Capitolo 3 – Something overwhelming
(Kaede Rukawa)
Afferrai con
rabbia l’asciugamano e me lo gettai distrattamente sulle spalle. Mi veniva
voglia di prendere a calci quella fottuta palestra e tutti quelli che c’erano
dentro in quel preciso momento; come se nel mio sangue, non c’era più linfa
vitale, ma letale veleno, che m’avrebbe ucciso. Mi venne pure da ridere così
senza motivo, una risata isterica e nervosa, nettamente in contrasto con la mia
solita immagine fredda e calcolatrice. Ci campavo su quella immagine, che cazzo
ne so, si poteva dire parte del mio personaggio. Ognuno di noi ha un
personaggio, io ho questo, quel coglione di Sakuragi la sua malcelata ed
ingiustificata presunzione, e chiunque un altro ancora. Akira Sendo aveva
invece il ruolo del giocatore perfetto, una impossibile ed assurda parte di una
fantomatica commedia degli errori, piena di marionette. Lo vedevo
continuamente, mentre infilavo la palla nel canestro il suo sorriso soddisfatto
alla fine di quelle due stramaledette partite, che avevo perso contro di lui. E
mi faceva rabbia, una dannata rabbia, mentre le parole di Anzai mi risuonavano
nella mente. La mia apparente soluzione a questo insolubile problema, andare
negli Stati Uniti, il paese dell’ NBA, si era poi rivelata una mia grande
menata. Ci avevo riflettuto, alla fine, il coach mi aveva fatto pensare. Se non
potevo battere Akira Sendo, che cazzo di scopo aveva andarsene oltre oceano a
cercare altre persone che potevano battermi come volevano? Meglio prendere
tutto ciò che era possibile da qui, e poi semmai, un giorno… andarmene… e
soprattutto, prima di andarmene, volevo sconfiggere Sendo, non sarei mai
scappato di fronte a lui. La prossima volta che ci fossimo incontrati, l’avrei
battuto. Punto. E per questo dovevo essere il miglior giocatore del torneo
nazionale. Ma non era facile pensare così, razionalmente, di solito ero
solamente nervoso, e la rabbia mi dava carica e mi rendeva più forte. Era un
circolo vizioso, più ero incazzato, più davo il massimo, e questo mi spronava
ad essere ancora più incazzato di prima.
Misi la testa
sotto lo scroscio dell’acqua ghiacciata, lasciando che l’acqua scivolasse sui
miei capelli e lungo il mio collo. Dalle orecchie ovattate d’acqua, sentii
qualcuno chiamarmi: “Kaede…”. Prima ancora di voltarmi, sapevo già di chi si
trattava. Il residuo della rabbia si trasformò dapprima in una morsa tiepida
alla bocca dello stomaco, e poi in fastidio. Che voleva pure lei? Non sollevai
il viso, continuando a fingere di bere, ma alla fine avevo ingurgitato tanta
acqua da poter affrontare tranquillamente un viaggio di venti giorni nel
Sahara. Quindi alzai gli occhi su di lei.
Aveva il viso
rosso e i capelli sciolti, ed indossava già la divisa. Evidentemente, Sakuragi
aveva finito l’allenamento, che palle poteva lasciarlo a patire un altro po’…
ma, mentre guardavo quella piccola ferita che preservava sul labbro, che io
stesso le avevo procurato, fui contento che quel ritardato se ne fosse andato.
Cazzo, in fondo stavano sempre da soli, dopo gli allenamenti… erano in
confidenza più di quanto lei lo fosse con Miyagi, o con… me…
Scrollai il capo
e dissi nervoso: “Che c’è?”, cancellando quei pensieri imbecilli dalla mia
mente
Lei sussultò, si
doveva essere spaventata per la mia voce più brusca di prima, ma subito
recuperò la sua solita voce decisa e mi disse: “Ti devo parlare, ma non qui…
puoi venire con me?”
Parlare?
Improvvisamente, mi ritornò in mente quel bacio di quella sera. Ed altrettanto
improvvisamente mi ricordai che ci avevo pensato parecchio, quanto pensavo a
Sendo ed alla nostra sfida. In classe, poco prima, mi era tornata in mente lei
e il suo sapore. E solo perchè avevo visto un’ immagine di un bacio su un
libro, tra due personaggi di una leggenda o qualcosa del genere. Mi ero
raccontato che era perchè era stato il mio primo ed unico bacio, e mi convinsi
di questo, anche mentre ce l’avevo di fronte. Non sapevo quanto mi sbagliassi,
ma lo avrei saputo ben presto. E paradossalmente, sebbene presto, sarebbe stato
già tardi.
