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Autore: shotmedown    07/02/2012    3 recensioni
No, lei non ci credeva più. Inutile negarlo, c'era qualcosa che non andava nella sua vita, e non poteva far altro che crogiolarsi nella sua ignoranza; un giorno, forse, qualcuno le avrebbe fatto capire quanto contasse, e le avrebbe donato un mondo fatto di sicurezza e passione, ma per ora, si limitava a partire, ad andare lontano. Boston le stava stretta, Montréal era la libertà.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cinque amici e un paio di chitarre.'
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Don't let me go, don't let me go, don't let me go.

The Fray, Never say never










Afferrai Chuck per un piede e lo tirai giù dal letto, facendo cadere con lui anche le lenzuola, poi mi allontanai per testare la situazione da una distanza di sicurezza. Iniziò a contorcersi come colto da uno spasmo improvviso. Quando tornò in piedi, si guardò intorno confuso, per poi notare la mia presenza e puntare tutta la sua rabbia su di me.
"Ma che ti salta in mente?!" Seb e Jeff se la ridevano di gusto. 
"E' un'ora che cerco di chiamarti." Controllò il cellulare e trovo le mie venti chiamate perse, ma ciò non bastò a frenare le sue imprecazioni. Ora avrei dovuto svegliare David, e quello sarebbe stato molto più che divertente. Chiesi ai ragazzi di seguirmi con del ghiaccio e lentamente ci avvicinammo alla porta della sua camera. Posai un orecchio sulla superficie e cercai di capire se fosse già in piedi oppure no: silenzio assoluto. Abbassai cautamente la maniglia della porta e intimai ai ragazzi di seguirmi senza inciampare nelle cose del bassista. Era completamente buio, ma Seb ovviò a questa cosa utilizzando il telefono e facendo luce a tutti noi. Senza neanche respirare ci avvicinammo al suo letto e ci inginocchiammo, dopodiché chiesi a Chuck di avvicinarsi alle tende e di spalancarle non appena avessimo finito. Intanto Jeff si accostò a David e si chinò lievemente, inclinando il bicchiere. Al mio segnale, tirò la maglia di Dave tanto quanto bastava a farci scivolare il ghiaccio dentro. Immediatamente il ragazzo si alzò iniziando ad urlare come una donna. Chuck fece entrare la luce e David si accasciò sul letto coprendosi gli occhi. Nel ridere caddi a terra, seguito dagli altri a cui mancava addirittura il respiro.  
"Bastardi! Me la pagherete cara!" Gridò, cercando di scostare la t-shirt dalla pelle, ma con scarsi risultati, sicché si chiuse in bagno.
"A Dave non passerà facilmente." Commentò Chuck, calmandosi e coricandosi sul letto della nostra vittima. 
"Oh, David e' un bonaccione. Scommetto che se ne sta li in bagno a ridersela come un idiota." Affermai. Mi sollevai da terra e mi avvicinai a lui, bussando alla sua porta. "Hey, Mr. Maglietta ghiacciata, dobbiamo andare!" Soppressi una risata udendo il suo lamento, ma quando tornò in camera compresi che ormai ci aveva perdonati. Per orgoglio maschile continuò a tenere il broncio per un bel po', almeno fino a quando non decisi di avvicinarmi a lui e metter fine a quella sorta di 'risentimento'. 
"Eri tutto un fuoco, dovevo fare qualcosa..." Mormorai, accarezzandogli il volto con fare provocante.
"Pierre...C'e' una corda nel borsone. Sai cosa farci." Mise quei pochi vestiti che restavano fuori in valigia e andò a fare una doccia. Gli altri lo imitarono, sicché decisi di scendere per primo e accaparrarmi il posto migliore in auto. L'aeroporto era vicino, saremmo arrivati a Winnipeg in giornata, dopodiché c'era Ottawa e poi finalmente casa. Finalmente si faceva per dire. Avrei voluto rimanere a Vancouver, se proprio me lo avessero chiesto, ma dopo la mia chiacchierata con David qualche giorno prima, avevo capito che la mia vita privata non doveva compromettere il mio rapporto con gli altri, e che solo tornando ad essere il vecchio Pierre avrei potuto far capire che nulla era cambiato. 

