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Autore: GATTOSILVESTRO85    02/03/2012    1 recensioni
Cosa saresti disposto a fare per "rivedere" la persona che ami?
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sindel galoppava da un’ora ormai, instancabile. Il sentiero sterrato, colmo di erbacce e pietre, proseguiva a spirale in un cilindro di rocce e terra che conduceva verso un baratro senza fine. Tutt’intorno, una miriade di gemme arcobaleno incastonate in pareti di terra e roccia, proiettavano schegge di luce ovunque.
 Tutto era perfettamente illuminato.
 Eppure Cloud non riusciva a scorgere nulla affacciandosi verso il basso, verso il fondo di quell’antro gelido e oscuro.
Aveva come la sensazione che fosse infinito.
Mentre si districava tra un’infinità di rocce sempre più alte si chiese quanto ancora avrebbero dovuto camminare per toccarne il fondo. Un’ altra ora? O forse più? In fondo non gli importava. Era preparato ad affrontare qualunque insidia, qualsiasi difficoltà si fosse trovato davanti. Perché adesso, costretto a vagare chissà ancora per quanto in quella bizzarra caverna , non aveva intenzione di sprecare di nuovo il suo tempo.
Aveva imparato a fidarsi, aveva imparato a dare valore al tempo che aveva.
Tuttavia, erano giorni che Seth non si faceva sentire e questo lo preoccupava.
 
26 Ottobre 2011,
ore 15:30,
Manhattan -Central Park.
 
 
“Jennifer…Jennifer noooooo!”
Quell’urlo squarciò il cielo settembrino scuotendo l’intensa coltre di nubi sopra la sua testa.
 Stava per piovere.
Cloud giaceva a terra, in ginocchio. Il corpo di lei, esile e pallido, avvolto in un fazzoletto d’erba rossastro.
La guardava con uno sguardo assente mentre una lacrima gli attraversava il viso lentamente. La prima lacrima di quel pomeriggio.
Poi l’urlo straziante delle sirene del 911, distrusse in un lampo quel silenzio perfetto. Perfetto perché Cloud potesse ricordarla in tutta la sua perfezione, perfetto per ricordare meglio il volto del bastardo che aveva premuto il grilletto. Era trascorso un quarto d’ora da quando Jennifer cadde al suolo priva di vita, e già le mancava infinitamente, come a una farfalla manca il suo ultimo e preziosissimo volo.
“Jennifer respira…Jennifer ti pregoooooo!”
La stringeva al petto più forte che poteva mentre urlava al cielo quelle parole disperate, sperando che riprendesse a respirare, che gli desse qualche segno di vita, ma niente. Il parco nel frattempo, si era trasformato in un teatro di urla e rumori del peggior film drammatico che avesse mai visto, il suo petto infuocato di rabbia e dolore.
In quel marasma di emozioni che stava provando, la vendetta prevalse su tutte. Era radicata nel groviglio impercettibile di sensazioni che divideva la soglia del dolore da quella della disperazione. Fu in quell’istante che comprese di non aver mai provato nulla di così forte e accecante al tempo stesso. Tuttavia era l’unica emozione capace di tenere ancora acceso quel barlume di vita che lo alimentava ancora.
L’ambulanza partì sgommando tra la folla di curiosi e passanti, la sirena, dall’interno, ancora più straziante. Cloud era inginocchiato al suo fianco, non l’aveva lasciata un attimo, le cingeva la mano più forte che poteva. Voleva fargli sentire che c’era. Non sapeva in che modo, ma sperava l’avrebbe aiutata.
Le lacrime continuavano a scivolare insistenti sul suo volto sporco di sangue e terra, le luci della città lo illuminavano a tratti attraverso il vetro dell’ambulanza scattando decine di fotografie indelebili nella sua mente folgorata da quello strazio. Fotografie di una Jennifer esanime, pallida, immobile, nonostante l’inutile tentativo dei paramedici di bloccare l’emorragia; le garze sterili zuppe di sangue premute sulla ferita.
Quando giunsero all’ospedale più vicino, Jennifer non c’era più, era già morta.
Fu in quell’istante, dove il tempo sembrò fermarsi e il mondo girare vorticosamente su se stesso, che Cloud comprese di essere morto con lei. Che quel bossolo maledetto avrebbe dovuto colpire lui, non lei. Avrebbe dovuto ascoltare le folli pretese del biondo bastardo invece di dargli contro e sbraitare e inveire contro di lui. Forse lei sarebbe ancora viva. Forse.
 E per cosa poi? Per cento dollari e qualche spiccio? Il solo pensiero lo stava già uccidendo.
Perché non lo aveva ascoltato? Perché?
Il senso di colpa non fece che aumentare in lui il groppo in gola. Iniziava a mancargli l’aria. Il respiro affannato e tremante.
Il bianchissimo corridoio in cui si trovava si fece sempre più lungo e sbiadito. La sagoma del dottor Clark iniziò a sfumare nei contorni, la testa a vorticare sempre più velocemente.
Poi il nulla.
Era svenuto.
 
