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Autore: Oscar_    18/02/2012    3 recensioni
Tutti nascondono dei segreti; anche Sherlock Holmes. Nulla si sa del suo passato, né degli incontri che l'hanno portato a divenire chi è attualmente. Se John si trovasse in condizioni di dover conoscere quei segreti? Se dovesse scavare a fondo nella memoria del tanto conosciuto investigatore, per portare alla luce segreti che, forse, sarebbe stato meglio lasciare celati?
( Il rating rimane verde finché non descrivo scene hot; diviene AU negli spostamenti dei personaggi durante i capitoli )
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Lestrade , Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Secrets






1. Bon voyage!





Holmes non era un tipo che amava viaggiare. Anzi, di suo preferiva starsene comodamente seduto in poltrona, a leggere un libro dei pochi che avevano attirato la sua attenzione. Eppure, a tratti, veniva convocato addirittura all’estero. Precisamente, la sua fama si era estesa fino in Oriente. Ed era giunta in Afghanistan, un nome alla cui pronuncia il dottor Watson aveva rabbrividito. Letteralmente.
« Sherlock, è proprio necessario andarci? » Domandò timoroso, già per la terza volta in un giorno. L’altro sospirò, chiudendo momentaneamente gli occhi. Poi li riaprì, puntandoli in quelli scuri del compagno.
« Non sei obbligato a venire, John. Sebbene abbia effettivamente un gran bisogno della tua presenza medica, posso trovare un sostituto. Non voglio costringerti. » Parve quasi che gliele avessero strappate di bocca, quelle parole di sostegno e conforto. E a John, ciò di certo non sfuggì.
« Non ti ci lascio andare da solo. » Si limitò a dire, per concludere il discorso. Poi finì la cena nel piatto rapidamente, troppo rapidamente.
La notte fu la parte peggiore. Specialmente quella che precedette il giorno della partenza. “Non sei obbligato a venire”. Quella frase gli rimbombava nella mente. Era chiaro che il tono che aveva utilizzato era quasi di sfida. Una maniera per convincerlo a seguirlo anche quella volta, anche in quell’impresa. Come aveva sempre fatto. Eppure c’era qualcosa, nascosto nel profondo del suo cuore, che lo martellava incessantemente, urlandogli di non andare, di dissuadere anche il compagno e di rimanere là a Londra, a risolvere casi “semplici” e non dedicandosi ad altro per il resto dei loro giorni. Che bisogno c’era di spingersi così lontano? A nessuno dei due piaceva viaggiare. Ma, se Sherlock aveva accettato, c’era certamente un secondo fine. Il caso, probabilmente, l’aveva già mentalmente risolto senza esitazioni. Forse sperava di trovare Moriarty. Non ne aveva idea. Ogni cosa a suo tempo, si ripeteva, tentando di chiudere occhio senza risultato.
 
