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Autore: My Pride    26/01/2012    4 recensioni
Ho veduto più di quanto io stesso abbia mai voluto vedere.
Desideri, sogni, promesse ed incubi: per quanto apparisse orribile, tutto ciò era meraviglioso.

Sorrise e si accucciò contro il bancone di legno del bar, apparendo ai miei occhi come un grosso felino compiaciuto. E quegli occhi che possedeva accentuarono quel paragone. «Piuttosto, ti piacerebbe riuscire a dar vita a ciò che immagini, scrittore?» mi domandò, lasciando cadere le formalità iniziali.
Non fu quello ad accigliarmi, bensì le sue parole. Sbattei dunque le palpebre, incredulo. «Ti sembra forse che io abbia scritto fesso in faccia, amico?»
[ Prima classificata al contest «Origami di carta» indetto da Fe85 ]
[ Vincitrice del Premio grammatica al contest «Voglie estive di gustose letture» indetto da aturiel ]
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Tschuess_3
ATTO III: ST. LOUIS › LUGLIO 2008
PATTO COL DIAVOLO O SEMPLICE SUGGESTIONE?
 
    L’orologio che avevo al polso segnava esattamente le undici e mezza del mattino.
    Non me l’ero sentita di fare colazione a casa da solo, dunque ero uscito per dirigermi alla caffetteria nei pressi di Park Avenue, aperta fino alle dieci di sera nei giovedì come quello. A dirla tutta non andavo pazzo per la Gooey butter cake
 [1] che servivano lì - dovevo ammettere a me stesso, però, che la White Chocolate Blueberry era piuttosto invitante -, ma il caffè era il massimo e valeva davvero la pena guidare fin lì per gustarselo.
  Me ne stavo seduto ad un tavolo in solitudine, con una bella tazza fumante in una mano e una stilo in un’altra. Con il cappuccio della penna, picchiettavo distratto i fogli miseramente bianchi di un block notes mentre lo sguardo vagava svogliato sulla restante clientela come se essa, in qualche modo che non comprendevo, potesse scuotermi da quel bizzarro stato di inerzia. Forse ciò che mi aspettavo realmente era che mi dessero l’ispirazione di cui avevo bisogno. Il guaio, però, era che essa non si decideva ad arrivare. La strana sensazione che sentivo ogni qual volta tentavo di abbozzare qualcosa era indescrivibile: le idee ronzavano nella mia testa come un alveare di api al sole, sfrecciando contro le pareti del mio cervello ad una velocità pazzesca e a dir poco insostenibile; per quanto ciò accadesse, però, non appena tentavo di poggiare la punta della penna sul foglio, esse si volatilizzavano come fumo.
    Quando riuscivo a scendere a patti con me stesso, la situazione era ancor peggiore. Avvertivo dentro di me come una sorta di vuoto, una sensazione sgradevole simile a quella di un attacco di panico, giacché ogni qual volta provavo anche solo ad abbozzare qualcosa, persino la cosa più stupida che potesse venirmi in mente, venivo colto da uno stato d’ansia difficile da scacciare, sentendo come se mi mancasse in seguito il respiro o stessi per precipitare inesorabilmente nel vuoto. Era la parte peggiore del mio lavoro, quella, anche perché il mio cuore cominciava a battere velocemente e a farmi dolere il petto. Secondo il medico quello era soltanto un sintomo dettato dalla mia testa, una semplice suggestione, insomma. Non avevo assolutamente niente che non andasse, almeno a livello cardiaco.
    Il suono della sirena dei pompieri si fece largo fra i miei pensieri, richiamando così la mia più completa attenzione. Volsi lo sguardo verso la vetrata nel momento stesso in cui l’autovettura sfrecciò dinanzi ad essa, diretta verso l’East St. Louis. Un altro incendio, maledizione. Da quando l’estate era iniziata, capitava così spesso che Butch, facente parte della terza unità dei vigili del fuoco, passava più tempo in servizio che a casa.  Per quella settimana la sua serata libera se l’era già giocata alla grande, ed io non ero poi stato di così gran compagnia.
    «A quanto pare le coincidenze esistono, signor scrittore». Al suono di quella voce, alzai lo sguardo con fare interdetto, sbattendo più volte le palpebre nel ritrovarmi a fissare gli occhi dorati del tipo che avevo conosciuto al Sub Zero. Sorrideva affabile come non mai, simile ad una persona che aveva appena rivisto un vecchio e carissimo amico che non incontrava ormai da anni. «Non è cosa da tutti i giorni trovare scrittori piuttosto famosi come lei in un posticino come questo, d’altronde».
   Incredulo, abbandonai la tazza di caffè sul tavolino; guardai poi a destra e a manca, quasi non credessi alla sua presenza, vedendolo accomodarsi dinanzi a me senza che io gli dessi il permesso di farlo. «Chi è lei?» riuscii infine a chiedere in un soffio, e lui si accigliò, scoppiano in seguito a ridere divertito.
    «Ha ragione, come sono sbadato». Si portò una mano al petto con fare elegante, sfiorandoselo appena con due dita affusolate; con esse si toccò poi la fronte e chinò di poco il capo, sorridendo maggiormente. «Connor Barnes, signor Randall. Più che lieto di fare la sua conoscenza».
