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Autore: Yoko Hogawa    08/03/2012    8 recensioni
Subito dopo la violenta frenata, John si sentì staccare dal sedile. Non vedeva nulla a causa delle oscillazioni e delle scosse, tutto tremava compreso lui stesso, nelle orecchie aveva solo il terribile suono stridente e le urla dei passeggeri che viaggiavano con lui; le luci elettriche del vagone tremolarono insieme al convoglio, spegnendosi del tutto quando, con un rumore simile ad un risucchio nel vuoto, gli venne a mancare la terra sotto i piedi e si trovò per aria, la mano fermamente attaccata al palo di ferro accanto al sedile su cui si era inizialmente accomodato.
Si sentì sbalzare contro il soffitto, sentì un dolore sordo al fianco e chiuse gli occhi per istinto, aspettando la fine di tutto, o l’inizio del “dopo”.
[Johnlock][Potrebbe esserci del linguaggio un po' colorito]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: ok, c’è da dirlo: io non sono un medico. Non la studio nemmeno di striscio. Tutto quello che farò fare a John, che in questo capitolo si da al primo soccorso, deriva un po’ dalle mie conoscenze di carattere generale, da Dr. House – Medical Division e da Wikipedia. Tuttavia potrei sbagliare tutto, perciò avverto prima che è pura licenza poetica xD

Non è detto che tutte le cose che gli farò fare siano giuste, dunque non prendetelo per oro colato, ecco.

 

Mi sono accorta di non aver specificato a che punto della serie è più o meno inserita la fanfic. Beh... potrebbe essere inserita ovunque, ma conoscendomi farò sicuramente dei riferimenti. Dunque direi che è a metà fra la 2x02 e la 2x03 (in ogni caso, prima di Reichenbach per forza di cose). Non comporta particolari spoiler per chi non le ha ancora viste, comunque.

 

Beh... il capitolo è lunghetto, ma spero mi perdonerete per questa volta. Magari vedrò di trattenermi nei prossimi due, ma non avevo voglia di tagliarlo D:

Per il resto, a voi il secondo capitolo. Buona lettura!

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Venerdì 3 Marzo – parte 2

 

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment, h. 10:20 am

 

« Cristo dottore! Fa un male cane! ».

La ragazza urlava furiosamente ogni volta che le mani di John strappavano un altro piccolo pezzo di jeans nel tentativo di esporre la ferita. Il medico, dal canto suo, anche cercando di essere il più delicato possibile sapeva con certezza che avrebbe continuato a farle del male finché non avesse potuto vedere bene la situazione.

« Mi dispiace, ma non c’è molto che io possa fare in queste condizioni... » cercò di scusarsi Watson, strappando a tradimento altre due centimetri di stoffa.

« Questo me lo ha già detto! » sbottò ancora la ragazza, la fronte imperlata di sudore sotto i corti capelli neri: « ma devo scaricare lo stress, quindi se non vuole che mi aggrappi ai suoi capelli e tenti di strapparglieli mi lasci gridare e basta! » replicò, stringendo gli occhi scuri in un gemito sofferto quando John strappò un altro centimetro di tessuto zuppo di sangue.

Il dottor Watson si fermò ad osservare la situazione solo quando ritenne di aver aperto a sufficienza la gamba dei pantaloni della giovane. Nella coscia era conficcata una sottile spranga di ferro, che passava da una parte all’altra dell’arto in una lacerazione tutto sommato pulita. Sanguinava, ma dalla minima quantità fuoriuscitane constatò che il pezzo di metallo avesse per lo meno scansato l’arteria femorale.

« Ok, adesso mi serve un laccio emostatico... » borbottò tra sé e sé, gettando una rapida occhiata alla ragazza, ansimante e pallida a causa del dolore.

Non sapeva nemmeno lui come aveva fatto a riprendersi così velocemente dall’incidente. Probabilmente la guerra lo aveva formato dal punto di vista sia medico che forense, dato che si era subito messo in azione non appena aveva notato che le persone ancora coscienti presentavano delle ferite.

E come potevano non esserlo, dopotutto?

Aveva dovuto assegnare delle priorità, dato che era l’unico medico presente, e ancora una volta il suo cervello aveva fatto tutto da solo, richiamando alla mente i manuali di medicina studiati a scuola e la vastissima esperienza di medicazione sul campo che l’Afghanistan gli aveva inculcato per forza di cose.

Incamminandosi verso un uomo steso immobile a terra – non aveva ancora contato quanti fossero, effettivamente, le persone che non si muovevano o non mostravano segni tangibili di vita... – appoggiò due dita della mano destra, sporche di sangue della ragazza, sulla  sua carotide.

Non pensava di trovare battito, ed in effetti non lo trovò.

« Dottore, anche la madre di questa bambina ha bisogno d’aiuto! ».

La richiesta veniva da un ragazzo dietro di lui, un giovane che sembrava non avere nemmeno venticinque anni, che indossava una divisa militare. Non riusciva a muovere un braccio ma si era comunque diretto verso la bambina che, piangendo e strofinandosi gli occhi con le manine sporche, continuava a chiamare la madre nonostante il soldato l’avesse abbracciata e stesse tentando di consolarla.

Inizialmente, John li ignorò.

« Dottore, la prego! »

« Senti bello, la mocciosa non ha una cazzo di spranga piantata nella gamba, quindi vedi di chiudere quella bocca! » sbottò senza controllo la ragazza, sovrastando la risposta di certo più pacata che John era intenzionato a fornire al soldato.

Quello, ovviamente, non la prese bene. « È soltanto una bambina! » obiettò, sconvolto.

« Sì, ma questa non è soltanto una gamba! È la mia gamba! E c’è una spranga che la trapassa! ».

« ADESSO BASTA! ».

L’urlo di John sovrastò le voci delle due persone, il pianto della piccola e persino ogni minima intenzione di ribattere. Aveva usato il tono tipico di chi comanda, quello che molte volte aveva tirato fuori a Kabul con il suo plotone, e quelle parole rimbombarono all’interno del vagone, facendo fischiare il metallo ammaccato di cui era composto.

Watson, armato di una pazienza straordinaria e di un senso della responsabilità fuori misura, fissò i suoi occhi in quelli verdi del ragazzo, squadrandolo.

« Senti, lo so che è una brutta situazione, ma lei ha ragione » disse, indicando la ragazza sanguinante con un cenno del capo: « ha una brutta ferita e potrebbe anche morire dissanguata. È mia intenzione aiutare chiunque ne abbia bisogno ma ci sono delle priorità da rispettare, ok? » disse, con tono di voce più basso, lievemente più calmo.