Il sole giunse troppo in fretta. Lo svegliò brutalmente, penetrando attraverso le imposte socchiuse. Si alzò imprecando, massaggiandosi il capo stancamente. Che ora poteva essere? Probabilmente le sette o poco più tardi. Un improvviso pensiero lo fece sobbalzare. Alle otto avevano l’aereo. Rischiando più volte d’inciampare nel tappeto, raccattò le poche cose che gli potevano essere utili, infilandole alla rinfusa in una vecchia e logora valigia di cuoio che da sempre lo accompagnava in ogni spostamento. Guerra compresa. Avrebbero condiviso quell’esperienza, si ritrovò a pensare. In seguito scosse il capo, vestendosi a casaccio. Corse al piano inferiore trascinando il bagaglio, lasciandolo in prossimità della porta. Non udì alcun rumore. Che Sherlock fosse già uscito? No, non l’avrebbe mai fatto. Chiamò il suo nome a gran voce due o tre volte, richiamando l’attenzione della signora Hudson che, in palandrana e pantofole, gli si avvicinò perplessa, scrutandolo assonnata.
« Oh caro dottor Watson, Sherlock è uscito presto stamani! Non so dove sia andato, ma aveva una valigia. Sì, come quella vicino alla porta, ne sono certa. Mi ha salutato rapidamente e mi ha annunciato che si sarebbe assentato per qualche giorno. Non ha aggiunto altro ed è uscito piuttosto di fretta. Ma sarà stato giusto una mezz’ora fa! » John non ascoltò altro. Era uscito senza di lui. Era partito senza di lui. La prima cosa a cui pensò, fu chi aveva scelto come sostituto. Lestrade gli sembrò il primo candidato adatto. Corse fuori dall’appartamento, senza nemmeno lasciar concludere alla padrona di casa di parlare.  Chiamò un taxi, rischiando di farsi investire, e gli ordinò di dirigersi a Scotland Yard. In pochi minuti si trovò alla meta. Scese in tutta fretta dall’abitacolo, lasciando una mancia esagerata all’autista. Percorse a perdifiato ogni rampa di scale; attendere l’ascensore gli avrebbe fatto perdere troppo tempo. Senza far caso all’educazione, piombò nell’ufficio dell’ispettore, ansimando per l’estenuante corsa. E lui era lì. Egli alzò lo sguardo perplesso, aggrottando la fronte nel vedere proprio lui, “il cagnolino di Sherlock”, come lo definivano alcuni poliziotti.
« Salve John, posso aiutarti? Sherlock ti ha mandato a chiamarmi? » Chiese Lestrade, con una punta di speranza nel tono atono. John si sedette su una sedia lì vicino, tentando di controllare il fiato pesante per la corsa e per un dubbio atroce, che lentamente si stava facendo spazio nella sua testa. L’ispettore, accorgendosi che qualcosa non andava, si avvicinò all’uomo, posandogli una mano su una spalla, mutando lo sguardo speranzoso in uno alquanto preoccupato.  « John? Che succede? » Mormorò, cercando gli occhi dell’altro senza successo.
« Sherlock... Lui ha... È... » Non riuscì a formulare una frase di senso compiuto, alimentando maggiormente la preoccupazione dell’ispettore.
« Senti, andiamo a prendere un caffè, okay? Poi mi racconti che è successo a Sherlock...» Propose l’uomo, cercando di sorridere. Era evidente la preoccupazione sul suo viso, per quanto si sforzasse di celarla. John non aveva voglia di prendere nessun caffè. Non aveva voglia di raccontare all’ispettore l’ultima pazzia di Sherlock. Voleva solo svegliarsi da un brutto sogno, ciò che credeva che la realtà fosse. Eppure, si lasciò condurre al bar poco lontano. Svuotò il sacco all’uomo, quell’uomo che Sherlock criticava sempre per la sua incompetenza ma che, in campo sentimentale, sembrava sapere molto più di chiunque altro. Con poche parole riuscì a rassicurarlo, facendo esempi su bravate passate dell’uomo in questione, narrando di esperienze ben peggiori ed ancora più pericolose. E poi, la guerra era finita, no?
 
« Se hai bisogno d’altro chiama pure, tanto siamo a corto di casi, per il momento. » Invitò Lestrade, mostrando un sorriso tranquillo e sereno, che infuse relax al dottore, estremamente nervoso.  Lo osservò sparire lentamente nell’oscurità serale. Gli aveva tenuto compagnia tutto il giorno, chiacchierando del più e del meno per distrarlo e colmare quel vuoto causato dall’assenza di colui che li legava in un rapporto unicamente lavorativo.  Ci sapeva fare con le parole. Molto più che col suo mestiere, avrebbe aggiunto Sherlock. Non una volta aveva provato a telefonargli. Evidentemente il caso l’aveva rapito più di quanto poteva immaginare.
Tornò all’appartamento di Baker Street verso le sei di sera, abbandonandosi al divano a peso morto. Prese il telefono tra le mani e lo osservò al lungo, forse aspettando qualcosa. Non successe nulla. Si decise a farlo succedere lui. Scorse la rubrica fino al numero del compagno d’indagini, indugiando qualche minuto e rimuginando sulle possibili situazioni in cui l’avrebbe colto. Poi premette il tasto di chiamata, portando il cellulare all’orecchio. Uno squillo. Due. Tre. Troppi. Infine silenzio. Chiuse la chiamata con un sospiro affranto, ripetendosi che, probabilmente, l’aveva solo preso in una delle molteplici situazioni che aveva ipotizzato, niente di più e niente di meno. Non c’era assolutamente di che preoccuparsi. Eppure tremava, osservando le sue cose. Eppure ansimava, fissando il suo armadio quasi sgombro. Eppure si sorprese a versare una lacrima, nel constatare che i suoi vari esperimenti stagionavano ancora in cucina, fra il comune cibo, benché la signora Hudson l’avesse ammonito più volte a riguardo. Non sapeva che fare, per la seconda volta nella vita. E la prima era giunto lui a soccorrerlo. Chissà se sarebbe giunto anche quella.
 
