Note:
ok, c’è da dirlo: io non sono un medico. Non la studio nemmeno di striscio.
Tutto quello che farò fare a John, che in questo capitolo si da al primo
soccorso, deriva un po’ dalle mie conoscenze di carattere generale, da Dr. House – Medical
Division e da Wikipedia.
Tuttavia potrei sbagliare tutto, perciò avverto prima che è pura licenza
poetica xD
Non
è detto che tutte le cose che gli farò fare siano giuste, dunque non prendetelo
per oro colato, ecco.
Mi
sono accorta di non aver specificato a che punto della serie è più o meno
inserita la fanfic. Beh... potrebbe essere inserita
ovunque, ma conoscendomi farò sicuramente dei riferimenti. Dunque direi che è a
metà fra la 2x02 e la 2x03 (in ogni caso, prima di Reichenbach
per forza di cose). Non comporta particolari spoiler per chi non le ha ancora
viste, comunque.
Beh...
il capitolo è lunghetto, ma spero mi perdonerete per questa volta. Magari vedrò
di trattenermi nei prossimi due, ma non avevo voglia di tagliarlo D:
Per
il resto, a voi il secondo capitolo. Buona lettura!
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Venerdì 3 Marzo – parte 2
• The Tube;
Waterloo > Enbankment, h. 10:20 am
« Cristo dottore!
Fa un male cane! ».
La
ragazza urlava furiosamente ogni volta che le mani di John strappavano un altro
piccolo pezzo di jeans nel tentativo di esporre la ferita. Il medico, dal canto
suo, anche cercando di essere il più delicato possibile sapeva con certezza che
avrebbe continuato a farle del male finché non avesse potuto vedere bene la
situazione.
« Mi dispiace, ma
non c’è molto che io possa fare in queste condizioni... » cercò di scusarsi
Watson, strappando a tradimento altre due centimetri di stoffa.
« Questo me lo ha
già detto! » sbottò ancora la
ragazza, la fronte imperlata di sudore sotto i corti capelli neri: « ma devo scaricare
lo stress, quindi se non vuole che mi aggrappi ai suoi capelli e tenti di
strapparglieli mi lasci gridare e basta! » replicò, stringendo gli occhi scuri in un
gemito sofferto quando John strappò un altro centimetro di tessuto zuppo di
sangue.
Il
dottor Watson si fermò ad osservare la situazione solo quando ritenne di aver
aperto a sufficienza la gamba dei pantaloni della giovane. Nella coscia era
conficcata una sottile spranga di ferro, che passava da una parte all’altra
dell’arto in una lacerazione tutto sommato pulita. Sanguinava, ma dalla minima
quantità fuoriuscitane constatò che il pezzo di metallo avesse per lo meno
scansato l’arteria femorale.
« Ok, adesso mi
serve un laccio emostatico... » borbottò tra sé e sé, gettando una rapida occhiata
alla ragazza, ansimante e pallida a causa del dolore.
Non
sapeva nemmeno lui come aveva fatto a riprendersi così velocemente
dall’incidente. Probabilmente la guerra lo aveva formato dal punto di vista sia
medico che forense, dato che si era subito messo in azione non appena aveva
notato che le persone ancora coscienti presentavano delle ferite.
E
come potevano non esserlo, dopotutto?
Aveva
dovuto assegnare delle priorità, dato che era l’unico medico presente, e ancora
una volta il suo cervello aveva fatto tutto da solo, richiamando alla mente i
manuali di medicina studiati a scuola e la vastissima esperienza di medicazione
sul campo che l’Afghanistan gli aveva inculcato per forza di cose.
Incamminandosi
verso un uomo steso immobile a terra – non aveva ancora contato quanti fossero,
effettivamente, le persone che non si muovevano o non mostravano segni
tangibili di vita... – appoggiò due dita della mano destra, sporche di sangue
della ragazza, sulla sua carotide.
Non
pensava di trovare battito, ed in effetti non lo trovò.
« Dottore, anche la
madre di questa bambina ha bisogno d’aiuto! ».
La
richiesta veniva da un ragazzo dietro di lui, un giovane che sembrava non avere
nemmeno venticinque anni, che indossava una divisa militare. Non riusciva a
muovere un braccio ma si era comunque diretto verso la bambina che, piangendo e
strofinandosi gli occhi con le manine sporche, continuava a chiamare la madre
nonostante il soldato l’avesse abbracciata e stesse tentando di consolarla.
Inizialmente,
John li ignorò.
« Dottore, la
prego! »
« Senti bello, la
mocciosa non ha una cazzo di spranga piantata nella gamba, quindi vedi di
chiudere quella bocca! » sbottò senza
controllo la ragazza, sovrastando la risposta di certo più pacata che John era
intenzionato a fornire al soldato.
Quello,
ovviamente, non la prese bene. « È soltanto una bambina! » obiettò,
sconvolto.
« Sì, ma questa non
è soltanto una gamba! È la mia gamba! E c’è una spranga che la
trapassa! ».
« ADESSO BASTA! ».
L’urlo
di John sovrastò le voci delle due persone, il pianto della piccola e persino
ogni minima intenzione di ribattere. Aveva usato il tono tipico di chi comanda,
quello che molte volte aveva tirato fuori a Kabul con il suo plotone, e quelle
parole rimbombarono all’interno del vagone, facendo fischiare il metallo
ammaccato di cui era composto.
Watson,
armato di una pazienza straordinaria e di un senso della responsabilità fuori
misura, fissò i suoi occhi in quelli verdi del ragazzo, squadrandolo.
« Senti, lo so che
è una brutta situazione, ma lei ha ragione » disse, indicando la ragazza sanguinante
con un cenno del capo: « ha una brutta
ferita e potrebbe anche morire dissanguata. È mia intenzione aiutare chiunque
ne abbia bisogno ma ci sono delle priorità da rispettare, ok? » disse, con tono
di voce più basso, lievemente più calmo.
Il
soldato annuì mentre la donna si riservò di osservarlo con occhi a metà fra il
preoccupato e lo spaventato. « Dissanguata...? » mimò con le labbra, senza tuttavia dirlo
a voce alta.
John
chiuse gli occhi con un sospiro; l’adrenalina e l’emergenza della situazione
gli impedirono di perdersi nel lato morale del suo carattere, tenendo vigile il
medico militare che si era guadagnato i gradi di Capitano curando e combattendo
innumerevoli battaglie, impresa portata a termine grazie ad una notevole dose
di sangue freddo.
A
farsi venire la nausea ci avrebbe pensato dopo, in quel momento non c’era
tempo.
Appurato
che l’uomo steso di fronte a lui fosse effettivamente deceduto gli alzò la
giacca del completo elegante, sfilandogli la cintura dai passanti dei pantaloni
e tornando verso la ragazza.
La
guardò negli occhi. In tutti gli anni passati a ricucire fori di proiettile in
mezzo a sassi e sabbia aveva capito che era meglio parlare, con i pazienti
feriti, soprattutto se si devono fare cose sicuramente dolorose senza avere
dell’anestetico a disposizione.
E
a meno che qualcuno dei passeggeri non stesse trasportando con sé una fiala di
morfina con relative siringhe ipodermiche, in quel caso non ne avevano.
« Senti, emh... » si rese conto che non sapeva il suo nome.
« ...Joy » rispose quella,
fra un ansito e l’altro. Teneva gli occhi spalancati e le labbra socchiuse,
come se stesse cercando di calmarsi facendo forza su se stessa, oppure di
riprendere a respirare normalmente.
« Joy... » cominciò Watson,
mostrandogli la cintura: « ...devo legarti
questa intorno alla coscia, sopra alla ferita, per cercare di rallentare
l’emorragia. Ma è molto vicina all’inguine e ti farò male... va bene? » la avvisò, gli
occhi del medico sicuro di sé e la voce ferma.
Quella
trattenne un gemito di dolore: « se va bene?! » sbottò poi, guardandolo con astio. Ma lo
sguardo negli occhi del dottore le disse che era una cosa seria e, deglutendo,
annuì. « Non credo di
avere altra scelta... » soffiò fra le
labbra.
John
si fece sfuggire un sorriso teso. « No, infatti... pronta? » domandò una volta
che ebbe sistemato la cintura ed infilato il lembo libero nella fibbia.
Quella,
attaccandosi con la mano ad un sedile a lei vicino, annuì.
L’urlo
che lanciò quando il dottore strinse il cappio fu lacerante. La voce arrivò ad
una nota talmente alta che il metallo fischiò di nuovo e la bambina, serrando
gli occhi, si chiuse le orecchie con le mani. Gridò finché non terminò il fiato
per farlo, la mano sinistra artigliata al sedile, la destra scattata a
stringere la spalla di John.
