Ghabi finì di masticare la carne e si volse verso di lui. Gli fece un sorriso con i suoi proverbiali denti bianchi.

- E cosa ci racconti, Jama-sayed?

La sua domanda aleggiò attorno al falò per qualche istante. I rumori del circo che si addormentava arrivavano a loro attutiti oltre le fiamme. Kamala si era avvolta in una coperta e prendeva sonno appoggiata al petto di Ghabi, mentre il ghepardo si agitava nervoso nella gabbia ora chiusa.

Il trapezista socchiuse gli occhi giocherellando con un ramoscello ardente, si strinse la sua collana d’osso e prese fiato. Poi iniziò a raccontare.


Le storie del trapezista avevano stregato tutti, uomini e donne, persino gli elefanti non barrivano quando nel cerchio del palco risuonava la sua voce bassa e tranquilla. I bambini si addormentavano, gli spettatori sorridevano ai suoi inviti, le sue parole cullavano le crisi della donna cannone e l’ira del mangiafuoco. Era per le sue storie che il Pagliaccio l’aveva preso con sé, all’inizio di settembre, quando la poggia era arrivata. Era stato due giorni dopo la caduta della stella che il Pagliaccio aveva raccolto.

Era arrivato sotto un ombrello malconcio, vestito solo di una camicia a righe e dei jeans sfilacciati, con la barba sfatta e i capelli lunghi che poi gli avevano tagliato. Si erano chiusi per un’ora nell’ufficio, il clown e quel giovane dagli occhi da gatto. Quando erano usciti, il ragazzo faceva parte della loro compagnia. E la sua presenza era stata immediatamente evidente: aveva praticamente reinventato lo spettacolo. Cambiato i numeri, il loro ordine, i loro componenti; aveva modificato le coreografie e disegnato i costumi, adattandoli al genio del suo estro, divagando in risposta alle domande degli altri, senza mai spiegarsi, senza mai giustificare; ma soprattutto aveva parlato con tutti loro, e tutti aveva ascoltato, fino a diventare la presenza incostante, dall’attenzione onnipresente, che tutti avevano conosciuto.

Era stravagante. Lo guardavano da lontano gettare sassi nella piscina e abbracciare il cane che glieli riportava. Talvolta se ne stava ore a fissare il vuoto. Gli avevano portato libri, ma non sapeva leggere, o non voleva darlo a intendere; lo avevano interrogato, ma lui aveva sorriso, sorriso soltanto. Era taciturno, tuttavia correva con la bambina del domatore, le pettinava i capelli e le dava un bacio per farla addormentare; lasciava che il nano gli dipingesse il viso, pazientemente chiedeva scusa se il giocoliere lo accusava di intralciare i suoi allenamenti; imparava a mangiare la spada, a tirare i cerchi, a gettarsi senza paura dai trampolini. Era gentile ed aggraziato; rimaneva spesso solo, ma non si allontanava mai da nessuno. E nessuno lo chiamava mai per nome.

“Il trapezista” dicevano, “Jama-sayed”, principe-salto, a volte lo chiamavano il mangiafuoco e la domatrice. Il Pagliaccio, quando aveva bisogno di lui, cercava “quel ragazzo”. Nessuno sapeva come si chiamasse, ma in un circo non era certo una novità.


Però sapeva danzare.

Appeso al trapezio, con gli addominali tesi, il costume stretto sulla pelle, un cavo - all’inizio- , attaccato alla schiena, poi se l'era tolto - l'oscillazione, la spinta, il salto, la coreografia; era una figura disegnata in mezzo al vuoto, un guizzo di muscoli e un racconto di posizioni e capriole, un cavaliere dell’aria, con una mano aperta ad afferrare una sbarra sottile e l’altra immobile ad accarezzare il suo mondo invisibile, il suo cielo di luci là sospeso sul palco, sugli spettatori, sugli amici, sulle bocche aperte delle signore e gli sguardi vigili degli uomini. E i volti dei bambini all’improvviso si facevano attenti, quando quel ragazzo diventava un drago, e le proiezioni sul telo che aveva dietro di lui si trasformavano in un tornado di nuvole e bestie mitiche, con quella musica che lo accompagnava, saliva, scendeva, seguiva i suoi salti, il suo ritmo, e ancora i nastri, che lo facevano vorticare sopra i leoni di Kamala che spiccavano balzi sotto di lui – il muso dipinto, le unghie tagliate - e le ballerine ad ondeggiargli affianco, appena un istante, poi via; era di nuovo solo lui, appeso al suo trapezio, con un sorriso sicuro sulle labbra, gli occhi da gatto chiusi, che apriva poi soltanto quando scendeva nel turbinio del nastro in mezzo al palco, lento, col candore di una nuvola, giù sulla sabbia smossa dalle fiere, davanti al pubblico attonito, con la musica che si spegneva al sussurare dolce di un violino sempre più debole, come il tocco di una piuma sul pavimento lucido di qualche palazzo di cristallo, con la semplicità di un falco che torni al suo nido chiudendo le ali come un delicato ventaglio…


