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Autore: mamogirl    13/01/2012    5 recensioni
Nick Carter non aveva mai pensato che, quello che fino a qualche secondo prima era stato solo un semplice vezzeggiativo, un tenero nomignolo, potesse racchiudere in sé una verità che era un pochino difficile da immaginare.
"Credi negli angeli?" Gli aveva domandato Brian, una domanda che sembrava fuori contesto per il momento in cui si trovavano: accoccolati in casa, a guardare un vecchio film in bianco e nero.
Come poteva pensare che sarebbe stato l'inizio di qualcosa che gli avrebbe sconvolto totalmente l'esistenza e tutte le convinzioni di una vita? Poteva l'amore superare barriere che andavano ben oltre alle semplici e banali differenze fisiche o sociali e che sottostavano a leggi sovrannaturali?
"Now I do."
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Littrell, Nick Carter, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Primo Capitolo

 

 

 

 

 

 

 

 

Take these broken wings and learn to fly
All of your life you were waiting for this moment to arise
-         Blackbird -

 

 

 

 

 

 

 

 

Poteva sentire le voci che cercavano di discutere senza farsi sentire, anche se gli arrivavano soffuse, ovattate, come se lui si trovasse all’interno di una bolla ed il mondo continuasse a girare attorno a lui.
Non che ci volesse un udito da supereroi per sapere di che cosa stavano parlando.
O di chi stessero parlando.
“Non può rimanere qui, Harold. E lo sai molto bene.”
“E’ il suo popolo. È mio figlio.”
“Quindi vuoi condannarlo ad essere emarginato e deriso solamente perché è diverso?”
“Lui non è diverso. E’ speciale.”
Le voci si trasformarono in sussurri, diluendosi nei rumori di sottofondo di una casa che era stata così caotica solo dodici anni prima. Il ragazzino tentò di tendere le orecchie per carpire qualche altra informazione che potesse dirgli di che cosa stavano discutendo, ma tutto quello che giungeva al suo udito erano brandelli di parole e conversazioni che non avevano senso.
La porta si aprì e si richiuse, o forse era stata sempre aperta e lui non vi aveva fatto caso – cosa molto probabile visto che ancora doveva aprire gli occhi – ma poté distinguere il rumore di passi che si avvicinavano lì dov’era sdraiato.
“Sei sveglio?”
Sollievo, non era uno dei grandi. 
Oh, avrebbe voluto essere messo al corrente di ciò che stavano decidendo sul suo destino ma voleva evitare di guardare negli occhi suo padre e constatare quanto l’avesse deluso. 
Ancora una volta.
Inoltre, se si fossero accorti che era sveglio, l’avrebbero tempestato di domande e solo le prime due sarebbero state incentrate sulla sua salute. No, voleva evitare di ricordare per filo e per segno ciò che gli era accaduto.
Ma, per fortuna, colui che si era intrufolato nella sua stanza altri non era che suo cugino, nonché l’unica vera persona di cui si fidasse completamente.
“Quasi.” Gli rispose a fil di voce, le labbra ancora secche per le ore di incoscienza. Ora che si stava svegliando, anche la sensazione che la sua schiena stesse andando a fuoco incominciò ad aumentare di intensità, anche se non avrebbe mai raggiunto il livello di qualche ora prima. Benedetto qualunque infuso o impacco gli avessero dato!
“Chiederti come stai sarebbe abbastanza fuori luogo, vero?”
“Abbastanza.”
Tentò di aprire gli occhi, lentamente, per evitare di rimanere accecato dalla luce del sole. Per qualche secondo, tutto attorno a lui sembrò sfocato e senza nitidi contorni: suo cugino, seduto alla sua destra, sembrava un ammasso confuso di colori: il nero dei capelli, il rosa pallido della carnagione con due punti di luce smeraldina. “Sembri uno di quei quadri che gli umani amano definire astratti.”
“Oh già, dimenticavo che tu sei l’unico dodicenne che sa tutto della cultura terrestre.”
“E’ affascinante. – Rispose lui, spostandosi delicatamente per mettersi più comodo. – E poi, erano gli unici libri in casa che potevo leggere. Come ben sai, non ho molti amici.”
“Sono degli idioti.” Commentò il maggiore, evitando di abbassare lo sguardo sulle vistose bende che ricoprivano la parte superiore del torace del cugino.
L’amara consapevolezza di ciò che era successo fece cadere un velo di silenzio in quella stanza, interrotto qua e là dalle urla che arrivavano dal corridoio.
“Stanno discutendo a causa mia?” Domandò il bambino, fissando il maggior con occhi lucidi, un azzurro ancor più cristallino del solito.
“Sì. Papà ha proposto che tu venissi per qualche tempo da noi ma lo zio non è di quell’avviso.”
“Sono l’unica cosa che gli rimane.”
“Ti perderà comunque se rimani qui. Gli umani... non sono così terribili come certa gente qui vuole farti credere. Ed è pur sempre metà del tuo sangue.”
Il pomo della discordia era proprio quello. Suo padre non aveva mai accettato che venisse chiamato “diverso” perché, per lui, era speciale. Ed era anche quello che pensava buona parte degli altri angeli. L’altra metà, lo guardava semplicemente dall’alto in basso, un’espressione di disgusto e mormorando parole su come quello non era il suo posto.
Metà Angelo e metà umano, la peggiore delle maledizioni. O una benedizione, a seconda dei casi.
Per ora, lui non aveva ancora deciso quale fosse la perfetta descrizione della sua vita ma, se ciò che era successo qualche ora prima era stato un indizio di come sarebbero andate le cose in futuro, allora la bilancia pendeva decisamente verso la prima.
“Tanti di noi vivono sulla Terra, senza che nessuno si accorga che ci sia qualcosa di differente.”
“Stai cercando di convincermi a venire con voi?”
“E’ solo un’offerta. - Disse il maggiore alzando le spalle. - E starai di sicuro meglio da noi che rinchiuso in questa casa.”
Il ragazzino alzò gli occhi al cielo, strano modo di dire per lui visto che “tecnicamente” si trovavano già in cielo. “Non mi farà più uscire. – affermò sconsolato, ben conoscendo il carattere del padre. – Avrà paura che possa succedere ancora e mi terrà sotto sorveglianza.”
Il cugino alzò il sopracciglio. “Allora, che cosa ne dici? Ti va di visitare la Terra?”
Il bambino voltò lo sguardo verso la finestra, assaporando quella vista che lo accoglieva ogni mattina: il cielo di un celeste così chiaro da esser quasi bianco, in contrasto con quel giallo acceso dei raggi del sole. Tutto era sempre così luminoso lì che spesso si era chiesto come ci si doveva sentire ad essere circondati da nuvole nere e con la pioggia che batteva contro i vetri.
Quando il suo sguardo ritornò su quello del cugino, nei suoi occhi c’era finalmente quella luce di vitalità che fino a qualche secondo prima era stata annebbiata dalla paura e dalla sofferenza.
“Quando partiamo?” Domandò solamente con un sorriso.