« Ok... » soffiò l’uomo fra
le labbra, osservando nuovamente la ferita: « ascolta, non posso rimuovere il pezzo di
ferro, se lo faccio potrei non essere in grado di fermare il sanguinamento... » cominciò.
Quasi
si era aspettato di sentirla esprimere tutto il suo disappunto, ma non
successe. Stava ancora riprendendosi dall’ultima scarica di dolore ricevuta e
il viso pallido parlava chiaramente al posto della voce, dicendo che era andata
a pochi passi dal collasso.
Tuttavia,
seppur confusa, annuì.
Così
John riprese a spiegare: « ti fascerò
stretta la ferita e poi allenterò la cintura, ma non posso toglierla. Dovremmo
aspettare i soccorsi... tu devi cercare di non muovere assolutamente la gamba,
d’accordo? Se urti il pezzo di metallo, oltre a provarti un dolore incredibile
potresti causare una nuova emorragia » le disse e lei, seppur osservandolo fra
le ciglia e sembrando davvero esausta, annuì di nuovo.
John
le fece un cenno con il capo, rivolgendosi poi al soldato. « Sei capace di
riconoscere un cadavere da una persona ancora in vita? » gli domandò.
Quello,
forse sorpreso per essere stato interpellato dopo essere stato messo a tacere,
annuì gravemente.
Il
volto di John, allora, si fece più stanco. « Allora potresti... per favore? » sussurrò, indicandogli
con il volto le persone stese a terra intorno a loro, immobili: « ...se sono morti,
togli loro gli indumenti di cotone. Camicie e magliette, per ricavarne delle
bende. Non prendere tessuti sintetici o lana... » disse, la voce sempre più flebile
man mano che la sua mente prendeva atto della situazione in cui si trovavano.
Senza
pensarci, agendo solo d’istinto, si era appena comportato esattamente come se
fosse di nuovo in guerra. Con quella calma e quel sangue freddo di quando
dormivano in una scomoda brandina sfondata e sopra di loro passavano, rombanti,
gli aerei di chissà quale nazione che andavano a bombardare chissà quale città;
e loro continuavano a dormire, perché finché non sentivano rumore di spari
allora era tutto tranquillo, potevano permettersi ancora un paio d’ore di sonno
leggero prima di ricominciare a camminare.
Si
era aspettato, da quando aveva cominciato a curare la ferita della ragazza, che
una voce in lontananza urlasse l’allarme di un attacco aereo nemico.
Spossato,
si portò il dorso della mano destra alla fronte, chiudendo gli occhi.
Era
ripiombato per un istante nel mondo che aveva perduto. E che, da quando
conosceva Sherlock Holmes, aveva finalmente accettato di lasciarsi alle spalle.
Era
proprio vero: un soldato non smette mai di essere un soldato, così come la
guerra non smette mai di farti sentire sempre in guerra.
« Dottore... » un sibilo arrivò
dal suo fianco, attirando la sua attenzione. Joy, ormai ritornata completamente
in sé,
indicò
con un cenno del capo la bambina rimasta nuovamente sola. « Vada a vedere
come sta la madre, io posso resistere... » disse a bassa voce, come se non volesse
farsi sentire dal soldato già intendo a controllare le altre persone nel
vagone.
Watson
annuì, alzandosi in piedi e dirigendosi verso la bambina.
Aveva
i capelli biondi lunghi fino sotto le spalle e gli occhi marroni e caldi,
grandi come solo quelli dei bambini possono essere. Il viso gentile e
fanciullesco aveva la pelle chiara, che si sposava perfettamente con il
vestitino bordeaux con la gonna a frappe che indossava. Le calzamaglie bianche,
notò poi John, erano macchiate di sangue sulle ginocchia.
Addolcendo
il tono della voce – tornando il solito John, non più il Capitano Watson – si cinò sulle ginocchia finché non fu con il viso alla sua
stessa altezza.
« Ehi, ciao... » salutò, evitando
di appoggiarle le mani sulle braccia solo perché sporche di sangue. « Io mi chiamo
John. E tu come ti chiami? » chiese dunque, guardandola negli occhi, sforzandosi
di sorridere al meglio che poteva.
La
bambina, palesemente terrorizzata, ricambiò lo sguardo tremando appena. « A... Alice » disse poi: « però la mamma non
si sveglia, perché la mamma non si sveglia? » ricominciò però subito a lamentarsi,
piangendo e rigando con nuove lacrime le guance paffute.
Il
medico cadde nel panico per un istante. Poteva anche fronteggiare un uomo
armato senza perdere la concentrazione, ma non aveva fatto abbastanza ore di
laboratorio per affrontare un bambino con una crisi di pianto imminente. Anzi,
non aveva fatto clinica e basta, dato che si era arruolato appena dopo la
laurea e aveva intrapreso una strada che di certo non era quella del medico da
ambulatorio.
« No, ehi, non
piangere, ok? » disse subito,
cercando istintivamente di arginare la paura della bambina con le parole: « adesso guardo
cos’ha la mamma, va bene? Sono un dottore. Adesso guardo cos’ha la mamma ma tu
non piangere, va bene? » ripeté,
scostandosi dalla piccola solo quando quella, tirando su con il naso, fece di
sì con la testa.
Sospirando,
si avvicinò alla donna, stesa di pancia sotto ad una fila di sedili.
Era
immobile, nessuna reazione tangibile e non vedeva nemmeno la schiena sollevarsi
ed abbassarsi per la respirazione. Inoltre la gonna era completamente intrisa
di sangue, così come la giacca nera del completo da ufficio che indossava. Come
successo con l’uomo di poco prima, non si aspettò di trovare battito cardiaco
nell’accostarle le dita alla gola.
Non
vi fu.
Sospirando
pesantemente, chiuse gli occhi.
Come
poteva dire a quella bambina che la madre non si sarebbe più svegliata?
• TfL Headquarters, BCV, h. 10:15 am
Michael
Crew era al suo sesto caffè nel giro di mezz’ora. Si
era tolto giacca e cravatta, aveva avvolto le maniche della camicia finché non
gli erano arrivate al gomito e aveva anche sbottonato il primi due bottoni del
colletto. Se ne stava appoggiato alla sua scrivania davanti ad un tabellone con
lo schema del pezzo di tunnel interessato dall’incidente, all’orecchio un
auricolare wireless per parlare al telefono senza dover tenere occupate le
mani.
In
linea, dall’altra parte, il capo della squadra tecnica che si era prontamente
avventurata nel tunnel dalla parte di Enbankment.
« Non sembrano esserci danni strutturali
gravi, signore » stava dicendo,
ansimante, nel microfono di quello che doveva essere un cellulare vecchio
modello, a giudicare da come la sua voce giungeva metallica: « ma posso dirlo solo per il tunnel da questa
parte. Ad un certo punto... ecco... » esitò.
La
caffeina in circolo nel sistema sanguigno del responsabile del BCV fece il
resto. « “Ecco” cosa?!
Continui! » sbottò,
contrariato da qualsiasi persona gli facesse perdere tempo prezioso.
Al
telefono, il tecnico deglutì. « Ad un certo
punto il tunnel è completamente ostruito, signore » disse allora: « se ci sono stati danni di sorta
probabilmente sono dall’altra parte, e a meno che non entri qualcuno da
Waterloo noi non possiamo accedervi. Ma potrebbe essere difficile, perché...
signore, è tutto un pezzo di ferro, là sotto, e... » si interruppe di
nuovo, deglutendo a vuoto, incapace di continuare a parlare.
Crew inspirò ed espirò rumorosamente. « Senta, adesso lei
mi dice esattamente cosa... »
Ma
fu interrotto. Una collaboratrice entrò di fretta dalla porta, osservandolo
dritto negli occhi. « Signore,
l’ingegner Sutherland sulla tre » gli disse, concisa.
Michael
annuì. « Senta, me lo dirà
dopo, devo attaccare » liquidò in fretta
il tecnico, spingendo un pulsante sull’auricolare e cambiando linea.
« Ufficio BCV, Crew » rispose, cercando
con tutto se stesso di non suonare furioso nemmeno la metà di quanto in realtà era.
Cosa che non gli venne molto bene, ma almeno si sentiva giustificato dalla
situazione in corso.
« Signore, sono Sutherland » rispose l’uomo
dall’altra parte, il respiro corto e la voce affaticata.
Crew si passò la mano destra sul volto, ad un
passo dal panico. « Ti prego Alfred,
dimmi che non è una bomba » furono le prime parole che gli disse.
Conosceva
Alfred Sutherland da una vita, avevano fatto la stessa scuola superiore e
Michael sapeva che non c’era miglior uomo in tutta Londra per fare quel lavoro.