Annuii con il
capo e lei mi disse che m’avrebbe aspettato fuori. Mi cambiai velocemente e la
raggiunsi. Faceva abbastanza fresco, anche se era ormai maggio, e lei si
stringeva nelle spalle. Guardavo davanti a me la fila di lampioni rotondi del
viale che portava alla nostra scuola, che si accendevano lentamente,
baluginando tremuli qualche secondo, prima di prendere vigore e di splendere
decisi.
La sua voce mi
richiamò alla realtà, mi ero già quasi scordato di lei: “Si può sapere che hai
in questi giorni? Ce l’hai con me?”
Non risposi. Ora
era evidente. Non era quel bacio l’argomento della nostra fantomatica
conversazione. Se ne era completamente dimenticata. O meglio non era cosciente,
quando era successo. Potevo essere Sakuragi o persino il gorilla, e sarebbe
stato lo stesso.
Strinsi forte i
pugni, e risposi: “Io non ce l’ho con te, non sei al centro dei miei pensieri,
Ayako…”
“Lo so
benissimo…” disse velocemente, poi aggiunse, la voce stranamente tagliente:
“Hai altro a cui pensare…”
“Esattamente…”
Rimanemmo di
nuovo in silenzio, un silenzio strano, non come i milioni di silenzi che spesso
calavano tra di noi. Questo silenzio era pieno di parole che lei voleva dire,
ma che teneva dentro di sé.
“Deve essere
stata una mia impressione allora…” continuò, riferendosi al discorso precedente
“Ti ho già ringraziato per avermi accompagnato quella sera, vero? Non pensavo
che ne saresti stato capace…”
“Perché?”
chiesi, riuscendo persino a provare un’autentica irritazione, e mi voltai a
guardarla per la prima volta, da quando eravamo usciti dalla palestra
Lei sorrise e mi
rispose: “Avanti, Kaede, non sei certo la persona più affabile del mondo…”; il
suo sorriso era… strano, mi faceva sentire strano… dentro… “Questo… n-non…
significa… che… i-io, che insomma che i-i-o e t-e…” balbettai come un idiota.
Che cazzo mi prendeva? E poi che le stavo dicendo? Che io e lei eravamo amici?
Che puttanata… io e lei, amici?!
“Lo so, Kaede…”
mi disse dolcemente, sfiorandomi il braccio, apparentemente senza accorgersene,
ma a me sembrò che lo avesse fatto apposta “Per questo, sono qui… perchè ti
voglio aiutare…”
”Aiutare?” chiesi senza capire
Lei annuii:
“Parlarti, sarebbe perfettamente inutile, lo so che se vuoi ti tappi le
orecchie e addio… o meglio, ti addormenti ed addio… invece in questo modo…
magari, riuscirai a capirmi… eccoci, siamo arrivati…”
”Non per contraddirti, ma non mi sembra che siamo da qualche parte…” mi guardai
intorno e infatti eravamo in un stradina deserta, circondata da palazzi
abbandonati che ci guardavano come fantasmi di morti, esulati da ogni luogo.
Faceva un freddo cane, adesso, ma lei rimaneva immobile. Si guardò attorno e
annuii tra sé e sé con un sorriso, poi ritornò a guardarmi e si sfilò qualcosa
dalla tasca, un fazzoletto blu notte.
“Devo bendarti,
altrimenti la cosa che ho in programma non riesce…” rise lei, alzandosi in
punta di piedi
“EH??!!” dissi
io, decisamente sorpreso
“Muoviti Kaede,
non ho intenzione di buttarti nell’oceano con una pietra al collo!” rideva come
una pazza, evidentemente la mia faccia non era molto sveglia in quel momento e
la facevo ridere. Non ero abituato a fare quell’effetto. Alla fine mi piegai
docilmente, e rassegnato mi feci mettere l’improvvisata benda sugli occhi. Lei
continuava a ridere, e, mentre mi era vicina, sentii ancora il calore del suo
corpo contro il mio. Che cosa dicono i ragazzini alla prima cotta? Che il cuore
prende a battere all’impazzata o altre stronzate simili? C’eravamo abbastanza
vicini con l’idea. Ma stavolta notai anche il suo viso farsi rosso e le sue
labbra dischiudersi leggermente, mentre mi guardava fisso negli occhi. Era come
se mi passasse da parte a parte. Pura elettricità scorreva tra il mio corpo e
il suo, ma ci sfioravamo appena. C’eravamo sfiorati forse più di così in
milioni di occasioni. Ma stavolta faceva effetto. Su di me e su di lei.