 

 

 

** ** ** ** ** **

  




Dodici anni dopo

 

 

 

Kevin Richardson sbuffò frustato.
Davanti a lui, la pila di fogli che occupava ogni centimetro della sua scrivania lo osservava con fare malefico: estratti conto, bollette, note spese e stipendi ancora da calcolare. Sapeva che l’unico da incolpare era solo se stesso, visto che ogni mese era sempre la solita storia: continuava a rimandare, dicendosi che se ne sarebbe occupato il giorno seguente ma i domani si erano sfumati l’uno nell’altro fin quando era arrivata la fine del mese, puntualmente annunciata dalle minacce del suo commercialista.
Ma, per quanto odiasse quella prassi burocratica, era anche ben consapevole di quanto quelle scartoffie fossero fondamentali per la sopravvivenza del centro: sapere con esattezza quanti soldi entravano e quanti ne uscivano era utile per poter capire dove porre rimedio, dove serviva infondere nuovi liquidi e se c’era bisogno di cercare nuovi finanziamenti. E, di quelli, ne avevano costantemente bisogno.
L’”Heart of Angels Center” era nato quasi vent’anni prima, sotto le mani di suo padre, Jim Richardson. Inizialmente, esso era stato concepito come un rifugio sicuro per tutti quei bambini e ragazzini che trascorrevano la maggior parte delle ore nelle strade, partecipando ai “giochi degli adulti” e rischiando quotidianamente di rovinarsi il futuro o, peggio, perdere la vita per qualcosa che non avevano e non potevano ancora comprendere. In quel centro, invece, potevano trovare un campo da basket dove giocare, laboratori in cui sviluppare le proprie capacità artistiche o semplicemente divertirsi impiastrando i volontari durante epiche battaglie a suon di lanci di pittura.
Quello che era incominciato come un semplice centro pomeridiano, in poco tempo, si trasformò in qualcosa di più grande: l’edificio venne ampliato ed una parte di esso venne dedicato ad una piccola scuola per quei bambini e ragazzini i cui genitori non potevano permettersi di mandarli in quelle pubbliche.
Kevin ricordava quel periodo, visto che di pomeriggio veniva sempre lì a dare una mano, sia che fosse per aiutare a fare i compiti o tenere qualche lezione di pianoforte. Ma, più di tutto, adorava rimanere in un angolo ed osservare suo padre in azione. Era sempre dovunque, pronto ad ascoltare qualsiasi storiella dai bambini più piccoli e non si arrabbiava mai degli scherzi che subiva dai ragazzi maggiori. “Fin quando sono palloncini pieni d’acqua, perché dovrei anche arrabbiarmi? – Amava ripetere ad ogni espressione shockata e confusa dal suo atteggiamento. – Meglio che si sfoghino in questo modo piuttosto che con una pistola o un coltello, no?”
Jim aveva amato quel posto, vi aveva dedicato tutta la sua vita e Kevin sperava che, ovunque ora lui fosse, fosse orgoglioso di come lui aveva continuato il suo operato: alla scuola, ora ingrandita ed ospitante più classi a seconda delle differenti età, era stato aggiunto un piccolo ambulatorio dove medici volontari si davano il cambio non solo per le rituali visite e cure ma anche per garantire un minimo di informazione sulla prevenzione e sull’igiene. Lui stesso aveva visto e constatato quanto l’ignoranza avesse mietuto vittime e, se in certi casi era quasi impossibile porvi rimedio, per il novanta per cento dei casi l’informazione e la prevenzioni erano le chiavi per poter sopravvivere.
Non aveva potuto salvare suo padre, vittima dell’unica malattia ancora incurabile per il suo popolo, ma si sarebbe maledetto se non avesse trovato qualcosa, anche una minima cura affinché altri suoi simili non subissero la stessa fine. Per questo motivo, Kevin e sua madre avevano dato vita ad una fondazione per trovare fondi per quella particolare ricerca, fondazione sconosciuta alla maggior parte della cittadina ma conosciuta solo fra quelle persone che potevano comprendere perché, negli anni duemila, la polmonite e affini erano ancora dei killer silenziosi.
Un tocco alla porta gli fece alzare la testa da una bozza di bilancio provvisorio. Sulla soglia della porta, nella sua immancabile maglietta nera, suo cugino Brian lo osservava divertito.
“Non provare nemmeno a fare una battuta!” Lo minacciò prima ancora che il ragazzo potesse aprire bocca.
Tecnicamente, Brian era sì suo cugino ma per Kevin era molto di più: per lungo tempo, quando ancora suo padre era fra loro, era stato il fratello minore che non aveva mai avuto. Poi, quando Jim era mancato e lui si era sposato con Kristin, il ruolo di Brian si era modificato: a volte, erano l’uno il miglior amico dell’altro, l'unica persona con la quale sapeva di potersi confidare e ricevere consigli, a volte fin troppo saggi per un ragazzo della sua età. Ma, molto più spesso, Kevin si sentiva come un padre per il minore: sei anni di differenza li separavano, relativamente pochi per quel tipo di legame ma come poteva Kevin lasciare il sangue del suo sangue allo sbaraglio senza nessun punto d’appoggio? Era da solo, ora che anche zio Jim lo aveva abbandonato e rimandarlo a casa... oh, rimandarlo in quel luogo era totalmente fuori da ogni questione! Bastava veder in che stato era ridotto quelle poche volte – una all’anno – che tornava per visitare suo padre per capire quanto poco le cose fossero cambiate, nonostante il trascorrere degli anni.
E poi...
E poi Brian amava stare lì. Era a suo agio e stava finalmente uscendo da quel guscio in cui si era rinchiuso la prima volta che aveva messo piede su quella superficie. Prima, lassù, se ne stava sempre in casa, immerso in libri ed usciva solo verso sera, quando nessuno poteva vederlo. Era un solitario ma non per scelta: fosse stato per lui, sarebbe sempre stato in mezzo alla gente, a divertirsi e a far divertire le persone.
Proprio come faceva al centro: era uno degli insegnanti più giovani, anzi, il più giovane ma era anche il più amato dai ragazzi, forse perché si comportava esattamente come se fosse ancora uno di loro. Appena finite le sue lezioni, e se non era impegnato in qualche altra attività, lo si trovava sempre nel campo di basket a giocare con tutti i bambini, arrabbiandosi quando lui interveniva perché era ora di andare a casa.
Ecco, erano quelli i momenti in cui Kevin si sentiva un padre invece che un semplice tutore.
“Devo avvisare Kristin che tornerai tardi, questa sera?”
Kevin aggrottò la fronte. “Tardi? No, tornerò come al solito. Tu non hai lezione in questo momento?”
