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Autore: My Pride    05/03/2012    2 recensioni
La corda di un violino che si spezza produce una nota falsamente melodiosa;
all’orecchio dei morti risuona come lo stridio furente e vendicativo dell’acciaio.

Le malelingue erano sempre esistite, da che mondo era mondo, ma Don Zoroshia non vi aveva mai dato la benché minima importanza. O almeno fino a quel determinato momento.
«Il primo che si innamora è un uomo morto, Zoroshia»
«Allora io lo sono già da tempo, Sanjīno»
[ Ambientata durante il Mugiwara Theatre «Jingi-nai Time», ma non ha nulla a che fare con esso ]
[ ZoSan Centric || Riferimenti ZoLu, ZoNami e ZoRobin ad interpretazione strettamente personale ]
[ Terza classificata e vincitrice del Premio miglior trama al «Fangirl contest» indetto da Dark Aeris ]
[ Prima classificata e vincitrice del Premio Stile al contest «Dal numero alla storia» indetto da Akane_Hirai e valutato da Roro ]
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Monkey D. Rufy, Nami, Nico Robin, Roronoa Zoro, Sanji
Note: Otherverse | Avvertimenti: Contenuti forti
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Adagio_2

ATTO II
RAPSODIA CREMISI


    La
 serata passata a star dietro a Rufiōne sembrava aver stroncato Zoroshia.
    Giacché quell’idiota, quasi dimentico del fatto che fossero comunque rivali, avesse passato la maggior parte del tempo a ridere e scherzare come se fosse stato invitato ad una festa - chiedendo sempre più cose da mangiare nonostante i volti stravolti dei cuochi che aveva molestato fin troppo nelle ore precedenti, secondo il suo parere -, aveva potuto affrontare il motivo vero e proprio per il quale l’aveva convocato solo per i primi cinque minuti, dovendo in seguito rassegnarsi agli infantili modi di fare di Rufiōne e alle risate divertite che essi provocavano in Namimōre e Robīta. E sì che si supponeva che Rufiōne fosse un capo rispettabile e serio, un uomo tutto d’un pezzo che non si faceva confondere da niente e nessuno. Avrebbe voluto scovare il bugiardo che aveva messo in giro quella voce - sebbene qualcosa gli dicesse che fosse stato proprio Usotūya - e tagliargli la gola per puro capriccio. Però, in fondo in fondo, ammetteva di provare una sorta di rispetto per quell’imbecille di Rufiōne. Poteva forse apparire stupido, certo, ma c’erano anche momenti in cui riusciva a metter su la parvenza d’un discorso sensato; battersi dunque a spada tratta con lui sarebbe stato un vero e proprio onore, ma fino a quel momento Rufiōne aveva sempre evitato in tutti i modi lo scontro diretto, sollecitato anche dal suo fedele Usotūya.
    Per quei pensieri si maledisse, affondando con foga la lama della katana nel manichino che aveva dinanzi, imprecando a denti stretti; sfilò l’arma con uno strattone, e, senza curarsi della sagoma che aveva ormai tagliato a metà, rinfoderò la spada e prese un panno per asciugarsi il sudore dal fronte e collo. Da quanto tempo andava avanti in quel modo, con esattezza? Era entrato in palestra durante le prime luci dell’alba, e da quel momento aveva poi cominciato ininterrottamente ad allenarsi con la katana e con i pesi, senza tener conto del passare delle ore. E forse era stato un bene, poiché aveva evitato, anche se solo in parte, di perdersi fra i propri pensieri, come gli capitava ormai di fare da un po’ di tempo a quella parte.
    Si diede ancora una volta dell’idiota, raggiungendo la sala attigua che dava sul bagno. Una doccia. Ecco di cosa aveva bisogno. Una maledettissima doccia gelata. In quel modo, sperò in cuor suo, sarebbe riuscito a dimenticare tutta quell’assurda situazione. Ma anche in seguito, con lo scrosciare dell’acqua che gli rimbombava nelle orecchie come una melodia gorgogliante, non riuscì a capire perché non si desse semplicemente una mossa e non cercasse di far fuori il prima possibile almeno uno dei suoi avversari.
