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Autore: Dejanira    20/01/2012    1 recensioni
"What if nothing exists and we're all in somebody's dream?" (Woody Allen)
L’estate in cui Rose decide di andare dai Malfoy, per le vacanze, si stupisce nel trovare sepolto nella biblioteca di casa un libriccino senza nome che sembra nascondere più sottotrame e segreti di una qualunque altra storia.
Il giorno in cui Hermione, con un tremendo sbaglio, danneggia in maniera irreparabile se stessa e la sua vecchia vita, comprende che non le sarà più possibile andare avanti senza l’aiuto di due persone improbabili.
Pansy e Draco si ritroveranno così costretti a dispiegare una pericolosa ragnatela di disperazione, morte e pazzia, nel tentativo di riportare a casa qualcuno considerato perso da ormai troppo tempo.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Pansy Parkinson, Rose Weasley, Scorpius Malfoy | Coppie: Draco/Hermione
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
Capitoli:
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IV

IV

 

 

 

Lui era Il Morto.

Glielo sussurrò all’orecchio. Fu allora che Hermione si sedette.

Serrò i pugni sulle ginocchia, pregando che Lui smettesse di guardarla, ma non lo fece.

C’era una fontana di fronte a loro, dove l’acqua scorreva senza intervalli in un pianto infinito. Lui le bisbigliò che in quella fontana scorrevano tutte le lacrime che erano state versate dall’inizio dei tempi fino ad allora, e lì l’acqua non avrebbe smesso mai di scorrere perché non sarebbe mai cessato il dolore sulla terra. Le rivelò che si diceva che bere quell’acqua rendesse felici. Le confessò che non era vero. Che gli uomini di solito inventano maschere interessanti per recitare meglio una tragedia.

La riconobbe subito, e sin dal principio si rivolse a lei chiamandola Direttrice. Lui sapeva. Lui vedeva tutto riflesso nei suoi occhi, o forse riflesso in quella fontana. Le propose di alzarsi e specchiarsi in quelle lacrime. Hermione scoppiò a piangere, ma rimase seduta.

- Come ti chiamano? – chiese lei.

Lui mormorò che lo chiamavano Lester Paul Doghorns. Bisbigliando, le disse che la odiava.

- Mi dispiace – singhiozzò Hermione. – Non so cosa ti ho fatto. Mi dispiace se ti ho ferito. –

Lester rimase immobile mentre la fissava. La testa era leggermente reclinata di lato, come se fosse pensieroso. Ma più che pensieroso, pensò Hermione, sembrava che l’avessero sgozzato e che ora il capo gli ricadesse pesantemente sulla spalla.

Le chiese se conoscesse la morte. Ma Hermione scosse la testa, e Lui ancora una volta la invitò a specchiarsi nelle acque opache della fontana.

- Non posso – rispose Hermione. Con la manica del maglione si strofinò gli occhi per asciugare le lacrime, ma dovette smettere quando si accorse che in quel modo si tirava via la pelle.

Lester le fece notare che andava perdendo pezzi; a quella parola dagli occhi di Hermione sgorgarono nuove lacrime, e la fontana ruggì, mentre il vento accompagnava quel lamento.

Il resto del mondo era sparito. Tutto era avvolto in un magnifico nulla.

Lester prese le mani di Hermione, evitando che si tirasse via altra pelle. Asciugò Lui le sue lacrime, mentre le domandava se sapeva già cosa avrebbe visto nella fontana.

Hermione lo allontanò bruscamente. Lester ripeté la domanda, cattivo.

- Lo so – ammise lei, infine, senza più piangere. – Lo so. Va bene? Lo so. –

Allora Lui argomentò ragionevolmente che non aveva senso avere paura di guardare. Disse che non sarebbe stata libera finché non avesse smesso di evitare quelle acque.

Disse che in quella fontana c’era una risposta.

Disse che era l’unica cosa vera.

Disse che non avrebbe fatto male.

E disse che, se mai avesse dovuto farne, sarebbe stato l’unico male di cui sarebbe mai voluta morire.

Le chiese se aveva paura di morire.

- No – disse Hermione. – Non ne ho mai avuta. –

Lester rispose che Lui invece ne aveva ancora.

Hermione ebbe l’impressione che tutto ruotasse attorno a Lui. Pensò che tutto perdesse di significato senza di Lui, compresi i fiori appassiti, la fontana e gli occhi grigi.

Hermione si sentì improvvisamente sola. La consapevolezza di quella sua condizione la investì tutto a un tratto come una potente scarica elettrica, pervadendola da cima a fondo e annullando qualunque stralcio di forma o materia fosse rimasto in lei. Si sentì vuota come se avesse vomitato fuori tutti gli organi e le viscere. Stava davvero scomparendo.

- Aiutami – lo implorò, sperando che Lui celasse un briciolo di compassione dietro quegli occhi troppo neri.

Lester rispose sottovoce che non voleva.

- Non so a chi altri rivolgermi – supplicò, ma Lui rimase impassibile.

