Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Segui la storia  |       
Autore: Aliens    11/02/2012    3 recensioni
Quando due mondi diversi si scontrano, alle volte, c'è bisogno di un eroe, un eroe che si nasconde tra facce ostili che può colorare, finalmente, un'esistenza grigia.
Alla cima del grande palazzo vi era una gigantografia pubblicitaria. Il simbolo della banca del suo antenato capeggiava sopra l’immagine dei suoi ereditieri con in mano un salvadanaio a forma di porcellino. Sorridevano, i loro visini nivei guardavano il belvedere di Berlino, semplici e rassicuranti.
“Il vostro futuro nelle nostre mani” recitava la pubblicità.
«Se» borbottò Tom buttando il suo zaino a terra «La vostra anima nelle mani del diavolo».
Si piegò tirando , appena, in su i larghi pantaloni e aprì lo zaino. Al suo interno aveva stipato abbastanza bombolette per la sua opera di puro vandalismo.
Oh, come avrebbe goduto a far sapere a suo padre cosa pensava di lui. Come avrebbe sogghiniato quel mattino nel vedere i titoli in prima pagina. Per come erano distratti i suoi genitori non avrebbero mai sospettato di lui.
Afferrò una delle bombolette e la guardò sorridendo.
Genere: Commedia, Erotico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bill Kaulitz, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, Lemon, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Image and video hosting by TinyPic



Image and video hosting by TinyPic





***  

Era stata la richiesta d’aiuto più dolorosa ed eclatante della sua vita.
Le era costata gran perte della suo già piccolo equilibrio.
Era uscita dal suo cuore con inaspetatta potenza e aveva dovuto sottostare al suo volere.
Era divampata come una fiamma che attacca una casa di legno.
E nulla aveva potuto.
Lì, al confine tra Tempelhof-Schöneberg e Charlottenburg-Wilmersdorf, dove tutti l’avrebbero potuto ammirare,
aveva inciso il suo dolore con l’uso di una boboletta dai colori accecati:
« I Need a Hero»
E tutta Berlino poteva ben riconoscere la sua firma:
Ykin

In quel momento anche Ykin aveva bisogno di un aiuto.


***




COGITO ERGO SUM
Penso dunque esisto.
[Renè Descartes]