    Adesso avevo un nome, almeno. Ma ciò non spiegava ancora niente. «Cosa vuole esattamente da me, signor Barnes?» chiesi poi. «L’altra sera, al Sub Zero... ha detto che il potere delle parole non ha limiti. Che cosa intendeva dire?»
    «Deve solo cominciare a credere a ciò che lo ho detto, signor scrittore», rimbeccò in tono affabile. «Se cominciasse a crederci, tutto le risulterebbe più facile di quanto non sia adesso, e comprenderebbe anche in pieno le mie parole». Si sporse verso di me, poggiando i gomiti sul bordo del tavolino come se volesse sorreggere il peso del proprio corpo. «Tenga conto anche di ciò che le succede intorno, signor scrittore. Quell’incendio che i vigili stavano correndo a spegnere, ad esempio... lo prenda in considerazione». Lo vidi gettare un rapido sguardo al mio block notes prima di riportare lo sguardo su di me, sorridendo cordiale nel momento stesso in cui si alzò. «Non punti ad un seguito di un suo precedente racconto, signor scrittore. Dia soltanto vita ad una storia completamente nuova ed entusiasmante».
    Troppo intento nel vederlo aggirare il tavolino e allontanarsi, ci misi un po’ a rendermi conto di ciò che aveva appena detto. Sgranai gli occhi e mi alzai in piedi a mia volta, sbattendo entrambe le mani sul tavolino inconsciamente; così facendo feci tremolare la tazza, e ci mancò poco che il caffè si rovesciasse. «E lei come fa a sapere queste cose?» gli gridai contro, richiamando in questo modo l’attenzione della restante clientela. Non me ne curai, concentrato unicamente su quel tipo che, voltandosi di poco, si limitò a sorridermi.
    «Scriva, signor scrittore, scriva», replicò. «Le risposte arriveranno presto».
    Ciò detto, mi salutò con un cenno del capo, incamminandosi tranquillo fuori dal locale sotto il mio sguardo sbigottito. Boccheggiai e tornai a sedere, fissando i fogli bianchi senza curarmi dei borbottii sconnessi che avevano cominciato a risuonarmi nelle orecchie. Che cosa diavolo stava succedendo? Era mai possibile che dal momento in cui avevo incontrato quell’uomo per la prima volta, intorno a me stessero accadendo cose impensabili?
    Mi infilai una mano in tasca e tirai fuori il mio flacone di medicinali, stringendolo forte nel palmo pima di socchiudere di poco gli occhi. Non poteva essere a causa dell’interruzione dell’assunzione del farmaco, mi rifiutavo di crederlo. Stava succedendo qualcosa, lì, sebbene non sapessi ancora che cosa. Ma avrei cercato di capirlo al più presto, a cominciare dall’apparizione di Connor Barnes.
    Tornai a casa solo dopo le sei e mezza passate. Avevo trascorso tutto il sacrosanto giorno fuori, certo che non avrei comunque trovato nessuno ad attendere il mio ritorno. La prima cosa che avevo fatto era stato ascoltare la segreteria telefonica, trovando un messaggio di Butch in cui mi diceva che, sorpresa, sarebbe tornato solo a sera tarda poiché avrebbe fatto il doppio turno. Mi ero poi diretto in camera per prendere un cambio, facendomi una doccia veloce prima di chiudermi nel mio studio. Ed ero lì seduto alla mia solita postazione, adesso, con il computer miracolosamente acceso.
    Non sapevo nemmeno da dove cominciare, ad essere sincero. Avevo aperto un foglio Word e avevo guardato per tutto il tempo la tastiera, l’orecchio teso nel caso di uno squillo del telefono. Ammettevo che avevo ancora il timore di ricevere un’altra strana chiamata come sere addietro, ma fortunatamente dopo quella volta non era più successo. Potevo quindi concentrarmi senza problemi sul mio racconto, però ero ancora bloccato. Dannazione, era difficile anche solo andare avanti.
  Sbuffai e, mettendo finalmente mano alla tastiera, pigiai i tasti per scrivere almeno la prima parte del racconto che avevo su carta, imprecando a denti stretti già alla seconda riga. Selezionai tutto con il mouse e premetti backspace per cancellare, tornando a fissare con un certo disappunto quella maledetta barra lampeggiante. Avrei forse dovuto prendere in considerazione le parole di quel tipo, Connor, e scrivere davvero tutt’altra trama? Non lo sapevo, ma lasciai semplicemente che fossero le mie dita a guidarmi e a decidere per me.
    Era affascinante assistere al tripudio di dorato e arancio che si levava da quell’abitazione in fiamme.
    Mi fermai di botto e sbattei più volte le palpebre, accigliandomi. Perché avevo davvero cominciato con un incendio? Non seppi darmi una risposta ancora una volta, però provai comunque su quella strada. Ripresi a scrivere, ignorando ogni rumore che sembrava librarsi intorno a me.
    Il terribile fetore della plastica bruciata si mescolava con quello del legno massello e del grasso umano, scendendo in gola come fuoco vivo; le urla delle persone intrappolate in quel maledetto inferno squarciavano la notte, sovrastando il suono delle sirene e le grida disarticolate dei vigili del fuoco. E lui, lì nascosto in mezzo alla restante folla che assisteva con il cuore in gola e un grido strozzato intrappolato fra le labbra, osservava compiaciuto la grandiosa opera che aveva realizzato, quel quadro degno di un impressionista, quel palazzo che si accartocciava su se stesso come carta, portando con sé vite innocenti.