E, ancora, nessun altro in tutta Londra era in grado di dare le brutte notizie
così com’erano, senza addolcire la pillola.
Almeno,
nessuno di sua conoscenza.
« No, l’anti-terrorismo ha detto di no » disse Alfred al
telefono, Crew sospirò affrancato. Tuttavia non era finita:
« ma non ti nascondo che è un casino, Michael.
Io sono entrato da Enbankment e ti giuro che non ho
mai visto niente del genere. Il tunnel è completamente ostruito, ma non dai
detriti del rivestimento interno della galleria, che comunque non mancano: la
motrice ed il primo vagone si sono praticamente FUSI con un carrello di
manutenzione, bloccando completamente il passaggio » raccontò.
A
Crew gelò il sangue nelle vene.
« Un... carrello di
manutenzione, hai detto? » domandò allora,
balbettando appena, colto da una nuova ondata di panico interiore.
« Sì, è riconoscibilissimo. Cosa diamine ci
faceva lì un carrello di manutenzione all’ora di transito dei treni, Mich? » domandò Aflred, e quando si
metteva ad usare il suo soprannome sul lavoro significava che la faccenda era,
anche se non come previsto, comunque grave.
« Non lo so, ma lo
scoprirò » asserì, già in
procinto di chiudere la telefonata con tutta l’intenzione di andare a
controllare linea per linea gli interventi di manutenzione della Underground. « Ti devo lasciare
Al, fai attenzione » disse infatti, ma
l’altro lo bloccò prima che potesse riattaccare.
« Michael, aspetta » disse, Crew
rimase in ascolto: « il mio assistente è entrato dalla parte di
Waterloo insieme ad alcuni tecnici della linea... mi ha detto che ancora prima
di arrivare al treno hanno visto corpi di gente sbalzata fuori dai
finestrini... » spiegò.
Ci
fu un attimo di silenzio fra i due, tangibile e pesante come un macigno.
« ...non ha potuto avvicinarsi per via
dell’aria piena di polvere, era irrespirabile. Ti conviene dire a qualcuno di
mettersi una maschera e di farsi venire le palle di andare a controllare quel
tunnel, perché non abbiamo il tempo di aspettare che si depositi da sola. Se
c’è anche solo una crepa troppo profonda non so dire quanto tempo ci rimane
prima che sia tutto sott’acqua. E qui non si sta parlando di due sole stazioni,
rischiamo di inondare buona parte della linea » gli disse, la
voce bassa e professionale, seria come solo sul lavoro sapeva essere.
In
quel momento, il primo pensiero di Crew andò a Dio.
Il secondo, al suo lavoro. Il terzo, al settimo caffè.
« Lo so, Al.
Grazie... » sibilò,
riattaccando.
Chiuse
gli occhi per qualche minuto. Aveva già spedito orde di tecnici per constatare
i danni, e a chiamarli ogni dieci minuti ci stavano già pensando i suoi
collaboratori. Quello su cui si doveva concentrare lui era la causa, ora che ne
sapeva qualcosa di più.
Come
una scheggia, uscì dall’ufficio e piombò nella sala operativa sulla destra,
dove tutti erano indaffarati a rispondere a telefoni che squillavano ad
oltranza e a calcolare stime su qualsiasi cosa.
« Dafne! » chiamò la sua
segretaria, quella fece capolino da un cubicolo.
« Chi è a capo
delle operazioni d’indagine, laggiù? » domandò, agitato.
La
donna sfogliò velocemente un blocco per appunti, trovando il nominativo giusto
in pochi, efficienti secondi: « l’Ispettore Lestrade di Scotland Yard, signore » gli disse.
Crew annuì. « Mettimi in contatto con lui » ordinò poi.
• The Tube; Enbankment Station, h. 11:30 am
Sherlock
Holmes arrivò a piedi fino alla stazione di Enbankment,
camminando a passo svelto per quasi due isolati.
La
polizia aveva efficientemente chiuso ai mezzi pubblici e privati tutte le
strade nel raggio di un chilometro, lasciando il via libera solo alle pattuglie
delle varie agenzie governative e alle ambulanze.
Ovviamente,
dato che il centro era praticamente isolato, il traffico in tutto il resto
della città risultava molto congestionato. Non si sarebbe stupito troppo se
John non fosse riuscito a rincasare, considerando la confusione regnante in
tutta la città.
Scansò
elegantemente le prime persone in divisa, dicendo il proprio nome ai poliziotti
che tentavano inutilmente di fermarlo e, quando non serviva, aggiungendo che
era stato contattato dall’Ispettore Lestrade. A sentire il nome del detective
di Scotland Yard, chissà per quale motivo, tutti si facevano indietro e lo
lasciavano passare.
Arrivò
da Greg in qualche falcata.
« Alla buon’ora! » lo “salutò”
quello, riattaccando subito il cellulare e rimettendolo nella tasca
dell’immancabile cappotto blu scuro. « Ti ho chiamato un’ora fa, dove diamine ti
eri cacciato? » domandò a
seguito, attendendo che Sherlock si fosse avvicinato del tutto a lui.
« C’era traffico » liquidò
velocemente il detective: « allora, dov’è? » domandò poi.
« Nel tunnel » rispose Greg, con
un cenno del capo all’entrata della stazione di Enbankment:
« siamo davanti ad
una situazione strana, ma questa volta non posso prendermi il mio tempo per
indagare. Chissà per quale scherzo dei piani alti sono diventato il responsabile
delle indagini... » sbuffò, roteando
gli occhi con fare incredulo: « tu sei veloce a capire il tutto, anche se mi secca
ammetterlo. Ho bisogno che mi illumini » terminò.
Sherlock,
anche se internamente si era sentito lusingato dai mezzi complimenti di
Lestrade, si limitò ad annuire. Insieme si incamminarono verso la stazione.
« Ehi, dov’è il
dottore? Di solito siete culo e camicia » commentò l’ispettore guardandosi intorno,
forse convinto di vedere Watson raggiungerli di corsa, oppure aspettandosi che
fosse insieme ai paramedici a curare i primi feriti estratti dalle macerie.
Sherlock,
tuttavia, si limitò ad arricciare il naso. « Non c’è. Abbiamo avuto un conflitto
d’interessi su faccende triviali e se n’è andato di casa questa mattina presto.
Non era ancora tornato, quando sono uscito ».
Cominciarono
a discendere le scale che portavano alle banchine.
« Avete litigato?
Strano... » commentò
lievemente Lestrade, ridacchiando sotto i baffi: « credevo che la pazienza del
dottore fosse infinita, ma a quanto pare sei riuscito nell’intento di farlo
arrivare al limite anche di quella » ironizzò, faticando quasi a mantenere il
passo veloce di Sherlock, ma riuscendoci tutto sommato con classe.
Non
riuscì proprio a stare zitto, colto in fallo da quell’irritazione che, lo
sapeva, se non si fosse trattato di John H-sta-per-Hamish
Watson avrebbe tranquillamente ignorato. Anzi, non avrebbe proprio provato.
« È lui che è
fissato nell’essere così... normale » disse Sherlock,
sottolineando l’ultima parola con un tono quasi schifato.
« Ci mancherebbe
solo che non lo fosse... » si lasciò
sfuggire Lestrade.
Sherlock,
però, voltò il capo per guardarlo da sopra la propria spalla; per un attimo,
una sola occhiata fugace. « John non è mentalmente instabile, ma non è nemmeno normale. Si convince di essere normale. È... » si bloccò, in
cerca probabilmente del termine giusto.
Termine
che venne suggerito da Lestrade, insieme ad un sorrisetto diverso da quello
canzonatorio di prima, maggiormente carico di una lunga serie di sottintesi: « speciale? » suggerì.
Sherlock
non rispose. Dentro di sé sapeva che quello era il termine più corretto, quello
che stava cercando, quello che descriveva John alla perfezione. Ma decidere che
per lui il dottore fosse “speciale” suonava troppo come un’ammissione di
sentimento, cosa che al solo pensiero gli faceva venire l’orticaria. Poteva già
sentirne il prurito sulla pelle.
Terminarono
la rampa di scale in silenzio, percorrendo un lungo corridoio piastrellato di
bianco fino alla banchina in questione. Alcune persone con dei gilet gialli a
strisce catarifrangenti stavano risalendo dai binari mentre altre, controllando
la funzionalità delle torce, si apprestavano ad entrare a loro volta nel tunnel.
Fra di loro, diversi vigili del fuoco, poliziotti ed un paio di paramedici.
Un
agente di polizia diede loro un paio di torce, due mascherine e due elmetti – cosa,
quest’ultima, che ovviamente Sherlock non indossò, e che evitò di fare anche
Lestrade per puro spirito di emulazione – poi entrambi si incamminarono lungo
il tunnel.