***



Berlino non dormiva mai.
Niky aveva quella convinzione fin da quando era nata. Berlino era una città che non conosceva orari, una città caotica e frenetica, grigia come il cielo di quel mattino di inizio Novembre.
O, almeno, lo era lì a Gropiusstadt, quartiere nel distretto di Neukölln, nelle periferie malfamate della Capitale teutonica, tristemente famosa come il quartiere di Christiane F. di “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”.
Niky l’aveva letto quel libro e si era stupita di come il tempo si fosse fermato in quel maleodorante e disatrato quartiere. Vi erano ancora i casermoni allineati, i giardini pubblici ridotti al nulla dai vandali, la polizia distratta che circolava sulle strade dando divieti a destra e manca. Forse era quello il motivo che rendeva il quariere il Bronx teutonico.
Erano i divieti, l’incapacità di fermare la delinquenza cercando di risolvere il problema alla radice. Niky ricordava bene la sua infanzia passata tra i casermoni popolari.
I suoi genitori si erano trasferiti lì dopo il matrimonio. Non avevano soldi e nemmeno un lavoro stabile per potersi permettere un appartamento in una zona più sicura di Berlino e, con una fortuna che si sarebbe ritorta contro di loro, avevano trovato un appartementino al dodicesiomo piano di un stabile a tredici piani. Un appartamento piccolo ed essenziale, con due camere da letto, un minuscolo bagno e una cucina che comunicava con il salotto e fungeva anche da sala da pranzo. Quattro stanze in tutto.
Quando era nata lei, l’idilio tra i genitori aveva iniziato a scemare. Erano arrivati i problemi e le discussioni. E con loro anche la distrastosa infanzia di Niky. Ricordava benissimo il giorno in cui i bambini dello stabile vicino gli avevano distrutto la bicicletta buttandola contro la macchina del portiere. Heinz Wren era tutt’altro che un buon portiere, in tutti i suoi ricordi Niky lo ricordava ubriaco. Quando aveva visto la sua utilitaria ammaccata dalla bicicletta, l’aveva presa per il colletto della camicia e l’aveva picchiata così forte che quando era rientrata a casa era crollata sul pianerottolo. Ricordava perfettamente la faccia del padre che non si era risparmiato di andare dal portiere a dirgliene quattro. Ovviamente aveva rimproverato anche lei.
I casermoni di Gropiusstadt puzzavano di muffa, piscio e altre zozzerie che lei non aveva mai avuto il coraggio di scoprire. Aveva scoperto il perché di quel puzzo infernale, concentrato sulla tromba delle scale, quando, un giorno, mentre tornava da scuola, l’ascensore si era bloccato al quinto piano e lei, che lo stava aspettando da più di mezz’ora –perché fare dodici piani di scale non era la cosa migliore per una bambina di otto anni- se l’era fatta addosso, scatenando le ire della portinai, al secolo Ada Wren, la moglie dell’ubriacone. Anche da lei le aveva prese. Aveva imparato, quindi, che quando l’ascensore era rotto doveva andarla a fare in un posto in cui non la vedeva e quello era proprio la tromba delle scale. Era stato in quel momento che Niky non li aveva biasimati più.
Quando, poi, a dieci anni, aveva sentito il bisogno di socializzare aveva scoperto che a Gropiusstadt era difficile anche giocare. Si era sempre chiesta perché chiamassero “Zona giochi” un posto situato tra un casermone e l’altro, che puzzava di piscio ancora di più della tromba delle scale. Si era sempre chiesta come un ragazzo potesse “Rilassarsi e giocare gioiosamente” in un posto il cui primo divieto, scritto a lettere cubitali su un cartello, era: è vietato urlare, giocare a palla e disturbare la quiete dei conquilini. Ergo, si era sempre detta Niky, i bambini potevano solo graffiare la sabbia che era una latrina per bimbi e animali.
Così, il divito tassativo di divertirsi, li avevano portati a cercare qualcosa che potesse distrarli dalla squallida vita che erano costretti a vivere.
A Gropiusstadt imparavi subito che tutto ciò che è permesso è terribilmente noioso e quello che è vietato, invece, è di gran lunga più divertente. Era così che crescevano i bambini del quartiere, con la convinzione che le leggi siano solo stupide imposizioni.
Gropiusstadt era un posto dimenticato da tutte le istituzioni, una Sodoma moderna.
Niky si legò i capelli neri in una frettolosa crocchia lasciando che alcune ciocche ricadessero sul suo viso, e afferrò il suo zaino. Con cura se lo mise in spalla e uscì di casa, sbattendo la porta.