Le ripeté che nelle lacrime di quella fontana c’era l’unica cosa vera. Le disse che piangere per quell’unica vera ragione l’avrebbe salvata.

- Non piango che per me stessa – disse lei. – Non ho nient’altro che mi appartenga. –

Le predisse che alla fine di lei sarebbero rimasti solo pezzi. Hermione avvertì quel presagio negli ululati del vento e nel respiro delle foglie.

Non guardava Lester in viso, ma sapeva che Lui la stava osservando. Da quel momento in poi avrebbe sentito sempre il suo sguardo su di sé, e cominciò a chiedersi se quella morsa che la attanagliava sempre non fosse la mano del Morto che con una carezza la spingeva sempre un po’ più vicino all’orlo del baratro.

Poi Lester sparì. Rimasta sola, Hermione sentì un bisogno fortissimo di tornare a casa, ma una figura sottile tra la nebbia, poco più in là del faggio, catturò ogni suo pensiero.

Era una donna giovane e alta, e Hermione pensò che fosse molto bella. Indossava un vestito bianco e teneva le braccia strette al petto, quasi temesse che il cuore potesse scivolarle via dalla gabbia toracica. Quando cominciò ad avvicinarsi, silenziosa e leggera come una fata, Hermione notò che aveva capelli corvini e occhi neri, ma non come quelli ingannevoli di Lester; erano profondi e limpidi, e mascheravano alla perfezione il loro segreto.

Aveva un viso dai tratti duri e affilati, ma quando parlò la voce di Karina Spysonn sembrò come di velluto.

- Buongiorno. Posso sedermi? –

Non accennò a muoversi fino a che Hermione non avesse dato un suo consenso.

- Arrivi tardi – ringhiò Hermione. – Il Morto è andato via. –

Karina sembrava disorientata, ma si riprese quasi subito. – Come scusa? –

Hermione sbuffò. – Lester Paul Doghorns. Se n’è andato proprio adesso. Se stai cercando Lui, è meglio che tu vada altrove. –

- Oh – Karina non trovò null’altro da dire. Stringeva ancora le braccia al cuore, Hermione la trovò una pratica terribile. – Oh – ripeté di nuovo Karina, ma stavolta sembrava un po’ più sicura. – No, no, non cercavo lui. Stavo cercando te. –

Hermione inarcò un sopracciglio, guardando dubbiosa verso di lei. – Ma davvero? – sembrava ostile e la scrutava con sospetto, nel suo tono c’erano sarcasmo e scherno. Poi il suo sguardo si addolcì impercettibilmente, qualcosa in Karina dovette allentare un poco la sua ritrosia. – Di solito non mi cerca nessuno – spiegò, chiarendo il motivo della sua scortesia.

Karina sospirò, comprensiva. – Sì, è una cosa che posso capire – disse. – Succedeva anche a me prima. –

- Prima? –

- Sì. Poi è cambiato. –

Hermione sembrò riflettere su qualcosa, poi si fece un po’ di lato per lasciare spazio a Karina per sedersi. – Come? –

Karina ringraziò e si sedette. Sembrava indecisa su cosa dire. – Non sono sicura che tu possa capire… - mormorò, quasi a se stessa.

- Non sono stupida – saltò subito alle difese Hermione, mentre l’altra si affrettava a negare dolcemente.

- Oh, non intendevo questo – aveva un bel sorriso, forse perché non lo usava mai. Hermione sapeva che non lo usava mai. – Ti va di fare due passi? – propose.

Hermione guardò alle sue spalle. – Oltre la nebbia? – obiettò. – E’ tutto grigio. –

Karina stese le labbra in un amaro sorriso. – E’ sempre stato tutto grigio. –

Hermione parve decidersi che le andava bene come risposta, anzi le sembrava perfino ragionevole. Si alzò e attese che l’altra lo facesse a sua volta. Poi si incamminarono nel grigio.

- Sai chi sono io? – chiese Karina, mentre Hermione camminava con una strana andatura, con le mani intrecciate dietro la schiena e a piccoli balzi, come una bambina che gioca a saltare le pozzanghere.

Hermione la guardò e sorrise. – Tu sei una di quelle persone che vengono fuori quando finisce l’inverno. Come i bucaneve – disse.

Karina assottigliò gli occhi, portandosi una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio. Sembrava perplessa e divertita, e Hermione provò l’istinto di sorridere a sua volta; era da tanto che non faceva sorridere qualcuno, e la cosa le mise addosso una strana euforia.

- Sai, si dice che una volta cacciati dall’Eden, Adamo ed Eva siano stati mandati in un luogo buio e freddo, dove regnava sempre un gelido inverno. Allora Eva si gettò a terra, disperandosi per la sua condizione di condannata a quel gelo perenne, ma un angelo le venne vicino e, dopo aver raccolto una manciata di fiocchi di neve, ci soffiò sopra. Non appena questi si posarono sul terreno, si trasformarono in dei bellissimi bucaneve – spiegò. – Sono simbolo di speranza. –

Karina continuò a camminare. – Non lo sapevo – disse. – E io rappresento questo per te? –

Hermione si strinse nelle spalle con indifferenza.