Il Pagliaccio aveva il viso scuro. La coda dei suoi lunghi capelli grigi gli scendeva da una spalla, sopra il costume che portava sempre, giorno e notte, con la pioggia e con il sole. Guardava la lettera davanti a lui, la lettera dello spettacolo, di quello che poteva essere la loro fortuna. Oltre la lettera c’era una piuma. Dietro la piuma, lo sguardo fermo del trapezista.

- Che c’è? - chiese con un filo di voce appena. Si strofinò un occhio, spostando i suoi occhiali a mezzaluna.

Il trapezista non gli rispose. Accennò al cielo, espirò con calma. - Sta cambiando il tempo.

Il Pagliaccio fissò ancora la lettera, distratto. La piuma dietro di essa era scomparsa. C’era mai stata? La cercò altrove sulla scrivania, ma non la vide. L’aveva sognata.

- Lo so, lo so - mugugnò, alzandosi dalla poltrona. Versò del succo d’arancia al ragazzo, che ringraziò a bassa voce. - Ti ha mandato Kamala?

- Garuda. E dice che “ormai c’è più luce che bestia”. Qualsiasi cosa voglia dire - rispose il trapezista con una nota disorientata nella voce.

Il Pagliaccio fissò il giovane negli occhi con attenzione. Mentiva: lui sapeva il significato di quelle parole. Ne ebbe la certezza quando l’altro gli ricambiò lo sguardo con un’occhiata confusa.

Ma poi rivide la piuma accanto alla lettera bianca. Da dove veniva? Allungò una mano per prenderla.

- Ma che fai ? - fece il trapezista mentre la mano del Pagliaccio raschiava la scrivania. L’uomo afferrò la lettera con risentimento, prima di guardare di nuovo il trapezista in volto. Si contraddisse.

Il ragazzo aveva una faccia troppo serena per mentire. Si era sbagliato. E la piuma non c’era. Aveva visto male due volte.

- Vai, vai - lo congedò.

Il trapezista uscì dalla roulotte senza dire altro, giocherellando con una piuma nera che teneva tra le dita.


Garuda attendeva che gli portassero da mangiare, la testa china sul suo libro. Aveva passato sulla sedia da campo verde all’ingresso del piccolo tempio la prima metà del pomeriggio, saltando il pranzo. I suoi occhi gialli indugiavano su di una parola sconosciuta che aveva un suono terribilmente bello, sebbene non la sapesse pronunciare correttamente. Era arrivata dalla terra delle foreste solo otto mesi prima.

Il trapezista le diede una voce imboccando il breve sentiero di alberi che dall’accampamento portava al piccolo tempio. Garuda lo osservò avvicinarsi. Una treccia bruna gli cadeva vicino allo zigono da sopra una tempia, e terminava in una graziosa perlina blu che bene si abbinava con il colore dei suoi occhi. Opera di qualche bambino del circo. Alzò una mano e la sventolò sopra il suo libro.

- Mi dai il cambio? - chiese speranzosa.

L’altro scosse la testa.

- Comunque sia, io devo mangiare. - Issandosi su dalla sedia, e sgranchendosi le gambe con un movimento complesso, la contorsionista lo salutò con un bacio sulla guancia. Tornò all’accampamento con l’indice in mezzo a quel volumetto spesso.

Il trapezista alzò lo sguardo al cielo dove infuriavano le nubi. L’umidità era aumentata e la temperatura pure.

Si infilò nella tenda del tempietto, facendo frusciare il pavimento di tela sotto i suoi piedi nudi.