La puzza aumentava la mattina, lei lo sapeva bene. Ancora di più se si era costretti ad uscire alle sei e mezza per recarsi a scuola. La maggior parte dei ragazzi del Casermoni andavano alla Johann Gutenberg Gymnasium. Un Liceo sì, ma con i metal detector posti all’entrata. Niky lo diceva sempre che il quartiere era una riproduzione uscita male di un ghetto americano.
Lei, invece, non andava a scuola a Gropiusstadt, come i suoi amici, ma a Chalottenburg, il cuore di Berlino. Per arrivarci, da Gropiusstadt, ci voleva quasi un ora. Aspettò l’ascensore e vi si infilò dentro. Quella mattina non era proprio al suo apice della forza, non aveva dormito e la sveglia aveva suonato, suo malgrado, alle 5:30 come ogni mattina. Si era trascinata in bagno, lavata, vestita, e aveva cercato di nascondere le pesanti occhiaie nere sotto un chilo di fondotinta. Odiava quel prodotto ma non poteva dar ancora prova a quei riccastri che per lei quel ritmo era insopportabile. Aveva afferrato una merendina e un succo di frutta che avrebbe consumato in metro –tanto aveva ventidue fermate prima di cambiare treno- ed era uscita dopo aver dato un bacio a suo padre e a al suo fratellino che dormivano nella stanza grande. Uscì facendo attenzione a non sbattere il pesante portone e ad accoglierla fu una sferzata di vento non indifferente. I venti polacchi stavano portando i grandi nuvoloni di neve che si sarebbero svuotati sulla città. Si strinse nel suo cappottino e prese a camminare verso la metropolitana di Rudow, poco distante dai Casermoni.
Era ormai un’abitudine. Da due anni, in fatti, Niky aveva abbandonato il fallimentare liceo di Groupiusstadt dopo una borsa di studio. Aveva più talento, più intelligenza e più voglia di imparare dei suoi amici di quartiere, ed era stata spedita alla Immanuel Kant Gymnasium. Un nome, una storia. L’Immanuel Kant aveva trecento anni, come il quartiere in cui era situato, ed era la scuola più prestigiosa –e nemmeno a dirlo, costosa- di Berlino, una delle più consociute a livello nazionale. Quando, dopo un concorso di letteratura, Niky, al secolo Nicole Emily Carter, studentessa del 10° grado nella Johann Gutenberg aveva surclassato Jan Libenitz (il cui nome era scolpito nei libri di storia tedesca), giovane studente del 13° grado alla Immanuel Kant con il massimo  dei voti e un brillante foturo da medico, entrambe le scuole erano rimaste atterrite. La prima perché aveva sempre calcolato Niky come una spocchiosa intelligentona che contraddiva i professori e che di conseguenza prendeva voti bassissimi, la seconda perché una ragazzina di Gropiusstadt fosse tanto intelligente ed istruita da poter battere in modo così pesante uno che alla cultura era stato iniziato fin dalla tenera età.
Era stato in quel momento che i cervelloni della Immanuel Kant avevano capito che Nicole Carter, figlia di un imbianchino, residente nel quartiere malfamato per eccellenza e iscritta alla scuola più bistratta di Berlino, dovesse diventare una di loro.
Le avevano offerto una mega borsa di studio con tanti zeri da far svenire suo padre e le avevano promesso tutte le coperture che le avrebbero permesso di accrescere il già innato talento intellettivo.
Suo padre, nonostante le sue proteste, l’aveva spedita con un gran sorriso. Dopo che sua madre se l’era data a gambe, nella vita di Johann Carter non c’era stato niente per cui gioire veramente. Niky, invece, ne sentiva il peso addosso come una condanna.
Due anni lì dentro le erano serviti per capire che sì, le differenze c’erano e creavano problemi. Non aveva amici e i ricchi la snobbavano mentre i professori la lodavano.
Arrivò alla stazione di Rodow ed entrò. Notava con disinteresse i ragazzini che rientravano a casa, ubriachi o strafatti, dopo una notte da leoni.
Notte da leoni, mattina da coglioni, diceva un detto del quartiere. Niky li osservò cercare di alzarsi e collassare. Alcune macchine lasciavano le prostitute all’imboccatura della stazione mentre qualche agente sonnecchiava nei gabbiotti. Infilò il suo abbonamento e lasciò che le porte di vetro si aprissero per farla accedere al binario. Il suo lato era pieno di impiegati che si recavano a Schöneberg o al Mitte. Tutti così lontani dalle malfamate periferie.
Ed era così la sua mattina, pensò mentre si sedeva su un rotto e scomodo sedile rosso e apriva la sua merendina, la routine martellante di una ragazza povera tra i ricchi.