Già
le banchine della stazione erano ricoperte da uno strato di polvere marrone,
causata dall’incidente, ma i binari ne erano del tutto sommersi. Ce ne era così
tanta da formare una patina, sempre più spessa man mano che si avanzava verso
il punto dell’impatto.
Punto
che Sherlock e Lestrade raggiunsero poco dopo.
Alla
luce della torcia, tutto ciò che si poteva effettivamente vedere era un cumulo
di lamiere accartocciate. Alcune cose erano riconoscibili, come l’inizio del
marchio della London Underground, l’angolo del finestrino del conducente, il
giallo del carrello di manutenzione, una ruota deformata... ma per la maggior
parte era metallo, ferro ed acciaio senza forma alcuna, ripiegato e stropicciato
come se fosse passato in una pressa da rottamazione. Riempiva l’intero arco del
tunnel se non qualche centimetro nella volta più alta, che comunque sembrava
solo un buco nero a dal quale non si sentiva nessun rumore tranne per un
continuo gocciolio d’acqua.
« Mi riesce
difficile immaginare che possano esserci dei superstiti... » disse Lestrade,
osservando distrattamente un paio di tecnici al lavoro sulla volta del tunnel e
qualche poliziotto che tentava di arrampicarsi sui rottami per puntare una
torcia in quel piccolo varco non occupato dal metallo. « Non oso sperare
che, con un impatto di questo genere, dall’altro lato ci sia anche solo una
carrozza ancora della sua forma originaria » aggiunse, deglutendo.
Sherlock,
dal canto suo, rimase a guardare la motrice senza fiatare. I suoi occhi
seguivano ogni centimetro di metallo che con la torcia illuminava, traendo
informazioni, cercando subito di sistemare i primi pezzi del puzzle per
ricomporne l’immagine.
Lo
stemma della London Underground e un angolo del finestrino laterale pendente:
fiancata di destra. Residui di vetro temperato a terra: parabrezza anteriore sfondato,
urto frontale. La parte visibile del muso rientrata: la locomotiva ha urtato
qualcosa, qualcosa di grosso e ad alta velocità, dunque il capotreno non se lo
aspettava o non era stato avvertito, quindi nemmeno al controllo centrale delle
due stazioni lo sapevano, oppure lo sapevano ma non hanno avvertito, o non
hanno fatto in tempo ad avvertire il macchinista; ma è poco probabile per
qualcuno che deve tenere d’occhio la circolazione dei treni in ogni minuto del
proprio turno di lavoro.
Il
suo sguardo indagatore passò sul carrello di manutenzione.
Stranamente
diritto nonostante l’urto imponente: alta velocità, probabilmente la massima
consentita dal mezzo.
Abbassandosi
la mascherina annusò l’aria. Carburante. Polvere. Ruggine. Muffa. Umidità.
Terra. Odore di bruciato, probabilmente causato dai freni della motrice. No,
non era rilevante. Sherlock scartò l’indizio con uno scatto del capo.
Si
avvicinò ai rottami del carrello, puntando la torcia sul metallo ed osservandolo
bene.
Tracce
di sangue, in macchioline allungate verso la coda del carrello: il conducente
era morto nell’impatto e il carrello non aveva una cabina coperta, dunque era
anche rimorchiatore. Probabilmente il cadavere era incassato fra i resti del
mezzo di manutenzione e quelli della motrice. Lo avrebbero trovato solo
rimuovendoli.
Sempre
osservato da Lestrade, che taceva aspettando un responso – o qualsiasi cosa –
Holmes fece retro-front e si mise a ripercorrere i
binari con la torcia puntata sulle rotaie.
Con
il piede, scostò la polvere sopra depositata per tutto il tragitto che fece.
Nessun segno di frenata, ma non era rilevante: i binari erano talmente usati
che un semplice scrostamento della patina non avrebbe potuto significare
niente. Su quella linea passavano centinaia di convogli per centinaia di volte
al giorno, anche se ci fossero stati segni di sorta non era detto che
appartenessero per forza al carrello.
Poi,
qualcosa di strano. Una scheggiatura sul binario, grigia e lucida, che sporcava
i lati della rotaia ma non il centro della stessa e solo da una parte
dell’effettivo binario, poiché la rotaia che correva parallela era pulita. Quella
che aveva i due segni era la più esterna delle due.
Un
sorrisetto gli nacque all’angolo delle labbra, ma aveva ancora pochi dati.
« Cos’hai scoperto?
» chiese allora a
Lestrade, guardandosi intorno ad un più ampio raggio.
L’ispettore,
continuando ad osservare ogni sua minima mossa, prese fiato: « sono stato al
telefono con un certo Crew, responsabile dell’ufficio
centrale BCV della TfL. A quanto pare alcuni suoi
tecnici lo avevano avvertito della presenza del carrello di manutenzione sulla
scena, così si è fatto trovare le liste degli interventi previsti. Tra tutti i
lavori in programma sulla Bakerloo non ve ne erano
programmati per oggi e per questo tratto. Inoltre sono riusciti a risalire al
carrello. Il numero di telaio non è visibile, ma una volta diramato l’avviso
dell’incidente sono stati fatti rientrare tutti... ovviamente meno uno:
questo... » e nel dirlo
indicò con la mano il rottame alle loro spalle « ...e così si è venuto a sapere che
oggi non doveva essere usato, perché è un carrello molto vecchio e solo il
personale più anziano è in grado di manovrarlo al meglio; l’operaio che di
solito usa questo macchinario, praticamente quasi in esclusiva, oggi era di
riposo. È stato rintracciato ed interrogato, ma stamani era a casa con la
moglie e lei conferma l’alibi; al momento dello schianto stavano riordinando la
soffitta della loro abitazione » spiegò.
Improvvisamente,
Sherlock si fermò. La torcia era fissa su un bozzo scuro coperto di polvere,
più grande di qualsiasi sasso li circondasse e di una forma più strana di un
semplice detrito.
Holmes
allargò il già lieve sorriso soddisfatto che gli piegava le labbra.
« Cosa c’è ora? » domandò Lestrade
avvicinandosi a lui, osservando a sua volta ciò che la luce della torcia di
Sherlock stava illuminando.
« È per questo che
hai sempre bisogno di me, Lestrade » si sentì in dovere di puntualizzare
Holmes, tirando fuori dalla tasca il suo fazzoletto bianco di stoffa e
raccogliendo il campione: « ti sfuggono i particolari, vedi ma non osservi.
Essere voi dev’essere così dannatamente frustrante...
» borbottò poi,
riferendosi probabilmente alla “gente normale”, come soleva declassificare
tutti coloro che lo circondavano – probabilmente escluse poche persone.
Greg
roteò gli occhi, evitando di ribattere. Non si da mai ragione ad un pazzo. « Cos’è? » domandò allora,
riportando l’attenzione sul detrito.
Che,
effettivamente, un “detrito” non era propriamente.
Una
volta che la coltre di polvere fu scivolata via, Lestrade si accorse che Sherlock
aveva in mano un pezzo di acciaio. Era scuro, scheggiato e spigoloso, ma la sua
forma originaria era comunque intuibile: aveva la forma di una pinza, o di una
morsa di qualche genere, e nonostante tutto l’ispettore non aveva la minima
idea di cosa si trattasse, o di quale fantomatico ago nel pagliaio avesse
trovato l’altro per avere stampata in volto quell’espressione compiaciuta.
« Questo, Lestrade,
è l’arma del delitto » gli rivelò
Sherlock, osservando il pezzo di metallo da ogni angolazione, la luce della
torcia ad illuminarne ogni millimetro.
« Arma del delitto?
Ma cos...? » balbettò
Lestrade, interiorizzando solamente in parte le parole di Sherlock, forse per
un proprio rifiuto psicologico a far sì che fossero reali, che avessero un
valore.
C’era
differenza fra un incidente ed una provocata strage. E non era solamente un
cavillo legale.
« Già... » continuò però il consulting
detective: « non è stato un
incidente ».
• The Tube; Waterloo
> Enbankment, h. 12:00 am
In
un qualche modo, era riuscito a dirglielo.
Piano,
a bassa voce. Sussurrando. Quasi come se dovesse rivelarle un segreto.
Piccola
Alice, la mamma è in paradiso. Piccola Alice, la mamma non si sveglierà più.
Piccola Alice, devi essere forte.
John, devi essere
forte.
Quante
volte aveva sentito quella frase, in vita sua? (1)
Quando
suo padre se ne era andato (« John, devi essere forte, ok? La mamma ti vuole bene »).
Quando
sua sorella aveva cominciato a bere (« John, devi essere forte tu, perché io non
lo sono... »).
Quando
sua madre era morta (« Ha avuto un
infarto. John, devi essere forte »).