Karina si accigliò. – Tu lo sei stata, per me. Per un po’, quando ne avevo bisogno. –

Sembrava che volesse attirare l’attenzione di Hermione, ma quella continuava a camminare con lo sguardo basso sulle punte delle sue scarpe, senza il minimo accenno, ma qualcosa in lei lasciava pensare che avesse voglia di sentire il resto della storia. Così Karina continuò.

- Quello dopo la fine della scuola per me è stato un periodo molto brutto – cominciò. – Non mi era rimasto più nessuno. Già prima non avevo molti amici, e quei pochi che avevo o non potevo più vederli o mi avevano voltato le spalle. La gente non credeva che fosse conveniente essermi vicina. Pensa che anche la mia migliore amica per un po’ dovette stare lontana da me, a sua madre non andava giù l’idea che gli altri ci vedessero in giro insieme. Diceva che le avrebbe rovinato la reputazione. –

- Devi aver fatto qualcosa di molto brutto, allora, perché la gente pensasse questo di te – osservò Hermione, recuperando in un soffio tutta la sua naturale curiosità.

Karina fece una smorfia. – Io non la vedevo così. Le persone hanno sempre pensato male di quelli come me, è una cosa a cui si abitua. Io volevo solo quello che vogliono tutti. –

- Essere felice? – suggerì l’altra.

- Salvarmi – sospirò Karina. – Ne avevamo tutti un gran bisogno. –

La nebbia si diradò. Raggiunsero un prato sospeso nel vuoto perché a guardare troppo oltre non si vedeva nulla se non un buio tremendo, che sembrava voler ingurgitare tutto. Quel prato era una piccola oasi intatta dove soffiava una brezza piacevole e i papaveri avevano il colore del sangue. Forse grondavano sangue.

- Continua – la esortò Hermione.

- I compagni di scuola non mi salutavano più, neanche quelli a cui non avevo fatto nulla. Avevo difficoltà a trovare lavoro. Non era una cosa a cui avevo mai pensato, perché mi è sempre stato fatto credere che avrei sposato un uomo ricco e che non ne avrei mai avuto bisogno. Solo che l’uomo ricco in questione, quello che avevo sempre creduto che avrei sposato, era considerato peggio di me. Avevo bisogno di qualcuno che mi risollevasse dalla mia condizione, non che mi ci facesse annegare dentro. Ho dovuto accantonare l’unico appiglio che avevo. –

- Io non l’avrei mai fatto – specificò Hermione, saccente.

Karina sembrò trovare la cosa divertente. – Ah, sì, ce ne siamo accorti, dopo. Sei stata tu ad aiutare quell’uomo. In realtà allora era solo un ragazzo, e anche lui non aveva nessuno. –

Hermione si sedette a gambe incrociate sul prato. Raccolse un papavero, se lo poggiò in grembo ma questo le macchiò il vestito di rosso. Karina si mise accanto a lei.

- Accompagnavo questo amico in un momento difficile, contro la volontà di mia madre, il giorno in cui ci siamo incontrate – continuò. – Allora tu hai fatto la cosa più carina che qualcuno avesse fatto per me in quegli anni. –

Hermione sembrava perplessa. – Vale a dire? –

- Mi hai salutato. –

- Ti ho salutato. Tutto qui? –

- I tuoi amici non lo facevano. Era strano che l’avessi fatto proprio tu. –

- Perché? –

- Non ti ho mai trattato molto bene. Mettevo sempre cattive voci in giro sul tuo conto, anche se non erano vere. Era il modo in cui mi divertivo. Era il solo modo in cui riuscivo a fare in modo che gli altro mi rispettassero. -

- E funzionava? –

- La maggior parte delle volte sì, ma solo con le persone sbagliate. Mi sono circondata di avvoltoi travestiti da buoni amici. –

- Devi essere stata una persona molto sola. – La macchia scarlatta di sangue si allargò sul vestito di Hermione. Il buio, oltre i papaveri, oltre il soffio del vento, avanzava. – Continua. -

- Accompagnavo questo amico in un momento difficile il giorno in cui ci siamo incontrate e tu mi hai salutato. Eravamo fuori dall’aula giudiziaria. Magari non lo ricordi più, ma gli sono state mosse tante accuse i primi tempi, alcune vere e molte ingiuste. Tu invece eri un avvocato, e avevi fama di essere bravissima. E’ stato così che l’hai aiutato. –

Il dito di Hermione si macchiò di sangue non appena spezzò lo stelo di un altro papavero. Lei ritrasse la mano come se l’avesse punta.

Il buio avanzava, e divorava ogni cosa.

- Non abbiamo molto tempo – la esortò Hermione.

- Mi piacerebbe poter tornare a parlare con te, altre volte. Se a te va bene – aggiunse Karina.

- Convincimi con questa storia. Continua. –

Karina la guardò d’uno sguardo che era triste e dolce insieme. La guardava come la guardavano le persone che avevano pietà di lei.