Samantha p.o.v

Era pomeriggio inoltrato quando rientrai, con migliaia di cose da fare e zero voglia di impegnarmi per farle bene. Gettai la borsa sul divano, facendo scivolare fuori qualche cartellina e mi diressi sotto la doccia, per scrollarmi dalle spalle il peso di una giornata in cui non avevo concluso altro che un piccolo paragrafo della recensione di un libro da lanciare sul mercato entro qualche giorno, e i cui diritti erano valsi un milione di dollari. Lo avevo letto, e dovevo dire che mi era piaciuto subito tantissimo. 'Il linguaggio segreto dei fiori' meritava sul serio tutto quanto era stato speso e anche mi fosse costato settimane di duro lavoro, lo avrei reso noto almeno nel Massachussets e negli Stati Uniti. Mi piaceva pensare in piccolo, le conseguenze e i risultati non arrecavano grosse delusioni. Decisi di mangiare un sandwich per quella sera, e appena mi fu possibile chiamai Leah per darle mie notizie e sapere come procedeva lì. Impugnai la cornetta e composi il numero della casa di Montréal, per poi attendere qualche squillo prima che la sua voce squillante arrivasse a spaccarmi i timpani.
"Ero intenzionata a chiamare l'FBI!" Sgranai gli occhi, ma non potendolo lei notare le chiesi il perché di quell'affermazione. "Sono giorni che non ti fai sentire e non rispondi a chiamate e messaggi, cosa dovrei pensare?"
"Che ho troppo da fare, forse?" Iniziò a sgridarmi alla stregua di una madre petulante e apprensiva, ma ad un tratto si fermò e sospirò. Capii che stava sorridendo e che finalmente aveva ritrovato la calma.
"Leah, sto benissimo. E poi tra due mesi e mezzo sarò a casa, pensala in questi termini." La rassicurai. Ovviamente, fu come chiedere ad un koala di staccarsi dal suo albero. 
"Un corno. Tra un mese è il tuo compleanno, ricordi?" Eravamo già a fine Febbraio? Controllai il piccolo calendario sul tavolo di fronte al divano e mi resi conto che il 31 Marzo sarebbe arrivato proprio entro quattro settimane.
"Che non ti venga niente in mente!" Proruppi, alzandomi in piedi. Detestavo le feste a sorpresa; non mi sorprendevano mai e non sentivo la classica euforia crescermi dentro alla vista di persone con cui non avevo mai avuto dialogo e che erano lì solo ed esclusivamente per un fattore numerico ed estetico.
"Tranquilla, tranquilla. Ma di certo non puoi passarlo da sola."
"Perché no, scusa?" Sapndo di non poterla convincere in alcun modo e di non poterla distogliere da idee strambe, decisi di scendere a patti. "Tu e Jack potreste venire qui un paio di giorni. Che ne pensi?" 
"Vado a prenotare i biglietti." Detto questo riagganciò, lasciandomi come un'emerita idiota a chiamare il suo nome.
Andai a distendermi sul letto, ricominciando la lettura di Pascal, uno degli autori che preferivo. Dovevo molto a parte del suo pensiero esistenzialista, e il poterlo leggere così spesso mi aggradava. Tuttavia, come se la mente si aprisse a pensieri più profondi, iniziai a ricordare l'ultima volta che lo avevo sentito nominare: il 27 Settembre del 2008, all'aeroporto di Boston. 'Passato e presente plasmano il futuro', aveva detto, in un flebile ma percettibile sussurro. In quel momento il mio disastroso passato e il mio compromesso presente non avrebbero potuto dare alla luce un futuro roseo, di quelli che ci si aspettava dalla vita per il solo fatto che si aveva sofferto in precedenza. Chiusi il tomo e lo posai sul mobile accanto al letto, poi spensi la luce. Prima di serrare le palpebre, diedi un'occhiata al cellulare: una chiamata di David, di quattro giorni prima. Ci pensai su un po', prima di prendere la decisione di richiamarlo. 
"Forse sarebbe meglio finirla qui, Sam." Socchiusi gli occhi, sospirando. Era la cosa più giusta e concreta da fare. Mi sentivo così ipocrita nei confronti prima di me stessa poi di Pierre. "Lui sa." Fui colta da un sussulto. 
"E' arrabbiato con te?" Dissentì. In quel momento, provai più confusione di quanta ne avessi mai sentita prima. "Non so come sentirmi, David..."
"Che intendi dire?" Poggiai il capo sulla lettiera, colpendola lentamente più volte. 
"Non so se sentirmi ancora più delusa o...felice per lui." 
"Delusa, perché...?" Dave mi sembrava consapevole di qualcosa, ma non potevo rischiare di chiudere i contatti con l'unica persona che potesse comprendermi, a parte Leah, perché vicina a Pierre. 
"Perché è così felice?" Un silenzio profondo seguì quella mia domanda. Non sapevo come facesse a sentirsi così bene dopo aver lasciato la sua ragazza e aver distrutto la nostra amicizia. E soprattutto non mi sembrava giusto, per quanto egoista quel mio pensiero potesse sembrare. Misery loves company, infondo.
"Forse è solo apparenza, Samantha." 
"Effettivamente a mentire è bravo." Affermai. 
"David! Diamine, ti sei perso lo scivolone di Jeff!" Sentii una voce in lontananza che riconobbi subito. Entrambi se la ridevano, e in quel frangente non seppi se soffermarmi a immaginare la scena, o staccare sedutastante. "E' tua madre?" Udii un'interferenza, o quello che doveva essere un passaggio di cellulare. I miei muscoli si contrassero, ma non risposero ai miei comandi. Allontanai il telefono dall'orecchio, ma la sua voce che chiamava un'altra donna mi spinse a riavvicinarlo. Ascoltai silenziosamente il suo respiro; in un istante riuscii a dimenticare tutto e a ricordarmi solo che mi mancava. Lo sentii più lontano, poi improvvisamente bloccato. Doveva aver letto sul display il mio nome. 
"Sam? Sam, sei tu?" Sentii un groppo in gola, e subito dopo ebbi la sensazione che i miei occhi volessero esplodere. Lasciai che una lacrima scorresse, ma una dopo l'altra iniziarono a rigarmi il volto. Chiusi il collegamento e gettai il cellulare a terra, scivolando lungo il muro. Solo i singhiozzi di colei che non riusciva a perdonarsi di essere così orgogliosa e testarda per perdonare colui che le aveva ridato vita, riempirono il silenzio, che oramai, sovrano, regnava in una stanza ai margini di Sydney Street.  
  
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