Altri
anni. Afghanistan.
Un
proiettile. Un ospedale. Londra, di nuovo.
Un
bastone, una ferita che faceva male, il tremore alla mano. Un’analista. “Sarà
difficile riadattarsi alla vita civile”.
John, devi essere
forte.
John
Watson era stato forte per tutta la vita. Lo era stato talmente tanto che
continuava ad esserlo senza nemmeno pensarci. Ma si era ripromesso che mai
avrebbe detto a qualcun altro di essere forte.
Beh...
ora sapeva quanto tempo passava a fare quello che si riprometteva di non fare.
« Piccola Alice,
devi essere forte » aveva detto alla
fine.
La
“piccola Alice” aveva pianto per quasi un’ora. Aveva pianto fino allo stremo
fra le braccia di John, avvinghiata alla sua camicia, fino ad addormentarsi,
sfinita. Watson allora si era tolto il giubbotto, lo aveva steso a terra e
l’aveva adagiata lì.
Nel
frattempo, una volta fasciata la gamba di Joy – sempre più pallida, non aveva
potuto fare a meno di notare il medico – lui e il soldato avevano spostato
tutti i cadaveri – cinque in totale – sul lato opposto del vagone.
Per
tenerli lontano da Alice ma, soprattutto, per dividere idealmente la vita dalla
morte, lì dentro.
Ed
ora, ritornati dov’erano prima, John era intento a dare un’occhiata alla spalla
immobile del ragazzo.
« Fa strano non
riuscire a muovere il braccio » disse quello, stringendo i denti quando John gli
tolse il giubbotto mimetico, lasciandogli la maglietta verde sotto di esso. Al
collo del soldato tintinnarono le medagliette con sopra nome e numero di
matricola.
John
le lesse per abitudine: « “Miller E.”? » domandò, forse
curioso o forse desideroso di incanalare i suoi pensieri in qualcosa che non lo
deprimesse. Tipo l’argomento “Sherlock”, che il suo cervello stava
accuratamente evitando di prendere in considerazione.
Lui non glielo
aveva mai detto, che doveva essere forte. Gli aveva semplicemente dimostrato
che lo era già... e che poteva esserlo di nuovo.
« Edward » rispose allora il
giovane, distraendolo, sorridendo orgoglioso: « può chiamarmi Ed, dottor...? ».
« Watson. Chiamami
John, data la situazione informale » gli rispose. « Sei del Royal Regiments of Fusiliers? » domandò poi il
dottore, appoggiando delicatamente le dita di entrambe le mani sulla spalla del
giovane.(2)
Edward
sembrò lievemente sorpreso. « Come fa a saperlo? » domandò.
Alla
domanda, John si lasciò sfuggire un sorrisetto. « Capitano John Watson, 5th
Northumberland Fusiliers.
In congedo. Ho riconosciuto lo stemma sulla casacca » spiegò, evitando
per un soffio che il giovane soldato si mettesse sull’attenti. Non sarebbe
stata una mossa intelligente, con la spalla in quelle condizioni.
« Incredibile...
incontrare un altro soldato in una situazione come questa. Quante volte può
capitare, nella vita di una persona? » disse il giovane con un sorriso strano
sulle labbra, osservando con la coda dell’occhio le mani del medico muoversi
attente ed esperte sulla sua spalla, saggiando la pelle e le ossa sottostanti: « però... se lei è
anche un medico, per caso è un medico militare? » domandò subito dopo, senza
lasciare il tempo a John di rispondere alla prima domanda posta.
« Lo ero » confermò il
dottor Watson: « prima di
congedarmi, comunque » ci tenne a
ripetere, nel caso all’altro fosse venuta la malsana idea di chiamarlo
“capitano”.
Andava
bene fingere di esserlo ancora quando Sherlock si metteva in testa di
infiltrarsi in una base super segreta per chissà quale indagine, un po’ meno appropriato
era farsi chiamare tale dalle nuove reclute.
Ormai
era un civile, in ogni caso.
Edward
sembrò capire il senso della precisazione e annuì docilmente. « Niente “capitano”
» confermò con la
voce.
« Grazie. Comunque
hai una spalla lussata » disse John,
constatando con le mani che la testa dell’omero era completamente fuori sede: « devo rimetterla a
posto ed immobilizzarti il braccio » gli disse, il tono professionale.(3)
Ormai
era entrato nella fase della calma, quella situazione di stallo in cui la mente
non aveva ancora interiorizzato del tutto l’accaduto e aveva deciso di andare
in pausa, rimandando tutto a dopo.
Facendo
sedere Edward con la schiena diritta, John si alzò in piedi, tenendo il braccio
dell’altro dal polso. Per la prima volta da quando si era ripreso sentì una
lieve fitta al fianco destro, ma la ignorò. Con la botta che avevano preso, era
sorpreso che non avesse cominciato a fargli male ogni singolo osso e muscolo
del corpo.
« Tutto bene? » chiese però
Edward, guardandolo dal basso.
Il
dottore annuì. Gli sollevò il braccio in alto, per poi rivolgersi nuovamente a
lui: « adesso ti lascerò
andare il braccio, tu non devi fare forza, lascialo cadere a peso morto » disse.
« Aspetti, farà
mal- AH! CRISTO! ».
A
tradimento, prima ancora che il giovane potesse mettersi bene in testa le
istruzioni ricevute, John aveva mollato il braccio che era ricaduto esattamente
come doveva. In un suono secco, la testa dell’omero era tornata al suo posto ed
il giovane soldato si era ammutolito, dolorante, dopo un urlo sentito.
« Lei, dottore... è
un gran... bastardo » ansimò il ragazzo,
mordendosi il labbro per trovare dentro di sé la dignità del soldato e non
mettersi a gridare come una donnicciola.
John
sapeva che era una manovra dolorosa, dunque era consapevole dell’autocontrollo
che l’altro si stava imponendo per non sbraitare. Sorrise appena, mentre gli fasciava
stretto il braccio al petto con ciò che rimaneva degli indumenti raccolti e
trasformati in bende di fortuna.
In
realtà, dentro di sé cominciava a scatenarsi l’irrequietudine. Non aveva la
minima idea di come uscire di lì – non ci aveva ancora fatto caso, date le
medicazioni urgenti da fare –, non sapeva esattamente com’era la situazione
della galleria e, tanto per gradire, non sapeva nemmeno se e come avrebbe fatto
a trasportare Joy fuori da quel vagone evitando che morisse dissanguata nel
tentativo.
Stringendo
bene il nodo della fasciatura, sospirò affranto. « Edward, cerchiamo un modo per
uscire da qui... » borbottò John con
tono smangiucchiato, come se fosse stato raschiato dal fondo di un cassetto
impolverato dopo tanto tempo che era rimasto lì, inutilizzato.
Dalla
sua posizione di immobilità, Joy li guardò fra le ciglia di un paio d’occhi socchiusi.
• The Tube; Waterloo Station, h. 12:30 am
Nicholas
Ryder aveva ventotto anni ed una laurea cum laude in
ingegneria navale.
Aveva
una fidanzata, un matrimonio molto prossimo, un appartamento in via d’acquisto
definitivo a Notting Hill e un figlio in arrivo.
Una
vita perfetta sotto molti punti di vista. Peccato che sia i suoi genitori che i
suoi suoceri non la pensassero così.
Nicholas
Ryder aveva ventotto anni ed una laurea cum laude in
ingegneria navale, ma non faceva il mestiere per cui aveva speso soldi ed anni
all’università.
Nicholas
“Nick” Ryder era un Vigile del Fuoco.
I
suoi genitori avevano creduto alla storia del “lavoro temporaneo per farsi le
ossa” solo nei primi due anni; i suoi suoceri, invece, non avevano creduto
nemmeno a quelli, intuendo fin da subito l’innegabile passione che lo aveva
travolto quando era entrato a fare parte del Fire Department di Londra.
Il
bello era che non aveva assolutamente intenzione di cambiare lavoro. Mai avuta
nemmeno nelle due volte in cui aveva rischiato la vita in due diversi incendi,
oppure quel giovedì pomeriggio in cui era rimasto sommerso quasi due minuti
senza ossigeno per tirare fuori il cadavere di un poveretto dal Tamigi dopo che
ci si era fiondato con l’automobile.
Quel
mestiere era in grado di farlo alzare volentieri ad orari improponibili della
notte a causa di un’emergenza, e ci mancava poco che andasse a dormire con
l’uniforme addosso.
Dalla
sua parte, fortunatamente, aveva una moglie comprensiva e di larghe vedute.
Oltre che bella. Ed intelligente. Ed avvocato. Di carriera. Molto brava, tra
l’altro. Una delle migliori.
Una
moglie avvocato che voleva chiamare loro figlio Marcus. Marcus.
