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Autore: Lonely_    14/01/2012    0 recensioni
A che si può pensare nell’età migliore della propria vita? A cosa se non ai problemi di tutti i giorni, quei piccoli, futili litigi familiari od amichevoli, che sempre e comunque si concludono in giornata? A nulla. A meno che non si sia più acuti e più coscienziosi d’altri. A meno che non si pensi in grande. A meno che non si abbiano progetti già fatti e finiti, con più persone, persino. A meno che non ci si sia cacciati in guai troppo grandi per essere risolti da soli. Guai che portano lentamente alla disperazione.
( Il rating è inizialmente giallo; nei capitoli con scene di sesso esplicito muterà in rosso. )
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Filosofia adolescenziale









3. Agonie





Durante il mese in cui ci stavamo preparando tutti mentalmente al campo scuola, ero così irrequieto che chiunque avesse avuto a che fare con me per più di dieci minuti, certamente dopo avrebbe avuto brutti e gravi riscontri fisici. Tutti continuavano a ripetermi che non mancava molto, i giorni sarebbero trascorsi in fretta. Invece a me pareva che tutto e tutti rallentassero per farmi dispetto. Quando uscivo per passeggiare, i mezzi pubblici che ritardavano mi strappavano innumerevoli imprecazioni; se andavo a fare la spesa, il signore o la signora davanti a me era sempre troppo lento e finivo per strillargli contro; se Marco o Valentino facevano tardi per incontrarci, si beccavano insulti. Non ero quasi umano. Ogni secondo avevo una crisi di nervi.
Poi, il settimo giorno di quel mese arrivò. E con esso arrivò la partenza per la città di Robbie.
- Oddio... Quando cazzo arriviamo? – Mi domandava ininterrottamente Marco, seduto affianco a me nel pull-man, mentre la meta prevista mi pareva allontanarsi di più ad ogni secondo.
- Non lo so. Non lo so, porca puttana. – Rispondevo io, fissando il cellulare come aspettassi qualcosa di differente dalle innumerevoli chiamate di mia madre per chiedermi a che punto stavamo.
Per tranquillizzarci, siccome il viaggio durava dieci ore contate e tutti nel pull-man erano estremamente nervosi, ci misero un film: Benvenuti al Sud*. Mai pellicola fu più demotivante. Per fortuna non era il contrario, per il protagonista. Mi domandai se anche Roberto, quella volta che era venuto nella mia città in visita prima di conoscermi, avesse fatto in quella maniera.
Finalmente arrivammo nella sua città. La differenza con la mia era incommensurabile. Benché in certi punti somigliasse vagamente ad alcuni quartieri residenziali.
Con Robbie ci eravamo messi d’accordo che l’avrei chiamato per fornirgli il nome dell’albergo, la via e l’orario in cui sarei arrivato. Fatto sta che arrivammo tipo mezz’ora prima. Dunque mi sbrigai ad avvertirlo, col cuore che minacciava d’uscirmi dal petto per finirmi tra le mani.
Quello che doveva essere chiamato ‘albergo’ era in realtà un motel d’infima categoria, con camere da due persone, con letti nemmeno matrimoniali, spazi estremamente ristretti e vista dalla finestra orripilante. Non che di solito badassi a dettagli del genere, ma era comunque traumatizzante, dopo che l’anno prima eravamo stati, al campo scuola, in un hotel a quattro stelle con comfort d’ogni genere.
Mentre tutti correvano per le camere altrui per constatare se erano differenti o uguale alla propria, io me ne stavo davanti alla finestra, fissando la strada sottostante ed immaginando che tutte le macchine che passavano erano quelle dei genitori di Robbie. Con lui nel frattempo ci scrivevamo ogni due per tre.
 
Robbie scrive:
 
Senti, ho paura... Ho paura di non essere come immaginavi, ho paura di deluderti...
Risposta:
 
Tu non potrai mai deludermi, non dire sciocchezze ;) piuttosto ho paura io...
 
Scrivevamo cose simili a raffica. Mi veniva da piangere senza motivo ma non potevo farlo, nella mia stanza c’era un via vai continuo di gente che, come detto in precedenza, voleva constatare se la mia fottuta camera era uguale alla loro.
Finalmente Robbie mi scrisse che era davanti all’albergo. Corsi in fretta e furia le scale che mi separavano dal piano terra, rischiando più volte di cadere faccia avanti o peggio. Arrivato alla hall mi piazzai davanti all’entrata e mi sistemai innumerevoli volte la giacca, i capelli e tutto ciò d’immaginabile. Poi lo vidi. Chiaro e limpido come il riflesso in uno specchio. Quel riflesso che avrei visto solamente in seguito. Era lì, davanti a me. Non era una foto. Non era una videochiamata. Era lì, proprio lì. Entrò correndo e mi abbracciò energicamente, rischiando di soffocarmi.
 
- Sei davvero qui...? – Sussurrai timoroso, accarezzandogli i capelli con le mani tremanti.
- Miao! – Rispose in un tenero mormorio che potei udire solo io.
 