- Tu non ricordi cosa hai fatto, vero? Il motivo per cui sei così. – Continuò a guadarla speranzosa, in attesa di una risposta, di un cenno, di un tentennamento. Sarebbe stato sufficiente.

Hermione continuò solo a raccogliere papaveri.

- Te l’abbiamo detto tante di quelle volte – aggiunse allora l’altra. – Ma tu non ascolti. Non accetti. Se solo una volta, se almeno per questa volta fossi tu, a dirmi cos’hai fatto, piuttosto che lasciare che siano altri a volerti convincere di un’idea… -

Hermione ammucchiò altri papaveri sul suo grembo e sul suo vestito ora rosso. Alzò gli occhi scuri in quelli ancora più profondi di Karina.

- Ho l’anima a pezzi – mormorò, e le lacrime giunsero immediatamente a pungerle gli occhi, aggiungendo altre lacrime alle lacrime, altro sangue al sangue. – Prima o poi il buio mangerà anche me. –

Karina le accarezzò leggermente il braccio. Non seppe cosa fare.

- Sembri molto giovane – le sussurrò allora. – Molto più giovane di come ti ricordo io. –

Hermione tirò su col naso. – Avere paura del buio fa tornare bambini. –

Il buio divorò ogni cosa. Inglobava il cielo nella sua nera gola di morte, eruttava pianti e urla che si perdevano nel vento, e poi divorava anche quello, e i papaveri, e il prato, e l’erba, e ogni cosa lì attorno. Karina prese le mani di Hermione.

- Forse non te l’ho mai detto, ma per un po’, tempo fa, ho pensato che saremmo potute essere amiche – le rivelò in fretta.

Hermione strinse quelle mani, le lacrime adesso le solcavano le guance. Il buio avrebbe fatto fuori anche quelle.

- Passavamo del tempo insieme, ogni tanto – continuò Karina. – Una volta, per il tuo compleanno, ti ho regalato un diario. Era orribile, non avevo neanche intenzione di farti un regalo, mi è solo capitato tra le mani in libreria e ho pensato di regalartelo. Avevo messo dentro un biglietto con un augurio, era abbastanza ridicolo, in realtà, non sembrava neanche un biglietto di buon compleanno. –

Strinse le mani di Hermione con più forza. Il buio spostò l’aria e il vento, e tutto si ridusse a una girandola di azzurro e rosso, come il cielo e il sangue. Al centro del vortice, Karina si rannicchiò sempre più vicina a Hermione. Dovette alzare la voce, quasi urlare, per sovrastare le tenebre e il vento.

- C’era scritto qualcosa riguardo allo riscrivere questa storia, perché forse, insieme, la si poteva rendere migliore – gridò. – Puoi trovare un finale diverso, dimmi cosa hai fatto, tanto non puoi più farci nulla. Ti puoi ancora salvare, se accetti quello che sei, devi solo uscire da questa fottuta ragnatela dentro la tua testa! –

Lo urlò così forte da riempire ogni cosa, e poi il buio mangiò tutto, con ingordigia e ferocia, Hermione sentì che la divorava, la faceva a brandelli, strinse la mano di Karina più forte, ma il buio divorò anche quella, divorò i papaveri. Divorò ogni cosa.

 

-

 

Si risvegliò nel letto della sua camera, nella casa dei suoi genitori, a Melbourne. Tra le dita stringeva ancora un papavero rosso.

Era uno di quegli orari indecifrabili, non c’erano orologi in quella casa e poteva essere piena mattina o primo pomeriggio o solo una notte in cui il sole avesse deciso di sorgere ugualmente.

Si alzò. Aveva le ossa doloranti e quel papavero ancora tra le dita. Lo posò sul comodino accanto a un bicchiere d’acqua, poi scese in cucina.

Doveva essere ora di pranzo. I suoi genitori erano seduti a tavola e non l’avevano aspettata per mangiare. Non avevano neanche apparecchiato per tre, mangiavano il loro tacchino commentando il notiziario senza degnarla d’uno sguardo.

- Vuol dire che farò da sola – borbottò Hermione, andando verso la cucina.

Rovistò nella credenza, negli sportelli, nei cassetti, nella lavastoviglie. Era un brutto vizio quello che aveva sua madre, di spostare sempre gli oggetti, perfino i piatti. Non li trovava da nessuna parte.

- Mamma! – urlò Hermione dalla cucina, gridando forte per farsi sentire. – Dove hai messo i piatti puliti? –

Nessuno rispose. Hermione chiamò ancora, sporse la testa per sbirciare oltre lo stipite e vide suo padre che versava del vino rosso nel bicchiere di sua madre. Brindarono a qualcosa e sembrarono felici.

Hermione non riusciva a credere che la odiassero a quel punto, ma un po’ lì capiva. Tornò in cucina e si sedette a tavola, dopotutto non aveva così fame.

- Oggi ho incontrato una persona – disse la ragazza. Sua madre la fissò dritto negli occhi, aveva un’espressione incolore, ma a Hermione la cosa parve sensazionale comunque. Poi si rese conto che si era seduta proprio davanti alla tv e le impediva di guardare, così si fece un po’ di lato per lasciare libera la visuale. Sua madre non diede segno di aver apprezzato il gesto.