« Ti rendi conto di
come passerà l’età scolastica quel bambino, se lo chiamiamo Marcus Ryder? » si lamentò con un
suo collega, Dennis, camminando cautamente lungo il tunnel della metropolitana
appena dopo Waterloo, ricoperto di polvere densa. L’aria, illuminata dal fascio
luminoso delle loro torce, risultava ancora carica di particelle di polvere che
la rendevano simile a nebbia.
La
risposta dell’amico risultò gracchiante alla ricetrasmittente auricolare, e un
tantino bassa a causa del casco che erano costretti ad indossare, almeno finché
la polvere aleggiante nell’aria non si fosse decisa a posarsi.
« Non è un brutto
nome, sai? ».
« Non lo è se hai
ottant’anni e sei nato nei primi del novecento, Dennis » rispose piccato
Nick, continuando a guardarsi intorno all’interno del tunnel cupo: « oppure se sei
figlio di una famiglia di signorotti e passerai il resto della tua vita fra una
scuola privata e l’altra, dove i tuoi compagni avranno nomi ancora più pomposi
del tuo » una breve pausa,
poi riprese: « beh, mi dispiace
dirtelo, ma nostro figlio frequenterà la scuola pubblica, come tutti nella sua
famiglia. Quindi non si chiamerà Marcus
» disse,
sottolineando quel nome con un tono sciorinato, quasi disgustato.
Dennis,
sospirando nel microfono, roteò gli occhi. « Cos’è, eri preso di mira dai bulli da
piccolo? » chiese, scherzoso
solo in minima parte, più che altro cercando di farlo ragionare.
Nick
non rispose.
« Allora? » incalzò Dennis.
« Portavo un paio
d’occhiali a fondo di bottiglia e avevo l’apparecchio odontoiatrico. Secondo
te? » domandò retorico,
facendo ridacchiare l’altro che, per tutta risposta, gli ricordò di essere
diventato un bel pezzo di figliolo, nonostante da piccolo potesse anche essere
un quattrocchi con il sorriso d’acciaio.
« Mi fai arrossire
se dici così » lo sfotté lui,
fermandosi però di botto non appena nella sua visuale rientrò il primo cadavere
della giornata. Le lamiere non erano nemmeno ancora in vista, il che
significava che quel corpo era uno di quelli sbalzati fuori dal convoglio.
Sempre
se di “corpo” si potesse parlare, considerato lo stato in cui versava.
Nick
arricciò appena il naso, schiarendosi poi la voce. « Dennis, torna
indietro e dì agli altri di scendere con i sacchi neri. Non è pericoloso, io
posso continuare per conto mio » disse al collega.
« Nick, lo sai che
la procedura... »
« Come se la
seguissimo sempre alla lettera! » esclamò, sospirando piano all’evidente
testardaggine del compare, che non accennava a tornare sui suoi passi.
« Senti Dennis,
questa volta non è per dimostrare a me stesso di potercela fare... » cominciò,
guardandolo negli occhi attraverso il vetro della maschera: « questa volta sono
a capo del plotone di ricerca. Sono sceso per constatare i danni e per poter
coordinare meglio la squadra, motivo per cui ti sto mandando a chiamarla. Non è
una violazione del regolamento, è un semplice risparmio di tempo. Vorrei
davvero poter trovare qualcuno che non sia conciato così » e, così dicendo,
indicò con la mano sinistra il cadavere poco distante.
Dennis,
osservandolo torvo, annuì. « Vado a chiamare gli altri, tu non metterti nei guai » lo redarguì prima
di girarsi e dirigersi verso la banchina della stazione, ormai scomparsa nel
buio. I neon del tunnel erano stati fatti fuori dall’impatto, ma erano stati
sostituiti dai tecnici scesi precedentemente, nel tentativo di capire cosa
fosse successo, con lampade alogene che creavano una luce ovattata ma poco
utile.
Sospirando,
andò avanti.
Nella
sua camminata verso il treno deragliato segnò la posizione di ogni cadavere – o
presunto tale, o pezzo dello stesso – che trovò, segnalandolo con un cartellino
di plastica giallo. I ragazzi della squadra avrebbero fatto il resto. Durante
la camminata, tra l’altro, la polvere sembrò posarsi e poté finalmente
togliersi la maschera.
L’odore
forte di terra e calcinaccio gli aggredì subito le narici, ma l’aria gli parve
respirabile.
Finalmente,
dopo quella che sembrò un’eternità, arrivò alla carcassa di ferro e metallo.
Gli ultimi vagoni erano completamente rovesciati, ma non sembravano troppo
malconci; erano i successivi ad essere racchiusi in un groviglio di metallo ed
alcuni persino posizionati gli uni sugli altri.
Sospirò
di nuovo, chiudendo gli occhi per in istante. « Dennis? » chiamò nella
ricetrasmittente.
« Sì? » gracchiò il collega dall’altro lato.
« Cerca volontari,
chiunque voglia venire. Qualche agente della Met(4)
o qualcuno che vuole sentirsi santo martire redentore per una giornata. Qui
sotto servono staffette veloci, persone in grado di trasportare barelle a mano
e... tenaglie. E seghe circolari » disse.
« Niente seghe elettriche? » chiese l’amico
dalla radio, Nick scosse la testa.
« Meglio essere
accurati, non siamo boscaioli del Nebraska » commentò semplicemente, ricevendo l’ok
pochi istanti dopo.
Deglutendo
a vuoto, e preparandosi al il peggior lavoro d’estrazione superstiti che aveva
l’onore di affrontare da quanto faceva il pompiere, si fece mentalmente il
segno della croce.
• The Tube; Enbankment Station, h. 13:00 pm
Ritornando
finalmente sulle banchine della stazione di Enbakment,
dopo un’ora intera passata a controllare ogni singolo centimetro della galleria
nel tragitto di ritorno, Sherlock e Lestrade si precipitarono a passo svelto
verso l’ufficio movimento, situato all’inizio della scalinata accanto alla
biglietteria.
Sopra
quelle scale la luce del sole fu abbagliante e per un attimo Greg dovette
chiudere gli occhi. Solo alla richiesta verbale di Sherlock di seguirlo –
Lestrade era sicuro che, per un attimo solamente, Sherlock stesse per chiamarlo
“John” – si sforzò di aprire gli occhi ed entrò per primo.
« Detective Inspector
Lestrade, omicidi, Scotland Yard » si presentò, mostrando il distintivo alle
tre persone all’interno, indaffarate come matte a controllare un tabellone a
muro con tutti i movimenti ferroviari della linea controllata dalla BCV.
Probabilmente
stavano dirottando i vari treni su altre linee, cercando di rimediare agli
ingorghi e ai ritardi che, indubbiamente, l’incidente aveva scatenato su tutta l’Underground.
Uno
dei tre, quello più anziano, si presentò: « Joseph Moore, responsabile d’ufficio.
Loro sono Bill e Marlene, i miei collaboratori. In cosa posso aiutarla,
ispettore? » domandò cordiale,
ben disposto.
Greg
stava per rispondere, ma Sherlock lo anticipò: « un computer » disse, con
sorrisetto lieve ad inclinargli l’angolo delle labbra; il ghigno della
vittoria, avrebbe detto Lestrade: « e il collegamento alla lista di tutti gli
impiegati della società che hanno lavorato su questa linea dal 1998 in poi.
Suppongo che vi possiate collegare con l’ufficio centrale da qui, vero? » domandò, come se
fosse in quel campo da tutta una vita e sapesse i segreti di tutti i sistemi
informatici usati alla Trasport for
London.
Ma
ormai Lestrade non si stupiva più di nulla, quindi si limitò ad annuire con il
capo allo sguardo confuso di Joseph, lasciando a Sherlock carta bianca. Come al
solito.
Una
volta seduto al terminale, Holmes cominciò a navigare all’interno del sistema,
cercando rapidamente tutto ciò che gli serviva. Si fece dare il numero di
identificazione e la password da Joseph, che glieli consegnò senza troppe
reticenze, potendo così entrare anche nelle aree riservate al solo personale.
In poco tempo, l’intera lista degli impiegati era aperta davanti a lui che la
scorreva velocemente, con la rotella di scorrimento del mouse, gli occhi che
saettavano velocemente sul foglio elettronico.
« Posso finalmente
entrare a far parte del ragionamento, Sherlock? » chiese dunque Greg, appoggiandosi
con le mani allo schienale della poltrona su cui si era accomodato il
consulting detective.
Quello,
senza staccare gli occhi dalla lista di nomi, prese a parlargli. La maggior
parte delle persone non contemplava di riuscire a fare due cose in una volta
senza perdere la concentrazione, ma Sherlock Holmes doveva avere tanta di
quella materia grigia, che dedicarne una piccola parte all’esposizione di un
suo ragionamento non doveva invalidare poi molto quella rimanente, impegnata in
altro.