***




La sveglia suonò segnando le sette e mezza.
Si girò nel letto svogliato infilando la testa sotto il comodo cuscino. Non aveva devvero voglia di alzarsi, non dopo la serata passata in compagnia di Brigitte Von Ribbentrop in uno dei locali del Ku’damm. Quell’oca bionda riusciva a rigirarselo come voleva.
Aveva fatto tardi e non aveva alcuna voglia di alzare le chiappe dal suo grande letto e andare a scuola.
Mandò un mugugno e si sotterrò nelle pregiate coperte.
Non ci volle molto per farlo cadere in uno stato di dormiveglia così fitto che non si accorse della porta che si apriva silenziosamente.
Una mano si posò sulle sue spalle scuotendolo appena «Signorino Tom, sua madre ha detto che è ora di alzarsi».
Tom rantolò di dolore.
La mano di Ines, la domestica, lo scosse con maggior dolcezza.
«Di’ a mia madre di andare al diavolo» borbottò il ragazzo irritato voltandosi dal lato opposto alla domestica.
Voleva dormire, dannazione.
La donna, però, non era dello stesso avviso. Allungò una mano e cominciò a scuoterlo con vigore. Non si sarebbe presa un altro rimprovero dalla Signora Kaulitz per quel pigro di suo figlio.
«Forza, si svegli».
Tom mandò una bestemmia che costrinse la domestica a farsi il segno della croce. Era finita in una casa di miscredenti bestemmiatori. Lo spinse con malagrazia facendolo cadere per terra, provocando un'altra bestemmia da manuale.
«A mali estremi, estremi rimedi» sbuffò la domestica vedendo la testa del suo padroncino uscire da dietro il letto «Stia attento alle parole Signorino Tom».
Tom si massaggiò la testa guardando la filippina con odio. Si chiese perché non si fosse chiusa in convento invece di remonirlo su ogni parola che diceva. Se era tanto cattolica perché non aveva dato i voti?
Ines gli intimò di darsi una mossa prima di uscire, con la grazia di un elefante, dall’enorme stanza del treccinato.
Tom si alzò per poi indirizzare verso la porta il più che famoso gesto dell’ombrello. «’Fanculo vecchia troia cattolica» borbottò alzandosi.
I suoi piani erano andati malamente a puttane. Si sistemò i pantaloni del pigiama e si infilò un’immensa maglietta bianca a coprire il suo addome allenato e, scalzo, uscì dalla sua stanza.
Il corridoio era caldo e già fin troppo illuminato. Le porte bianche di pregiato legno di quercia erano tutte serrate. L’unica accostata era quella della camera del fratello. Si avvicinò verso l’enorme porta e bussò appena.
«Avanti» venne da dentro.
Sorrise e aprì la porta «Ehi, buongiorno»
Bill, seduto sulla scrivania, stava smanettando con il computer, disegnava su la table grafica professionale che suo padre gli aveva comprato. Aveva ancora i capelli scompigliati –segno che Ines era passata anche lì- e il pigiama di seta blu addosso.
«’Giorno Tomi» lo salutò allegro girandosi verso di lui «Scommetto che Ines ti ha butta giù dal letto»
«Già» asserì Tom posando le mani sulle spalle del fratello «Disegni?»
Bill annuì spostandosi appena «La tua ragazza mi ha chiesto di disegnarle qualcosa per il ballo delle debuttanti» gli spiegò tirando qualche linea sulla tavola grafica.
Tom fissò il disegno. L’abito che Bill stava disegnando era degno di una principessa. Di un bianco disarmante, lungo e dallo stile ottocentesco. Sbiancò quando si accorse a chi era indirizzato e cosa avrebbe costituito.
«Quale ballo delle debuttanti?» chiese tremante «Non mi dire che…»
«Dovrai andare con lei Tomi, sì» sospirò divertito Bill «E dovrai indossare anche uno smoking»
«CHE COSA?!?!?» urlò incredulo «Quell’oca pronipote di un nazista, quando aveva intenzione di dirmelo che dovevo accompagnarla ad una cazzata del genere, e perché poi?»
«Perché sei il suo ragazzo»
«Io non sono il ragazzo di Brigitte, ci scopo, è diverso» ci tenne a precisare Tom.
«Hai la grazia di un lord Tomi» lo prese in giro Bill con un gioviale sorriso «Ma la società non accetta due che scopano soltanto, tu e Brigitte, agli occhi di tutti, siete una coppia»
«La società berlinese fa schifo» mormorò Tom constatando che quella giornata avrebbe fatto schifo.