    Le dita volavano sulla tastiera senza che io le comandassi, libere come non lo erano mai state. Sembrava quasi che non dovessi soffermarmi a pensare, che esse sapessero già cosa stesse dettando loro il mio cervello prima ancora che potessi saperlo io stesso. Il ticchettio insistente dei polpastrelli sui tasti era ormai divenuto come una bassa melodia, una melodia che aveva riempito le mie orecchie e cancellato tutto il resto.
    Un boato fendette l’aria, provocando un’esplosione che fece vibrare le pareti infuocate come fossero di cartapesta; al piano di sotto, Trevor ebbe appena il tempo di alzare lo sguardo prima che una trave...
    Un momento. Volevo davvero far morire uno dei buoni sin dal principio, per di più in quel modo? Ci riflettei un po’ su, con le mani sospese a mezz’aria sulla tastiera lucente e la fronte aggrottata. Beh, di certo la cosa avrebbe dato quel fondo di verità alla trama. I pompieri rischiavano la loro vita ogni singolo giorno, e, per quanto mi dispiacesse, avevo bisogno di scrivere tutto nel minimo dettaglio. Dunque qualche sacrificio si poteva anche fare, se la trama avrebbe in seguito decollato come volevo. La cosa assurda era la nitidezza con cui mi sembrava di vedere le immagini mentre scrivevo, e ne approfittai più che potei prima che l’ispirazione, donna infida e voltagabbana, mi abbandonasse.
    Al piano di sotto, Trevor ebbe appena il tempo di alzare lo sguardo prima che una trave gli cadesse addosso.