Brian prima scoppiò a ridere e poi gli indicò l’orologio che teneva sulla sua scrivania. “L’ultima l’ho finita tre ore fa. Ho anche già terminato le prove del coro, parlato con alcuni del corso di arte per la scenografia del prossimo spettacolo ed anche battuto quelli dell’ultimo anno in una partita di basket. Mi chiamavano vecchietto.”
“Che disonore!” Esclamò Kevin mentre faceva riemergere, dall’oceano di fogli, il suo orologio, le cui lancette gli stavano annunciando che erano già le otto. Frustato, si passò una mano fra i capelli ed appoggiò gli occhiali sulla scrivania.  
“Non c’è bisogno che li finisci tutti stasera. Tanto Luke è abituato ai tuoi ritardi.”
“Gli avevo promesso di essere puntuale questo mese.”
Brian lo guardò accigliato. “E lui ci ha anche creduto?”
“Probabilmente no.” Ammise Kevin sconfitto.
Brian si lasciò cadere su una delle sedie poste di fronte al tavolo, incrociò le mani dietro la testa e solo lo sguardo al limite dell’omicidio lo trattenne dal mettere i piedi appoggiati sulla superficie.
“Che cosa c’è, cugino?”
“Niente.”
“Andiamo! Quando vieni a nasconderti qui, invece che tornare a casa, significa che vuoi parlare di qualcosa.”
Brian scrollò le spalle. “Oh no, siamo venuti con la tua macchina e non ho voglia di tornare a casa a piedi.”
“Bri, veniamo sempre con la mia macchina.”
Quel ribatto sembrò silenziare il ragazzo.
Quindi, qualcosa è successo,  rifletté Kevin osservando l’espressione corrucciata sulla fronte di Brian. Passò qualche minuto di silenzio mentre il maggiore aspettava che l’altro incominciasse a parlare. E, quando lo fece, le sue parole lo presero in contropiede perché centravano un argomento mai toccato in tutti quegli anni.
“Tu sai come si sono conosciuti i miei genitori?”
Colto di sorpresa, quindi, quella domanda lasciò per qualche secondo il suo cervello totalmente privo di qualsiasi risposta, anche la più semplice. E, successivamente, si maledisse per non averci mai pensato prima. Oh, avrebbe però dovuto aspettarsi una domanda di quel genere! Se l’era aspettata dal primo giorno che Brian era venuto a vivere con loro, ma poi gli anni erano passati e quel minuscolo enigma se ne era rimasto rintanato in un angolo, tanto che nessuno vi aveva fatto più caso e poi se n'erano semplicemente dimenticati.
Tutti, tranne Brian, che ora lo stava osservando con quegli occhi colmi di speranza, come se dalla sua risposta potesse dipenderne un’altra molto più importante.
“Come mai me lo chiedi?”
Brian sospirò, arricciando il naso. Avrebbe preferito una risposta diretta invece che sentirsi rivolgerne un’altra. “L’ultima volta che sono tornato, l’ho chiesto a papà. Non so niente di lei, solo che mi ha dato la vita. Eppure, metà della mia esistenza è condizionata da lei e dalle sue origini. Ma lui... – le sue labbra si contorsero in una smorfia di rabbia. - ... mi ha detto come sempre che non mi devo impicciare di queste cose. Come se mia madre non sia qualcosa che mi interessi direttamente!”
“Bri, per zio Harold è difficile parlare di lei.”
“Credi che non lo sappia? – Rispose Brian, guardandolo come se stesse osservano un estraneo, mettendosi a sedere. -  Ma per lui è come se... è come se non fosse mai esistita. Come se la sua unica funzione fosse stata quella di mettermi al mondo!”
Kevin si ritrovò in un impasse: se da una parte sapeva che Brian meritasse di sapere tutta la verità, dall’altra quella era una cosa che solamente Harold doveva decidere. Non voleva mentire a Brian ma non voleva nemmeno intromettersi in un legame che già era fragile e sul punto di spezzarsi. Chi l’avrebbe sentito quel giorno, quel malaugurato giorno, in cui avrebbe saputo la verità?
Così optò per una velata verità, qualche innocente bugia che avrebbero soddisfatto la sete di curiosità di Brian ma che lo avrebbe tenuto in salvo dal rivelare troppo. “Nessuno si aspettava la sua morte, Brian. I tuoi... i tuoi non si conoscevano da molto tempo quando tua madre scoprì di essere incinta. E nessuno poteva prevedere la sua morte.”
“Oh.” Mormorò sorpreso Brian.
“Non che ciò significhi che non ti hanno voluto perché non è così! Non ricordo molto di quel periodo, ero ancora piccolo e non ero ancora in grado di comprendere certe espressioni, ma ricordo lo sguardo di tua madre quando si immaginava il tuo futuro. Era di pura gioia. Ed anche tuo padre: non vedeva l’ora che tu nascesti, aveva così tanti piani per te. Eri un miracolo. Ricordi quando hai deciso di venire con noi?” Domandò Kevin, cercando un modo per far capire a Brian che nessuno, a parte uno sparuto gruppo di testardi, lo considerava come una maledizione. Anzi! Lui rappresentava la loro unica speranza, per chi ancora credeva in quella vecchia profezia che veniva tramandata dall’origine di tutto. Un giorno sapeva che avrebbe dovuto raccontargliela e spiegargli perché tutti gli avevano tenuto nascosto come era nato o come si era realmente svolto l’incontro fra i suoi genitori.
Quando sarebbe arrivato il momento giusto.
Oh, era una banale scusa la sua ma sapeva che effetti avrebbe avuto sul cugino una rivelazione di quel genere e, se aveva la possibilità di garantirgli ancor qualche anno tranquillo e normale, non sarebbe stato lui a rovinare tutto.
“Ricordi come tua padre ha reagito?”
Brian sorrise a quel ricordo, l’unica volta che aveva visto in suo padre un minimo di vero interesse per lui e per la loro relazione. E, forse, decidere poi di rimanere sulla Terra aveva condannato qualsiasi possibilità di diventare più vicini, di essere davvero padre e figlio e non due sconosciuti, legati da geni e da sangue comune, che si incontravano solo in un preciso giorno dell’anno.
“Se non fosse stata per la mediazione di zio Jim, chissà a quest’ora quanto miserabilmente starei vivendo la mia vita lassù.” Ed era la verità. Per quanto avrebbe voluto provare, anche solo per poco tempo, vivere là dove era nato, Brian sapeva che non avrebbe mai rinunciato a vivere sulla Terra. Perché, a conti fatti, era il suo mondo, l’unico posto dove si sentisse accettato, anche se non ancora completamente.
Ma ciò non significava che tutto era semplice e lineare. O che fosse facile confessare a Kevin il vero motivo che lo aveva spinto a venir da lui in ufficio e porgli quella domanda.
