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Autore: Cassie chan    13/09/2006    2 recensioni
Una storia strana, una storia qualunque. Due persone diverse, ma complementari. Due sapori diversi, ma complementari. Un destino che li unisce. Due vite che li dividono… le loro… E la consapevolezza di quello che sarebbe stato e non fu più. Una storia d’amore sul senso dell’amore… esiste qualcosa di più importante? E se dalla risposta, poi, dipendesse anche tutto il resto?
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ayako, Hanamichi Sakuragi, Haruko Akagi, Kaede Rukawa, Ryota Miyagi
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo 3 – Something overwhelming (Kaede Rukawa)

Capitolo 3 – Something overwhelming (Kaede Rukawa)

 

Afferrai con rabbia l’asciugamano e me lo gettai distrattamente sulle spalle. Mi veniva voglia di prendere a calci quella fottuta palestra e tutti quelli che c’erano dentro in quel preciso momento; come se nel mio sangue, non c’era più linfa vitale, ma letale veleno, che m’avrebbe ucciso. Mi venne pure da ridere così senza motivo, una risata isterica e nervosa, nettamente in contrasto con la mia solita immagine fredda e calcolatrice. Ci campavo su quella immagine, che cazzo ne so, si poteva dire parte del mio personaggio. Ognuno di noi ha un personaggio, io ho questo, quel coglione di Sakuragi la sua malcelata ed ingiustificata presunzione, e chiunque un altro ancora. Akira Sendo aveva invece il ruolo del giocatore perfetto, una impossibile ed assurda parte di una fantomatica commedia degli errori, piena di marionette. Lo vedevo continuamente, mentre infilavo la palla nel canestro il suo sorriso soddisfatto alla fine di quelle due stramaledette partite, che avevo perso contro di lui. E mi faceva rabbia, una dannata rabbia, mentre le parole di Anzai mi risuonavano nella mente. La mia apparente soluzione a questo insolubile problema, andare negli Stati Uniti, il paese dell’ NBA, si era poi rivelata una mia grande menata. Ci avevo riflettuto, alla fine, il coach mi aveva fatto pensare. Se non potevo battere Akira Sendo, che cazzo di scopo aveva andarsene oltre oceano a cercare altre persone che potevano battermi come volevano? Meglio prendere tutto ciò che era possibile da qui, e poi semmai, un giorno… andarmene… e soprattutto, prima di andarmene, volevo sconfiggere Sendo, non sarei mai scappato di fronte a lui. La prossima volta che ci fossimo incontrati, l’avrei battuto. Punto. E per questo dovevo essere il miglior giocatore del torneo nazionale. Ma non era facile pensare così, razionalmente, di solito ero solamente nervoso, e la rabbia mi dava carica e mi rendeva più forte. Era un circolo vizioso, più ero incazzato, più davo il massimo, e questo mi spronava ad essere ancora più incazzato di prima.        

Misi la testa sotto lo scroscio dell’acqua ghiacciata, lasciando che l’acqua scivolasse sui miei capelli e lungo il mio collo. Dalle orecchie ovattate d’acqua, sentii qualcuno chiamarmi: “Kaede…”. Prima ancora di voltarmi, sapevo già di chi si trattava. Il residuo della rabbia si trasformò dapprima in una morsa tiepida alla bocca dello stomaco, e poi in fastidio. Che voleva pure lei? Non sollevai il viso, continuando a fingere di bere, ma alla fine avevo ingurgitato tanta acqua da poter affrontare tranquillamente un viaggio di venti giorni nel Sahara. Quindi alzai gli occhi su di lei.

Aveva il viso rosso e i capelli sciolti, ed indossava già la divisa. Evidentemente, Sakuragi aveva finito l’allenamento, che palle poteva lasciarlo a patire un altro po’… ma, mentre guardavo quella piccola ferita che preservava sul labbro, che io stesso le avevo procurato, fui contento che quel ritardato se ne fosse andato. Cazzo, in fondo stavano sempre da soli, dopo gli allenamenti… erano in confidenza più di quanto lei lo fosse con Miyagi, o con… me…

Scrollai il capo e dissi nervoso: “Che c’è?”, cancellando quei pensieri imbecilli dalla mia mente

Lei sussultò, si doveva essere spaventata per la mia voce più brusca di prima, ma subito recuperò la sua solita voce decisa e mi disse: “Ti devo parlare, ma non qui… puoi venire con me?”