- Mi passi l’insalata, Monica? – disse suo padre; era di buon umore, quel giorno.

Sua madre sorrise e gli passò la ciotola bianca vicino al suo piatto. Continuarono a parlare di politica, suo padre se la prendeva quasi con il giornalista per il servizio che stavano trasmettendo al momento.

Non volevano parlarle. Hermione ne rimase delusa, ma poteva prendersela con loro in qualche modo?

- Credo che… andrò a prendere un po’ d’aria – li informò allora Hermione, ma di nuovo loro fecero finta di nulla, così lei si alzò, rimise a posto la sedia, prese il cappotto dall’attaccapanni all’ingresso e uscì.

Si fermò sui gradini di fronte la porta di casa sua, e lì scoppiò a singhiozzare. La gente Dipinta non si accorgeva di lei.

Quando sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla, non ebbe bisogno di allontanare le mani dal viso per sapere che chi si stava sedendo di fianco a lei era Adam Lyrcoof. Ne riconobbe il tocco gentile, un’accortezza che non ci si sarebbe aspettati da quel ragazzo scostante, e quasi si sentì sollevata nel ritrovarlo lì.

- Problemi in casa? – chiese Adam. Non smetteva di guardarla, non avrebbe più smesso.

Hermione, per educazione, si asciugò le lacrime dal volto e si girò a guardarlo negli occhi. Annuì.

- Capita a tutti – commentò Adam. – A me succedeva sempre. –

- Sul serio? – Hermione sembrava più bendisposta dell’ultima volta. – Come hai fatto a superarli? –

- Mi hai aiutato tu – rispose semplicemente.

Erano vicini abbastanza perché Hermione potesse sentire il suo respiro. Le sarebbe bastato spostarsi di un soffio, anche solo un accenno. Non sarebbe occorso altro perché lui la baciasse.

- Credo di stare un po’ più male, rispetto all’ultima volta che ci siamo visti – gli confessò. – Va sempre peggio. I miei genitori non vogliono parlarmi, l’ho capito anche da come mi guardava Lester Paul Doghorns che tutto sta per crollare. –

- Lester chi? – chiese Adam, un po’ confuso.

- E’ tutto già scritto. Sta per finire adesso. Io sto per crollare adesso. Cosa credi che rimarrà di me, dopo? –

Adam non sembrava in grado di rispondere. La fissò scuotendo la testa in un diniego, che poteva voler dire che non ne aveva idea, o che non voleva pensarci, o che non lo riteneva possibile.

Qualunque cosa volesse dire, non ebbe grande importanza per quel che successe dopo. Hermione fu rapida nel poggiargli una mano sulla guancia e baciarlo, e poi lasciare che la sua mano calasse sconfitta sulla spalla di lui. Rimase così aggrappata ad Adam, mentre si baciavano, e lui non fece nulla per abbracciarla o stringerla a sua volta. Fu per generare in lui una sorta di risposta che evidentemente prese a baciarlo con più foga, strofinando la lingua contro quella di Adam con una voluttuosità che lui non le riconosceva, o forse non lo ricordava e basta, perché erano passati molti anni dall’ultima volta che l’aveva baciata per davvero, e il tempo altera i ricordi.

Quando, rassegnata, Hermione si ritrasse da lui, Adam non smise ancora di guardarla, con quegli occhi così grigi, di certo diversi da quelli ingannevoli di Lester, differenti ancora da quelli limpidi di Karina, solo tristemente cupi; ed era in quelli che Hermione più si riconosceva.

- Quando ti stancherai? – le chiese Adam in un sussurro. – Prima o poi dovrai dire basta. Vedi, è tutto qui, dentro la tua testa. C’è questo groviglio assurdo di finzioni che ti sei costruita con cura per fuggire da te stessa, ma c’è anche la verità… è tutto qui, davvero. Dovresti solo tirarlo fuori. –

Hermione si rabbuiò. – Cercate tutti di dirmi la stessa cosa. Ma non capite che non posso, io non posso… -

- Perché no? – sbottò Adam. – Cosa ti serve? Che cosa possiamo fare ancora per convincerti che… -

- Basterebbe una ragione – lo interruppe Hermione. – Una sola. Un motivo per cui tornare. –

Adam tacque un istante. – Beh, ce ne sono diversi… -

- Tu ci saresti? - intervenne ancora Hermione, prendendolo in contropiede. – Staresti ad aspettarmi? –

Quasi per ripagare alla freddezza di prima, quando aveva resistito passivamente al suo bacio, Adam fece per prenderle la mano, ma lei la ritrasse in fretta squadrandolo esigente e cattiva, in attesa della sua risposta.

- Sarò accanto a te quando ti sveglierai – le disse Adam.

- E dopo? – esortò Hermione.

- Dopo cosa? –

- Dopo. Dopo che mi sarò svegliata, che mi avrai fatto i complimenti, che mi avrai dimessa e riportata a casa. Dopo. -

Adam la guardò con occhi indecifrabili. Sembrava volesse dirle qualcosa, qualcosa che Hermione intuiva già.