Il soldato annuì mentre la donna si riservò di osservarlo con occhi a metà fra il preoccupato e lo spaventato. « Dissanguata...? » mimò con le labbra, senza tuttavia dirlo a voce alta.

John chiuse gli occhi con un sospiro; l’adrenalina e l’emergenza della situazione gli impedirono di perdersi nel lato morale del suo carattere, tenendo vigile il medico militare che si era guadagnato i gradi di Capitano curando e combattendo innumerevoli battaglie, impresa portata a termine grazie ad una notevole dose di sangue freddo.

A farsi venire la nausea ci avrebbe pensato dopo, in quel momento non c’era tempo.

Appurato che l’uomo steso di fronte a lui fosse effettivamente deceduto gli alzò la giacca del completo elegante, sfilandogli la cintura dai passanti dei pantaloni e tornando verso la ragazza.

La guardò negli occhi. In tutti gli anni passati a ricucire fori di proiettile in mezzo a sassi e sabbia aveva capito che era meglio parlare, con i pazienti feriti, soprattutto se si devono fare cose sicuramente dolorose senza avere dell’anestetico a disposizione.

E a meno che qualcuno dei passeggeri non stesse trasportando con sé una fiala di morfina con relative siringhe ipodermiche, in quel caso non ne avevano.

« Senti, emh... » si rese conto che non sapeva il suo nome.

« ...Joy » rispose quella, fra un ansito e l’altro. Teneva gli occhi spalancati e le labbra socchiuse, come se stesse cercando di calmarsi facendo forza su se stessa, oppure di riprendere a respirare normalmente.

« Joy... » cominciò Watson, mostrandogli la cintura: « ...devo legarti questa intorno alla coscia, sopra alla ferita, per cercare di rallentare l’emorragia. Ma è molto vicina all’inguine e ti farò male... va bene? » la avvisò, gli occhi del medico sicuro di sé e la voce ferma.

Quella trattenne un gemito di dolore: « se va bene?! » sbottò poi, guardandolo con astio. Ma lo sguardo negli occhi del dottore le disse che era una cosa seria e, deglutendo, annuì. « Non credo di avere altra scelta... » soffiò fra le labbra.

John si fece sfuggire un sorriso teso. « No, infatti... pronta? » domandò una volta che ebbe sistemato la cintura ed infilato il lembo libero nella fibbia.

Quella, attaccandosi con la mano ad un sedile a lei vicino, annuì.

L’urlo che lanciò quando il dottore strinse il cappio fu lacerante. La voce arrivò ad una nota talmente alta che il metallo fischiò di nuovo e la bambina, serrando gli occhi, si chiuse le orecchie con le mani. Gridò finché non terminò il fiato per farlo, la mano sinistra artigliata al sedile, la destra scattata a stringere la spalla di John.

« Ok... » soffiò l’uomo fra le labbra, osservando nuovamente la ferita: « ascolta, non posso rimuovere il pezzo di ferro, se lo faccio potrei non essere in grado di fermare il sanguinamento... » cominciò.

Quasi si era aspettato di sentirla esprimere tutto il suo disappunto, ma non successe. Stava ancora riprendendosi dall’ultima scarica di dolore ricevuta e il viso pallido parlava chiaramente al posto della voce, dicendo che era andata a pochi passi dal collasso.

Tuttavia, seppur confusa, annuì.

Così John riprese a spiegare: « ti fascerò stretta la ferita e poi allenterò la cintura, ma non posso toglierla. Dovremmo aspettare i soccorsi... tu devi cercare di non muovere assolutamente la gamba, d’accordo? Se urti il pezzo di metallo, oltre a provarti un dolore incredibile potresti causare una nuova emorragia » le disse e lei, seppur osservandolo fra le ciglia e sembrando davvero esausta, annuì di nuovo.

John le fece un cenno con il capo, rivolgendosi poi al soldato. « Sei capace di riconoscere un cadavere da una persona ancora in vita? » gli domandò.

Quello, forse sorpreso per essere stato interpellato dopo essere stato messo a tacere, annuì gravemente.

Il volto di John, allora, si fece più stanco. « Allora potresti... per favore? » sussurrò, indicandogli con il volto le persone stese a terra intorno a loro, immobili: « ...se sono morti, togli loro gli indumenti di cotone. Camicie e magliette, per ricavarne delle bende. Non prendere tessuti sintetici o lana... » disse, la voce sempre più flebile man mano che la sua mente prendeva atto della situazione in cui si trovavano.

Senza pensarci, agendo solo d’istinto, si era appena comportato esattamente come se fosse di nuovo in guerra. Con quella calma e quel sangue freddo di quando dormivano in una scomoda brandina sfondata e sopra di loro passavano, rombanti, gli aerei di chissà quale nazione che andavano a bombardare chissà quale città; e loro continuavano a dormire, perché finché non sentivano rumore di spari allora era tutto tranquillo, potevano permettersi ancora un paio d’ore di sonno leggero prima di ricominciare a camminare.

Si era aspettato, da quando aveva cominciato a curare la ferita della ragazza, che una voce in lontananza urlasse l’allarme di un attacco aereo nemico.

Spossato, si portò il dorso della mano destra alla fronte, chiudendo gli occhi.

Era ripiombato per un istante nel mondo che aveva perduto. E che, da quando conosceva Sherlock Holmes, aveva finalmente accettato di lasciarsi alle spalle.

Era proprio vero: un soldato non smette mai di essere un soldato, così come la guerra non smette mai di farti sentire sempre in guerra.

« Dottore... » un sibilo arrivò dal suo fianco, attirando la sua attenzione. Joy, ormai ritornata completamente in sé,

indicò con un cenno del capo la bambina rimasta nuovamente sola. « Vada a vedere come sta la madre, io posso resistere... » disse a bassa voce, come se non volesse farsi sentire dal soldato già intendo a controllare le altre persone nel vagone.

Watson annuì, alzandosi in piedi e dirigendosi verso la bambina.

Aveva i capelli biondi lunghi fino sotto le spalle e gli occhi marroni e caldi, grandi come solo quelli dei bambini possono essere. Il viso gentile e fanciullesco aveva la pelle chiara, che si sposava perfettamente con il vestitino bordeaux con la gonna a frappe che indossava. Le calzamaglie bianche, notò poi John, erano macchiate di sangue sulle ginocchia.

