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Autore: Northern Isa    30/01/2012    6 recensioni
Dopo la sua rinascita, Voldemort incarica i Mangiamorte di raccogliere seguaci. Thorfinn Rowle e Fenrir Greyback saranno incaricati di tornare in Svezia, la loro terra natale, per convincere i Giganti ad unirsi al Signore Oscuro. Ma Thorfinn sarà costretto a confrontarsi con un passato che aveva cercato di dimenticare.
Prima classificata e vincitrice del premio originalità al contest Morsmordre di Princess of Slytherin, giudicata da saramichy
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Fenrir Greyback, Mangiamorte, Voldemort
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Età di venti, età di lupi.'
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Capitolo 3

Rievocando i ricordi della mia infanzia, sentii la rabbia montarmi nel petto, fino ad esplodere quando la mia memoria tornò al mio diciassettesimo compleanno. Mi alzai di scatto dal divano e iniziai a percorrere il mio soggiorno, cambiando bruscamente direzione, come se fossi stato una fiera chiusa in gabbia. Erano passati quattordici anni, eppure ogni immagine, ogni sensazione, bruciava ancora intensamente, come carne viva esposta all’aria. Dai sorrisi di mio padre mentre mi porgeva il ciondolo a forma di Drakkar, dalle sue parole ispirate, mai avrei potuto cogliere cosa stesse meditando di fare veramente. Perché aveva dovuto illudermi con la prospettiva di tornare a Fagersta con lui e con mia madre, quando neanche una settimana dopo era fuggito, senza voltarsi indietro? Da quando quel maiale andò via, non ebbi mai più notizie di lui. Non l’avrei mai perdonato per ciò che aveva fatto a mia madre.
Terminati gli studi, mi feci assumere alla Gringott e lasciai la casa dei miei nonni. Non volevo più vivere in un luogo in cui dietro ogni angolo vedevo l’ombra di mia madre. Per il resto, condussi la mia esistenza fingendo di non aver mai avuto un padre. E avrebbe anche funzionato, se solo il Signore Oscuro non mi avesse incaricato di tornare in Svezia, pensai colpendo un tavolo con un pugno con tanta forza da farlo tremare. Non avrei mai potuto prevedere che la strada che avevo intrapreso come Mangiamorte mi avrebbe costretto a confrontarmi con un passato che avevo cercato in tutti i modi di negare e di dimenticare.
Un deciso bussare alla porta mi distolse dai miei pensieri. Quando andai ad aprire, scorsi Fenrir Greyback sulla soglia.
-Diavolo, hai una cera orribile. Che ti è successo?- mi salutò cordialmente.
-Fatti gli affari tuoi.- lo invitai altrettanto cordialmente ad entrare.
Con pochi passi decisi, il lupo mannaro fu nel mio salotto, dopodiché si stravaccò senza chiedere il permesso sul mio divano, poggiando gli anfibi sudici di fango su un tavolino.
Non che tenessi particolarmente alla mia casa, per me era solo un posto dove vivere. Senza protestare, andai a sedermi di fronte a lui. Fenrir parve contemplare per qualche istante la serie di corna che avevo appeso alla mia parete; presto però si riscosse e tornò a concentrarsi su di me.
-Allora? Sei pronto?-
Risposi con un irritato suono gutturale, abbandonandomi sullo schienale della poltrona.
Lui sapeva di mio padre. Cambiò posizione, andando a sedersi sul limite del divano, posando mollemente le braccia sulle ginocchia, e fissandomi incuriosito e vagamente divertito.
-Questo che cosa vuol dire?-
-Lo sai benissimo che vuol dire, Fenrir.- risposi seccato, alzandomi in piedi e riprendendo a camminare nervosamente.
Di contro, il lupo mannaro si sentiva perfettamente a suo agio.
-Non capisco che cosa ti turba.- ribatté tranquillamente, iniziando a pulirsi i denti aguzzi con un’unghia.
Con uno scatto gli fui davanti, talmente vicino al suo viso da sentire l’odore di rancido che emanava. Fenrir trasalì.
-Lo sai che cosa significa tornare in Svezia per me,- ringhiai, -non fare il finto tonto.-
Mi allontanai altrettanto repentinamente, senza però smorzare il mio tono rabbioso.
-A te piacerà pure tornare a Fagersta, ma certo, prendila come una gita scolastica. Sarà divertente, come no. Prendiamo questa missione con leggerezza, in fondo è come se il Signore Oscuro ci avesse mandati a comprare le sigarette dietro l’angolo. Forse ci sono un paio di cose che non ti sono chiare: innanzitutto tu non devi tornare nella terra del padre di cui non hai notizie da quattordici anni, inoltre prendere contatto con gli Jotnar non sarà facile!-
Fenrir seguitò a tacere dopo il mio sfogo, il sorriso sghembo gli era scomparso dalle labbra. Con aria seria, esordì:
-Adesso falla finita.-
Sapevo che non meritasse tutto quello che gli avevo detto, ciononostante continuai a fissarlo con le narici dilatate e il respiro ansante.