Ogni notte, la dea piangeva. Le Apsaras le vorticavano attorno, riempiendola di attenzioni, cullandole le ginocchia, accarezzandole i lunghi capelli d’ebano. Ma la dea possente, avvolta nella sua veste bianca, continuava a piangere. Sconsolata, gettava la testa indietro e dai suoi begli occhi scendeva una lacrima, una sola, che le cadeva sulla guancia diafana e dal mento si staccava, per cadere giù, oltre la balaustra del palazzo d’argento, sulla schiena delle nubi, che si gonfiavano come punte da un veleno e pregne di pioggia baluginavano sulle terre, gettando ombre minacciose di pioggia e muggendo in rombi lontani.


Disposta ordinatamente sul palco del circo, la compagnia chiacchierava sottovoce in un brusio musicale che sovrastava il ticchettare delle gocce sul tendone.

Kamala accarezzava i suoi leoni allungando le mani dentro le gabbie, i giocolieri improvvisavano passaggi e acrobazie con gli orecchini delle ballerine e Garuda, con i piedi accanto alle orecchie, ripeteva tra sé e sé una frase complessa del suo libbricino.

Il Pagliaccio si presentò dopo un minuto. Li salutò brevemente come faceva nelle occasioni ufficiali, lasciando che tutti notassero che le gote rosse del suo trucco mancavano, e che al loro posto si vedevano due guance lucide sovrastate da ampie occhiaie. Forse il suo viso naturale lo faceva più vecchio di quanto volesse, ma nessuno glielo fece notare.

Il trapezista era appeso al suo attrezzo a testa in giù, due spanne sopra la testa dei suoi compagni, gli occhi azzurro pallido fissi davanti a sé.

Il brusio si spense. Il Pagliaccio prese fiato e allargò le braccia.

- Ce l’abbiamo. E’ fatta, lo spettacolo si farà.

Il brusio esplose di nuovo. Qualcuno applaudì. Le ballerine scoppiarono all’unisono in una risatina di gioia.


Erano passate otto settimane. All’arrivo della stella erano un circo di provincia. Il giorno dopo il primo spettacolo, le convocazioni e le lettere di invito. E così via. Più gente entrava nella grande tenda a strisce, più il tempo si faceva scuro. Più incassi ingrassavano le cassaforti del Pagliaccio, più quella creatura alata nel tempietto scuriva le sue piume. Poi aveva iniziato a perderle. Il Pagliaccio se ne era liberato. Lo spettacolo era stato un fiasco. Lungi dal credere nelle coincidenze, la stella era stata recuperata e rinchiusa in un tempietto di tela, caldo e confortevole, sorvegliato con cura.

Ed era arrivata quell’ultima sera.

Nell’anfiteatro dell’Impero Circense, addobbato a festa sotto l’acquazzone più violento dell’ultimo secolo, con dodicimila anime sugli spalti e le televisioni di tutte le isole a riprendere ogni loro acrobazia.

Nel tempietto nascosto dietro le quinte, Garuda si addormentò.


Le Apsaras ballavano attorno ad un’anfora di creta.

Legate alle loro dita, lunghe ragnatele di oro e nuvole. Il fruscio dei loro vestiti leggeri era un canto che risuonava nel palazzo degli dèi. Si guardavano con la frenesia sui visi, si sfioravano e poi fuggivano via, compiendo il rituale melodioso per curare la loro regina.

Muovendo le mani intrecciavano i fili gli uni con gli altri e li spingevano nell’anfora. Al ritmo della loro danza, mille e mille raggi di sole venivano rinchiuse in quella fragile prigione di creta.

All’improvviso tutte si gettarono sull’imboccatura del vaso. La più piccola posò il dito per chiuderlo, e le altre strattonarono i loro fili. La luce si ritirò dentro l’anfora, frizzando come schiuma.

Perfettamente coordinate, le Apsaras alzarono la più piccola di loro e la trasportarono verso balaustra del palazzo d’argento. Il sole pulsava dentro la creta.

La dea smise di piangere là accanto. Alle sue spalle, gli dèi si erano radunati, alteri e spigliati ma con un guizzo di curiosità ad attraversare i loro volti perfetti.

Era chiuso tra le quattro pareti di tela. Non gli era mai sembrato così soffocante come in quel momento.