Addolcendo il tono della voce – tornando il solito John, non più il Capitano Watson – si cinò sulle ginocchia finché non fu con il viso alla sua stessa altezza.

« Ehi, ciao... » salutò, evitando di appoggiarle le mani sulle braccia solo perché sporche di sangue. « Io mi chiamo John. E tu come ti chiami? » chiese dunque, guardandola negli occhi, sforzandosi di sorridere al meglio che poteva.

La bambina, palesemente terrorizzata, ricambiò lo sguardo tremando appena. « A... Alice » disse poi: « però la mamma non si sveglia, perché la mamma non si sveglia? » ricominciò però subito a lamentarsi, piangendo e rigando con nuove lacrime le guance paffute.

Il medico cadde nel panico per un istante. Poteva anche fronteggiare un uomo armato senza perdere la concentrazione, ma non aveva fatto abbastanza ore di laboratorio per affrontare un bambino con una crisi di pianto imminente. Anzi, non aveva fatto clinica e basta, dato che si era arruolato appena dopo la laurea e aveva intrapreso una strada che di certo non era quella del medico da ambulatorio.

« No, ehi, non piangere, ok? » disse subito, cercando istintivamente di arginare la paura della bambina con le parole: « adesso guardo cos’ha la mamma, va bene? Sono un dottore. Adesso guardo cos’ha la mamma ma tu non piangere, va bene? » ripeté, scostandosi dalla piccola solo quando quella, tirando su con il naso, fece di sì con la testa.

Sospirando, si avvicinò alla donna, stesa di pancia sotto ad una fila di sedili.

Era immobile, nessuna reazione tangibile e non vedeva nemmeno la schiena sollevarsi ed abbassarsi per la respirazione. Inoltre la gonna era completamente intrisa di sangue, così come la giacca nera del completo da ufficio che indossava. Come successo con l’uomo di poco prima, non si aspettò di trovare battito cardiaco nell’accostarle le dita alla gola.

Non vi fu.

Sospirando pesantemente, chiuse gli occhi.

Come poteva dire a quella bambina che la madre non si sarebbe più svegliata?

 

 

TfL Headquarters, BCV, h. 10:15 am

 

Michael Crew era al suo sesto caffè nel giro di mezz’ora. Si era tolto giacca e cravatta, aveva avvolto le maniche della camicia finché non gli erano arrivate al gomito e aveva anche sbottonato il primi due bottoni del colletto. Se ne stava appoggiato alla sua scrivania davanti ad un tabellone con lo schema del pezzo di tunnel interessato dall’incidente, all’orecchio un auricolare wireless per parlare al telefono senza dover tenere occupate le mani.

In linea, dall’altra parte, il capo della squadra tecnica che si era prontamente avventurata nel tunnel dalla parte di Enbankment.

« Non sembrano esserci danni strutturali gravi, signore » stava dicendo, ansimante, nel microfono di quello che doveva essere un cellulare vecchio modello, a giudicare da come la sua voce giungeva metallica: « ma posso dirlo solo per il tunnel da questa parte. Ad un certo punto... ecco...  » esitò.

La caffeina in circolo nel sistema sanguigno del responsabile del BCV fece il resto. « “Ecco” cosa?! Continui! » sbottò, contrariato da qualsiasi persona gli facesse perdere tempo prezioso.

Al telefono, il tecnico deglutì. « Ad un certo punto il tunnel è completamente ostruito, signore » disse allora: « se ci sono stati danni di sorta probabilmente sono dall’altra parte, e a meno che non entri qualcuno da Waterloo noi non possiamo accedervi. Ma potrebbe essere difficile, perché... signore, è tutto un pezzo di ferro, là sotto, e... » si interruppe di nuovo, deglutendo a vuoto, incapace di continuare a parlare.

Crew inspirò ed espirò rumorosamente. « Senta, adesso lei mi dice esattamente cosa... »

Ma fu interrotto. Una collaboratrice entrò di fretta dalla porta, osservandolo dritto negli occhi. « Signore, l’ingegner Sutherland sulla tre » gli disse, concisa.

Michael annuì. « Senta, me lo dirà dopo, devo attaccare » liquidò in fretta il tecnico, spingendo un pulsante sull’auricolare e cambiando linea.

« Ufficio BCV, Crew » rispose, cercando con tutto se stesso di non suonare furioso nemmeno la metà di quanto in realtà era. Cosa che non gli venne molto bene, ma almeno si sentiva giustificato dalla situazione in corso.

« Signore, sono Sutherland » rispose l’uomo dall’altra parte, il respiro corto e la voce affaticata.

Crew si passò la mano destra sul volto, ad un passo dal panico. « Ti prego Alfred, dimmi che non è una bomba » furono le prime parole che gli disse.

Conosceva Alfred Sutherland da una vita, avevano fatto la stessa scuola superiore e Michael sapeva che non c’era miglior uomo in tutta Londra per fare quel lavoro. E, ancora, nessun altro in tutta Londra era in grado di dare le brutte notizie così com’erano, senza addolcire la pillola.

Almeno, nessuno di sua conoscenza.

« No, l’anti-terrorismo ha detto di no » disse Alfred al telefono, Crew sospirò affrancato. Tuttavia non era finita: « ma non ti nascondo che è un casino, Michael. Io sono entrato da Enbankment e ti giuro che non ho mai visto niente del genere. Il tunnel è completamente ostruito, ma non dai detriti del rivestimento interno della galleria, che comunque non mancano: la motrice ed il primo vagone si sono praticamente FUSI con un carrello di manutenzione, bloccando completamente il passaggio » raccontò.

A Crew gelò il sangue nelle vene.

« Un... carrello di manutenzione, hai detto? » domandò allora, balbettando appena, colto da una nuova ondata di panico interiore.

« Sì, è riconoscibilissimo. Cosa diamine ci faceva lì un carrello di manutenzione all’ora di transito dei treni, Mich? » domandò Aflred, e quando si metteva ad usare il suo soprannome sul lavoro significava che la faccenda era, anche se non come previsto, comunque grave.

« Non lo so, ma lo scoprirò » asserì, già in procinto di chiudere la telefonata con tutta l’intenzione di andare a controllare linea per linea gli interventi di manutenzione della Underground. « Ti devo lasciare Al, fai attenzione » disse infatti, ma l’altro lo bloccò prima che potesse riattaccare.

