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Autore: Ireth_Mezzelfa    06/02/2012    4 recensioni
"Alla fine ho mollato tutto; tutto il resto intendo: ho mollato la scuola, ho mollato la casa, gli amici e il mio paese. Ho seguito lui e per forza di cose, quando ho scelto lui, ho scelto anche la band." Anche quando sei alla deriva, sballottato dalle tue stesse scelte, anche in quel momento, puoi aprire gli occhi e scegliere di decidere ancora tu. Una storia di musica e di domande, una ragazza che si trova immersa fino al collo in una vita che non le appartiene, tra strumenti musicali, notte folli e un amore confuso. Ma in fondo non era tutto ciò che aveva sempre desiderato?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo X


 

            "I didnt mean to hurt you, I'm sorry that i made you cry."







“Ok, se non esci fuori, vengo a stanarti io. Preparati.”
Cacciai la testa sotto il letto mugugnando e sbuffando per poi riemergere con il caricabatterie della macchina fotografica in mano.
“Visto? Visto cosa succede a mettersi con la guerriera?!” Esclamai fissandolo vittoriosa e ringhiando per poi sedermi sul letto con la testa tra le mani: stare da sola evidentemente non mi faceva bene.

Era il tardo pomeriggio del giorno dopo l’incidente della testa di Alexandros contro il muro e per tutta la mattina non avevo fatto altro che riordinare casa e fare ogni genere di mestieri pur di non pensare a niente. Ora però mi trovavo davvero spiazzata da tutto quel silenzio, da quell’assenza di persone che ero sempre abituata ad avere vicino. Non c’era nemmeno il mio cane, partita con mio fratello, con cui solitamente avevo intense conversazioni unilaterali.
Restai un po’ a fissare il vuoto, cercando di mantenere la calma e di attutire qualsiasi pensiero pungente e fastidioso potesse venirmi a galla, ma la cosa risultava sempre più difficile.

Tutte le mie foto erano sparse in giro per la stanza, per terra, sul letto, le avevo riguardate tutte la notte prima e non avevo più la forza di riguardarle per metterle a posto.
Guardai sconsolata il cellulare che non dava alcun segno di vita dal giorno prima. Deglutii e mi alzai di scatto calpestando tutte le istantanee sul pavimento, sovrappensiero, mi diressi verso la cucina e frugai a caso nella dispensa e nel frigo, ma con disappunto scoprii che prima di partire i miei avevano lasciato solo qualche confezione di tè verde e del caffè.
Il pensiero del cibo non mi aveva stranamente sfiorata per tutto il giorno e nemmeno in quel momento avevo voglia di mangiare, ma prima o poi avrei pur dovuto nutrirmi, se non volevo trovarmi a sgranocchiare bustine e infusi.
Decisi di uscire e fare rifornimento di viveri e poi mi avrebbe fatto bene distrarmi un po’ all’aria aperta.
Afferrai la mia vecchissima tracolla di pelle e ci gettai dentro chiavi, macchine fotografiche e portafoglio, poi uscii nella luce aranciata della sera e cominciai a camminare.