Bill si alzò dalla sedia e gli posò una mano sulla spalla sorridendogli «Mettiti l’anima in pace, Tom, siamo entrambi drogati di Brigitte Von Ribbentrop, non possiamo opporre resistenza, anche se io ci provo, la mando a fare in culo e poi le disegno il vestito, quindi...» lo guardò facendo spallucce. Tom sospirò affranto. Bill aveva ragione «Ora scendiamo, mamma starà dando di matto» lo incitò il gemello alzandosi dalla sua postazione.
La famiglia Kaulitz risiedeva da quasi tre secoli in un palazzo a Charlottenburg. Agiati fin dalla notte dei tempi, i Kaulitz erano un’antica e rispettata famiglia berlinese formata, prevalentemente di avvocati e banchieri. Era stata l’ostentata opulenza della sua famiglia a crescere i gemelli Kaulitz. Bill e Tom erano diversi e allo stesso tempo uguali a tutti i ragazzi cresciuti tra gli eleganti palazzi del cuore pulsante di Berlino, a ridosso della Ku’damm. Non erano viziati ma avevano tutto ciò che desideravano, frequentavano la scuola più prestigiosa di Berlino, partecipavano a feste sregolate senza essere giudicati e vivevano l’esistenza in una campana di vetro.
Tom e Bill Kaulitz erano cresciuti sotto la giurisdizione di un famoso banchiere che portava a casa uno stipendio pari a 20.000 euro al mese e di una più che celebre e prolifera pittrice che aveva esposto persino al MOMA di New York. Avevano vissuto un’infanzia costellata di giocattoli, amici, vacanze in posti esotici e avevano goduto della migliore istruzione.
Non che fosse servito a qualcosa, i gemelli erano apatici a qualsiasi imposizione scolastica, ma, essendo ricchi ed influenti, nessuno aveva avuto il coraggio di riformarli.
Era stato quasi scontato scegliere il Liceo più prestigioso e spocchioso di Berlino, l’Immanuel Kant Gymnasium. I gemelli, entrandovi, avevano visto le foto dei loro parenti e antenati appesi in quella specie di Hall of Fame degli studenti illustri della scuola.
A loro non era mai importato più di tanto. Erano soffocati da quell’ambiente alto-borghese, quasi nobiliare. La gabbia dorata che li circondava li aveva stretti in una morsa famelica.
Era la rabbia e la ribellione dei gemelli a renderli diversi dagli altri, forse meno algidi e più umani. Almeno rispetto ai loro spocchiosi amici che si divertivano ad andare in giro con le loro ferrari a farsi vedere.
Tom Kaulitz non aveva voluto una ragazza come Brigitte, Tom se l’era vista nuda in un letto e ne aveva approfittato, perché sì, il perbenismo è prettamente aristocratico. Tom non aveva mai voluto andare in quella scuola per snob e né tanto meno avrebbe voluto andare al Politecnico a studiare Giurisprudenza come voleva il padre. No!
Era stato quel senso di ribellione che aveva creato Macky. Macky era suo alterego, quel nomignolo che sua nonna dava a Bill era diventato il suo modo di evadere. Lo aveva scritto su parecchi muri di Charlottenburg. Macky era un writers, un teppista, era il figlio di uno stimato banchiere. Nell’elitè di Berlino non c’era posto per quelli che scarabbocchiavano i muri.
A Tom non era importato. Aveva guardato un graffito a Tempelhof e ne era rimasto abbaiato. I suoi colori lo avevano accecato come se avesse guardato il sole direttamente in faccia.

Rompi Le Catene


Tom era rimasto a fissarlo incantato e si era scritto nella mente il nome di quel genio: Ykin.
Era diventato il suo eroe, la sua fonte di ispirazione. Sapeva solo il suo psudomino e il suo dominio, Gropiusstadt, il Bronx berlinese. Avrebbe voluto stringere la mano a quel ragazzo e dirgli che aveva illuminato uno che Gropiusstadt non l’aveva mai vista nemmeno con il cannocchiale.
Niky e Tom, oltre alla scuola, avevano in comune Ykin, ma in due modi completamente diversi.
Fu quello il motivo che li fece fermare tutti e due davanti a quel graffito fresco.

I Need A Hero.

Entrambi lo fissarono con interesse.
Entrambi avevano bisogno di un eroe, entrambi sapevano che non sarebbe mai arrivato.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Aliens