« Michael, aspetta  » disse, Crew rimase in ascolto: « il mio assistente è entrato dalla parte di Waterloo insieme ad alcuni tecnici della linea... mi ha detto che ancora prima di arrivare al treno hanno visto corpi di gente sbalzata fuori dai finestrini... » spiegò.

Ci fu un attimo di silenzio fra i due, tangibile e pesante come un macigno.

« ...non ha potuto avvicinarsi per via dell’aria piena di polvere, era irrespirabile. Ti conviene dire a qualcuno di mettersi una maschera e di farsi venire le palle di andare a controllare quel tunnel, perché non abbiamo il tempo di aspettare che si depositi da sola. Se c’è anche solo una crepa troppo profonda non so dire quanto tempo ci rimane prima che sia tutto sott’acqua. E qui non si sta parlando di due sole stazioni, rischiamo di inondare buona parte della linea » gli disse, la voce bassa e professionale, seria come solo sul lavoro sapeva essere.

In quel momento, il primo pensiero di Crew andò a Dio. Il secondo, al suo lavoro. Il terzo, al settimo caffè.

« Lo so, Al. Grazie... » sibilò, riattaccando.

Chiuse gli occhi per qualche minuto. Aveva già spedito orde di tecnici per constatare i danni, e a chiamarli ogni dieci minuti ci stavano già pensando i suoi collaboratori. Quello su cui si doveva concentrare lui era la causa, ora che ne sapeva qualcosa di più.

Come una scheggia, uscì dall’ufficio e piombò nella sala operativa sulla destra, dove tutti erano indaffarati a rispondere a telefoni che squillavano ad oltranza e a calcolare stime su qualsiasi cosa.

« Dafne! » chiamò la sua segretaria, quella fece capolino da un cubicolo.

« Chi è a capo delle operazioni d’indagine, laggiù? » domandò, agitato.

La donna sfogliò velocemente un blocco per appunti, trovando il nominativo giusto in pochi, efficienti secondi: « l’Ispettore Lestrade di Scotland Yard, signore » gli disse.

Crew annuì. « Mettimi in contatto con lui » ordinò poi.

 

 

• The Tube; Enbankment Station, h. 11:30 am

 

Sherlock Holmes arrivò a piedi fino alla stazione di Enbankment, camminando a passo svelto per quasi due isolati.

La polizia aveva efficientemente chiuso ai mezzi pubblici e privati tutte le strade nel raggio di un chilometro, lasciando il via libera solo alle pattuglie delle varie agenzie governative e alle ambulanze.

Ovviamente, dato che il centro era praticamente isolato, il traffico in tutto il resto della città risultava molto congestionato. Non si sarebbe stupito troppo se John non fosse riuscito a rincasare, considerando la confusione regnante in tutta la città.

Scansò elegantemente le prime persone in divisa, dicendo il proprio nome ai poliziotti che tentavano inutilmente di fermarlo e, quando non serviva, aggiungendo che era stato contattato dall’Ispettore Lestrade. A sentire il nome del detective di Scotland Yard, chissà per quale motivo, tutti si facevano indietro e lo lasciavano passare.

Arrivò da Greg in qualche falcata.

« Alla buon’ora! » lo “salutò” quello, riattaccando subito il cellulare e rimettendolo nella tasca dell’immancabile cappotto blu scuro. « Ti ho chiamato un’ora fa, dove diamine ti eri cacciato? » domandò a seguito, attendendo che Sherlock si fosse avvicinato del tutto a lui.

« C’era traffico » liquidò velocemente il detective: « allora, dov’è? » domandò poi.

« Nel tunnel » rispose Greg, con un cenno del capo all’entrata della stazione di Enbankment: « siamo davanti ad una situazione strana, ma questa volta non posso prendermi il mio tempo per indagare. Chissà per quale scherzo dei piani alti sono diventato il responsabile delle indagini... » sbuffò, roteando gli occhi con fare incredulo: « tu sei veloce a capire il tutto, anche se mi secca ammetterlo. Ho bisogno che mi illumini » terminò.

Sherlock, anche se internamente si era sentito lusingato dai mezzi complimenti di Lestrade, si limitò ad annuire. Insieme si incamminarono verso la stazione.

« Ehi, dov’è il dottore? Di solito siete culo e camicia » commentò l’ispettore guardandosi intorno, forse convinto di vedere Watson raggiungerli di corsa, oppure aspettandosi che fosse insieme ai paramedici a curare i primi feriti estratti dalle macerie.

Sherlock, tuttavia, si limitò ad arricciare il naso. « Non c’è. Abbiamo avuto un conflitto d’interessi su faccende triviali e se n’è andato di casa questa mattina presto. Non era ancora tornato, quando sono uscito ».

Cominciarono a discendere le scale che portavano alle banchine.

« Avete litigato? Strano... » commentò lievemente Lestrade, ridacchiando sotto i baffi: « credevo che la pazienza del dottore fosse infinita, ma a quanto pare sei riuscito nell’intento di farlo arrivare al limite anche di quella » ironizzò, faticando quasi a mantenere il passo veloce di Sherlock, ma riuscendoci tutto sommato con classe.

Non riuscì proprio a stare zitto, colto in fallo da quell’irritazione che, lo sapeva, se non si fosse trattato di John H-sta-per-Hamish Watson avrebbe tranquillamente ignorato. Anzi, non avrebbe proprio provato.

« È lui che è fissato nell’essere così... normale » disse Sherlock, sottolineando l’ultima parola con un tono quasi schifato.

« Ci mancherebbe solo che non lo fosse... » si lasciò sfuggire Lestrade.

Sherlock, però, voltò il capo per guardarlo da sopra la propria spalla; per un attimo, una sola occhiata fugace. « John non è mentalmente instabile,  ma non è nemmeno normale. Si convince di essere normale. È... » si bloccò, in cerca probabilmente del termine giusto.

Termine che venne suggerito da Lestrade, insieme ad un sorrisetto diverso da quello canzonatorio di prima, maggiormente carico di una lunga serie di sottintesi: « speciale? » suggerì.

Sherlock non rispose. Dentro di sé sapeva che quello era il termine più corretto, quello che stava cercando, quello che descriveva John alla perfezione. Ma decidere che per lui il dottore fosse “speciale” suonava troppo come un’ammissione di sentimento, cosa che al solo pensiero gli faceva venire l’orticaria. Poteva già sentirne il prurito sulla pelle.