Parlare? Improvvisamente, mi ritornò in mente quel bacio di quella sera. Ed altrettanto improvvisamente mi ricordai che ci avevo pensato parecchio, quanto pensavo a Sendo ed alla nostra sfida. In classe, poco prima, mi era tornata in mente lei e il suo sapore. E solo perchè avevo visto un’ immagine di un bacio su un libro, tra due personaggi di una leggenda o qualcosa del genere. Mi ero raccontato che era perchè era stato il mio primo ed unico bacio, e mi convinsi di questo, anche mentre ce l’avevo di fronte. Non sapevo quanto mi sbagliassi, ma lo avrei saputo ben presto. E paradossalmente, sebbene presto, sarebbe stato già tardi.

Annuii con il capo e lei mi disse che m’avrebbe aspettato fuori. Mi cambiai velocemente e la raggiunsi. Faceva abbastanza fresco, anche se era ormai maggio, e lei si stringeva nelle spalle. Guardavo davanti a me la fila di lampioni rotondi del viale che portava alla nostra scuola, che si accendevano lentamente, baluginando tremuli qualche secondo, prima di prendere vigore e di splendere decisi.

La sua voce mi richiamò alla realtà, mi ero già quasi scordato di lei: “Si può sapere che hai in questi giorni? Ce l’hai con me?”

Non risposi. Ora era evidente. Non era quel bacio l’argomento della nostra fantomatica conversazione. Se ne era completamente dimenticata. O meglio non era cosciente, quando era successo. Potevo essere Sakuragi o persino il gorilla, e sarebbe stato lo stesso.

Strinsi forte i pugni, e risposi: “Io non ce l’ho con te, non sei al centro dei miei pensieri, Ayako…”

“Lo so benissimo…” disse velocemente, poi aggiunse, la voce stranamente tagliente: “Hai altro a cui pensare…”

“Esattamente…”

Rimanemmo di nuovo in silenzio, un silenzio strano, non come i milioni di silenzi che spesso calavano tra di noi. Questo silenzio era pieno di parole che lei voleva dire, ma che teneva dentro di sé.

“Deve essere stata una mia impressione allora…” continuò, riferendosi al discorso precedente “Ti ho già ringraziato per avermi accompagnato quella sera, vero? Non pensavo che ne saresti stato capace…”

“Perché?” chiesi, riuscendo persino a provare un’autentica irritazione, e mi voltai a guardarla per la prima volta, da quando eravamo usciti dalla palestra

Lei sorrise e mi rispose: “Avanti, Kaede, non sei certo la persona più affabile del mondo…”; il suo sorriso era… strano, mi faceva sentire strano… dentro… “Questo… n-non… significa… che… i-io, che insomma che i-i-o e t-e…” balbettai come un idiota. Che cazzo mi prendeva? E poi che le stavo dicendo? Che io e lei eravamo amici? Che puttanata… io e lei, amici?!

“Lo so, Kaede…” mi disse dolcemente, sfiorandomi il braccio, apparentemente senza accorgersene, ma a me sembrò che lo avesse fatto apposta “Per questo, sono qui… perchè ti voglio aiutare…”
”Aiutare?” chiesi senza capire

Lei annuii: “Parlarti, sarebbe perfettamente inutile, lo so che se vuoi ti tappi le orecchie e addio… o meglio, ti addormenti ed addio… invece in questo modo… magari, riuscirai a capirmi… eccoci, siamo arrivati…”
”Non per contraddirti, ma non mi sembra che siamo da qualche parte…” mi guardai intorno e infatti eravamo in un stradina deserta, circondata da palazzi abbandonati che ci guardavano come fantasmi di morti, esulati da ogni luogo. Faceva un freddo cane, adesso, ma lei rimaneva immobile. Si guardò attorno e annuii tra sé e sé con un sorriso, poi ritornò a guardarmi e si sfilò qualcosa dalla tasca, un fazzoletto blu notte.

“Devo bendarti, altrimenti la cosa che ho in programma non riesce…” rise lei, alzandosi in punta di piedi

“EH??!!” dissi io, decisamente sorpreso

“Muoviti Kaede, non ho intenzione di buttarti nell’oceano con una pietra al collo!” rideva come una pazza, evidentemente la mia faccia non era molto sveglia in quel momento e la facevo ridere. Non ero abituato a fare quell’effetto. Alla fine mi piegai docilmente, e rassegnato mi feci mettere l’improvvisata benda sugli occhi. Lei continuava a ridere, e, mentre mi era vicina, sentii ancora il calore del suo corpo contro il mio. Che cosa dicono i ragazzini alla prima cotta? Che il cuore prende a battere all’impazzata o altre stronzate simili? C’eravamo abbastanza vicini con l’idea. Ma stavolta notai anche il suo viso farsi rosso e le sue labbra dischiudersi leggermente, mentre mi guardava fisso negli occhi. Era come se mi passasse da parte a parte. Pura elettricità scorreva tra il mio corpo e il suo, ma ci sfioravamo appena. C’eravamo sfiorati forse più di così in milioni di occasioni. Ma stavolta faceva effetto. Su di me e su di lei.