Il corvo di fronte a lui si contorceva piano. Agonizzava in un letto di piume. La luce che irradiava era quasi insopportabile, e baluginii di colore iniziavano ad insidiarsi in quella luminosità aliena.

Una per una, le piume vennero prese dal trapezista. Quando le ebbe tutte addosso a sé, il ragazzo espirò pesantemente e tuffò il viso sopra il corvo.

Aprì la bocca.

Dalle sue labbra moventi non usciva alcun suono, ma lentamente quella macchia bianca che era il corvo iniziò a prendere forma. Là una mano, qua dei fianchi. Il seno. Il collo. Le piccole orecchie. Le ciglia chiuse. Il trapezista si allontanò leggermente, continuando a boccheggiare in quella lingua muta. Ancora molte piume erano rimaste attaccate al corpo sgraziato del corvo. Dietro di esse, dentro quella gabbia di forma animale, si intravedeva una donna, una fanciulla, rannicchiata su se stessa, come addormentata. Il suo corpo sembrava tremare e confondersi con quello dell’uccello. Sformarlo. Mutarlo impercettibilmente.

Quando Garuda vide quella trasformazione, e corse subito ad avvertire il Pagliaccio, il trapezista era già dietro le quinte.


- Non te ne andare - supplicò il Pagliaccio. Era fermo davanti al cuscino, investito dalla luce. Spaventato dalla figura che stava formando. Si rivolgeva al corvo, a quella stella piumata che aveva fatto la sua fortuna.

Garuda era in attesa.

Il Pagliaccio sospirò ansioso. – Non c’è nulla da fare – si disse. – Nulla da fare.

Chiamò Garuda e le chiese di portarla via (era una lei, ormai, una bella lei nelle spoglie di un corvo, persino lui l’aveva capito). Lontano da loro, in qualche posto abbandonato; e che pregasse il suo dio delle foreste di assisterli tutti, perché non sapeva cosa aveva fatto.


La prima parte era andata bene, pensò il Pagliaccio. Applausi e risate. Ovazioni. Il lanciatore di coltelli aveva lasciato tutti senza respiro. Garuda era tornata in anticipo. L’aveva lasciata sulla scogliera più remota dell’isola, aveva detto così.

Il Pagliaccio si fidava. Pensò così, mentre dietro di lui il trapezista compariva sul palco.


Era sull’orlo. Alle sue spalle, un scia di piume arruffate dal vento.

Aveva le spalle imperlate di brina, e la brezza fredda la faceva rabbrividire. Gli occhi le annegavano nel vuoto della scogliera. Cento metri e più a separare quel picco dalle onde possenti e infuriate che frustavano gli scogli sotto di lei. La risacca era violenta e la sua eco di spruzzi sembrava un gemito di dolore, come se il mare schiaffeggiasse quelle sponde.

Tuttavia il movimento dei flutti la chiamava. Così come la chiamava sensualmente la voce del vento, sibilante, glaciale, ma familiare come un fratello; così come il cielo temporalesco, che con i suoi lampi le illuminava a tratti il viso delicato, la toccava nel profondo, come se le leggere gocce di pioggia che scendevano lungo il suo corpo fossero lacrime spese proprio per lei.

L’intorpidimento di quel corpo era nauseante, il peso delle membra quasi intollerabile e il candore di quella sua pelle bianca, troppo bianca, troppo mortale, un marchio troppo vergognoso perché lei potesse sopportarlo.

Decise di liberarsene. Timidamente stese una gamba che teneva stretta al petto. Il suo piede sottile tastò l’aria dell’abisso.

Attaccata alla spalla le rimaneva un’unica, tenebrosa piuma di corvo.


Il trapezista era vestito con ampie stoffe colorate. Si inchinò mentre i fari lo investivano.

Il Pagliaccio finì di presentarlo e si voltò, allontanandosi da lui indietreggiando. Lo guardò negli occhi, in quegli occhi da gatto, azzurri e sbiaditi come un vetri levigati dalle maree. E per la prima volta si accorse che il ragazzo era cieco.

Il trapezio si alzò con il giovane elegantemente in equilibrio sulla sbarra. Si bloccò a metà del suo percorso.

Un grande tuono scosse il tendone, ammutolendo il pubblico.

Il trapezista allargò le braccia. Il tessuto del suo vestito si sfaldò come fosse fatto di fumo, e due grosse ali nere si spiegarono al posto delle sue braccia.