Terminarono la rampa di scale in silenzio, percorrendo un lungo corridoio piastrellato di bianco fino alla banchina in questione. Alcune persone con dei gilet gialli a strisce catarifrangenti stavano risalendo dai binari mentre altre, controllando la funzionalità delle torce, si apprestavano ad entrare a loro volta nel tunnel. Fra di loro, diversi vigili del fuoco, poliziotti ed un paio di paramedici.

Un agente di polizia diede loro un paio di torce, due mascherine e due elmetti – cosa, quest’ultima, che ovviamente Sherlock non indossò, e che evitò di fare anche Lestrade per puro spirito di emulazione – poi entrambi si incamminarono lungo il tunnel.

Già le banchine della stazione erano ricoperte da uno strato di polvere marrone, causata dall’incidente, ma i binari ne erano del tutto sommersi. Ce ne era così tanta da formare una patina, sempre più spessa man mano che si avanzava verso il punto dell’impatto.

Punto che Sherlock e Lestrade raggiunsero poco dopo.

Alla luce della torcia, tutto ciò che si poteva effettivamente vedere era un cumulo di lamiere accartocciate. Alcune cose erano riconoscibili, come l’inizio del marchio della London Underground, l’angolo del finestrino del conducente, il giallo del carrello di manutenzione, una ruota deformata... ma per la maggior parte era metallo, ferro ed acciaio senza forma alcuna, ripiegato e stropicciato come se fosse passato in una pressa da rottamazione. Riempiva l’intero arco del tunnel se non qualche centimetro nella volta più alta, che comunque sembrava solo un buco nero a dal quale non si sentiva nessun rumore tranne per un continuo gocciolio d’acqua.

« Mi riesce difficile immaginare che possano esserci dei superstiti... » disse Lestrade, osservando distrattamente un paio di tecnici al lavoro sulla volta del tunnel e qualche poliziotto che tentava di arrampicarsi sui rottami per puntare una torcia in quel piccolo varco non occupato dal metallo. « Non oso sperare che, con un impatto di questo genere, dall’altro lato ci sia anche solo una carrozza ancora della sua forma originaria » aggiunse, deglutendo.

Sherlock, dal canto suo, rimase a guardare la motrice senza fiatare. I suoi occhi seguivano ogni centimetro di metallo che con la torcia illuminava, traendo informazioni, cercando subito di sistemare i primi pezzi del puzzle per ricomporne l’immagine.

Lo stemma della London Underground e un angolo del finestrino laterale pendente: fiancata di destra. Residui di vetro temperato a terra: parabrezza anteriore sfondato, urto frontale. La parte visibile del muso rientrata: la locomotiva ha urtato qualcosa, qualcosa di grosso e ad alta velocità, dunque il capotreno non se lo aspettava o non era stato avvertito, quindi nemmeno al controllo centrale delle due stazioni lo sapevano, oppure lo sapevano ma non hanno avvertito, o non hanno fatto in tempo ad avvertire il macchinista; ma è poco probabile per qualcuno che deve tenere d’occhio la circolazione dei treni in ogni minuto del proprio turno di lavoro.

Il suo sguardo indagatore passò sul carrello di manutenzione.

Stranamente diritto nonostante l’urto imponente: alta velocità, probabilmente la massima consentita dal mezzo.

Abbassandosi la mascherina annusò l’aria. Carburante. Polvere. Ruggine. Muffa. Umidità. Terra. Odore di bruciato, probabilmente causato dai freni della motrice. No, non era rilevante. Sherlock scartò l’indizio con uno scatto del capo.

Si avvicinò ai rottami del carrello, puntando la torcia sul metallo ed osservandolo bene.

Tracce di sangue, in macchioline allungate verso la coda del carrello: il conducente era morto nell’impatto e il carrello non aveva una cabina coperta, dunque era anche rimorchiatore. Probabilmente il cadavere era incassato fra i resti del mezzo di manutenzione e quelli della motrice. Lo avrebbero trovato solo rimuovendoli.

Sempre osservato da Lestrade, che taceva aspettando un responso – o qualsiasi cosa – Holmes fece retro-front e si mise a ripercorrere i binari con la torcia puntata sulle rotaie.

Con il piede, scostò la polvere sopra depositata per tutto il tragitto che fece. Nessun segno di frenata, ma non era rilevante: i binari erano talmente usati che un semplice scrostamento della patina non avrebbe potuto significare niente. Su quella linea passavano centinaia di convogli per centinaia di volte al giorno, anche se ci fossero stati segni di sorta non era detto che appartenessero per forza al carrello.

Poi, qualcosa di strano. Una scheggiatura sul binario, grigia e lucida, che sporcava i lati della rotaia ma non il centro della stessa e solo da una parte dell’effettivo binario, poiché la rotaia che correva parallela era pulita. Quella che aveva i due segni era la più esterna delle due.

Un sorrisetto gli nacque all’angolo delle labbra, ma aveva ancora pochi dati.

« Cos’hai scoperto? » chiese allora a Lestrade, guardandosi intorno ad un più ampio raggio.

L’ispettore, continuando ad osservare ogni sua minima mossa, prese fiato: « sono stato al telefono con un certo Crew, responsabile dell’ufficio centrale BCV della TfL. A quanto pare alcuni suoi tecnici lo avevano avvertito della presenza del carrello di manutenzione sulla scena, così si è fatto trovare le liste degli interventi previsti. Tra tutti i lavori in programma sulla Bakerloo non ve ne erano programmati per oggi e per questo tratto. Inoltre sono riusciti a risalire al carrello. Il numero di telaio non è visibile, ma una volta diramato l’avviso dell’incidente sono stati fatti rientrare tutti... ovviamente meno uno: questo... » e nel dirlo indicò con la mano il rottame alle loro spalle « ...e così si è venuto a sapere che oggi non doveva essere usato, perché è un carrello molto vecchio e solo il personale più anziano è in grado di manovrarlo al meglio; l’operaio che di solito usa questo macchinario, praticamente quasi in esclusiva, oggi era di riposo. È stato rintracciato ed interrogato, ma stamani era a casa con la moglie e lei conferma l’alibi; al momento dello schianto stavano riordinando la soffitta della loro abitazione » spiegò.

Improvvisamente, Sherlock si fermò. La torcia era fissa su un bozzo scuro coperto di polvere, più grande di qualsiasi sasso li circondasse e di una forma più strana di un semplice detrito.

Holmes allargò il già lieve sorriso soddisfatto che gli piegava le labbra.