« Hai sentito
quando ti ho detto che non è stato un incidente, vero? » chiese Sherlock.
Lestrade
annuì. « Fin lì ci sono » disse
l’ispettore: « perché lo pensi? » domandò.
« Ma perché è
naturale, Jo- Lestrade » si corresse subito, facendo
scattare brevemente la testa come per auto correggersi; a Greg venne quasi da
ridere. Era palese che un’altra piccola parte del suo cervello, probabilmente
infinitesimale ma comunque esistente, stava ancora rimuginando sul litigio
avuto con John.
Era
affascinante vedere che Sherlock Holmes poteva avere dei sentimenti, da qualche
parte, in tutto quell’agglomerato di riccioli ed intelligenza.
« Lestrade, non ti
distrarre » venne ripreso dal
genio, e questa volta fu lui a scuotere la testa.
Negare
era inutile. « Sì, scusa. Continua
» disse.
« Ricorda i
rottami, fissali nella mente. Scontro netto. Il carrello per la manutenzione è
completamente incassato nella motrice, al centro dell’arcata della galleria
stessa se si guarda il tutto da una prospettiva spaziale d’insieme. Sappiamo
che il treno andava in direzione Paddington, dunque
doveva trovarsi sul binario di sinistra per noi che veniamo da Embankment, e dato che è palese che lo scontro è stato
frontale, vuol dire che il carrello correva sul binario opposto. Ma allora
perché si trova lì, in una posizione così centrale? » domandò,
probabilmente più retorico che altro.
Lestrade
cercò di figurarsi ciò che aveva visto, di ricordarselo pezzo per pezzo.
Le
parole “scontro netto” rimbombarono nella testa di Greg per qualche momento, e
quelle che gli uscirono dalla bocca furono logica deduzione del pensiero che ne
era nato: « è deragliato. Il
carrello, intendo. Prima del treno, il cui deragliamento forse è una diretta
conseguenza » disse.
Sherlock
mosse l’angolo della bocca. « Quasi » disse però, riprendendo subito parola: « in effetti è deragliato, ma non per disgrazia. E se avesse cercato di frenare, di rallentare
la corsa almeno un po’, non sarebbe in una posizione così centrale e
soprattutto così dritta. Il carrello era
praticamente diritto, quando lo abbiamo visto. No, quel carrello non ha
frenato. Ovviamente non possiamo cercare segni di frenata su binari così logori
dal continuo passaggio di svariati treni ogni giorno, ma c’è qualcos’altro che
i binari ci dicono... » lasciò cadere, passando la parola a Lestrade.
Era
così che John si sentiva, quando doveva ascoltare le deduzioni di Holmes?
Sempre interrogato, sempre costretto a tenere il filo di quelle parole tutte
appiccicate l’una all’altra, fornendo all’altro risposte a cui già era arrivato
solo per il gusto di farlo divertire? Era deprimente. Anzi, era seccante.
Ma
se da una parte era irritato da quel comportamento, dall’altra si sentiva
incredulo da quanto il coinvolgimento nel ragionamento di Sherlock lo facesse
sentire, a sua volta, intelligente sopra la media.
Come
se l’intelligenza astrusa di Sherlock Holmes potesse uscire per osmosi tramite
le sue parole e filtrare nell’interlocutore che lo ascoltava.
Tuttavia,
quella volta non riusciva a trovare la risposta alla domanda postagli. « Emh... » esitò; troppo, Sherlock riprese la parola come se
stessero giocando a palla avvelenata.
« Ci dicono il
contrario, Lestrade. Ci dicono che non ha
tentato di frenare » gli disse,
trovando al contempo un nome interessante ed aprendo sullo schermo la scheda
personale del soggetto in questione. Face un cenno negativo con il capo, poi la
richiuse.
Greg
ebbe un flash. « Il pezzo di ferro
che hai raccolto! » esclamò, colto a
una folgorazione improvvisa.
Holmes
annuì. « È un frammento di
un meccanismo a forma di pinza comunemente detto “deragliatore portatile”;
solitamente ne vengono applicati molti in sequenza. Sollevano la ruota di un
treno dal binario permettendogli di deragliare abbastanza dolcemente,
inclinandosi sul fianco opposto a dove è stato posizionato. Ora, ovviamente
quelli vengono usati per treni molto più pesanti di un carrello di
manutenzione, che per deragliare in quel modo potrebbe tranquillamente farsi bastare
un solo deragliatore. Però sono usati più che altro per la Upperground(5),
perché un deragliamento di quel tipo nella Underground causerebbe danni alle
gallerie. Dunque cosa ci faceva un deragliatore qui sotto? » chiese, e questa
volta Lestrade continuò senza il bisogno di ottenere la parola.
« Ce lo ha portato
il colpevole. Lo ha posizionato nel punto giusto e nel momento in cui sapeva
che non sarebbero passati treni per Lambeth, poi ha
preso il carrello di manutenzione e si è diretto nella stessa direzione mentre
passava il treno per Paddington, facendosi deragliare
appositamente per provocare l’incidente » un istante di silenzio, un pensiero in
mente: « ...mi stai
dicendo che si è suicidato? » domandò l’ispettore, traendo le logiche conclusioni.
« Temo che un
suicida non sia giuridicamente imputabile per provocata strage, giusto? » tentò di
ironizzare Sherlock, ghignando soddisfatto quando trovò quello che cercava. « Ma torniamo a
noi, Lestrade. Ora che sappiamo cos’è successo, chi andiamo a cercare? A chi
attribuiamo la colpa? » domandò allora,
girando questa volta il viso in direzione del poliziotto, guardandolo.
Fu
però Joseph, che sia Lestrade che Holmes avevano completamente rimosso dalla
stanza, a prendere parola: « incredibile... » disse, guardando Sherlock con la bocca
aperta: « ma lei... ha
lavorato nelle ferrovie, per sapere tutte queste cose? » domandò stupito,
continuando a fissarlo.
Sherlock
si dimostrò abbastanza seccato per l’interruzione e preferì non rispondere se
non con un’occhiata truce. Greg intervenne a salvare la situazione.
« Quel Crew ha detto... » cominciò « ...che il carrello utilizzato era
un modello vecchio, che pochi sapevano guidare al meglio. Probabilmente lo
facevano portare solo ai membri più anziani... » ipotizzò, guardando il signor
Joseph per trovare conferma delle sue teorie.
Quello
annuì. « Ai giovani non
viene nemmeno più insegnato come usare quei carrelli. Sono in lista per la
rottamazione non appena smetteranno di funzionare. Solamente i dipendenti
assunti prima del 1998 hanno il permetto di usarli » confermò.
Sherlock
sembrò soddisfatto, e Greg ne fu stranamente sollevato. In realtà avrebbe
dovuto sentirsi preso per i fondelli, e se ne rendeva perfettamente conto, ma
come ogni volta era più concentrato su cosa potesse imparare dalle esperienze
trascorse con Holmes che da quanto in ridicolo lo poneva ogni santa volta che
risolveva un caso in un modo così incredibile.
Il
consulting detective riprese parola: « dipendenti assunti prima del 1998, con un
passato nella manutenzione o una carriera passata esclusivamente in quella
posizione, che potessero essere presenti sulla scena del crimine senza destare
sospetti. Movente: perché provocare una strage? Le statistiche ci dicono che la
risposta è, la maggior parte delle volte, “vendetta”. Dunque, dipendenti che
avevano un motivo per avercela con la TfL. Si potrebbe
anche prendere in considerazione un conto in sospeso con qualcuno sul treno, ma
non lo avrebbero fatto deragliare tralasciando in toto la possibilità che potesse sopravvivere all’impatto, lo
avrebbero semplicemente ucciso altrove. Dunque no, doveva essere un dipendente
scontento. Magari... » e dicendo queste
parole, indicò lo schermo del computer: « ...qualcuno che ha passato vent’anni a
mantenere attiva la Bakerloo Line
e che si vede licenziato in tronco a causa di un richiamo disciplinare per negligenza,
cosa che ovviamente non aveva commesso, considerando che non ha timbrato il
cartellino in ritardo neanche una volta in vent’anni. Magari una persona con la
moglie malata di Alzheimer e due figli a cui badare, dunque che vive in base al
proprio stipendio e al quale una macchia di quel genere nel resoconto
professionale avrebbe impedito di trovare qualsiasi altro impiego nel ramo » spiegò, lineare e
veloce come una saetta, attaccando le parole una all’altra.
