Tu Chiamami Draco
Draco, il mio nome è Draco.
Ogni tanto me lo scordo, ma quelli son problemi miei.
Sarà che ho deciso di non parlare con troppa gente, ma qui in giro è soprattutto la gente che ha deciso di non parlare con me. Forse la mia decisione è dipesa proprio da questo fatto.
Io nella mia testa non sono matto, anzi, alcune volte sento cori di voci nella testa, tutti ad urlare frasi distinte e non troppo stabili. In quei momenti mi sento matto, perché non vorrei che quelle voci parlassero tutte insieme, quelle voci mi stanno simpatiche, e vorrei capire i loro problemi.
Magari risolverli.
Sì, mi chiamo Draco e una volta risolvevo i problemi della gente nei sogni, poi lo psichiatra mi ha costretto a prendere delle nuove pillole e ho smesso anche di sognare.
Se chiedeste ai miei genitori di loro figlio Simone -loro continuano a chiamarmi così- scapperebbero con le mani fra i capelli. Ed io ringrazio il Dio in cui non credo che non mi abbia fatto rimanere figlio unico, così almeno hanno un figlio sano al quale possono voler bene.
Io sono Draco, e mi piace ripeterlo, non so, forse perché è bello.
Non ne ho voglia, ma costringo le mani a ricordare che stringono una matita. Ho gli occhi chiusi ma la posso immaginare: nera, e mozzicata.
Devo proprio riaprire gli occhi?
Non è più bello così? Beh, sì, ho sicuramente i miei privilegi.
Con gli occhi chiusi è più facile convincermi che non sono seduto, che volo. Con gli occhi chiusi è più facile pensare di essere un uccello che torna volando al nido, come dice la canzone che sto ascoltando.
E se poi cadessi volando?
Ora ho paura, e non mi piace aver paura, quindi senza nemmeno accorgermene apro gli occhi.
Sono seduto al solito posto, dove di solito vado a disegnare quando non voglio più sentire quelle voci che urlano.
Il mio solito posto è tutto di pietra, ed è molto in alto nonostante io soffra di vertigini.
Oltre a molte altre paranoie e paure ho anche un terrore smodato verso le altezze.
Ma perché lo preciso? Tanto è una paura come un’altra, e forse per non far offendere le altre di paure dovrei elencarle tutte.
No, ho di meglio da fare, tanto le ho contate anche cinque minuti fa.
Ho di meglio da fare, sì, perché quando vengo qui porto sempre una matita e un solo foglio. Ne porto solamente uno altrimenti li userei tutti senza poi riuscire in nulla di concreto, sarebbero soltanto fogli di prova. Invece con un solo foglio posso provarci una sola volta, e se non ci riesco me ne vado più triste di quando sono arrivato.
Ogni volta racconto al foglio tutto quello che vedo, ma quando sono distratto, come oggi, finisco con il perdere l’unico foglio che ho portato, e probabilmente anche oggi me ne andrò cercando di non piangere.
Un rumore, come se un piede sfregasse sulla terra.
Ma non è possibile, sono solo qui. Saranno sicuramente quelle cose che ha detto il dottore che sento anche se non ci sono.
E se fossi speciale a sentire cose che non posso sentire? Se fossi qualcosa come un supereroe?
No, son troppo grasso per fare il supereroe.
Non ho bisogno di ricordarmelo, ma tocco l’osso dell’anca per vedere se riesco ancora a sentirlo, o se il grasso l’ha già ricoperto, e sì, ho paura anche di diventare grasso.
Merda, voglio buttarmi. Ma mi hanno detto già che poi non avrei il coraggio.
Loro però non possono decidere al posto mio.
Pensa che il mio nome l’ho deciso io.
E il mio nome è Draco: proprio un bel nome.
Ora che il foglio è finito e che l’opportunità se n’è andata me ne andrò.
E chissà se glielo dirò alla psicologa che ho scritto su un foglio.
Sai cosa faccio? Faccio come le persone normali, anche se sono normale anche io, e scrivo il mio nome alla fine del foglio.
Sperando di chiamarmi,
Draco.
Su un balcone uscì una signora a rimproverare la figlia.
“Quante volte te l’ho detto che prima di uscire a giocare qui devi dirmelo?”
La bambina non aveva ascoltato nemmeno una delle parole della madre, aveva soltanto sbuffato ed era tornata dentro.
La signora aspettò che la figlia tornasse dentro, e poi si sporse verso il bucato che si stava asciugando. Tastò un paio di calzini per vedere se fossero asciutti o meno, ma ancora erano umidi.