- Potremo vederci ogni volta che lo vorrai – rispose. Non sapeva neanche se era tutta la verità.

- Vederci – ripeté Hermione scettica. – Vederci – scandì ancora, e questa volta il suo tono aveva una cadenza più cattiva.

- Tu ce l’hai una famiglia – le ricordò Adam, mettendo da parte l’accondiscendenza di prima.

- I miei genitori non vogliono parlare con me. Forse non vogliono neanche ricordare di avere una figlia. –

- Hai una famiglia oltre i tuoi genitori. –

- E allora perché sono qui? – gli urlò contro Hermione. – Perché dovrebbe essere diverso, dopo? –

Adam rimase inerte.

- Lo vedi? Tu non sai niente! – lo accusò. Aveva di nuovo gli occhi lucidi. Da qualche parte, sotto il faggio, la fontana dovette ruggire più forte. – E mi fai stare male – aggiunse in un singhiozzo.

Adam la guardò piangere per diversi minuti. Lei no si lasciava consolare né toccare, ogni carezza la percepiva come una coltellata.

- Hai delle persone a cui tieni, e per me è lo stesso. Stare insieme ti farebbe solo stare male,  abbiamo passato quell’età in cui si può mandare tutto a puttane. -

Hermione si morse le labbra a quelle parole. – Abbiamo passato anche l’età in cui si può essere felici?-

Lo guardava con una strana speranza negli occhi. Sapeva di supplica, negli occhi nascondeva la litania di una vecchia preghiera.

Salvami.

Per favore.

- Mezzosangue… -

- Non chiamarmi così! – strillò Hermione, quasi in preda al panico, mentre scattava a sedere. Teneva i pugni serrati. – Non so cosa significhi, non usare questo nome! –

- Sai benissimo cosa significa, significa che sei per metà babbana e per metà una strega – ringhiò Adam, esasperato da quella follia. – Non fingere… -

- Non so di cosa parli! – lo interruppe Hermione. – Non so cosa intenda tu per “strega”, io non ho fatto niente!

Ti prego per favore salvami.

- Sai benissimo cos’hai fatto, invece – insistette lui. Si avvicinò di due passi per fronteggiarla, lei indietreggiò d’istinto, alla fine lui con uno scatto e un po’ di forza la prese per le spalle, abbassando il capo all’altezza dei suoi occhi.

- Ragiona, ammettilo, e torna a casa. –

Ti prego.

- Mi dispiace – sussurrò Hermione, con gli occhi scuri offuscati dal pianto e la testa bassa per non guardare Adam in viso. Fu con lentezza che alzò lo sguardo, dopo alcuni secondi. Lui la scuoteva ancora per le spalle, le faceva male. – Io non ho fatto niente. Non so chi sei, non so di cosa parli. –

- Non mentire! – urlò Adam. – Devi uscirne, hai capito? La devi smettere di stare così! –

- Non ho fatto niente. –

Per favore.

- Accettare è l’unico modo che hai per salvarti. –

- Uccidimi -  gli bisbigliò allora, in un ultimo tentativo disperato.

Lui, curiosamente, sogghignò. – Lo sai che non posso. Sta tutto qui, il punto. –

- E allora esci fuori dalla mia testa! – gridò disperata, liberandosi con uno strattone dalla sua presa. Lui fu costretto a mollare per non farle altro male.

- Io…  - riprese Hermione, sul punto di continuare la frase, ma qualcosa la bloccò. Si portò le mani alla gola, come se le facesse male o non potesse parlare. Guardò Adam con rabbia, come se la colpa fosse sua. – Io… - tentò di nuovo, ma di nuovo si fermò.

Lui aggrottò la fronte, non capendo cosa le prendesse.

- Smettila! – gli urlò allora Hermione.

- Non sto facendo niente – obiettò Adam, studiandola con interesse.

- Sì, invece, mi stai facendo qualcosa! – gridò di rimando; la voce le morì in gola sull’ultima sillaba. – Sono io la Direttrice, tu sei solo un Forestiero, non puoi decidere! –

- Non ho la più pallida idea di cosa tu stia blaterando, ma qualunque cosa sia ti consiglio di calmarti – cercò di ribattere ragionevolmente lui, allungando un braccio per toccarla. Lei si fece indietro e quasi non inciampò sui suoi stessi passi.

- Io… - balbettò di nuovo, sforzandosi di portare a termine la frase. Niente. – Smettila di controllarmi – sputò allora d’un soffio, ogni sillaba le costava una fatica immensa.

- Te l’ho detto non sto facen… -

- Via! – urlò Hermione, quasi isterica e incredula. Le sue mani stringevano ancora la sua gola. – Va’ via, subito! –

- Senti, dovresti… -

- Vattene via! Vattene via adesso, voglio stare da sola! – ripeté ancora. Lo guardò supplichevole. – Vai via. –

Lui aveva ancora un braccio teso verso di lei. Rimase immobile a fissarla con i suoi incredibili occhi grigi, poi gettò il braccio lungo il fianco. Si arrese.