    Nemmeno quando uscì dalla doccia e si ritrovò a camminare senza meta per i vasti disimpegni della villa parve essere in grado di dare un senso a quel bizzarro sentimento che gli attanagliava le viscere, e a nulla valse provare a rivolgere la propria attenzione altrove, soffermando lo sguardo sui dipinti che adornavano le pareti o sulle vecchie armature che non venivano più lucidate da ormai parecchi mesi.
    «È da un po’ che non ci si vede... eh, marimo?»
    Nel sentire d’un tratto quella voce, quella voce che non udiva da lungo tempo ma che non avrebbe potuto confondere con nessun’altra, Zoroshia sguainò immediatamente una delle katane che portava al proprio fianco, e, con mossa fulminea, tagliò una delle colonne che si innalzavano nel corridoio, ignorando la breve esclamazione sorpresa che udì provenire dietro di essa.
    «Non sono venuto qui per litigare, idiota, riponi le armi!» sentì sbottare attraverso il polverone che si era venuto a creare, e solo quando infine si diradò riuscì a distinguere la figura dell’ultimo uomo che, in quel momento, avrebbe mai voluto vedere. Poté però rendersi immediatamente conto che, in quegli ultimi due anni, era drasticamente cambiato: pur mantenendo la sua solita aria arrogante da sciocco dongiovanni, si era fatto crescere un po’ di barbetta in più e persino i baffi, scostando il ciuffo di capelli con cui aveva sempre nascosto l’occhio sinistro. Appariva più maturo di quanto ricordasse, così diverso dal ragazzo che aveva conosciuto prima ancora di succedere al padre per acquisire il controllo sul suo territorio. Più volte si era domandato come sarebbero potute andare le cose se nessuno dei due fosse appartenuto a quel mondo, ma ormai non c’era più tempo per stupidi quesiti; erano rivali, doveva metterselo bene in testa.
    Fu dunque per quel motivo che, puntando la lama contro di lui, Zoroshia lo fissò intensamente, pronto a dar battaglia se fosse stato richiesto. «Nessuno ti ha dato il permesso di entrare in casa mia, Sanjīno», replicò in tono secco, avendo l’accortezza di non mostrare sul proprio viso, per nessuna ragione al mondo, segni di turbamento per quell’incontro così inatteso.
    Il sorriso strafottente che si dipinse sulle labbra dell’altro, però, riuscì soltanto ad irritarlo più di quanto già non fosse. «Oh, adesso c’è bisogno del permesso per andare a trovare un amico, caro il mio spadaccino?»
    «Non prendermi per il culo, bastardo», sibilò, non accennando ad abbassare la propria arma. Sin dalla tenera età gli era stato insegnato a non abbassare mai la guardia, e sapeva fin troppo bene che con l’avversario che aveva dinanzi la prudenza non era mai troppa. «Cosa ti ha convinto a strisciare fuori dal buco in cui ti eri rintanato?»
    Le labbra di Sanjīno si ridussero ad una linea sottile, e forse fu solo per evitare di lanciarsi contro Zoroshia che si portò una mano alla tasca dei pantaloni, affrettandosi ad alzarla quando vide il suo nemico pronto a colpirlo, avendo probabilmente creduto che stesse per prendere la pistola. «Sta’ calmo, marimo», sbuffò, mostrandogli il pacchetto di sigarette con aria spavalda. «Vuoi fare un tiro anche tu? Sei un fascio di nervi», soggiunse ironico, ben conscio che avrebbe dovuto prestare più attenzione nel rivolgersi a quell’idiota. Era un po’ come trovarsi dinanzi ad una tigre cresciuta in cattività, se proprio doveva fare un paragone. Potevi provare ad allungare la mano per carezzarla, ma dovevi stare attento che non te la staccasse a morsi. Infastidire Zoroshia era praticamente simile, a ben pensarci.
    «Piantala con le stronzate, damerino», lo redarguì quest’ultimo con voce aspra. «Ti avevo fatto una domanda, ed esigo una risposta».
    Sanjīno si prese ancora un po’ di tempo per eludere quel quesito, afferrando con due dita una stecca prima di portarsela alle labbra. «Non sono affari che ti riguardano, marimo», rimbeccò poi in tono sprezzante, armeggiando con l’accendino per provare ad accendere la paglia. «Ho solo pensato di tornare a reclamare ciò che mi spetta di diritto, spadaccino. La cosa ti crea problemi?»