    «Trevor!» gridò Chris, correndo verso di lui nel tentativo di aiutarlo. Il fumo gli annebbiava la vista e gli infiammava la gola, ma, più delle ustioni, a fargli male fu vedere le fiamme divampare dinanzi ai suoi occhi, avvolgendo Trevor inesorabilmente.
    Fu difficile capire con esattezza quanto tempo passai lì seduto a scrivere, quella sera. Era come se l’ispirazione che mi ero tenuto dentro fino a quel momento fosse uscita tutta insieme, permettendo così che quella nuova storia prendesse vita a poco a poco, surclassando la mia idea di scrivere un seguito su Montgomery Jane. E mi resi conto di aver scritto ben sette capitoli solo quando lo squillo del telefono mi fece sobbalzare. Il cuore cominciò a pompare a mille e quasi mi mancò il respiro, ma mi diedi immediatamente dell’idiota e cercai di rilassarmi, alzandomi con circospezione anche per abituare le gambe ormai anchilosate. Non dovevo farmi prendere dal panico per ogni minima cosa, accidenti. Dovevo piantarla e darmi una calmata.
    Raggiunsi il telefono al quinto squillo, e, alzando la cornetta, fui lieto di sentire che quella era la voce di Butch. «Jake». Mi resi ben presto conto che il tono con cui aveva pronunciato il mio nome era lugubre e teso, e persi un battito prima ancora che potesse dirmi altro. Perché avevo come la sgradevole sensazione che fosse successo qualcosa? «Stasera non... non torno a casa, okay? Passerò la serata in ospedale. Mike e Tom sono... loro... oh, cazzo». Il crepitio della cornetta fu come il graffiante suono di unghie contro la lavagna. «Mike e Tom sono rimasti gravemente feriti».
    Deglutii sonoramente, sentendomi mancare. Mio Dio... Mike e Tom? «Dimmi in che ospedale li hanno portati, Butch, vi raggiungo subito», replicai di slancio, quasi non riuscissi a credere a ciò che mi aveva appena detto. Sapevo che in quel lavoro non c’era mai niente di certo, ma mi rifiutavo di pensare che fosse successo qualcosa proprio a loro.
    «Kenneth Hall Regional Hospital, sulla 129a nell’East St. Louis», sussurrò con voce tremante, senza darmi ulteriori informazioni. Ma già il semplice fatto che si trovassero oltre il fiume voleva dire troppo. «Reparto terapia intensiva».
    «Sono... così gravi?» pigolai, sentendo solo un suono simile a vetro spezzato.
    «Lo saresti anche tu con ustioni di secondo grado e un’asta d’acciaio conficcata nello stomaco, Jake», disse solo in tono duro, riagganciando subito dopo.
    Io, però, a quella scoperta lasciai cadere pesantemente la cornetta senza nemmeno rimetterla a posto, sbarrando gli occhi. Il terzo capitolo del mio racconto si concludeva proprio in quel modo. Era... era impossibile, maledizione. Non poteva essere successa realmente una cosa del genere.
    Mi sentii le gambe deboli e mi accasciai sul pavimento, portandomi una mano al petto nel sentire il respiro velocizzato. Boccheggiai alla ricerca d’aria, dovendo frugare nelle tasche per cercare le mie medicine, così da evitare complicanze. Era stata colpa mia. Era stata solo colpa mia se 
Michael e Thomas erano in ospedale. Non poteva trattarsi di una semplice coincidenza, non era umanamente possibile che capitasse una cosa del genere proprio quando io stesso avevo ricominciato a scrivere. Il potere delle parole non ha limiti, mi aveva detto quel tipo. Dannazione!
    Con le lacrime agli occhi per la frustrazione, la rabbia e il dolore, in quel momento desiderai solo di sparire.
 



   

[1] Tipo di dolce tradizionale nella città di St. Louis.
Generalmente è servito come un tipo di torta da caffè e non come un dolce qualsiasi.




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