Forse, nemmeno lui riusciva a comprendere a fondo il perché il suo animo sembrava esser preso prigioniero da una tempesta di sentimenti, emozioni e pensieri. Ma, per quanto ancor così tutto sconosciuto ed oscuro, aveva la sensazione che la prima schiarita sarebbe arrivata nel momento in cui avrebbe scoperto la verità sui suoi genitori.
Quasi come se si fosse dimenticato della presenza di Kevin nella stanza, Brian si alzò dalla poltrona e si diresse verso l’ampia vetrata che dava sul cortile posteriore del centro. Nonostante l’ora, alcuni ragazzi si erano attardati per terminare una partita di calcio – e Brian sapeva anche il motivo di quel ritardo, il che lo portava sempre a ringraziare suo zio per aver creato quel luogo – a cui stavano assistendo anche un gruppetto di ragazze ai bordi del campo.
Osservandoli, Brian non poté far altro che chiedersi se anche i suoi genitori si erano incontrati in quel modo, magari in un contesto così normale e così casuale da rendere tutto ancor più interessante.
Anche se non riusciva ad immaginarsi suo padre, un uomo così riservato e protettivo dei suoi sentimenti, mettersi in mostra per far colpo su qualcuno.
Ma ciò che più gli premeva sapere era se sua madre sapeva di chi fosse in realtà l’uomo di cui si era innamorata.
Era a conoscenza del fatto che papà fosse un angelo?
Una parte di sé sapeva che la risposta era un sì, doveva essere una risposta affermativa, proprio per quel basilare fatto che era la sua esistenza. Lui era nato, il che significava che dovevano averle detto che il bambino che portava in grembo aveva ereditato dal padre anche un paio di ali, oltre che al color degli occhi ed il taglio pronunciato degli zigomi.
E ciò gli dava una piccola speranza, una flebile fiducia nel fatto che, se mai avesse trovato la sua anima gemella, anch’egli avrebbe accettato quella sua parte esattamente come aveva fatto sua madre. Oltre che a consolidare la convinzione che lei doveva esser stata una persona assolutamente speciale.  
Nel silenzio, non si accorse della figura di Kevin apparire alle sue spalle.
“Sai, credo di aver capito. Nonostante l’averti portato lontano da loro, continui a farti condizionare dalle loro parole e dalle loro azioni. Eppure, non riesci a vedere quanto le persone ti vogliano bene solo per quello che sei, con o senza ali.”
Oh, avrebbe potuto dire a Kevin che quello era solo parte del problema ma, ancora, probabilmente lui non avrebbe compreso. Così era meglio seguire il suo ragionamento e fargli pensare che, ancora una volta, era riuscito a risolvere un suo problema.
“Ma gli altri non lo sanno. – obiettò quindi. - E’ facile accettare qualcuno se non conosci i loro scheletri.”
“Non sei obbligato a dirlo. Guardati intorno, ci sono tante famiglie di angeli che vivono normalmente, che si comportano esattamente come gli altri esseri umani.”
“Ma rimangono sempre fra loro. Quante volte sei uscito con una ragazza umana?”
“Sai che mi sono innamorato subito di Kristin. – rispose Kevin, assumendo quel tono dolce e quell’espressione sognante che usava ogni volta che parlava di sua moglie. – Non c’è mai stata nessun’altra.”
“Appunto. – ribatté Brian. – Gli angeli non si mischiano con gli umani, né vogliono farlo. Vivono qui, sulla Terra, ma rimangono nella loro cerchia. Al sicuro.”
“Anche tu sei uno di loro.”
“Non lo sono, lo sappiamo bene.”
“Ed allora sii un umano, Brian. – Brian gli lanciò uno sguardo dubbioso così si affrettò a spiegare. - Hai un dono ed è quello di poter decidere chi essere e come vivere la tua vita. Se essere angelo non fa per te o continui a non sentirti accettato, prova a vivere come un essere umano.”
“Non è così semplice, Kevin. E se mi innamorassi anch’io di un umano? Che cosa accadrebbe?”
“Non lo saprai mai se rimani chiuso in barriere che tu stesso ti sei costruito attorno. Esci, conosci gente e vivi come tutti i ragazzi della tua età. – alzò le spalle, osservando il riflesso di Brian nella finestra. – sii un ragazzo normale.”
Brian si scostò dalla finestra e superò Kevin. Poi si bloccò, come se vi avesse ripensato. “Peccato che io non lo sia. In entrambi i mondi.”
“Bri...”
Lui lo interruppe, alzando la mano e facendo gesto di lasciar perdere. “Torno a piedi. Ho bisogno di un po’ d’aria.”
Era già quasi fuori dalla stanza quando Kevin lo richiamò. “Vedi di camminare, mi raccomando.” L’implicita raccomandazione arrivò forte e chiara nella mente di Brian. Ogni santa sera era lo stesso copione, immancabilmente nessuno dei due avrebbe fatto ciò che l’altro gli imponeva e lo scambio di battute stava diventando quanto modo noioso. Oh, era sempre pronto a prendere bonariamente in giro Kevin, tranne quelle poche volte in cui aveva bisogno di staccarsi completamente da ogni redine e lasciare andare la propria mente.
E c’era un unico modo. L’unico che faceva venire i capelli bianchi di Kevin perché era anche l'unica vera regola che gli aveva dato.
“Qualcuno può vederti.”
“Starò attento. A quest’ora, nei boschi, non c’è nessuno.”
Con un’altra replica già pronta sulla lingua, Kevin abbandonò ogni protesta: sarebbero state parole gettate al vento, tanto Brian avrebbe comunque fatto di testa sua.
Nonostante ciò, non poté evitare la sua immancabile raccomandazione. “Non voglio sentire nemmeno mezza parola in giro, siamo intesi?”
Brian si voltò. “Oh, andiamo! La signora Lirney non ha tutte le rotelle a posto, nessuno crede a ciò che vaneggia!”
“Le farai venir un infarto a quella povera vecchietta!”
“A quest’ora, dovrebbe già essere a riposo non fuori a guardare per poi spettegolare alla mattina.”
“Brian!” Lo rimproverò Kevin, anche se dovette sforzarsi per trattenere la risatina che gli stava solleticando la gola. Erano epiche le conversazioni tra Brian e la signora Lirney, soprattutto perché la seconda era anche mezza sorda e lui ci prendeva gusto a prenderla in giro. Anche se poi era sempre il primo a correre quando la vecchietta – vedova e senza nessun figlio o nipote – aveva bisogno di aiuto, anche solo per innaffiare il piccolo giardino sul retro o per cambiare le tende di casa.
Kevin avrebbe voluto aggiungere un’ultima raccomandazione ma Brian era già sparito, richiudendosi la porta dietro di lui.
Ancor più frustrato di prima, ritornò a sedersi davanti alla sua scrivania ed alla pila di fogli che non avevano mai smesso di fissarlo con fare minaccioso.
Brian ha ragione -
mormorò fra sé sbuffando ed appallottolando un foglio, per poi lanciarlo verso il cestino - Non riuscirò mai ad essere puntuale.