Lestrade
osservò la foto di un uomo dalla faccia onesta sullo schermo del computer, con
gli occhi sinceri e tristi ed un paio di baffi ingrigiti dall’età. Paul Coleman
- così si chiamava - era quello che Lestrade avrebbe chiamato “un povero
diavolo”; e lui sapeva riconoscerli a vista, solo dallo sguardo. Quelle persone
con le quali la vita è profondamente ingiusta ma che non farebbero del male ad
una mosca.
Doveva
proprio avercela con il mondo, quel povero diavolo.
Sospirando,
prese nota del nome e dei famigliari: « manderò qualcuno a parlare con i figli » disse; poi,
rivolgendosi a Sherlock, lo guardò negli occhi. « Grazie... di nuovo » sospirò
l’ispettore, voltandosi ed incamminandosi verso l’esterno.
« Quando vuoi,
ispettore » gli rispose
Holmes, alzandosi a sua volta.
Ma
prima che potesse guadagnare a sua volta l’uscita – e togliersi tutta quella
polvere dal cappotto – Joseph lo fermò.
« Scusi, ma... come
fa a dire che è stato proprio Paul? I dipendenti assunti prima del 1998 sono
decine... » soffiò.
Nome
proprio, nessun “signor”, tono dispiaciuto. Lo conosceva. Probabilmente anche
bene.
Sherlock
sospirò. Lo riteneva una ripetizione dell’ovvio, ma volle per lo meno fornire
quell’ultimo particolare. « Sono decine in tutta la rete. Su di una linea
specifica sono di meno, dieci in tutto forse, in questo caso solamente otto.
Non sono molti quelli che rimangono a lavorare nell’Underground per tutta la
vita, la maggior parte sono giovani in attesa di altro impiego o persone che
sono state licenziate dopo la crisi, dunque negli ultimi cinque anni. Nel nostro
caso, degli otto rintracciati dal sistema due sono di turno sulla Central Line, due sono
attualmente al piano superiore e sono già stati interrogati, due sono stati
promossi e hanno ottenuto un posto in ufficio e uno ha il giorno di riposo,
anch’egli scagionato. Uno solo è stato licenziato, uno solo aveva il movente e
la possibilità di passare inosservato. Paul Coleman » disse, non
attendendo risposte di sorta prima di incamminarsi a sua volta verso l’esterno.
Salì
le scale velocemente, notando non appena uscito all’aria aperta che Lestrade
stava già parlando con una pattuglia di agenti della Mef.
In lontananza, le sirene delle ambulanze giunte a Waterloo, dall’altra parte
del ponte, riempivano l’aria risuonando fra i grattacieli della City.
Solo
allora, quando la soddisfazione di un caso risolto gli riempì l’animo di
realizzazione personale – che sarebbe stata presto sostituita dalla noia,
probabilmente appena sarebbe tornato a Baker Street – si ricordò del messaggio
di John.
Sapeva
cosa c’era scritto, ma non era una scusa per non leggerlo.
Infilando
la mano nella tasca del cappotto, estrasse il cellulare e sbloccò lo schermo,
visualizzando il testo dell’sms.
C’è
un momento nella vita di ogni persona in cui il fiato semplicemente viene a
mancare.
Apnea,
questo è il termine tecnico. E non accade solo quando si è sottacqua; può
succedere in ogni momento, anche camminando per strada, oppure leggendo un
libro particolarmente triste o intrigante.
È
comunque segno di una potente reazione emotiva. Solitamente, sorpresa. Più
spesso, paura.
Teneva
in mano quel cellulare e gli sembrava, voleva,
che non fosse reale. Che quel messaggio non esistesse, che fosse tutto un
errore, una bugia, un modo per spaventarlo, per vendicarsi, per fargliela
pagare. Non seppe esattamente quale parte di sé, se il cervello o il cuore che
teoricamente non doveva avere, cominciò per prima a pregare. Irrazionalmente.
Quasi ipocritamente.
L’ora
non lasciava dubbi. Era una prova. “Ricevuto alle ore 09:31 del 03 Marzo”.
Lo
rilesse.
“Mi dispiace per prima. Sono a Lambeth, nessun taxi, prendo la metro. Ci vediamo dopo. – John.”
I
battiti del suo cuore aumentarono senza che potesse controllarli. Senza che ci
provasse, a farlo.
“...
Sono a Lambeth,
nessun taxi, prendo la metro...”
Trattenne
nuovamente il fiato.
“... prendo la metro... “
Il
cervello accettò quello che il cuore, infantile e ancora troppo immaturo,
rifiutò.
Là
sotto. Era là sotto.
John.
Il suo John. Non uno dei tanti John di Londra e del Regno Unito, no. Il suo John.
Aprì
la bocca per parlare, ma inizialmente gli uscì solo un rantolo soffocato.
Teneva le iridi azzurre piantate sullo schermo del telefonino, incredulo, fisse
sulle parole “prendo la metro” come se cercasse di farle scomparire o sostituirle
con un più innocuo “prendo l’autobus” oppure “vado a piedi”.
« Les... tr... » cercò di parlare
nuovamente, immerso forse nel primo, vero attacco di panico mai avuto in vita
sua.
La
sua voce era viscida come lava e dura come cemento. Non voleva uscire dalla
gola. Non voleva.
La
forzò.
« Lestrade... » sussurrò.
John... rantolò la sua
mente.
« Lestrade » disse.
John.
« Lestrade! » esclamò.
John!
« LESTRADE! » urlò.
JOHN!
L’ispettore,
sentendo il suo nome urlato in quel modo improbabile, si girò di scatto verso
la fonte di quella voce. Si stupì nel constatare che fosse stato Sherlock ad
urlare, ma ancora di più rimase interdetto dall’espressione che aveva addosso
il detective privato.
Pallido,
respirava in fretta. Sembrava agitato, forse... forse spaventato.
Inutile
dire che si agitò a sua volta, avvicinandosi cauto. « Cosa c’è? » gli chiese.
Mai
Gregory Lestrade aveva visto, negli anni in cui aveva avuto l’occasione di
frequentare Sherlock Holmes, gli occhi dell’altro completamente immersi in un
silenzioso terrore. Un’inquietudine posata, incarcerata solo in quelle iridi
chiare, ma non meno terrificante.
A
quel punto, Lestrade ebbe tutto il diritto di agitarsi a sua volta. « Sherlock, cosa ti
succede? » domandò,
appoggiandogli una mano sulla spalla, quasi come faceva con i parenti delle
vittime con cui immancabilmente doveva parlare per portare avanti le indagini.
Holmes,
senza parlare, gli passò il cellulare.
Lo
stesso, silenzioso panico si impresse, qualche attimo dopo, anche negli occhi
di Gregory Lestrade.
~ to be continued...
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1.
Io non so niente del passato del caro Jawn, però mi
accodo a qualche altra fanfic che ho letto in giro in
cui il padre si è dato alla macchia quand'era piccolo, mentre la madre è morta
poco prima della sua laurea. Chiamatela licenza poetica.
2.
Il 5th Northumberland
Fusiliers - il reggimento di John - ormai non è
più da considerarsi individualmente; è stato infatti riunito, insieme agli
altri 3 reggimenti di fucilieri (Royal Warwickshire Fusiliers, Lancashire Fusiliers e Royal Fusiliers - City of London Regiment), sotto un unico battaglione, ovvero il Royal Regiment of Fusiliers.Questo è
avvenuto negli anni sessanta, tipo, e John non poteva proprio essere già un
militare all'epoca... ma nonostante tutto nel telefilm viene salutato come
ex-appartenente a quel battaglione ("A Scandal
in Belgravia", puntata 2x01, mentre sono a
Buckingham Palace).
Sinceramente
non ho spolpato tutta la storia della British Army dunque, supponendo che Moffat
e Gatiss ne sappiano più di me, prendo per scontato
che nonostante siano tutti nello stesso battaglione la denominazione dei vecchi
reggimenti sia comunque ancora in uso.
3.
La testa dell'omero è la parte finale dell'omonimo osso, ovvero la parte
superiore del braccio. Ha la forma sferica, levigato, ed è quello che - insieme
a qualche legamento – forma la spalla e permette alle nostre braccia di
compiere archi di 180 gradi. Nel caso in cui la spalla si lussi, cosa che
capita spesso agli sportivi e/o in seguito a traumi, la testa dell'omero esce
fuori sede (chiamata cavità glenoidea) e la persona diviene del tutto incapace
di muovere il braccio.
4.
"Met" è come gli inglesi chiamano la
Polizia Metropolitana.
5.
Probabilmente l'ho già detto, ma mi dicono che ripetere non fa mai male. Viene
chiamata "Underground" la linea metropolitana di Londra, che passa
nel sottosuolo; di conseguenza, la "Upperground"
è l'insieme di tutte le linee londinesi ferroviarie di superficie.