« Cosa c’è ora? » domandò Lestrade avvicinandosi a lui, osservando a sua volta ciò che la luce della torcia di Sherlock stava illuminando.

« È per questo che hai sempre bisogno di me, Lestrade » si sentì in dovere di puntualizzare Holmes, tirando fuori dalla tasca il suo fazzoletto bianco di stoffa e raccogliendo il campione: « ti sfuggono i particolari, vedi ma non osservi. Essere voi dev’essere così dannatamente frustrante... » borbottò poi, riferendosi probabilmente alla “gente normale”, come soleva declassificare tutti coloro che lo circondavano – probabilmente escluse poche persone.

Greg roteò gli occhi, evitando di ribattere. Non si da mai ragione ad un pazzo. « Cos’è? » domandò allora, riportando l’attenzione sul detrito.

Che, effettivamente, un “detrito” non era propriamente.

Una volta che la coltre di polvere fu scivolata via, Lestrade si accorse che Sherlock aveva in mano un pezzo di acciaio. Era scuro, scheggiato e spigoloso, ma la sua forma originaria era comunque intuibile: aveva la forma di una pinza, o di una morsa di qualche genere, e nonostante tutto l’ispettore non aveva la minima idea di cosa si trattasse, o di quale fantomatico ago nel pagliaio avesse trovato l’altro per avere stampata in volto quell’espressione compiaciuta.

« Questo, Lestrade, è l’arma del delitto » gli rivelò Sherlock, osservando il pezzo di metallo da ogni angolazione, la luce della torcia ad illuminarne ogni millimetro.

« Arma del delitto? Ma cos...? » balbettò Lestrade, interiorizzando solamente in parte le parole di Sherlock, forse per un proprio rifiuto psicologico a far sì che fossero reali, che avessero un valore.

C’era differenza fra un incidente ed una provocata strage. E non era solamente un cavillo legale.

« Già... » continuò però il consulting detective: « non è stato un incidente ».

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment, h. 12:00 am

 

In un qualche modo, era riuscito a dirglielo.

Piano, a bassa voce. Sussurrando. Quasi come se dovesse rivelarle un segreto.

Piccola Alice, la mamma è in paradiso. Piccola Alice, la mamma non si sveglierà più. Piccola Alice, devi essere forte.

John, devi essere forte.

Quante volte aveva sentito quella frase, in vita sua? (1)

Quando suo padre se ne era andato (« John, devi essere forte, ok? La mamma ti vuole bene »).

Quando sua sorella aveva cominciato a bere (« John, devi essere forte tu, perché io non lo sono... »).

Quando sua madre era morta (« Ha avuto un infarto. John, devi essere forte »).

Altri anni. Afghanistan.

Un proiettile. Un ospedale. Londra, di nuovo.

Un bastone, una ferita che faceva male, il tremore alla mano. Un’analista. “Sarà difficile riadattarsi alla vita civile”.

John, devi essere forte.

John Watson era stato forte per tutta la vita. Lo era stato talmente tanto che continuava ad esserlo senza nemmeno pensarci. Ma si era ripromesso che mai avrebbe detto a qualcun altro di essere forte.

Beh... ora sapeva quanto tempo passava a fare quello che si riprometteva di non fare.

« Piccola Alice, devi essere forte » aveva detto alla fine.

La “piccola Alice” aveva pianto per quasi un’ora. Aveva pianto fino allo stremo fra le braccia di John, avvinghiata alla sua camicia, fino ad addormentarsi, sfinita. Watson allora si era tolto il giubbotto, lo aveva steso a terra e l’aveva adagiata lì.

Nel frattempo, una volta fasciata la gamba di Joy – sempre più pallida, non aveva potuto fare a meno di notare il medico – lui e il soldato avevano spostato tutti i cadaveri – cinque in totale – sul lato opposto del vagone.

Per tenerli lontano da Alice ma, soprattutto, per dividere idealmente la vita dalla morte, lì dentro.

Ed ora, ritornati dov’erano prima, John era intento a dare un’occhiata alla spalla immobile del ragazzo.

« Fa strano non riuscire a muovere il braccio » disse quello, stringendo i denti quando John gli tolse il giubbotto mimetico, lasciandogli la maglietta verde sotto di esso. Al collo del soldato tintinnarono le medagliette con sopra nome e numero di matricola.

John le lesse per abitudine: « “Miller E.”? » domandò, forse curioso o forse desideroso di incanalare i suoi pensieri in qualcosa che non lo deprimesse. Tipo l’argomento “Sherlock”, che il suo cervello stava accuratamente evitando di prendere in considerazione.

Lui non glielo aveva mai detto, che doveva essere forte. Gli aveva semplicemente dimostrato che lo era già... e che poteva esserlo di nuovo.

« Edward » rispose allora il giovane, distraendolo, sorridendo orgoglioso: « può chiamarmi Ed, dottor...? ».

« Watson. Chiamami John, data la situazione informale » gli rispose. « Sei del Royal Regiments of Fusiliers? » domandò poi il dottore, appoggiando delicatamente le dita di entrambe le mani sulla spalla del giovane.(2)

Edward sembrò lievemente sorpreso. « Come fa a saperlo? » domandò.

Alla domanda, John si lasciò sfuggire un sorrisetto. « Capitano John Watson, 5th Northumberland Fusiliers. In congedo. Ho riconosciuto lo stemma sulla casacca » spiegò, evitando per un soffio che il giovane soldato si mettesse sull’attenti. Non sarebbe stata una mossa intelligente, con la spalla in quelle condizioni.

« Incredibile... incontrare un altro soldato in una situazione come questa. Quante volte può capitare, nella vita di una persona? » disse il giovane con un sorriso strano sulle labbra, osservando con la coda dell’occhio le mani del medico muoversi attente ed esperte sulla sua spalla, saggiando la pelle e le ossa sottostanti: « però... se lei è anche un medico, per caso è un medico militare? » domandò subito dopo, senza lasciare il tempo a John di rispondere alla prima domanda posta.

« Lo ero » confermò il dottor Watson: « prima di congedarmi, comunque » ci tenne a ripetere, nel caso all’altro fosse venuta la malsana idea di chiamarlo “capitano”.

Andava bene fingere di esserlo ancora quando Sherlock si metteva in testa di infiltrarsi in una base super segreta per chissà quale indagine, un po’ meno appropriato era farsi chiamare tale dalle nuove reclute.

Ormai era un civile, in ogni caso.

Edward sembrò capire il senso della precisazione e annuì docilmente. « Niente “capitano” » confermò con la voce.