Le Apsaras si mossero tutte insieme in un unico, breve gesto. Gettarono l’anfora sul tetto del cielo ridendo compiaciute.

Il sole ruggì di contentezza da qualche parte là nell’infinito, e con un sonoro rumore di cocci infranti la coltre delle nubi ruppe la creta.

I raggi luminosi esplosero come frecce senza coda in tutte le direzioni, concentrandosi verso il basso. Fendettero le nuvole nere come lance scagliate dall’alto e spesse ferite di luce si aprirono nella distesa di cielo coperto.


Con due battiti delle grandi ali, il trapezista si era portato a pochi metri dal soffitto della grande tenda a strisce.

Bastò che il suo sguardo cieco ne percorresse la lunghezza perché la stoffa si squarciasse facendo irrompere il temporale, con la sua tempesta di raggi, dentro il circo e sugli spalti.


Mentre il giovane pronunciava il suo nome ad alta voce, dodicimila sguardi puntati sul suo viso, la creatura sulla scogliera si tuffò.

E nel circo lo udirono tutti. La voce del trapezista risuonò chiara e senza eco, emergendo da un fremito di tutto il suo corpo.

« Iride! » disse il trapezista. E poi lo urlò. E lo disse ancora. E continuò a gridarlo sopra gli ultimi ruggiti della tempesta, finché le sue belle labbra non sembrarono tutt'uno con quella parola, e la sua bocca colpita da spasmi continui che venivano seguiti da quel nome.

L’ultima piuma sulla scogliera cadde come sulla scia di un’esplosione. La volta celeste si illuminò di colpo. Sopra il palco, il trapezista scomparve nel nulla con uno schiocco.


Gliel’aveva sussurrato tutti i giorni, incessantemente, con il sottofondo della pioggia a cantare sotto le sue parole e l’eco dei tuoni a farlo sussultare. Aveva giaciuto nel tempietto, cieco e invisibile, con le labbra secche per il troppo recitare incessante di quell’unica parola, Iride, Iride, Iride, giorno dopo giorno, senza mancare una sola volta, mentre il tempo si faceva sempre più scuro e la fortuna del circo cresceva. Ad ogni sillaba, ad ogni lettera il suo guscio sgraziato si indeboliva e quel mantra incessante giorno per giorno ne staccava le piume. Giorno per giorno la spogliava della sua prigione. Col solo ausilio delle parole di un cieco. Col solo ausilio del suo nome. Ma era il suo nome ad esistere per essere pronunciato o era Iride dal rapido volo ad esistere in sua virtù ?


Con le sue ali d’oro e la tinta colorata della sua lunga chioma, Iride percorse il cielo, irradiandone ogni angolo della sua luce. Trafisse la pioggia e la mutò in cristalli di colore che caddero a terra infrangendosi in mille sfumature differenti, come se per ciascuna lei avesse scelto una tonalità, e a ciascuna dato un nome. Il suo corpo si confondeva con il suo manto cangiante e il calore del suo sorriso si insinuò negli sguardi che incrociarono il suo passaggio. Descrisse un arco ma non si fermò. L’orizzonte era la sua meta, e là, oltre i confini della vista terrena, sorgeva quel palazzo d’argento. Affondò il viso nell’abbraccio di sua madre e gli dèi le si affollarono attorno, accorati e gentili, dandole carezze e sfiorandole la chioma.

Le pareti della dimora degli dèi rilucevano dei colori dell’arcobaleno. Iride sorrideva a tutti.

- E allora -, chiesero gli dèi, - come sono gli uomini?

- Buffi - rispose Iride - chiamano l’arcobaleno prima che arrivi il sole.





Da wikipedia: Iris, o Iride, è una dea dell'Olimpo, messaggera degli dei e personificazione dell'arcobaleno. A differenza di Ermes, la "rapida" Iride non appartiene al culto ellenico, ma solo al mito. Svolge il suo compito di messaggera grazie a grandi ali d'oro con le quali corre rapida a portare gli ordini di Zeus. È citata nell'Iliade, in cui si legge: Zeus padre dall'Ida... incitò... Iris dall'ali d'oro a portare in fretta un messaggio. (Omero, Iliade, VIII, vv.397 e sgg.)

  
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