 

 

 

** ** ** ** ** **

 


  
Il vento che sibilava fra i suoi capelli, scompigliandoli in riccioli che gli ricadevano sulla fronte; sotto di lui, niente che lo tratteneva, solamente le luci di una città che stava incominciando la sua vita notturna mentre, sopra di lui, stelle e luna illuminavano qualunque direzione avesse deciso di seguire.
Era una sensazione magnifica, come poteva Kevin impedirgli di provare quel senso di totale libertà mentre sfrecciava nel cielo, lì dove più si sentiva a più agio? Non sulla terra, dove nessuno sapeva chi era e, se mai lo avesse saputo, lo avrebbe deriso come un fenomeno da baraccone o trasformato in una cavia da laboratorio. E nemmeno là oltre le nuvole, in quel luogo in cui era nato e che avrebbe dovuto farlo sentire voluto ed accettato e che invece lo aveva costretto a fuggir via.
Invece lì, a metà fra terra e cielo, quello era il suo posto. Lì dove poteva abbracciare entrambe le metà del suo essere ed essere fiero ed orgoglioso non solo delle ali che gli permettevano di librarsi in cielo, ma anche di quella capacità di meravigliarsi ancora per la visione che si estendeva davanti ai suoi occhi. E ciò era qualcosa che solamente un umano poteva fare: osservare un dipinto e rimanere estasiati dall’uso dei colori e da ciò che essi lasciavano trasparire, un messaggio che poteva cambiare a seconda dell’umore e dell’occhio che lo osservava.
Gli angeli no.
Gli angeli erano perfetti, così si consideravano. Indi per cui, qualsiasi cosa che li circondava o era perfetta quanto loro – e quindi non c’era niente di meraviglioso in essa – oppure era inferiore e per cui non meritava nemmeno un attimo di considerazione.
D’altronde, come potevi ancora stupirti quando eri circondato da un sole splendente senza mai vedere le ombre di un temporale sin dal giorno in cui eri nato?
Ricordava ancora la prima volta che aveva assistito ad un temporale: tutti quei rombi e quelle luci che arrivavano all’improvviso lo aveva spaventato, obbligato a nascondersi sotto una coperta con un quell’angolino alzato abbastanza per continuare ad osservare la finestra, dove gocce di pioggia andavano a finire contro il vetro, picchettando in una sinfonia di note che non aveva mai udito prima. Sparita la paura, una volta compreso che quei lampi non avrebbero mai potuto fargli del male, la pioggia era diventata la sua compagna preferita, l’unica che lo ascoltasse senza mai giudicarlo o guardarlo con quell’aria compiacente che tanto odiava.
Superò l’ultimo albero che segnava il confine con il bosco e si ritrovò davanti l’immensità dell’oceano; rallentò, abbassandosi fino a che non si ritrovò quasi a pelo dell’acqua: il riflesso su quello specchio speciale rimandava la sua ombra, le sue ali che luccicavano grazie alla luce argentea della luna.
Aveva preso quella abitudine quando ancora stava con suo padre non solo perché volare di notte aveva un fascino tutto particolare, ma soprattutto perché poche persone uscivano quell’ora e quindi avrebbe di certo evitato epiteti non proprio felici lanciati al suo indirizzo.
O peggio.
E lì sulla Terra, volare di notte era l’unica soluzione possibile, anche se Kevin non era mai di quell’idea. Oh, lui non era mai dell’idea di volare! C’era sempre quella piccola percentuale di possibilità che qualcuno potesse vederlo e la vita degli angeli sulla Terra dipendeva dall’implicito assunto di passare inosservati il più possibile e ciò escludeva fare “passeggiate notturne nel cielo”, così lo aveva definito una volta Kevin.
E, forse, anche in questa situazione veniva alla luce la sua parte umana.
Per Kevin e gli altri angeli, volare era un’azione così naturale e così normale che potevano anche farne a meno e, in quella rinuncia, non vi vedevano niente di così eccezionale. Esattamente come per gli umani saper camminare, correre e saltare era così normale, per gli angeli volare non era nient’altro che una delle azioni che potevano compiere solo perché ne erano capaci.
Per lui, invece, volare era qualcosa di assolutamente fantastico, forse proprio perché dentro di lui c’era sangue umano: poter sfidare le leggi della fisica, librarsi nel cielo e sentirsi davvero libero. Come potevano non accorgersi di che dono speciale era stato concesso loro?
L’acqua diminuì fino ad esaurirsi nella sabbia dorata. Brian continuò a volare a pelo fino a quando non toccò la parte asciutta e si sedette sulla spiaggia, vicino alla riva in modo che l’acqua potesse lambire i suoi piedi, e volse lo sguardo verso l’infinito mentre la sua mente ritornò a ciò che aveva dato inizio alla sua crisi.
I suoi genitori. 
Erano stati davvero innamorati? Avevano entrambi provato quell’amore che aveva così tanto letto nei libri degli umani, quel sentimento che era stato in grado di causare guerre, disfare famiglie reali e creare nuove alleanze o quel potere decantato dai più grandi poeti e che scienziati avevano cercato di spiegare come una semplice reazione di elementi chimici?
Doveva essere così. Solo in quel modo lui si poteva spiegare la ritrosia ed il rifiuto di suo padre nel raccontargli di sua madre e di come si erano conosciuti.
Perché, se così tanto potente era stato il sentimento che li aveva legati, altrettanto doloroso doveva essere stato il momento in cui si erano dovuti separare.  
Perché devi saperlo?
La domanda di Kevin era ritornata davanti a lui, quel quesito a cui non aveva voluto dare una risposta. Perché suo cugino non poteva comprendere, lui che aveva già trovato la sua anima gemella e che non aveva mai provato la sensazione di essere solo un pesce fuori dall’acqua. Oh, era felice per lui e adorava Kristin ma... ma ormai erano più le serate in cui cercava di trascorrere il meno tempo possibile con loro e preferiva rimanere da solo, a leggere un libro o a far lunghe camminate. Perché, il più delle volte, vederli insieme aumentava considerevolmente quel senso di vuoto che sentiva dentro, quella parte del suo cuore che stava aspettando la sua metà e che desiderava solamente essere accettato ed amato per quello che era, anche se era creatura ibrida.