Hermione si gettò a sedere sui gradini, rannicchiandosi su se stessa. Abbassò lo sguardo, lo nascose tra le braccia, pianse. Quando tornò a guardare di fronte a sé, Adam Lyrcoof non c’era già più.

 

-

 

Rose chiuse il libro.

Era molto tardi e lei aveva sonno, così prese la candela e dalla scrivania la spostò sul comodino. Nascose il quaderno sotto un romanzo babbano di Jane Austen, si sfilò la gonna e la camicia e si infilò la maglietta grigia del pigiama. Qualcuno bussò alla sua porta. Chi diavolo era?

- Un attimo! – disse, con una certa stizza. Si infilò velocemente i pantaloncini e corse verso la porta, rischiando di inciampare sulle scarpe che aveva mollato in mezzo alla camera. Aprì d’uno spiraglio la porta.

- Scorpius – sospirò. Lui aveva una faccia seria e non sembrava mostrare alcun accenno di sonno.

- Sei occupata? – domandò cortesemente il ragazzo, senza accennare a muovere un passo.

- Se dormire è un’occupazione sì, sono terribilmente impegnata – borbottò scocciata lei. Poi però aprì ugualmente del tutto la porta. – Entra – disse infine, facendosi di lato per farlo passare e richiudere senza far rumore. Scorpius mosse qualche passo nella stanza, lo sguardo che vagava ora sui vestiti abbandonati sul letto, ora sul baule che traboccava di libri e indumenti, ora sulla scrivania che recava le tracce di alcune gocce di cera. Si domandò se fosse abitudine di Rose rimanere sveglia a leggere o scrivere fino a notte fonda.

Inizialmente lei fu quasi un po’ in imbarazzo per il disordine, soprattutto perché sapeva che Scorpius era una persona ordinata, sempre nei limiti imposti dalla sua appartenenza al genere maschile, così tolse in fretta i vestiti dal letto e li adagiò su una sedia. Scorpius si sedette sul letto senza troppi complimenti. Lei, alla fine, fece lo stesso, raggiungendolo e sedendosi di fronte a lui a gambe incrociate. Era pur sempre il suo miglior amico, non c’era bisogno di chiedere scusa per essere una disordinata patologica.

- Mi sembrava che non stessi tanto bene, prima – cominciò lui. Guardandolo meglio, Rose notò che somigliava in maniera incredibile a suo padre. Pensò che lei avrebbe voluto somigliare a Hermione anche solo la metà di quanto Scorpius somigliava a Draco, e invece era una strega mingherlina dagli occhi chiari e i capelli rossi, disordinata, festaiola e per giunta Serpeverde. Da sua madre sembrava aver ereditato solo un amore sconsiderato per le parole scritte e i libri.

- Mal di stomaco – inventò di sana pianta, perché non aveva voglia di mettersi a dare spiegazioni. Lui dovette percepirlo subito, e Rose ebbe l’impressione che la cosa un po’ gli dispiacesse; evidentemente, chiedere spiegazioni era invece l’esatto motivo che l’aveva spinto a cercarla.

- E’ vero che stai con Marlene Higgs? – chiese Rose di punto in bianco, un po’ perché voleva cambiare argomento, un po’ perché la curiosità la divorava.

Lui sembrò stupito, ma non lo diede molto a vedere. – Come mai me lo chiedi? –

- Beh, mia cugina Molly, sai, quella del quarto, con i capelli rossi, cioè, lo so che praticamente quasi tutte le mie cugine hanno i capelli rossi, comunque lei… -

- Voi femmine siete così pettegole – la interruppe disgustato Scorpius.

- Io non sono pettegola – si difese Rose. Però lui non aveva negato, cattivo segno, ma non aveva neanche confermato, il che era un bene, o no?

Non parlava mai con Scorpius di ragazze. Sapeva che ne aveva avute diverse, e anche parecchie, ma per quello non c’era bisogno che glielo confidasse lui, bastava fermarsi nel bagno delle ragazze qualche minuto nel cambio tra una lezione e l’altra e subito si faceva una cultura su chi si sbatteva chi nel castello. Non sempre era un bene, soprattutto se, ad esempio, veniva a sapere che la sua compagna di dormitorio si era fatta suo cugino, quel cugino che considerava un po’ come un fratello. Il fatto di per sé non avrebbe avuto nulla di traumatico, se solo non fosse stata costretta ad apprendere tutta una serie di dettagli che avrebbe preferito di gran lunga ignorare, in modo da non doversi sentire in imbarazzo alla presenza di Al per i due giorni successivi.

Con Scorpius era diverso. Non era esattamente gelosia, la sua, era solo che sentiva di poter reclamare su di lui alcuni diritti che non le andava di condividere con altre, quali, ad esempio, poterlo abbracciare senza motivo quando le pareva, accudirlo quando finiva in Infermeria per una caduta dalla scopa, poterlo prendere in giro con Albus facendolo arrabbiare, bere dal suo bicchiere, all’occorrenza scompigliargli i capelli, che era una cosa che lo mandava davvero su tutte le furie, e tante altre minuscole cose che non avrebbe sopportato di veder fare ad altre ragazze.

