Amortentia: profumo di neve, di libri e...
VIII.
Durante
le lezioni la mia mente vagò per conto
proprio,
senza badare minimamente né alle parole
dei
professori né a quelle di tutti gli altri.
Blaise
sembrava essere diventato particolarmente
loquace,
non si risparmiava dal lanciarmi frecciatine
che,
dalla mattina del bacio, per me avevano assunto
un
significato molto diverso da quello che avevano prima.
Mancavano
venti
minuti alle cinque, quando uscii dalla Sala Comune per dirigermi alle
Serre. Mi sentivo ansioso, forse persino spaventato, ma nel profondo
speravo che Theodore prendesse di nuovo l'iniziativa: non avrei
trovato il coraggio di parlare, lo sapevo, ed ero troppo terrorizzato
all'idea di un suo rifiuto per cercare di ricambiare in qualche modo
quel bacio. Sarebbe stato bello sorprenderlo, per una volta, ma non
ce l'avrei sicuramente fatta: era strano il legame che avevo con
Theodore, strano a tal punto che non sarei riuscito a definirlo
neppure io. Eppure, fino a qualche giorno prima, io ero per lui un
libro aperto, di semplice lettura, e lui era lo stesso per me; o,
almeno, così pensavo.
Sembrava passato un
secolo dalle notti in cui rimanevamo svegli fino all'alba
rannicchiati nei nostri letti o seduti sul divano in Sala Comune, con
il fuoco verde che scoppiettava davanti a noi, per parlare,
scherzare, ridere insieme. In quella manciata di giorni mi ero
sentito incredibilmente solo, nella mia confusione, ciò che
prima
trovavo confortante non riusciva a darmi nessun sollievo.
Arrivai in anticipo
al luogo del nostro appuntamento, ma anche Theodore era già
lì.
Era seduto su uno
dei muretti che circondavano le Serre, infagottato nel suo mantello;
mi dava le spalle, così lo osservai in silenzio per qualche
istante.
Aveva la schiena incurvata e la testa bassa, sembrava estremamente
stanco; poi mi accorsi del tremore che scuoteva le sue spalle, e
trattenni il respiro sentendo una fitta dolorosa al cuore.
Non sapevo come
comportarmi, diviso tra l'impulso di andare da lui e confortarlo e
quello di scappare di nuovo verso il castello, lasciandolo
lì, solo
con le sue lacrime.
Mi lasciai scappare,
senza volerlo, un verso a metà tra un sospiro e un gemito
insofferente: bastò quello perché Theodore mi
sentisse e si
voltasse di colpo verso di me, come se avesse avuto paura di farsi
trovare in quelle condizioni.
– Sei
in anticipo, – mormorò con voce rotta,
affrettandosi ad asciugare
le lacrime che gli bagnavano il volto come se temesse di essere
deriso per quella debolezza; annuii, un groppo in gola che mi
impediva di parlare, ed avanzai lentamente verso di lui. Avevo
più o
meno messo a tacere la parte di me che mi esortava a tornare al
castello, ma non sapevo comunque come comportarmi.
Mi lasciai guidare
da quell'istinto che credevo di non possedere più, e mi
sedetti
accanto a lui sul muretto; sentii la sua tensione e mi irrigidii
ulteriormente a mia volta, l'empatia che mi legava a lui non era
svanita in quei giorni. Mi voltai a guardarlo, accennando un sorriso,
e senza rendermene conto appoggiai una mano sulla sua, abbandonata
tra i nostri corpi come una labile barriera.
Rabbrividii e lo
vidi fare altrettanto, e l'impulso di spostarla fu fortissimo: mi
bastò vedere la scintilla che illuminava l'azzurro dei suoi
occhi,
però, per convincermi che, se l'avessi fatto, non sarebbe
stato un
bene per nessuno dei due.