Gli occhi coperti, la sentii sussurrare uno: “Scusami…”, poi disse: “Seguimi…”

“Dove, Ayako?! Non vedo un… non vedo niente…!” mi trattenni, cercando pure di essere gentile

Bofonchiò qualcosa, e prese la mia mano nella sua. Di nuovo, un’altra volta, qualcosa dentro cominciò a fare un paio di allegre capriole, come quando stavo male di stomaco. Strinsi le mie dita attorno alle sue, e la seguii con docilità, non avendo la minima idea di dove mi stesse portando. E soprattutto che motivo avevano tutti questi misteri. Mi fece camminare per una decina di minuti, girando diverse volte, tanto che alla fine avevo completamente perso l’orientamento, e poi mi indicò con la voce una scala, ripetendo per ogni scalino: “Gradino, gradino, gradino…” in modo che li salissi. A quel punto, ormai non sentivo più niente, né rumore di auto e tantomeno conversazioni tra persone; sentivo solo il mio respiro ed il suo.

Mi lasciò un attimo e mi disse: “Aspetta qui… e non toglierti la benda, altrimenti ti gonfio di botte!”; la sentii armeggiare con qualcosa di metallico e poi riprese la mia mano. Mi fece camminare ancora un po’, e poi mi disse di fermarmi lì, immobile, dove mi aveva lasciato. Si allontanò un po’ da me e ritornò qualche attimo dopo, porgendomi qualcosa, un pallone. Lo riconobbi, nonostante avessi gli occhi chiusi.

“E adesso?” chiesi senza capire “Posso togliermi la benda?”

“No, aspetta…” sussurrò lei, poi mi disse di mettermi in posizione e di aspettare che mi desse il segnale per tirare. Ci capivo sempre meno di prima. La sentii venire alle mie spalle, e appoggiare le sue dita fredde sulla mia nuca, dove c’era il nodo della benda.

“Vai…” mi disse all’improvviso, e lanciai la palla, come facevo sempre. Un attimo dopo, quando avevo già tirato, ma il pallone non era ancora entrato nell’invisibile canestro, lei mi tolse la benda, appena in tempo perchè io potessi vedere il mio tiro andare perfettamente a segno.

Mi voltai verso di lei con espressione interrogativa e solo allora mi resi conto di dove fossimo. Eravamo su una collinetta, da cui si vedeva tutta la città e il mare, che splendeva dei colori corallini del tramonto. C’era un campetto, ormai abbandonato, di basket; l’anello era arrugginito e privo di rete, e il campo era pieno di erbacce e di residui di bivacchi notturni, sparsi intorno a delle rade panchine con la vernice verde scrostata. Lo conoscevo quel posto, lo conoscevo benissimo… la guardai, ancora senza capire… lei… come faceva a conoscerlo lei, invece? Era venuta lì per caso? Senza accorgermene, abbassai gli occhi e vidi sotto i miei piedi qualcosa. Ed ebbi la conferma che non l’aveva fatto per caso. Leggermente coperta da una fitta trama di erba, disegnata per terra con una bomboletta spray di colore rosso, c’era una croce orizzontale. L’avevo fatta io. Lo ricordavo molto bene adesso, perchè venivo lì ad allenarmi, quando facevo le medie. Veramente ci venivo da quando ero un bambino, poi, da quando ero venuto allo Shohoku, non c’ero più tornato. Alle medie, quando avevo gli allenamenti ufficiali solo una volta alla settimana, ci venivo spessissimo. Ci stavo ore, lì, da solo, e mi allenavo. Specie nei tiri liberi. Ero una frana. Disegnai una croce lì per terra, dal punto dove avrei dovuto imparare a tirare. Facevo centinaia di tiri al giorno e alla fine imparai a tirare come si deve, ma quello fu il più difficile e lungo allenamento, a cui mi sottoposi, forse perchè era il mio primo di quel genere. La ricordavo ancora la stanchezza di quei giorni e le urla isteriche di mia madre, quando tornavo finalmente a casa, ormai a sera inoltrata. Credo che allora pensasse che mi facessi di qualcosa di molto diverso dal mio desiderio di giocare bene a basket. Ma, poi, è mai venuta ad una mia partita? Lo sa che gioco a pallacanestro? No. Punto.