    La reazione di Zoroshia, a quelle parole, fu istantanea: gli fu addosso in una frazione di secondo, ghermendogli il braccio con ferocia per evitargli di fuggire prima di conficcargli furente le unghie nella carne. «Che diritto hai di intralciarmi dopo essere sparito per tutto questo tempo, dannato bastardo?!» sbraitò fuori di sé dalla rabbia, afferrandolo per la bella camicia che indossava e facendogli cadere dalle labbra la sigaretta; le dita erano contratte a causa dell’ira che tratteneva a stento, e il suo sguardo, puntato ostinatamente sul viso del biondo, celava ben più di un semplice gesto dettato dall’odio che li accumunava. Orgoglio ferito, risentimento, abbandono... sembrava che in quell’unico occhio verde schizzasse una vasta gamma di emozioni contrastanti, e Sanjīno non poté fare a meno di restarne spiazzato. E ancor più quando, senza preavviso, sentì le grosse mani dell’altro catturargli i polsi, circondandoglieli con dita lunghe e sottili.
    «Che diavolo fai, marimo di merda?!» esclamò, provando a strattonare le braccia nella speranza di essere lasciato. Ma Zoroshia aumentò la stretta, facendo sì che dalla sua bocca sfuggisse un piccolo suono acuto simile ad un lamento. Che diamine aveva intenzione di fare, quello sfasato? Aveva forse intenzione di frantumargli le ossa? Beh, se la sua idea era quella, di certo non se ne sarebbe rimasto fermo a guardare. Fu dunque immediatamente che alzò una gamba, pronto a colpirlo con decisione allo stomaco; si bloccò però con il ginocchio a mezz’aria nel momento stesso in cui Zoroshia si sporse verso di lui, soffocando nel fondo della sua gola ogni parola con la propria bocca.
    Esterrefatto, stretto nella morsa letale del suo avversario e incapace di comprendere l’evolversi della situazione, fu forse meccanicamente che Sanjīno rispose alla rabbia di quel bacio nel quale si era ritrovato coinvolto, afferrando con i propri denti il labbro inferiore dell’altro come se volesse strapparglielo via, avvertendo il pressante contatto del corpo di Zoroshia contro il proprio.
    «Sta’ zitto», ansimò quest’ultimo contro le sue labbra, schiacciandolo con la schiena contro la parete; gli inchiodò poi le mani al muro e, assicurandosi che nemmeno volendo potesse liberarsi da quella sua stretta, Zoroshia gli allargò le gambe con un ginocchio, insinuandolo fra di esse per carezzare, al di sopra dei pantaloni scuri che indossava, la virilità di Sanjīno. E il gemito prolungato che ottenne fu capace di mandargli letteralmente in tilt il cervello, gettando alle ortiche il suo stoico autocontrollo. Voleva prenderlo lì, in quello stesso istante, in quel corridoio parzialmente illuminato nel quale si trovavano; voleva riempirsi le orecchie dei sospiri lussuriosi che gli avrebbe provocato nel carezzare ogni anfratto del suo corpo, sentirlo inarcare contro di sé e sussurrare il suo nome in preda alla passione più folle, beandosi del grido d’appagamento che si sarebbe lasciato poi sfuggire nell’attimo supremo dell’orgasmo.
    Il suo unico pensiero fu unicamente quello quando, attirandolo a sé per cingergli i fianchi con un braccio, lo trascinò lungo il disimpegno che li divideva dalla sua camera, aprendo la porta a tentoni una volta raggiunta; e fu solo nel momento in cui avvertì il contatto del materasso contro la schiena che Sanjīno riottenne con fatica il controllo delle proprie facoltà mentali, deglutendo sonoramente nell’osservare, disteso com’era, la figura di Zoroshia sovrastarlo in tutta la sua imponenza.
    C’era qualcosa, nella sua testa, che gli diceva di andarsene da lì alla svelta, di smetterla di fissare con ottusa insistenza e ossessione quell’occhio che lo scrutava come se fosse stato una succulenta preda, di accoppare quel bastardo e di reclamare il potere che gli spettava di diritto; eppure, nel restare inchiodato a quella iride smeraldina, l’unica cosa razionale che gli venne in mente di fare fu quella di mandare a puttane le chiacchiere che gli affollavano la mente. Se ne sarebbe pentito, lo sapeva, ma per i ripensamenti ci sarebbe stato un secondo momento. 