Andavo tranquilla a passo non troppo veloce, svoltando in una viuzza, attraversando un ponticello o una piccola piazza, senza pensare troppo a dove stessi andando: volevo mescolarmi con la gente, volevo essere inghiottita dalle persone e confondermi fino a sparire.
La presenza sempre più frequente di turisti e di lingue straniere mi avvisò che ero sempre più vicina al centro di Venezia, con tutto il suo caotico scalpiccio di piedi e flash di macchinette usa e getta.
Accelerai il passo tenendo lo sguardo basso sulle stradine lastricate e facendo attenzione a schivare qua e là una coppietta, un bambino, dei giapponesi in posa, un venditore ambulante e un gondoliere dall’aria stanca.
La mia testa era vuota e le strade erano piene, salii quasi correndo dei gradini, spiaccicandomi tra braccia, corpi, zaini, odori e voci, fino a che non alzai lo sguardo sul Canal Grande mentre appoggiavo le braccia sul parapetto del famoso Ponte di Rialto.
La forte luce arancione mi schiaffeggiava in piena faccia, abbagliante, bellissima e spietata colorando di rosso fiammante l’acqua che scorreva tranquilla e le barchette irrequiete sulla sua superficie.
Estrassi dalla borsa Xalokairi e scattai una, due, tre volte, rintronata da quel calore come da un abbraccio.
Chiusi gli occhi più stretti che potevo e mi trovai nel mondo di lucine e ghirigori dietro le mie palpebre mentre il brusio indistinto attorno a me si attutiva piano piano e all’improvviso ero sola.
Ero sola, ecco cos’era. Non riuscivo a sopportarlo, ero a casa eppure mi sentivo sradicata, non avevo un posto vero dove stare: una casa è un posto dove ci si sente protetti, dove c’è chi ti accoglie, un posto in cui non ci sono spifferi freddi e ti senti comodo.
E la mia casa non era lì -ma nemmeno ad Atene o a Londra!- , i miei amici non c’erano e nemmeno la mia famiglia.
E allora dove dovevo stare io? Quand’era stata l’ultima volta che mi ero sentita al mio posto?
Un barlume indefinito mi si accese nella mente illuminando ricordi di note musicali, risate e ciglia lunghe: ero stata così concentrata su Alexandros e tutti gli avvenimenti che lo avevo lasciato in disparte.
 Andrea non si era più fatto vivo da quando l’avevo visto l’ultima volta dall’ambulanza, fermo sul marciapiede con la sua faccia sconcertata, dopo che un pazzo ubriaco l’aveva quasi picchiato e un perfetto sconosciuto l’aveva preso a male parole.
Uno strano nodo mi si strinse nello stomaco: come avevo potuto lasciarlo lì e dimenticarmi dell’unica persona che mi aveva aiutato, l’unica innocente in tutto questo caos?
Dovevo per lo meno scusarmi, per quanto la situazione fosse rimasta in sospeso, per quanto gli ultimi incontri fossero stati sempre interrotti, insicuri e confusi come lo ero io stessa.

Rimisi Kalokairi in borsa e mi voltai urtando la gente che si era accalcata lì nel frattempo; camminando a passo svelto percorsi a ritroso le viette lungo le case tiepide, mentre il sole filtrava sempre più basso.
Ed eccomi al portone.
Suonai il campanello mentre mi spuntava pian piano un mezzo sorriso che non riuscivo né a spiegare né a trattenere: il pensiero del suo viso amichevole e degli occhi vivaci che si stringevano a ogni risata, mi dava uno strano effetto mentre mi aspettavo di vedere la maniglia abbassarsi da un momento all’altro.
Ma non accadde nulla. Nessun segno di vita. Nizba.
Attesi qualche minuto e dopo un po’ iniziai a tamburellare con una mano sullo stipite della porta, scorrendo rapidamente nella mia testa il calendario delle giornate di Andrea: a quell’ora era sempre a casa, ne ero sicurissima.
Suonai nuovamente valutando il fatto che una persona normale probabilmente si sposta da casa di tanto in tanto, non tutti passano le giornate a riordinare una casa vuota per dimenticare la solitudine.
Avrei dovuto chiamare prima? Ovviamente. Cavoli che stupida, non si dovrebbe piombare in casa di qualcuno così.
Stavo per tornare sui miei passi quando dei rumori dall’interno dell’appartamento mi fecero restare ferma dov’ero: una chiave raschiava nella vecchia serratura…finalmente apriva!
Mi risistemai ben dritta e con il mio sorriso smagliante migliore mentre la porta un po’ scricchiolante si apriva piano piano con qualche cigolio ed esitazione.
“Ciao Andr…”
La voce mi si smorzò in gola quando vidi che davanti a me avevo un ragazzo che mi guardava diffidente, muscoloso, spalle larghe e capelli scuri.
Rimasi spiazzata per una frazione di secondo, temendo di aver sbagliato campanello, portone, casa o quartiere, ma poi riconobbi le stesse ciglia lunghe e gli occhi liquidi e dolci, un po’ nascosti in quei lineamenti più decisi e marcati rispetto a quelli a cui ero abituata.
 “Sì?” Borbottò il fratello di Andrea con una voce più profonda e un po’ impacciata.
“Sì ciao. Hem, io stavo cercando Andrea, è in casa?”
Il ragazzo si guardò nervosamente le punte delle scarpe, evitando il mio sguardo.
“No, lui…non credo ci sia.”
“Oh bè, in questo caso…”
Mi bloccai. Cosa diamine voleva dire “non credo ci sia”? In quell’appartamentino sicuramente non ci si perdeva di vista.
“…Non è che puoi controllare se c’è?” Chiesi scrutando le sue mani che giocherellavano con le chiavi.
“Digli che sono la Ceci.” Aggiunsi poi con un sorriso speranzoso.
“Oh, eh…” Balbettò lui mentre notavo che il suo sguardo saettava a disagio verso l’interno della casa da dove proveniva una musica blues che non riuscivo a riconoscere.
“Eh, Andrea è via.”
Alla sua risposta aggrottai le sopracciglia mentre lui incassò la testa nelle spalle come se volesse scomparirci dentro con il suo sguardo basso.
“Ok.” Dissi dopo qualche momento di silenzio imbarazzante.
“Già.” Mormorò il fratello arrossendo e chiudendo un pochino la porta dietro di sé, come se temesse che mi scaraventassi in casa sua da un momento all’altro.
 “Bèh, allora per favore digli che sono passata quando lo vedi.” Conclusi con un sorriso forzato, di cortesia, verso il ragazzo che cercava di scomparire in sé stesso.
“Sì, sì.”
“Grazie mille!”