Gli occhi
coperti, la sentii sussurrare uno: “Scusami…”, poi disse: “Seguimi…”
“Dove, Ayako?!
Non vedo un… non vedo niente…!” mi trattenni, cercando pure di essere gentile
Bofonchiò
qualcosa, e prese la mia mano nella sua. Di nuovo, un’altra volta, qualcosa
dentro cominciò a fare un paio di allegre capriole, come quando stavo male di
stomaco. Strinsi le mie dita attorno alle sue, e la seguii con docilità, non
avendo la minima idea di dove mi stesse portando. E soprattutto che motivo avevano
tutti questi misteri. Mi fece camminare per una decina di minuti, girando
diverse volte, tanto che alla fine avevo completamente perso l’orientamento, e
poi mi indicò con la voce una scala, ripetendo per ogni scalino: “Gradino,
gradino, gradino…” in modo che li salissi. A quel punto, ormai non sentivo più
niente, né rumore di auto e tantomeno conversazioni tra persone; sentivo solo
il mio respiro ed il suo.
Mi lasciò un
attimo e mi disse: “Aspetta qui… e non toglierti la benda, altrimenti ti gonfio
di botte!”; la sentii armeggiare con qualcosa di metallico e poi riprese la mia
mano. Mi fece camminare ancora un po’, e poi mi disse di fermarmi lì, immobile,
dove mi aveva lasciato. Si allontanò un po’ da me e ritornò qualche attimo
dopo, porgendomi qualcosa, un pallone. Lo riconobbi, nonostante avessi gli
occhi chiusi.
“E adesso?”
chiesi senza capire “Posso togliermi la benda?”
“No, aspetta…”
sussurrò lei, poi mi disse di mettermi in posizione e di aspettare che mi desse
il segnale per tirare. Ci capivo sempre meno di prima. La sentii venire alle
mie spalle, e appoggiare le sue dita fredde sulla mia nuca, dove c’era il nodo
della benda.
“Vai…” mi disse
all’improvviso, e lanciai la palla, come facevo sempre. Un attimo dopo, quando
avevo già tirato, ma il pallone non era ancora entrato nell’invisibile
canestro, lei mi tolse la benda, appena in tempo perchè io potessi vedere il
mio tiro andare perfettamente a segno.
Mi voltai verso
di lei con espressione interrogativa e solo allora mi resi conto di dove fossimo.
Eravamo su una collinetta, da cui si vedeva tutta la città e il mare, che
splendeva dei colori corallini del tramonto. C’era un campetto, ormai
abbandonato, di basket; l’anello era arrugginito e privo di rete, e il campo
era pieno di erbacce e di residui di bivacchi notturni, sparsi intorno a delle
rade panchine con la vernice verde scrostata. Lo conoscevo quel posto, lo
conoscevo benissimo… la guardai, ancora senza capire… lei… come faceva a
conoscerlo lei, invece? Era venuta lì per caso? Senza accorgermene, abbassai
gli occhi e vidi sotto i miei piedi qualcosa. Ed ebbi la conferma che non
l’aveva fatto per caso. Leggermente coperta da una fitta trama di erba,
disegnata per terra con una bomboletta spray di colore rosso, c’era una croce
orizzontale. L’avevo fatta io. Lo ricordavo molto bene adesso, perchè venivo lì
ad allenarmi, quando facevo le medie. Veramente ci venivo da quando ero un
bambino, poi, da quando ero venuto allo Shohoku, non c’ero più tornato. Alle
medie, quando avevo gli allenamenti ufficiali solo una volta alla settimana, ci
venivo spessissimo. Ci stavo ore, lì, da solo, e mi allenavo. Specie nei tiri
liberi. Ero una frana. Disegnai una croce lì per terra, dal punto dove avrei
dovuto imparare a tirare. Facevo centinaia di tiri al giorno e alla fine
imparai a tirare come si deve, ma quello fu il più difficile e lungo
allenamento, a cui mi sottoposi, forse perchè era il mio primo di quel genere.
La ricordavo ancora la stanchezza di quei giorni e le urla isteriche di mia
madre, quando tornavo finalmente a casa, ormai a sera inoltrata. Credo che
allora pensasse che mi facessi di qualcosa di molto diverso dal mio desiderio
di giocare bene a basket. Ma, poi, è mai venuta ad una mia partita? Lo sa che
gioco a pallacanestro? No. Punto.