Ventiquattro anni e dell’amore vero, quello che vedeva tra suo cugino e sua moglie, non ne sapeva assolutamente niente. In parte, sapeva che era colpa sua: si era sempre rinchiuso per paura di essere scoperto e di non essere accettato e, forse, aveva perso molte occasioni per legarsi a qualcuno in modo più profondo. Sempre tenendosi in un angolo, aveva osservato con silenziosa e dolorosa gelosia coppie formarsi all’interno del centro, i balletti di corteggiamento e sguardi che, almeno una volta nella vita, avrebbe voluto che fossero rivolti a lui.
Ed ora... ora volevo solo quello. Una persona, angelo o umano che fosse, con cui sentirsi così a suo agio da non doversi sempre preoccupare di inventarsi scuse se, anche per qualche ora, non aveva il sorriso dipinto sul volto. Voleva sentirsi amato ed amare a propria volta, provare sulla sua pelle che cosa significava arrendersi alle mani di qualcun altro, ai baci ed alle carezze. Sentirsi abbracciare senza che vi sia un motivo apparente ma solo la voglia di stare il più vicini possibili, di annullare qualsiasi distanza fra i propri corpi per vedere se potevano davvero diventare un unico corpo.
Ma era possibile per lui?
Era possibile potersi innamorare ed essere ricambiato, anche se era differente?
“Chissà come mai, sapevo che ti avrei trovato qua.”
Brian non si spaventò, come sarebbe stato logico pensare quando qualcuno appare all’improvviso alle tue spalle. E se non lo fece fu perché sapeva chi era. Ormai succedeva quasi tutte le volte, quasi come se ci fosse un filo diretto fra lui ed il ragazzo alle sue spalle: ogni volta che volava, la sua destinazione era sempre quell’angolo di spiaggia e, immancabilmente, ad aspettarlo o raggiungerlo era sempre il biondino. La prima volta, aveva pensato ad una semplice coincidenza: il ragazzo abitava nei paraggi, in una delle case che davano direttamente sul mare, e non era insolito che decidesse di andare a farsi una passeggiata in quell’orario. E, visto che per giunta si conoscevano – anche lui lavorava al centro -  si era fermato ed avevano incominciato a chiacchierare.
Quella sera, la chiacchierata era durata ore ed ore ed era stata interrotta solamente dalla telefonata di un Kevin in totale panico perché erano le tre di notte e lui non era ancora a casa. Nick si era offerto di accompagnarlo a casa ma Brian aveva preferito usare lo stesso mezzo che lo aveva trasportato lì, visto che sarebbe stato anche molto più veloce. E, per tutta la durata del ritorno, tutto ciò a cui era riuscito a focalizzarsi erano le parole di Nick, pronunciate con una voce che ancora faticava a trovare un aggettivo per descrivere. Lo aveva lasciato parlare per la maggior parte del tempo, ascoltando di aneddoti di una vita totalmente normale e, allo stesso tempo, così simile alla sua: i suoi genitori che erano a New York mentre lui aveva abitato lì con i suoi nonni fino a quando non aveva deciso di provare l’ebbrezza dell’indipendenza. Così, aveva comprato una casa sulla spiaggia e condiviso lo spazio con Aj, un altro ragazzo che lavorava con loro al centro.  
Ma poi gli accidentali incontri erano diventati quasi un’abitudine per poter essere chiamati solo una pura coincidenza, anche se Brian non era ancora riuscito a trovare una spiegazione per tutto ciò. Ogni volta che aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno, ogni volta che si sentiva come se a nessuno importasse ciò che stava succedendo dentro la sua testa, Nick era lì per lui.
“Il tuo radar non smette mai di funzionare.” Ribattè Brian mentre Nick si sedeva accanto a lui. E, come da abitudine degli ultimi tempi, il suo cuore incominciò a battere più velocemente mentre tutta la saliva in bocca sembrava essersi prosciugata come acqua nel deserto. Ti sei preso una cotta, mormorò una vocina dentro la sua mente che Brian soffocò immediatamente.
“E’ strano. Ero in camera a finire un disegno, ho alzato gli occhi e ho visto come una stella cadente. – Scrollò le spalle, come se quel dettaglio fosse non importante. – Era caduta proprio in questo luogo e... beh, questo angolo mi ricorda sempre te. Così ho lasciato perdere il disegno e sono venuto qui, sapendo di trovarti. E non mi sono sbagliato.” Concluse poi, inclinando il viso.
Brian incrociò lo sguardo con il suo. “Questo posto è speciale.”
“Che cosa ti porta sempre qui?” Gli domandò Nick, senza rompere quell’incantesimo creatosi fra di loro. Ogni volta che accadeva, ogni volta che lui si avvicinava a Brian, sul suo volto c’erano sempre ombre che non appartenevano al fatto che fosse ormai notte inoltrato.
“Te l’ho detto, è speciale. – ribadì Brian. – E’ il luogo perfetto per pensare.”
“Lo sai, sono settimane che ci incontriamo così ma tu non hai mai parlato di te. Sai tutto di me ed io non so niente.”
“Non c’è niente da sapere.”
Nick inclinò ancor di più la testa, questa volta un’espressione più seria sul volto. “Non ci credo. O, forse, ti piace rimanere in questa allure di mistero.”
“Forse.”
“Stai flirtando con me, per caso?”
Brian scoppiò a ridere, cercando di mascherare quanto vicino alla verità poteva essere quella battuta. “E’ la verità, non c’è niente di eccitante o grandioso nella mia vita. Sono il ragazzo più noioso che tu abbia mai conosciuto.”
“Nah, non credo che possa esisterne uno più noioso di Aj.” Scherzò Nick.
“Stiamo parlando dello stesso Aj che ha cambiato colore di capelli quattro volte nella stessa settimana?”
“Appunto. E’ noioso nel suo continuo cambiamento.”
“Sei incredibile!”esclamò Brian, non appena terminò di ridere.
“Che ho detto di male? E’ la verità, visto che io ci vivo insieme!”