« Grazie. Comunque hai una spalla lussata » disse John, constatando con le mani che la testa dell’omero era completamente fuori sede: « devo rimetterla a posto ed immobilizzarti il braccio » gli disse, il tono professionale.(3)

Ormai era entrato nella fase della calma, quella situazione di stallo in cui la mente non aveva ancora interiorizzato del tutto l’accaduto e aveva deciso di andare in pausa, rimandando tutto a dopo.

Facendo sedere Edward con la schiena diritta, John si alzò in piedi, tenendo il braccio dell’altro dal polso. Per la prima volta da quando si era ripreso sentì una lieve fitta al fianco destro, ma la ignorò. Con la botta che avevano preso, era sorpreso che non avesse cominciato a fargli male ogni singolo osso e muscolo del corpo.

« Tutto bene? » chiese però Edward, guardandolo dal basso.

Il dottore annuì. Gli sollevò il braccio in alto, per poi rivolgersi nuovamente a lui: « adesso ti lascerò andare il braccio, tu non devi fare forza, lascialo cadere a peso morto » disse.

« Aspetti, farà mal- AH! CRISTO! ».

A tradimento, prima ancora che il giovane potesse mettersi bene in testa le istruzioni ricevute, John aveva mollato il braccio che era ricaduto esattamente come doveva. In un suono secco, la testa dell’omero era tornata al suo posto ed il giovane soldato si era ammutolito, dolorante, dopo un urlo sentito.

« Lei, dottore... è un gran... bastardo » ansimò il ragazzo, mordendosi il labbro per trovare dentro di sé la dignità del soldato e non mettersi a gridare come una donnicciola.

John sapeva che era una manovra dolorosa, dunque era consapevole dell’autocontrollo che l’altro si stava imponendo per non sbraitare. Sorrise appena, mentre gli fasciava stretto il braccio al petto con ciò che rimaneva degli indumenti raccolti e trasformati in bende di fortuna.

In realtà, dentro di sé cominciava a scatenarsi l’irrequietudine. Non aveva la minima idea di come uscire di lì – non ci aveva ancora fatto caso, date le medicazioni urgenti da fare –, non sapeva esattamente com’era la situazione della galleria e, tanto per gradire, non sapeva nemmeno se e come avrebbe fatto a trasportare Joy fuori da quel vagone evitando che morisse dissanguata nel tentativo.

Stringendo bene il nodo della fasciatura, sospirò affranto. « Edward, cerchiamo un modo per uscire da qui... » borbottò John con tono smangiucchiato, come se fosse stato raschiato dal fondo di un cassetto impolverato dopo tanto tempo che era rimasto lì, inutilizzato.

Dalla sua posizione di immobilità, Joy li guardò fra le ciglia di un paio d’occhi socchiusi.

 

 

The Tube; Waterloo Station, h. 12:30 am

 

Nicholas Ryder aveva ventotto anni ed una laurea cum laude in ingegneria navale.

Aveva una fidanzata, un matrimonio molto prossimo, un appartamento in via d’acquisto definitivo a Notting Hill e un figlio in arrivo.

Una vita perfetta sotto molti punti di vista. Peccato che sia i suoi genitori che i suoi suoceri non la pensassero così.

Nicholas Ryder aveva ventotto anni ed una laurea cum laude in ingegneria navale, ma non faceva il mestiere per cui aveva speso soldi ed anni all’università.

Nicholas “Nick” Ryder era un Vigile del Fuoco.

I suoi genitori avevano creduto alla storia del “lavoro temporaneo per farsi le ossa” solo nei primi due anni; i suoi suoceri, invece, non avevano creduto nemmeno a quelli, intuendo fin da subito l’innegabile passione che lo aveva travolto quando era entrato a fare parte del Fire Department di Londra.

Il bello era che non aveva assolutamente intenzione di cambiare lavoro. Mai avuta nemmeno nelle due volte in cui aveva rischiato la vita in due diversi incendi, oppure quel giovedì pomeriggio in cui era rimasto sommerso quasi due minuti senza ossigeno per tirare fuori il cadavere di un poveretto dal Tamigi dopo che ci si era fiondato con l’automobile.

Quel mestiere era in grado di farlo alzare volentieri ad orari improponibili della notte a causa di un’emergenza, e ci mancava poco che andasse a dormire con l’uniforme addosso.

Dalla sua parte, fortunatamente, aveva una moglie comprensiva e di larghe vedute. Oltre che bella. Ed intelligente. Ed avvocato. Di carriera. Molto brava, tra l’altro. Una delle migliori.

Una moglie avvocato che voleva chiamare loro figlio Marcus. Marcus.

« Ti rendi conto di come passerà l’età scolastica quel bambino, se lo chiamiamo Marcus Ryder? » si lamentò con un suo collega, Dennis, camminando cautamente lungo il tunnel della metropolitana appena dopo Waterloo, ricoperto di polvere densa. L’aria, illuminata dal fascio luminoso delle loro torce, risultava ancora carica di particelle di polvere che la rendevano simile a nebbia.

La risposta dell’amico risultò gracchiante alla ricetrasmittente auricolare, e un tantino bassa a causa del casco che erano costretti ad indossare, almeno finché la polvere aleggiante nell’aria non si fosse decisa a posarsi.

« Non è un brutto nome, sai? ».

« Non lo è se hai ottant’anni e sei nato nei primi del novecento, Dennis » rispose piccato Nick, continuando a guardarsi intorno all’interno del tunnel cupo: « oppure se sei figlio di una famiglia di signorotti e passerai il resto della tua vita fra una scuola privata e l’altra, dove i tuoi compagni avranno nomi ancora più pomposi del tuo » una breve pausa, poi riprese: « beh, mi dispiace dirtelo, ma nostro figlio frequenterà la scuola pubblica, come tutti nella sua famiglia. Quindi non si chiamerà Marcus » disse, sottolineando quel nome con un tono sciorinato, quasi disgustato.

Dennis, sospirando nel microfono, roteò gli occhi. « Cos’è, eri preso di mira dai bulli da piccolo? » chiese, scherzoso solo in minima parte, più che altro cercando di farlo ragionare.

Nick non rispose.

« Allora? » incalzò Dennis.

« Portavo un paio d’occhiali a fondo di bottiglia e avevo l’apparecchio odontoiatrico. Secondo te? » domandò retorico, facendo ridacchiare l’altro che, per tutta risposta, gli ricordò di essere diventato un bel pezzo di figliolo, nonostante da piccolo potesse anche essere un quattrocchi con il sorriso d’acciaio.