Mi voltai senza ricevere risposta, mentre la porta si richiudeva velocemente, e camminai lentamente verso casa, delusa ed esitante.
Ormai il sole faticava a illuminare la strada e tutto si era tinto di una luce rosata che mi faceva sempre sentire in pace con il mondo di solito, ma in quel momento ero come inquieta: avrei scommesso qualsiasi cosa che Andrea fosse in casa.
Forse perché suo fratello era così nervoso, forse per colpa di quel blues che mi sapeva tanto da lui, forse perché…forse perché ero solo paranoica.
A dire il vero, un modo per saperlo c’era, bastava chiamarlo.
Estrassi in fretta il cellulare dalla borsa e me lo incollai all’orecchio subito dopo aver schiacciato il tasto verde.
Tuut-tuut-tuut..
Rispondi dai, rispondi. Rispondi, rispondi, rispondi. Rispondi. Che brutto imperativo, mi sembrava la preghiera più disperata che avessi mai fatto. Rispondimi Andrea.
Scattò la segreteria telefonica ed io riprovai subito dopo, e un’altra volta ancora finché la linea non cadde miseramente, con tutte le mie speranze.
Andrea stava cercando di evitarmi, chiaro come il sole.

Corsi fino a casa e mi infilai subito in camera mia, a faccia in giù sul letto, schiacciando le fotografie e i miei ricordi, braccia e gambe aperte a stella marina. Solo in quel momento ricordai di non aver fatto nessuna provvista di cibo.
Poco importava, mi sentivo così sola che avrei potuto mangiare bustine da tè per un mese, in cambio di una voce amica, di qualcuno che cercasse di capire dove stessi fluttuando e mi riportasse a terra, o di un paio di ciglia lunghe sopra uno sguardo limpido.






Ok. Odiatemi. Maledicetemi. Non recensitemi mai più, sono imperdonabile, è tardissimo. Ci ho messo tantissimo a pubblicare, lo so.
Non accadrà più-spero- ma è stata tutta colpa della scuola (maturità maledettissima.)
Spero mi perdoniate e continuiate a leggere, nonostante questo capitolo sia stato scritto di fretta, spero vi piaccia :)
Fatemi sapere cosa vi frulla in testa,
Bacio,


Ireth


L'immagine all'inizio non mi appartiene, tutti i copyright sono di   http://weheartit.com :)
  
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