E quella no, non era assolutamente gelosia. Era… qualcos’altro, che al momento non avrebbe saputo con esattezza come definire, ma non era essere gelosa, lei non era gelosa di Scorpius.

- Quello che è venuto fuori a tavola prima, di tua madre e di Lestrange… non ne sapevo davvero nulla – insistette Scorpius, accantonando l’argomento Marlene, che Rose quasi preferiva a quello appena preso. – Il che è curioso, considerato che lui era lo zio di mio padre – aggiunse.

- Ed è ancora più curioso considerato che c’era anche tuo padre in quell’aula, quel giorno – aggiunse Rose. – Lestrange gli aveva rivolto parecchie accuse, credo, comunque alla fine del processo è risultato innocente, soprattutto dopo che suo zio ha cominciato a ribellarsi e a minacciare tutti di morte – continuò. Non aveva voglia di parlarne, però le sembrava giusto specificarlo.

- Questo lo so – disse Scorpius. – Quello che non sapevo è che mio padre avesse assunto come avvocato tua madre. –

Rose fece spallucce. – Io l’ho sentito dire a mio zio Harry. –

Calò il silenzio. Si fissarono per diversi istanti, mentre la fiamma della candela cominciava a languire.

- Sai… - Rose fu incapace di continuare a reggere lo sguardo, mentre parlava. – Sapere che tua madre si è suicidata perché non era felice credo che sia una delle cose più brutte che possano capitare a un figlio – mormorò.

Quando provò ad alzare lo sguardo trovò che Scorpius la guardava, non sembrava a disagio, lui. Questo le diede il coraggio di continuare.

- Come dire che noi non eravamo abbastanza per renderla felice. Tutta la sua vita era questa, certo c’era il suo lavoro, e devo ammettere che l’uccisione di Lestrange le ha causato non pochi problemi, intanto per la sua carriera, e poi qualcosa è cambiato in lei, dopo… Ma per tutto il resto eravamo solo noi. Papà, Hugo e io. Era il compleanno di mio fratello. Era stata una bella festa. E io non ho mai capito niente, ho sempre pensato che andasse tutto bene tra di noi, anche quando era distante, fredda, mi dicevo solo che era stanca, lei era sempre stanca, o stressata, ma era fatta così, non c’era nulla di strano, no? –

Aveva abbassato di nuovo lo sguardo. Scorpius per un attimo temette che avesse gli occhi lucidi, così le passò con cautela una mano tra i suoi lunghi capelli rossi, e poi sulla guancia, costringendola a guardarlo. Un po’ lo sorprese vedere che Rose non piangeva affatto, anzi aveva uno sguardo ferreo, e la sua voce non era per nulla incrinata.

- Hai idea di cosa significhi sapere che tua madre abbia preferito uccidersi piuttosto che pensare che c’ero io, c’era sua figlia, e che questo sarebbe dovuto essere un motivo sufficiente per non ingoiare quelle pillole? –

Era incredibilmente ferma, e aveva una durezza insostenibile nella voce e nello sguardo. Sembrava più arrabbiata che triste. Non per questo le sue parole fecero stringere di meno le viscere a Scorpius, che continuò ad accarezzarle il viso. Fu un momento strano, un po’ surreale, uno di quegli istanti che Albus avrebbe riassunto con un “e adesso che accidenti sta succedendo?”, solo che era perfettamente chiaro cosa stava succedendo, e Rose ritenne più saggio riscuotersi e scostarsi prima che Scorpius si avvicinasse di più.

Lui allontanò la mano in fretta, e ancora una volta non sembrò imbarazzato. Rose un po’ lo invidiò per questo.

- Senti, se vuoi io posso… - cominciò lui, ma Rose lo precedette.

- Rimani qui a farmi compagnia? – domandò. – Solo per stanotte. –

Rimasero svegli fino a quando non si consumò la candela. Poi, nel buio rassicurante, scivolarono entrambi sotto le coperte, e Rose si sentì serena quando, osservando con occhi spalancati il soffitto, poté trovare conforto nello stringere la mano di Scorpius sotto le lenzuola.

Le sembrò una cosa tremendamente giusta e naturale da fare, senza ripensamenti, senza ulteriori imbarazzi, perché si trattava del suo migliore amico e non c’era nulla di imbarazzante nel volere tanto bene a una persona. Continuò a ripeterselo anche mentre si sdraiava su un fianco, ritrovandosi faccia a faccia con Scorpius, e anche se non poteva esserne sicura in quel buio sapeva che lui non aveva chiuso gli occhi, ma la stava osservando. Ne ebbe conferma dopo, quando Scorpius le strinse un braccio attorno alla schiena, e fu una cosa naturale, naturalissima, cadere nel sonno abbracciata a lui, naturale come respirare, come morire, come vedere i propri sogni infrangersi e ritrovare nei suoi incubi quella madre che non l’aveva amata abbastanza per sopravvivere.

  
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