-So che si tratta di una missione importante, cosa credi? Ci siamo uniti al Signore Oscuro da poco, questa è l’occasione che aspettavamo per dimostrare il nostro valore. Non dobbiamo fallire, lo so, neanche se sarà difficile. Lascia perdere tuo padre, non ha niente a che fare con la nostra missione. Devi rimanere concentrato sugli Jotnar, è chiaro? E su nient’altro.-
-Già,- sibilai per tutta risposta, -e come credi che li raggiungeremo? Io manco dalla Svezia da una vita, tu comunque da un paio d’anni. Abbiamo bisogno di aiuto per trovare anche un solo Jötunn, e mio padre è l’unica conoscenza che ci è rimasta per metterci in contatto con loro.-

Il mio fiato si condensava in nuvolette perlacee che spiccavano sullo sfondo della notte nera. Accanto a me, Dolohov tremava, ma io mi sentivo rinvigorito, come finalmente sveglio dopo un lungo sonno. Eravamo l’uno di fronte all’altro, le schiene aderenti a scabrosi tronchi d’albero. Tendevamo i colli verso alcuni fuochi appiccati ai piedi del promontorio sul quale ci trovavamo: figure nere, alte e minacciose si stagliavano contro le fiamme, dandoci le spalle. Alcuni mucchi più scuri della notte, in quanto non raggiunti dai bagliori sprigionati dal fuoco, suggerivano che si trattasse di un agglomerato di tende e baracche. Alcune urla risuonarono in lontananza, portate alle nostre orecchie dal vento. Non avevano nulla di umano.
Distolsi lo sguardo dalle ombre delle figure, che si allungavano per molti piedi sul terreno brullo, per guardare il Mangiamorte di fronte a me. Antonin Dolohov era uno dei maghi più capaci e fedeli al Signore Oscuro, ero onorato di essere stato assegnato a lui. Quando mi accorsi del cenno del capo che mi rivolgeva, trattenni il fiato. Entrambi scivolammo con cautela lungo il promontorio, sgusciando come le ombre tra le quali cercavamo di confonderci. Quando giungemmo alle spalle delle nere figure di fronte al fuoco, queste quasi non si accorsero di nulla. Vedere i loro volti ferini e deformati dalle frequenti trasformazioni non produsse in me alcuna reazione, eccezion fatta per un impercettibile sollevamento del labbro superiore. I lupi mannari tacquero improvvisamente nell’istante in cui scorsero i nostri volti, illuminati dai bagliori del fuoco. Dolohov mosse un passo nella loro direzione, austero, ma non minaccioso. Io rimasi dietro di lui.
-Il mio nome è Antonin Dolohov. Vorrei parlare con il vostro capo.-
La voce era calma, ma il suo tono non ammetteva repliche. Un mormorio innervosito percorse i lupi mannari davanti a noi. Sembravano tutti interrogarsi sull’identità dei nuovi arrivati, le femmine in particolare erano propense a cacciarci subito. Tra le tende, qualcosa si mosse: un brandello di tessuto era stato sollevato per lasciar passare un lupo mannaro più grande di tutti gli altri raccolti intorno al fuoco. Incedeva lentamente, sembrava non avere nessuna fretta. Si posizionò davanti al fuoco a gambe larghe, i pugni sui fianchi. In controluce, non riuscii a scorgere immediatamente il suo volto.
-Chi siete, e che cosa volete?- latrò minaccioso.
Dolohov si ripresentò, utilizzando lo stesso tono fermo di prima. Il lupo mannaro lo squadrò per qualche istante, dopodiché proruppe in una risata fredda e selvaggia.
-Che cosa ci fate da queste parti? Non lo sapete che questo è il territorio dei mannari? Quei galantuomini del Ministero è qui che ci hanno relegato.- aggiunse poi con tono più cupo.
Gli altri lupi mannari si unirono alla sua risata, il capo continuò, più aggressivo:
-Andatevene immediatamente, se non volete che io dia ordine alla mia gente di saltarvi addosso e sbranarvi.-
Fu un attimo. Con una rapidità che non avevo mai visto in nessuno, Dolohov sguainò la bacchetta, e un istante più tardi si trovava contro il lupo mannaro: con la mano sinistra gli tirava la chioma grigiastra, costringendo il suo capo all’indietro, con la destra gli puntava la bacchetta sulla gola scoperta. Gli altri lupi mannari iniziarono ad agitarsi intorno a noi, muovendosi minacciosamente nella nostra direzione.
-Non farei così tanto lo spaccone se fossi in te, lupo! Noi siamo Mangiamorte, imparerai a temerci prima di quanto immagini.- sibilò contro il capo del clan, strattonandolo ancora. In quella posizione, riuscii ad intravedere il suo volto alla luce delle fiamme.