Salutai i genitori in fretta e furia, senza calcolarli più di tanto. Poi ci sedemmo su un divano posto lì affianco. Non accennavo a lasciare la mano di Robbie per nessun motivo. Come se fosse il mio ultimo appiglio innanzi un baratro che mi ero costruito da solo.
Dopo aver chiacchierato indefinitamente di cose che non rammento coi suoi genitori, proposi di far salire un momento Robbie in camera mia, per mostrargliela; benché i suoi protestassero, alla fine lo convincemmo. Imboccammo le scale poiché entrambi gli ascensori erano occupati, salendole con una fretta prossima alla frenesia. Le sue scarpe facevano un rumore simile a quello dei tacchi di legno.
 
- Ma che cazzo di scarpe hai? – Domandai a un tratto, sorridendo divertito ed euforico. Passando innanzi una porta a specchio notai che le guance mi ardevano come braci.
- Non lo so, me le ha messe mia madve... – Rispose lui, nervosamente, stringendomi forte la mano.
Senza pensare più a nulla, gli presi il viso con una mano e gli lasciai un bacio sulle candide labbra, socchiudendo gli occhi. Lui, dopo un momento d’incertezza, rispose prontamente al bacio, lasciandosi sfuggire un flebile gemito di sorpresa e forse gioia.
- Su, andiamo, in camera possiamo stare tranquilli... – Gli proposi, staccandomi di malavoglia dalle sue morbide labbra, la cosa più deliziosa che avessi mai assaporato. Lui annuì sorridente e continuammo a salire le scale. Passammo in mezzo a tutti i ragazzi che facevano via vai per le stanze, la mia era la terzultima del corridoio. Ci tenevamo stretti la mano, sorridendo ebeti. Non ci sembrava vero di essere assieme.
Arrivati alla mia camera bussai energicamente più volte, sospirando con fare nervoso ogni secondo che non aprivano. Quando finalmente lo fecero mi lasciai sfuggire un ‘era ora’ e mi gettai nella stanza assieme a Robbie. Velocemente lo presentai a tutti quelli nella stanza, erano di più poiché, non so chi, aveva invitato tutti gli altri della nostra classe. Gli intimai di sloggiare e, dopo due o tre minuti, finalmente se ne andarono. Gettai un timido sguardo a Robbie, avvicinandomi a lui lentamente. Gli posai una mano sul volto, specchiandomi nei suoi occhi scuri, e lo baciai nuovamente, stringendolo forte a me. Lui ricambiò, accarezzandomi i capelli. Rammento che desiderai che quel bacio non avesse mai fine. Cosa che invece avvenne poco dopo, qualcuno gli stava telefonando insistentemente. Rispose con fare scocciato. Era sua madre che ci diceva di tornare giù. Entrambi sospirammo, a chiamata conclusa, e ci guardammo in silenzio.
- Mi dispiace... – Sussurrò dopo un po’, sorridendo impacciato. Ricambiai il sorriso e mi alzai, prendendo due quaderni dal tavolo. Glieli porsi allargando il sorriso.
- Sono i quaderni di cui ti parlavo... – Spiegai, notando con quanto interesse li sfogliasse. Mentre attendevo di andare al campo scuola avevo iniziato a scrivere un quaderno, sfogandomi la mia ansia e il mio nervosismo. In più, assieme a quello, portai a Robbie anche un quaderno pieno di bozze, storie sui nostri personaggi, quelli che ruolavamo, che a lui piacevano tanto. Adorava come scrivevo, me lo ripeteva sempre. Così avevo pensato che gli avrebbe giovato avere qualche mia bozza originale di qualche futuro romanzo o chissà che altro.
- Gvazie, sei stato molto gentile... – Disse dopo un po’, alzando nuovamente a me lo sguardo. Ci alzammo e ci avvicinammo allo specchio che stava in camera. Sorridevamo entrambi, non avevamo smesso da quando ci eravamo toccati il primo istante. Vederci assieme in uno specchio faceva uno strano effetto.
- Ah! Quasi dimenticavo... – Esclamai qualche secondo dopo, tirando fuori da una tasca un piccolo anello. Lo infilai all’anulare sinistro di Robbie, constatando che, grazie a Dio, era della sua misura. Lui, sempre più sbalordito e al contempo compiaciuto, lo rigirò fra le mani, estasiato da tanti regali. Poi fummo costretti a tornare di sotto, la madre lo tempestava di telefonate. Mentre eravamo nell’ascensore, siccome non avevo assolutamente voglia di salutarlo benché c’era la possibilità, quasi una certezza, che ci saremmo rivisti anche il giorno successivo, premetti tutti i tasti a caso, prenotando i vari piani, ed intanto lo addossai a una parete dell’ascensore, baciandolo amatamente sul collo, mordendolo a tratti. Lui mi assecondava, gemendo a ogni sfioramento. La cosa divertente era che a qualsiasi piano l’ascensore si fermasse ci staccavamo prontamente, tornando in posizione naturale. Alla fine, per errore, premetti il piano terra e fummo costretti a uscire.
- Oh, eccoli! – Esclamarono i genitori di Robbie, alzando le braccia quasi fosse accaduto un miracolo. Mi domandai che razza di idea avessero di me.
Una volta tornati da loro, mi porsero una busta contenente un libro sulla città di Robbie e una sciarpa simile a quella che portava al collo. Ringraziai solarmente e, prendendo la busta, indicai a Robbie un divano lontano da quello dei suoi genitori, che nel frattempo parlavano con una mia professoressa. Ci sedemmo lì, lontani da altri sguardi che non fossero i rispettivi, e ci tenemmo la mano, sorridendo l’un l’altro.
Non rammento di che parlammo. Rammento solo che ero tanto, tanto felice. Quando se ne andò, quasi subito scoppiai a piangere, legandomi al collo la sciarpa che mi aveva regalato. Siccome era ora di cena, tutti andarono al ristorante, passandomi davanti poiché si trovava proprio affianco al divano dove fino a pochi minuti prima c’era Robbie, dove io sostavo, desiderando con tutto me stesso che tornasse lì, con me.
 