Guardai ancora in volto Ayako e lei sorrise: “Sapevo che t’avrebbe fatto questo effetto… per questo, ho scelto questo posto… hai penato tanto per imparare a tirare come fai ora, e adesso sei anche capace di farlo con gli occhi chiusi… questo per farti capire, che, se hai fatto cose che anni fa, ti sembravano impossibili, anche quello che adesso non ti senti in grado di fare, diventerà realtà se ti impegnerai… sei un fenomeno, Kaede Rukawa… e ce la puoi fare… non hai bisogno di andare negli Stati Uniti, ti basta anche un campo come questo…”

Non pensai più a niente in quel momento, più a niente. A come faceva a sapere di questo posto, a chi le aveva detto del mio pensiero di qualche giorno prima, a come faceva ad immaginare come stavo allora, ci avrei pensato dopo, molto dopo. Trovando facili risposte. Era innamorata di me alle medie, e mi doveva aver seguito spesso. Anzai le aveva parlato della mia decisione e l’aveva convinta a parlarmi. Mi conosceva meglio di quanto credessi e allora sapeva perfettamente come mi sentivo. Ma ad una domanda non trovai risposta, né allora, né mai. Ma fu la prima cosa che pensai di fare in quel preciso momento.

Mi avvicinai a lei, che mi guardò a lungo, i suoi occhi castani spalancati per la sorpresa, le passai le braccia lungo la schiena e l’attirai ferocemente contro di me, contro il mio viso, i suoi capelli che si infransero sul mio viso, come le onde di un oceano caldo e morbido. La baciai con forza, affondando le mie labbra nelle sue, che non poterono fare altro che aprirsi alle mie. Sentivo le sue unghie piantarsi nelle mie braccia, non so, magari voleva staccarsi da me, ma ero vistosamente più forte di lei. Non riusciva a staccarsi, e io non glielo avrei mai permesso. Vaffanculo a Miyagi e alla sua sbandata per lei, vaffanculo al basket e a Sendo, vaffanculo anche a me stesso che mi dicevo di lasciarla stare, adesso, subito, immediatamente, mentre qualsiasi cosa lei mi aveva acceso dentro, mi diceva di prenderla adesso, subito, immediatamente, e di tenerla per sempre. Come mi dicevano le sue labbra chiuse e poi di nuovo aperte, e poi ancora chiuse ed ancora aperte, che adesso si muovevano nelle mie.  

Io e lei… due impossibili ed assurde comparse di una fantomatica commedia degli errori, piena di marionette… ci azzardammo a cambiare il copione, e il canovaccio, e la trama di quel maledetto spettacolo. Forse per questo che fummo puniti, io e lei.

 

Tienimi su la luce
Fatti vedere meglio
Fare l’amore o sesso
Qui non è più un dettaglio
Baciami la fortuna
Baciami le parole che sei già
Baciami il sangue mentre gira
Sei arrivata apposta
Come ci frega l’amore
Dà degli appuntamenti
E poi viene quando gli pare
Soffia su questo tempo
Tienilo acceso sempre tu che puoi

E andiamo verso il giorno dei giorni
Senza più limiti
Il giorno dei giorni
Fino a quel giorno voi non svegliateci

Tienimi su la vita
Cosa combina l’amore
Vivere i soli affetti
E non sentirsi coglione
Ogni minuto è pieno
Ogni minuto è vero se ci sei

Che è già partito il giorno dei giorni
Fatto per vivere
Il giorno dei giorni
Tutto da fare e niente da perdere
Il giorno dei giorni
Senza più limiti
Il giorno dei giorni
Attimi e secoli
Lacrime e brividi

Balla
Femmina come la terra
Femmina come la guerra
Femmina come la pace
Femmina come la croce
Femmina come la voce
Femmina come sai
Femmina come puoi
Femmina come la sorte
Femmina come la morte
Femmina come la vita
Femmina come l’entrata
Femmina come l’uscita
Femmina come le carte
Femmina come sai
Femmina come puoi

Che siamo dentro al giorno dei giorni
Fatto per vivere
Il giorno dei giorni
Tutto da fare e niente da perdere
Il giorno dei giorni
Senza più limiti
Il giorno dei giorni
Attimi e secoli lacrime e brividi

 

(Luciano Ligabue- il giorno dei giorni)

 

 

   
 
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