-Ma tu sei…-
Due lupi mannari di grosse dimensioni si erano portati ai lati di Dolohov; il mago avrebbe attaccato prima di loro, ne ero sicuro. A meno che…
-Un momento, fermi!- urlai, affiancandomi al Mangiamorte.
I lupi mannari si immobilizzarono, con i denti ancora scoperti in un ringhio sommesso. Dolohov attese qualche secondo prima di lasciare andare il capo. Mi avvicinai a lui, mentre questi mi fissava con timoroso astio. Quando mi riconobbe a sua volta, sollevò le sopracciglia in un’espressione sorpresa.
-Rowle? Non ci posso credere, sei Thorfinn Rowle?-
Quanti anni erano passati. Ci abbracciammo con fare cameratesco di fronte allo stupore dei presenti.
-Non sapevo che il capo clan fosse Fenrir Greyback!- spiegai ad un interdetto Dolohov, -Siamo entrambi originari di Fagersta, in Svezia; lui è una mia vecchia conoscenza. Non mi aspettavo di rivederti.- dissi rivolto a Fenrir.
Successivamente, non fu difficile per noi convincere i lupi mannari a schierarsi dalla parte del Signore Oscuro.


Quando misi il primo piede in terra scandinava, mi sarei aspettato di provare chissà quale spaventosa e conturbante emozione, ma non accadde nulla del genere. Fenrir sbuffò nella mia direzione, come a volermi sfidare ad aprire bocca su quello che sapeva stessi pensando. Lo ignorai, concentrando la mia attenzione sul manto erboso che stavo calpestando. Era solo erba, uguale in ogni parte del mondo. Sollevai la testa e abbracciai con lo sguardo la pineta alle nostre spalle: solo alberi. Seguii con gli occhi un sentiero bianco di ghiaia, nulla di eccezionale. Inspirai profondamente, avvertendo l’odore di qualche fonte d’acqua nelle vicinanze. Ero nella mia terra natia, e ancora non riuscivo a rendermene conto.
Fenrir ed io ci mettemmo in cammino molto presto, desiderosi di darci da fare il prima possibile. Fagersta, la mia città. Guardavo i profili delle case, le vetrine dei negozi e i bordi delle strade come se sperassi di ricordarmeli, ma non mi suggerivano nulla di familiare. Sforzandomi di non pensarci, tirai dritto, fendendo col mio corpo il vento, freddo anche d’estate, che si incanalava tra due file di abitazioni. Fenrir mi seguì docilmente, dopo un po’ mi giunse la sua voce:
-Hai una vaga idea di dove dovremmo andare? Dove abita il tuo vecchio?-
Naturalmente non ne avevo la minima idea. Mancavo da Fagersta da oltre trent’anni, e avevo perso notizie di mio padre da quattordici, non sapevo neanche da dove dovevo cominciare. Ma qualcosa dovevamo pur fare.
-Non lo so. Proviamo a chiedere in giro, che io sappia, Odinresk era abbastanza conosciuto da queste parti.- proposi.
Trascorremmo il resto della giornata a chiedere a qualsiasi passante, destando anche qualche sguardo di disapprovazione, probabilmente a causa della nostra insistenza. Ma di mio padre sembrava essersi persa traccia. Verso l’ora di cena, decidemmo di fermarci in un pub. Sembrava un posto abbastanza dimesso, semplice, costruito in legno. Fenrir ed io andammo a sederci al bancone.
-Buonasera, vi porto qualcosa?- domandò una voce armoniosa.
Sollevai lo sguardo sulla cameriera che aveva appena parlato: aveva lunghissimi capelli biondi che le cascavano lungo le spalle strette, alcune ciocche erano acconciate in morbide trecce. Il viso era illuminato da due scocche rosee, l’espressione dolce. Le braccia erano rotonde e sembravano pronte ad accogliere e a dispensare calore.
Quando la cameriera ci portò da mangiare e da bere, non riuscii a staccare i miei occhi da lei, che pareva ricambiare il mio sguardo, come se i nostri bulbi oculari fossero stati poli opposti attratti da un irrefrenabile magnetismo. Finito di cenare, e notato che, eccezion fatta per le nostre persone, il pub era deserto, invitai la ragazza a sedersi accanto a noi. Scoprii che si chiamava Agnes, e la sua voce delicata sembrò sciogliere ogni nodo di tensione in me. Dopo alcuni istanti di banale conversazione, le chiesi se avesse mai conosciuto mio padre. Fenrir ed io ci irrigidimmo di colpo quando lei annuì appena.
-Sai dove abita? Puoi portarci da lui? Abbiamo bisogno di vederlo.-
-Sì, so dove abita,- rispose sommessamente Agnes, -ma temo non potrete incontrarlo.-
-Perché mai?- domandò Fenrir, sbattendo i palmi sul tavolo.
La ragazza sussultò, ma quando ripose, per quanto fioca, la sua voce sembrò salda:
-Perché è morto sei mesi fa. È stato ucciso dagli Hrímþursar, Jotnar di brina.-
   
 
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