Quella sera fu un incubo. Non riuscivo a dormire e continuavo a piangere. Ero in camera con Marco, che per quanto era stanco mi ascoltava pure. Lo fece però per poco, si addormentò mentre parlavo. Sospirando mi rigirai più volte, cercando di prendere sonno e ripetendomi che tanto, il giorno dopo, l’avrei rivisto. Credo che fu solo la stanchezza del viaggio e quella della passeggiata notturna, a farmi addormentare; sì, avevamo fatto una passeggiata dopo cena. Avevamo preso un autobus a casaccio, con tutte e due le classi, e ce n’eravamo andati a zonzo, coi negozi chiusi, i monumenti bui e la gente notturna che ci fissava perplessa. Fatto sta che il mattino dopo ero un relitto. Anche perché ci svegliarono telefonandoci dalla reception in camera. Il trillo del telefono fu la cosa peggiore.
Durante la mattinata visitammo musei e cose varie, edifici, luoghi e persone che non ricordo e non ho interesse a ricordare. Verso l’ora di pranzo ci lasciarono vagare liberi nei pressi di un McDonald’s, nel quale potevamo pranzare. Ci diedero due ore e mezza per fare ciò che volevamo, a patto che, passato quel lasso di tempo, tornassimo in un luogo prestabilito.
Tutti i miei compagni di classe erano scostanti con me, probabilmente la voce che ero là solo per quel ragazzo si era sparsa, una voce in parte falsa e priva di fondamento ed elementi che chiarissero il tutto, elementi che solo io e Robbie possedevamo, e che non avremmo certo rivelato al primo curioso.
Gli telefonai e gli dissi la via in cui mi trovavo. Poco dopo arrivò con i suoi genitori, che mi parvero ancora più freddi e scostanti del giorno precedente. L’idea che mi odiassero iniziò a farsi spazio nella mia mente.
Non parlammo molto, quella mattina. Ci stringemmo la mano, seduti su un muretto, sotto gli occhi dei suoi genitori che ci ripetevano di non stare così attaccati. Io quasi non ci facevo caso. L’idea che dal giorno successivo sarei dovuto rimanere lì, nella sua città, senza poter più vederlo, mi terrorizzava. Sì, perché ai genitori non stava bene, non si sa per quale motivo, che noi ci vedessimo tutti e cinque i giorni della mia permanenza. Ci attenemmo comunque agli ‘ordini’, ripetendoci che comunque sarebbe successo, fosse stato prima o dopo era quasi irrilevante. Quasi, per l'appunto.
Quando dovettero andarsene, piansi lacrime amare in silenzio, fissando il vuoto per tutto il tempo rimanente al ritrovo nella piazza stabilita. Vedere un ragazzo che piangeva non era esattamente una cosa di tutti i giorni. Poi, che piangeva in mezzo alla gente era ancora più strano. Praticamente ero sotto gli occhi di tutti. Finché non mi rintanai in un bagno pubblico, tentando inutilmente di darmi un contegno. Ero agonizzante. Se qualcuno di mia conoscenza mi avesse visto in quello stato, sono certo che mi avrebbe rinchiuso in un manicomio; o comunque avrebbe telefonato al 118.
Non credevo avrebbe fatto così male. Credevo sarei stato più forte. Credevo mi sarei abituato più in fretta all’idea che comunque vivevamo in città diverse. Ma non fu così. Non vi riuscii affatto.
Ed il peggio, doveva ancora arrivare.
 
Dizionario time:
 
*Benvenuti al Sud: Film comico uscito nel 2010, basato sul trasferimento di un lavoratore del Nord ad un posto al Sud per motivi lì spiegati dettagliatamente.
 
Salve a tutti! Mi rincresce che abbiate mollato i commenti :( però comprendo che potreste aver avuto da fare. Non preoccupatevi, trovo sia normale. Ad ogni modo continuate a seguirmi, sono lieta delle aggiunte e tutto il resto ;)
Grazie mille, grazie a tutti~
  
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