Guardai ancora
in volto Ayako e lei sorrise: “Sapevo che t’avrebbe fatto questo effetto… per
questo, ho scelto questo posto… hai penato tanto per imparare a tirare come fai
ora, e adesso sei anche capace di farlo con gli occhi chiusi… questo per farti
capire, che, se hai fatto cose che anni fa, ti sembravano impossibili, anche
quello che adesso non ti senti in grado di fare, diventerà realtà se ti
impegnerai… sei un fenomeno, Kaede Rukawa… e ce la puoi fare… non hai bisogno
di andare negli Stati Uniti, ti basta anche un campo come questo…”
Non pensai più a
niente in quel momento, più a niente. A come faceva a sapere di questo posto, a
chi le aveva detto del mio pensiero di qualche giorno prima, a come faceva ad
immaginare come stavo allora, ci avrei pensato dopo, molto dopo. Trovando
facili risposte. Era innamorata di me alle medie, e mi doveva aver seguito
spesso. Anzai le aveva parlato della mia decisione e l’aveva convinta a
parlarmi. Mi conosceva meglio di quanto credessi e allora sapeva perfettamente
come mi sentivo. Ma ad una domanda non trovai risposta, né allora, né mai. Ma
fu la prima cosa che pensai di fare in quel preciso momento.
Mi avvicinai a
lei, che mi guardò a lungo, i suoi occhi castani spalancati per la sorpresa, le
passai le braccia lungo la schiena e l’attirai ferocemente contro di me, contro
il mio viso, i suoi capelli che si infransero sul mio viso, come le onde di un
oceano caldo e morbido. La baciai con forza, affondando le mie labbra nelle
sue, che non poterono fare altro che aprirsi alle mie. Sentivo le sue unghie
piantarsi nelle mie braccia, non so, magari voleva staccarsi da me, ma ero
vistosamente più forte di lei. Non riusciva a staccarsi, e io non glielo avrei
mai permesso. Vaffanculo a Miyagi e alla sua sbandata per lei, vaffanculo al
basket e a Sendo, vaffanculo anche a me stesso che mi dicevo di lasciarla
stare, adesso, subito, immediatamente, mentre qualsiasi cosa lei mi aveva
acceso dentro, mi diceva di prenderla adesso, subito, immediatamente, e di
tenerla per sempre. Come mi dicevano le sue labbra chiuse e poi di nuovo
aperte, e poi ancora chiuse ed ancora aperte, che adesso si muovevano nelle
mie.
Io e lei… due
impossibili ed assurde comparse di una fantomatica commedia degli errori, piena
di marionette… ci azzardammo a cambiare il copione, e il canovaccio, e la trama
di quel maledetto spettacolo. Forse per questo che fummo puniti, io e lei.
Tienimi su la luce
Fatti vedere meglio
Fare l’amore o sesso
Qui non è più un dettaglio
Baciami la fortuna
Baciami le parole che sei già
Baciami il sangue mentre gira
Sei arrivata apposta
Come ci frega l’amore
Dà degli appuntamenti
E poi viene quando gli pare
Soffia su questo tempo
Tienilo acceso sempre tu che puoi
E andiamo verso il giorno dei giorni
Senza più limiti
Il giorno dei giorni
Fino a quel giorno voi non svegliateci
Tienimi su la vita
Cosa combina l’amore
Vivere i soli affetti
E non sentirsi coglione
Ogni minuto è pieno
Ogni minuto è vero se ci sei
Che è già partito il giorno dei giorni
Fatto per vivere
Il giorno dei giorni
Tutto da fare e niente da perdere
Il giorno dei giorni
Senza più limiti
Il giorno dei giorni
Attimi e secoli
Lacrime e brividi
Balla
Femmina come la terra
Femmina come la guerra
Femmina come la pace
Femmina come la croce
Femmina come la voce
Femmina come sai
Femmina come puoi
Femmina come la sorte
Femmina come la morte
Femmina come la vita
Femmina come l’entrata
Femmina come l’uscita
Femmina come le carte
Femmina come sai
Femmina come puoi
Che siamo dentro al giorno dei giorni
Fatto per vivere
Il giorno dei giorni
Tutto da fare e niente da perdere
Il giorno dei giorni
Senza più limiti
Il giorno dei giorni
Attimi e secoli lacrime e brividi
(Luciano Ligabue- il giorno dei
giorni)