 
La pioggia stava cadendo insistente al suo risveglio, come migliaia di aghi finissimi colpiva con forza l’ampia vetrata della sala d’attesa. L’aria era intrisa di alcool e sangue. A pochi metri dal divano su cui era disteso, giaceva la sagoma sofferente di un bambino con abrasioni sparse su ogni parte del corpo. Le sue urla lo riportarono immediatamente a quel tragico pomeriggio che aveva appena vissuto. Così si alzò di scatto levandosi di dosso la coperta di cotone che gli copriva le gambe fradice di sudore. Anche se era già settembre inoltrato, un caldo afoso e anomalo si faceva largo anche tra quelle mura, nonostante il condizionatore fosse ancora acceso dalla sera prima.
Prese il telefono dallo zaino, scorse i numeri della rubrica fino a fermarsi sulla lettera C: Clark Meson. Come avrebbe fatto a chiamare suo padre? A dirgli che sua figlia era morta e soprattutto che lui non era stato in grado di fare nulla per salvarla? Restò immobile sul nome, fissandolo e rifissandolo; sembrava sempre più calcato e vicino ai suoi occhi impregnati di lacrime.
Poi il display si spense, le palpebre si chiusero, l’ennesima lacrima solcò il suo viso, mentre un fulmine squarciò il cielo alle sue spalle illuminando il corridoio con un’intensa tonalità blu fluorescente.
 La sua ombra si spalmò per una frazione di secondo sul muro di fronte ai suoi occhi, ricordandogli quanto il mondo fosse privo di luce adesso che lei non c’era.
Il lampo che seguì racchiudeva in sé tutta la rabbia che Cloud aveva accumulato in quelle ore.
Pareva l’emblema di quella giornata. Come se anche il cielo, in qualche modo, stesse soffrendo, piangendo e urlando insieme a lui, al suo dolore.
Poi il volto dell’assassino si materializzò davanti ai suoi occhi, con la stessa espressione turbata di quel pomeriggio, quando in preda al panico, stava scappando verso uno Shakespeare Garden troppo bello per fare da sfondo a quell’orribile mostro: era il segno evidente che doveva trovarlo.
Trovarlo per lei, trovarlo prima che versasse altro sangue innocente.
Eppure c’era una voce dentro di lui che gli sussurrava dolcemente di non farlo, che dargli la caccia avrebbe soltanto peggiorato le cose. Era quasi tangibile nella sua testa, come se l’avesse già ascoltata prima. Divenne man mano più chiara, apparteneva alla donna che avrebbe amato per il resto della sua vita, apparteneva a Jennifer.
Tuttavia scosse la testa,  non perché non volesse concedersi al suo prezioso ascolto, ma perché non voleva carpirne il consiglio. L’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento, era che il suo senso morale lo guidasse di nuovo verso la cosa giusta da fare. Non voleva essere guidato, semplicemente perché non voleva fare la cosa giusta. Questa volta aveva bisogno di sbagliare, di rompere i suoi stessi schemi morali che per anni lo avevano guidato.
Non sapeva se fosse la scelta giusta, sicuramente non lo era, ma in quel momento era l’unica cosa che lo faceva stare meglio.
I suoi occhi bramavano vendetta.
  
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