“Sai... a volte fatico a credere come possiate essere amici tu ed Aj. Siete così diversi.” Ammise Brian, lasciando cadere l’ilarità della situazione e ritornando serio.
Nick sospirò, appoggiando le mani dietro di lui ed allungando le gambe. “All’inizio lo credevo anch’io, sai? La prima volta che ho visto Aj mi sono chiesto da dove diavolo fosse uscito e già immaginavo festini a base di droga tutte le notti! Invece, dietro i tatuaggi, i piercing e il colore dei capelli, c’è un ragazzo esattamente come me, che ha una passione e vuole viverla a tutto tondo, invece che adattarsi a ciò che la società vuole.”
“Quindi... quindi non tutti si fermano davanti alle apparenze?”
“La maggior parte delle persone, sì. Io no. Alla fine, che cosa davvero ci dice l’apparenza di una persona? Solo quello che vorrebbe essere ma non ti potrà mai dire chi è davvero dietro un vestito o un modo di fare. – Nick ritornò a guardare negli occhi di Brian. Qualcosa gli diceva che quell’argomento era importante per lui, anche se non riusciva a comprendere perché. – E tu? Ti basi sulle apparenze?”
“No, no! Certo che no! – Brian si affrettò a negare, scuotendo la testa. – Tutt’altro. So che cosa significa essere giudicato solo perché non sei come gli altri o perché vieni da una famiglia anormale.”
Nick rifletté su ciò che Brian gli aveva appena detto, il vero primo scorcio di luce sul ragazzo che si nascondeva dietro le sue parole . Forse, la prima volta che si apriva un poco con lui e ciò lo spinse a fare la domanda seguente.
“E’ per questo che ti sei trasferito?”
Non sapeva molto di Brian e quelle poche informazioni che aveva le aveva raccolte da alcuni colleghi più anziani di lui: sapeva che viveva con suo cugino dopo essersi trasferito da piccolo ma nessuno sapeva né da dove né il motivo, il che aveva portato a far nascere mille illazioni, alcune delle quali davvero da brivido e semplicemente disgustose.
Ma, così com’era apparsa, la luce scomparve e Brian ritornò ad essere quella scatola chiusa che aveva sempre conosciuto. “Una cosa del genere. – rispose il ragazzo a mezza voce, alzandosi di scatto. – Scusa, devo andare.”
Nick lo osservò voltarsi ed incominciare ad incamminarsi verso casa. Prima che potesse cambiare idea, si alzò anche lui e afferrò il braccio di Brian. Da qualche parte, dentro di lui, c’era la strana ed inspiegabile voglia di non lasciarlo andare così, di sfruttare al massimo attimi che si era sempre lasciato sfuggire.  “Aspetta! Lascia che ti accompagni!” Urlò di istinto.
Brian si voltò di scatto, tracce di sorpresa ben visibili sui suoi lineamenti. “Scusa?”
“E’ tardi e... lascia che ti accompagni a casa.” Si affrettò a spiegare Nick, ovviando la vera ragione.
“Non c’è problema. Non abito lontano. – ribatté Brian, sorridendo. – Ma sei gentile.”
Nick aggrottò la fronte. “Ma abiti dall’altra parte della città!”
“Dettagli.”
“No, insisto.”
“Nick, davvero! Sei molto gentile ma non devi...”
“Infatti non devo. – asserì Nick con molta più convinzione. - Voglio accompagnarti a casa.”
Brian sbuffò, fingendo insoddisfazione ma segretamente felice di quell’offerta. “Non mi lascerai proprio andare da solo, vero?”
“Esatto. Alcune zone della città non sono molto sicure a quest’ora.”
“Perché ti preoccupi così tanto della mia sicurezza?”
“Perché sei l’unica persona con cui posso parlare di tutto fuorché tinte o tatuaggi.”
“Quindi lo fai solo per la tua sanità mentale?” Domandò Brian ironicamente.
Nick sorrise maliziosamente. “Una cosa del genere. – Poi, prese l’altro ragazzo per un braccio ed incominciò a trascinarlo nella direzione opposta a quella che Brian aveva preso prima. – Andiamo, casa mia non è lontana e credo di avere un casco in più.”
Brian si bloccò di colpo. “Casco? Guidi così male da aver bisogno di un casco?”
Nick lo guardò confuso. “Ah, tu preferisci andare senza casco? Beh, è tardi e non ci dovrebbe essere in giro nessuno quindi possiamo anche tentare la sorte.”
“Nick, davvero tu vai in macchina usando il casco?”
Gli occhi di Nick si ingrandirono ancor di più per lo stupore. “Macchina? Ma... io stavo parlando della moto!”
“Moto?” Mormorò Brian, impallidendo tutto in un colpo.
“Non sei mai stato in moto?” Nick socchiuse le labbra, indeciso se credergli o meno. Da quello che aveva potuto notare – ed aveva osservato a lungo il ragazzo – Brian non si lasciava intimorire da nulla e più di una volta lo aveva visto tentar qualche sport estremo solo per il gusto di farlo. Era così incredibilmente impossibile che non fosse mai salito su una moto!
“Non... non sono particolarmente attratto da quella macchina infernale.” Rispose Brian, abbassando lo sguardo.
“Non è così terribile! In certi momenti, provi l’esatta sensazione di essere sul punto di decollare e di poter essere libero di correre più veloce del vento. Quasi come se stessi volando.”
Brian avrebbe voluto ribattere che niente, nemmeno la macchina più veloce, poteva anche solo avvicinarsi all’alzarsi verso il cielo e farsi trasportare dal vento invece che lottarci contro. Ma, per poter affermare ciò, avrebbe anche dovuto mostrargli come faceva a saperlo. E preferiva evitare di farlo scappare nemmeno al loro primo appuntamento.
Appuntamento? Ora stava davvero volando di fantasia!
“Devo fidarmi della tua guida?” domandò quindi, sviando il discorso.
Nick gli sfoderò un sorriso incoraggiante. “Non ho mai fatto un incidente. – lo rassicurò Nick. – Sei al sicuro.” Terminò, tendendo una mano verso di lui.
Brian osservò la mano, indeciso sulla sua risposta: da una parte, voleva semplicemente voltarsi e tornare a casa volando – realmente, questa volta – ed ascoltare quella vocina che gli diceva che ci sarebbero stati solo guai ad aspettarlo; dall’altra, però, quell’offerta era così allettante che gli era fisicamente impossibile resistere a Nick.
Ed è quello che fece. Per una volta, abbandonò ogni remora ed accettò la mano di Nick, sicuro – anche se non sapeva spiegarsi i motivi – che non se ne sarebbe pentito.