Non era semplice abituarsi all’assenza di Sherlock. Senza le sue battute pungenti, i suoi passi frettolosi per la casa, le sue sonate col violino in piena notte, era davvero difficile continuare la vita di sempre. A distanza di due giorni senza sue notizie, John fu sul punto di raggiungerlo, benché non avesse idea di dove trovarlo una volta sceso. Ma, come sempre, ci pensò lui a sconvolgere tutto.
La terza notte senza sue notizie, il cellulare del dottore squillò, destandolo da un sonno agitato e nervoso.
« Pronto...? » Rispose assonnato e stordito da un incubo in cui si ritrovava a fare da marito a Moriarty. Il suo subconscio almeno possedeva senso dell’umorismo.
« Ciao John. » Mormorò solo una voce a lui ben conosciuta, che lo svegliò completamente.
« Sherlock... » Mise qualche secondo a realizzare d’essere sveglio e di non starsi immaginando tutto. « Tu... Brutto bastard- »
« Scusa. Ti prego di perdonarmi. » E con quella frase solamente, lo zittì. John attese in silenzio qualche secondo che aggiungesse altro. Pretendeva di più, che continuasse a implorare perdono; si rese conto di risultare ridicolo e sospirò, socchiudendo gli occhi.
« Stai bene, almeno? »
« Sì. » Risposte secche, tono quasi indifferente. Una punta di nostalgia, o forse stanchezza.
« Senti... Perché...? » Sussurrò John, mordendosi il labbro inferiore senza concludere il quesito, lasciandolo lì a destare dubbi.
« Il tuo sguardo mi ha dissuaso a trascinarti. Nient’altro. Anche tu stai bene? » Chiese, con lo stesso tono usato nelle precedenti frasi. Un fastidioso brusio disturbava la linea.
« Starei meglio se ci fossi anche tu... » Lasciò cadere, osservando con la vista offuscata da lacrime di rabbia il cielo tempestato di stelle. Si domandò se anche lui stesse guardando quello stesso cielo. O se lì si vedesse in maniera differente, come aveva l’impressione che fosse durante la guerra, mentre rammentava il paesaggio londinese che scorgeva dalla sua pensione che tanto gli mancava e a cui tanto ambiva di far ritorno. Un sospiro lo ricondusse alla realtà.
« Non ci metterò molto, non preoccuparti. Ah, ora devo andare. Ti richiamerò. A presto. »
« Chi hai portato come mio sostituto? » Sapeva che aveva sentito e che aveva capito la domanda. Eppure, qualche istante dopo, lo scatto del telefono lo lasciò solo con un mare di pensieri, in cui poco dopo annegò.


***
 
Salve gente! Non ho mai pubblicato qui e credo che non susciterà la vostra attenzione questa piccola bozza di idee... Ma considerate che sono ancora alle prime armi! Comunque mi auguro che lasciate un commento, anche per urlarmi che sono andata OOC. Ah! Perdonate i capitoli brevi, sono un po' a corto d'ispirazione al momento, ma ci tenevo ugualmente ad iniziare questa storia. Poi, se mi date una mano, allungo il brodo ;)
Al prossimo capitolo, se ci sarà!~
   
 
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