Si poggiò con i gomiti sulla ringhiera del balcone, e iniziò a guardarsi intorno. In tutti quegli anni chissà quante volte l’aveva fatto.
Adorava quel posto, adorava il colore dei muri di pietra quand’erano bagnati, e adorava anche il colore che acquistavano quando d’estate lì sole puntava lì.
Abbassò lo sguardo, e sorrise.
C’era un particolare in tutto quello che vedeva, una forma di vita che sembrava incastonata nel paesaggio.
C’era Simone: il figlio dei Weinent, anzi, c’era Draco come ripeteva lui ogni tanto al vuoto.
Quel ragazzo, poverino, non era troppo normale.
Non aveva nessuna malattia genetica, no, niente di quelle robe strane. Era solo un po’ matto, così si diceva in giro, nonostante i suoi genitori facessero di tutto per nasconderlo.
Tutti i pomeriggi d’estate invece di uscire in gruppo con i suoi amici (due tre sembrava che li avesse), si rifugiava lì. Arrivava sempre puntuale verso le 16.05, e aveva sempre sotto braccio una cartellina.
Si sedeva su uno dei muretti che davano sul parco, metteva alle orecchie delle cuffie grigie enormi e cacciava un foglio.
Una volta capitò che invece di portare foglio e matita arrivò con un libro dalla copertina rosa, e passò buone tre ore su una panchina a cambiare posizione ogni cinque minuti.
Quel giorno invece come al solito era arrivato, aveva preso il foglio, e invece di disegnare come faceva di solito aveva iniziato a scrivere.
Almeno dall’alto del balcone la signora l’aveva visto scrivere.
Per un attimo gli sguardi si incontrarono da lontano, e per colpa della distanza non riuscirono a studiare per bene le reciproche espresisoni.
Alla signora quel ragazzo sembrò incurabilmente triste e solo. Il ragazzo invece si domandò come si chiamasse la signora, chissà qual’era il suo nome.
Il sole era nascosto dietro il muro dove Draco poggiava la schiena. Lui non lo vedeva, e preferiva che fosse così, perché altrimenti sarebbe stato costretto a strizzare gli occhi per la troppa luce.
Aveva appena finito di scrivere delle cose sul foglio, aveva trascritto i suoi pensieri.
Non si sarebbe mai aspettato che il sole di agosto lo deludesse così, e invece fu preso alla sprovvista: mentre il suo sguardo si perdeva nel parco della città, prima una goccia, e poi due, e poi tre.
Lui vide la pioggia iniziare, ma non la sentì su di se.
Pioveva, e lui aveva paura che la pioggia lo corrodesse. Doveva scappare nella sua stanza, anche se preferiva il suo posto speciale, ma almeno sarebbe stato al sicuro.
Girò le gambe verso il terreno, posò la matita nera lì vicino sul muro, si spinse sui polsi graffiandoli e tornò con i piedi per terra.
Voleva piangere.
Mise il lettore CD e le varie custodie dentro la borsa a tracolla bluette, abbassò le cuffie e le portò al collo. Prese la cartellina con l’elastico e senza nemmeno perdere tempo ad aprirla, mise dentro a forza la matita nera.
Pensò di essere stato cattivo con la cartellina, e le avrebbe voluto chiedere scusa, ma era troppo impegnato a scappare dalla pioggia.
La pioggia era cattiva con lui, lo spaventava anche d’estate, eppure non gli aveva mai chiesto scusa, ma proprio mai.
Forse era lui troppo buono, pensò, e con tutte le sue cose con se iniziò la ritirata d’emergenza verso la sua cameretta.
Il foglio, tutto imbrattato dai segnetti neri lasciati dalle mani di un ragazzo strano, rimase abbandonato sul muretto di pietra.
Se solo Draco l’avesse saputo si sarebbe sentito così in colpa nei confronti di quel pezzo di carta che avrebbe iniziato uno dei suoi abituali pianti isterici.
Quella volta però Draco scappò dal suo nemico del momento, abbandondando al suo destino il suo amico foglio.
Che fortuna.
Lui non lo sapeva, ma forse qualcuno avrebbe salvato il foglio al posto suo, iniziando qualcosa che lui avrebbe definito bello.
Ed erano poche le cose belle per lui.
“Ah Draco, Draco, tu e le tue paure”
Disse così e passando sotto l’arco di pietra si avviò verso casa sua.