 

 

 ** ** ** ** ** **

 

 

Nick parcheggiò di fronte al vialetto di casa Richardson. Puntò i piedi per terra e rimase in sella, togliendosi il casco. Si era aspettato che Brian si staccasse da lui il più velocemente possibile, vista la ritrosia a salirvi sopra prima; invece, nonostante avesse già spento il motore, le braccia del ragazzo rimasero allacciate attorno alla sua vita, esattamente come la guancia pressa contro la sua schiena. In quei punti di contatto, la sua pelle sembrava bruciare di un calore di cui non poteva vedere le fiamme ma poteva sentirle dentro di sé.
“Siamo... – si schiarì la voce. – siamo arrivati.” Quando, dopo qualche secondo, Brian ancora non si era mosso, Nick voltò lo sguardo e notò che il ragazzo non aveva ancora riaperto gli occhi. Un sorriso curvò gli angoli della bocca e, per un lungo secondo, fu tentato di rimanere così, immobile in quella posizione che gli permetteva di sognare. Ma le luci della casa erano accese, qualcuno presto avrebbe guardato fuori ed avrebbe trovato strana quella posizione.
“Brian?”
Sentendo il suo nome richiamato, Brian si staccò – seppur a malavoglia – da Nick. “Oh, siamo già qui?”
“Ehm, sì.”
“Oh.”
“Dai, non è stato così terribile andare in moto.” Scherzò Nick, aiutando Brian a scendere.
Brian si tolse il casco ma indugiò a ridarlo a Nick. “Non saprei dire, ho tenuto gli occhi chiusi tutto il tempo.”
“Hai solo bisogno di pratica.”
Quella di Nick avrebbe dovuto essere solamente una battuta, uno scambio di parole finalizzate a rompere il ghiaccio in quella situazione. O, meglio, a spingerlo a non continuare a fissare così insistentemente gli occhi di Brian.
Ma, in Brian, ottenne un effetto contrario.
Non era mai stato così intraprendente, forse perché non aveva mai avuto la possibilità di mettersi in gioco in quel modo con qualcuno.
Ma le parole di Kevin, quell’invito a comportarsi come un ragazzo normale, lo spinsero ad osare lì dove era sempre fuggito, attanagliato da una paura che ora voleva rinchiudere in un cassetto e nasconderlo nell’angolo più scuro della sua anima.
Perché non buttarsi?
Così, con la scusa di ridargli il casco, si avvicinò a Nick, ancora seduto sulla moto; si alzò in punta di piedi, vista la differenza di altezza, ed appoggiò le labbra all’angolo di quelle del ragazzo, sfiorandole appena. “Allora avrò bisogno di qualcuno che mi insegni.” Sussurrò flebilmente.
In quell’istante, Nick comprese ciò che Brian stava facendo. Certo, i primi secondi di quel gioco di flirt lo avevano lasciato spaesato perché tutto si era aspettato tranne ciò ma non perse altro tempo. Flirtare e corteggiare erano una seconda pelle per lui ed ora che aveva capito che Brian poteva essere interessato... beh, tutto ciò rendeva quel gioco ancor più interessante.
Non si allontanò né fece intendere a Brian che non gradiva l’intima vicinanza fra le loro labbra. Appoggiò le sue mani su quelle di Brian che ancora stringevano il casco tra di loro e bastò quel semplice contatto per dare vita a piccole scintille fra i loro sistemi nervosi.
“Lezioni private?” Sussurrò quindi di rimando, osservando il lieve rossore dipingere quelle mascelle così ben definite.
“Quanto private?” Ribatté Brian, meno sicuro di prima e così vicino al punto da essere totalmente inebriato dal profumo di Nick. Era quel ragazzo, così sicuro di sé e delle sue qualità, che si nascondeva dietro l’aria da timido? Così vicino, non poteva far altro che rimanere ipnotizzato dal suo sguardo: gli occhi azzurri avevano acquistato una tonalità più profonda ed assomigliavano al mare che non poco tempo prima aveva sorvolato, così scuro che non potevi esser sicuro di dove terminasse ma così attraente nel lasciarsi scoprire. E tutto ciò che Brian desiderava era voler scivolare in quelle acque per scoprire se poteva continuare a respirare.
“Questo dipende tutto da te.”
Brian rabbrividì dal piacere che quella promessa faceva crescere dentro di lui. Come lo definivano gli umani? Oh, già, avere le farfalle nello stomaco. Ed ora che stava provando direttamente quella sensazione non riusciva a comprendere il nesso con le farfalle: il battito d’ali di una farfalla era leggero, quasi non lo sentivi mentre ti volavano vicino e ti sfioravano il viso; nel suo stomaco, invece, c’era un ingarbugliamento, un’improvvisa sensazione di vuoto mentre attorno ad esso vi era solo calore, che di sicuro si stava riflettendo sul suo viso.
Il dado era tornato fra le sue mani, la prossima mossa toccava a lui e, per quanto avrebbe voluto continuare a disegnare quei passi di danza, sapeva per certo che Kevin lo stava fissando dalla finestra e, se il suo istinto non lo stava traendo in inganno, non era per niente contento.
Così, lasciò scivolare le sue labbra su quelle di Nick, lasciandole appoggiarsi per qualche secondo, un bacio veloce quando il battito di un ala e poi si allontanò da lui, osservando rapito come la luce della luna rendesse il ragazzo una visione da mozzare il fiato.
Perché mai affermare che gli angeli fosse visioni così celestiali quando gli umani potevano essere così assolutamente perfetti?
Deglutì, schiarendosi la voce prima di pronunciare le sue parole. “Grazie per il passaggio. Chissà, magari potremo rifarlo qualche altra volta.” Disse con un semplice sorriso.
Dopo di che, si affrettò a tornare dentro in casa, lasciandosi dietro le spalle un attonito Nick, sorridendo a se stesso: nonostante tutto, era stata una serata indimenticabile. Aveva osato, aveva accettato il flirt di Nick ed aveva risposto con la stessa monete e... oh, mille nuove sensazioni ruotavano attorno alla sua mente ed ognuna di esse lo faceva sentire come se stesse ancora volando.
Dalla camera accanto arrivò il richiamo di Kevin, ed il suo tono non era di certo di quelli felici e contenti. E non serviva usare il suo sesto senso per comprendere che non solo qualcuno doveva aver fatto la spia sul suo volo ma anche che Kevin non era affatto intenzionato a passarci sopra come le altre volte.
Sono davvero nei guai, mormorò fra sé e sé mentre si avviava verso quello che sembrava essere solo un patibolo invece che un salotto.
Ma non smise, nemmeno per un secondo, di sorridere e di pensare a ciò che lui e Nick si sarebbero detti il giorno successivo.

 

 

 

 

 

 

 

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Wow, finalmente pubblico il primo capitolo. Non c'é molto da dire, oltre al fatto che questi Brian e Nick sono molto più intraprendenti delle precedenti storie. Avevo qualche dubbio sul fatto che fosse troppo presto ma é anche vero che la prima parte della storia sarà solo su loro due e su come finiranno insieme, quindi dovevamo pur partire, no? lol
Nel prossimo capitolo, conosceremo meglio Nick ed Aj. Quindi... beh, spero che vi sia piaciuto! 

La canzone all'inizio capitolo é "Blackbird" dei Beatles. 

Ringrazio tutti coloro che hanno letto il prologo, che hanno commentato così positivamente la storia (*__*) e quelle pie donne che sopportano i miei scleri da scrittrice. 

   
 
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