    Represse un gemito nel sentire la lingua di Zoroshia scivolare lentamente lungo il collo, avendo persino la maledetta audacia di scansargli la camicia per scoprire un capezzolo e succhiarlo con avidità, vezzeggiandone la pelle ruvida con i denti. «Credevo fossi ormai... sposato con Namimōre, marimo», esalò infine con il fiato corto e ansante, socchiudendo gli occhi nel momento esatto in cui avvertì il morbido peso dell’erezione dell’altro contro le proprie cosce. Stava succedendo davvero? Gli sembrava impossibile da concepire, eppure le sensazioni che stava cominciando a provare fra le braccia di quello stupido erano assolutamente... magnifiche. Non avrebbe saputo trovare aggettivo migliore, accidenti.
    Le mani di Zoroshia corsero rapide lungo i suoi fianchi, scivolando verso le cosce per afferrare saldamente l’incavo delle sue ginocchia e sollevargli di poco le gambe. «Essere davvero sposato con lei cambierebbe le cose?» sentì dire da quest’ultimo, assimilando le parole con una lentezza esasperante.
    Avrebbe voluto rispondere di sì, che non avrebbero dovuto trovarsi lì su quel letto dalle lenzuola ormai strappate, che ciò che stavano facendo era dannatamente sbagliato perché, oltre ad essere due uomini, erano anche rivali, ma le parole che sussurrò spiazzarono persino lui. «No», soffiò con un fil di voce.
    Le labbra dello spadaccino si appropriarono voraci delle sue, mordendo furentemente quello inferiore fino a fargli sentire sulla lingua il sapore del suo stesso sangue quando quel cozzare di bocche e denti si trasformò nella parvenza di un bacio. «Allora sta’ zitto, ricciolo», sibilò Zoroshia con voce roca e ansimante quando si separarono, premendo maggiormente il corpo contro di lui per far sì che avvertisse l’eccitazione che aveva cominciato ad animarlo.
    La sua mente continuava a ripetergli che avrebbe dovuto fermarsi, che avrebbe fatto meglio a concludere quella pazzia prima che fosse stato troppo tardi, ma il suo corpo non sembrava per niente d’accordo con la sua parte razionale; fu difatti senza riflettere che, catturando fra le proprie labbra il lobo di un orecchio di Sanjīno, Zoroshia fece risalire entrambe le mani fino al limitare dei suoi pantaloni, afferrando saldamente la cintura per liberarla dai passanti. Gli calò i calzoni fino a metà coscia insieme all’intimo che indossava, ignorando deliberatamente il suono soffocato che il biondo si lasciò scappare quando la sua erezione, ormai rigida e dolente, fu esposta alla vista senza vergogna.
    Zoroshia sfiorò la sua virilità con la punta delle dita, sorridendo con fosca soddisfazione quando un sospiro, tra il voglioso e l’insoddisfatto, risuonò prepotentemente nella stanza buia, facendo sì che un brivido d’eccitazione corresse senza remore lungo la sua spina dorsale.
    Il tempo dei giochi era appena cominciato
.








_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa volta l'immagine a lato c'entra abbastanza con la storia, lol, anche se vedere Sanji che sovrasta Zoro fa un certo effetto, soprattutto se si pensa che in questa immagine pare essere lui l'attivo di turno
Anyway! Sclero mio iniziale a parte, in questo capitolo niente lemon, mi spiace. Le regole del contest me lo impedivano - e non avevo nemmeno tanto voglia di scrivere una storia erotica, dato che mi volevo concentrare specialmente sulla psicologia dei personaggi e sulla situazione che si cela dietro tutto -, dunque ho solo accennato il momento. Per chi fosse interessato, però, posterò a parte la one-shot
Yakuza no Allegretto, spin off che comprenderà la scena a rating rosso che ho dovuto saltare e che ho deciso di scrivere per l'ormai passata p0rn fest, dato che il prompt era proprio su questo otherverse e non potevo dunque farmelo scappare. 
Al prossimo capitolo. ♥




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