« Mi fai arrossire se dici così » lo sfotté lui, fermandosi però di botto non appena nella sua visuale rientrò il primo cadavere della giornata. Le lamiere non erano nemmeno ancora in vista, il che significava che quel corpo era uno di quelli sbalzati fuori dal convoglio.

Sempre se di “corpo” si potesse parlare, considerato lo stato in cui versava.

Nick arricciò appena il naso, schiarendosi poi la voce. « Dennis, torna indietro e dì agli altri di scendere con i sacchi neri. Non è pericoloso, io posso continuare per conto mio » disse al collega.

« Nick, lo sai che la procedura... »

« Come se la seguissimo sempre alla lettera! » esclamò, sospirando piano all’evidente testardaggine del compare, che non accennava a tornare sui suoi passi.

« Senti Dennis, questa volta non è per dimostrare a me stesso di potercela fare... » cominciò, guardandolo negli occhi attraverso il vetro della maschera: « questa volta sono a capo del plotone di ricerca. Sono sceso per constatare i danni e per poter coordinare meglio la squadra, motivo per cui ti sto mandando a chiamarla. Non è una violazione del regolamento, è un semplice risparmio di tempo. Vorrei davvero poter trovare qualcuno che non sia conciato così » e, così dicendo, indicò con la mano sinistra il cadavere poco distante.

Dennis, osservandolo torvo, annuì. « Vado a chiamare gli altri, tu non metterti nei guai » lo redarguì prima di girarsi e dirigersi verso la banchina della stazione, ormai scomparsa nel buio. I neon del tunnel erano stati fatti fuori dall’impatto, ma erano stati sostituiti dai tecnici scesi precedentemente, nel tentativo di capire cosa fosse successo, con lampade alogene che creavano una luce ovattata ma poco utile.

Sospirando, andò avanti.

Nella sua camminata verso il treno deragliato segnò la posizione di ogni cadavere – o presunto tale, o pezzo dello stesso – che trovò, segnalandolo con un cartellino di plastica giallo. I ragazzi della squadra avrebbero fatto il resto. Durante la camminata, tra l’altro, la polvere sembrò posarsi e poté finalmente togliersi la maschera.

L’odore forte di terra e calcinaccio gli aggredì subito le narici, ma l’aria gli parve respirabile.

Finalmente, dopo quella che sembrò un’eternità, arrivò alla carcassa di ferro e metallo. Gli ultimi vagoni erano completamente rovesciati, ma non sembravano troppo malconci; erano i successivi ad essere racchiusi in un groviglio di metallo ed alcuni persino posizionati gli uni sugli altri.

Sospirò di nuovo, chiudendo gli occhi per in istante. « Dennis? » chiamò nella ricetrasmittente.

« Sì? » gracchiò il collega dall’altro lato.

« Cerca volontari, chiunque voglia venire. Qualche agente della Met(4) o qualcuno che vuole sentirsi santo martire redentore per una giornata. Qui sotto servono staffette veloci, persone in grado di trasportare barelle a mano e... tenaglie. E seghe circolari » disse.

« Niente seghe elettriche? » chiese l’amico dalla radio, Nick scosse la testa.

« Meglio essere accurati, non siamo boscaioli del Nebraska » commentò semplicemente, ricevendo l’ok pochi istanti dopo.

Deglutendo a vuoto, e preparandosi al il peggior lavoro d’estrazione superstiti che aveva l’onore di affrontare da quanto faceva il pompiere, si fece mentalmente il segno della croce.

 

 

• The Tube; Enbankment Station, h. 13:00 pm

 

Ritornando finalmente sulle banchine della stazione di Enbakment, dopo un’ora intera passata a controllare ogni singolo centimetro della galleria nel tragitto di ritorno, Sherlock e Lestrade si precipitarono a passo svelto verso l’ufficio movimento, situato all’inizio della scalinata accanto alla biglietteria.

Sopra quelle scale la luce del sole fu abbagliante e per un attimo Greg dovette chiudere gli occhi. Solo alla richiesta verbale di Sherlock di seguirlo – Lestrade era sicuro che, per un attimo solamente, Sherlock stesse per chiamarlo “John” – si sforzò di aprire gli occhi ed entrò per primo.

« Detective Inspector Lestrade, omicidi, Scotland Yard » si presentò, mostrando il distintivo alle tre persone all’interno, indaffarate come matte a controllare un tabellone a muro con tutti i movimenti ferroviari della linea controllata dalla BCV.

Probabilmente stavano dirottando i vari treni su altre linee, cercando di rimediare agli ingorghi e ai ritardi che, indubbiamente, l’incidente aveva scatenato su tutta l’Underground.

Uno dei tre, quello più anziano, si presentò: « Joseph Moore, responsabile d’ufficio. Loro sono Bill e Marlene, i miei collaboratori. In cosa posso aiutarla, ispettore? » domandò cordiale, ben disposto.

Greg stava per rispondere, ma Sherlock lo anticipò: « un computer » disse, con sorrisetto lieve ad inclinargli l’angolo delle labbra; il ghigno della vittoria, avrebbe detto Lestrade: « e il collegamento alla lista di tutti gli impiegati della società che hanno lavorato su questa linea dal 1998 in poi. Suppongo che vi possiate collegare con l’ufficio centrale da qui, vero? » domandò, come se fosse in quel campo da tutta una vita e sapesse i segreti di tutti i sistemi informatici usati alla Trasport for London.

Ma ormai Lestrade non si stupiva più di nulla, quindi si limitò ad annuire con il capo allo sguardo confuso di Joseph, lasciando a Sherlock carta bianca. Come al solito.

Una volta seduto al terminale, Holmes cominciò a navigare all’interno del sistema, cercando rapidamente tutto ciò che gli serviva. Si fece dare il numero di identificazione e la password da Joseph, che glieli consegnò senza troppe reticenze, potendo così entrare anche nelle aree riservate al solo personale. In poco tempo, l’intera lista degli impiegati era aperta davanti a lui che la scorreva velocemente, con la rotella di scorrimento del mouse, gli occhi che saettavano velocemente sul foglio elettronico.

« Posso finalmente entrare a far parte del ragionamento, Sherlock? » chiese dunque Greg, appoggiandosi con le mani allo schienale della poltrona su cui si era accomodato il consulting detective.

Quello, senza staccare gli occhi dalla lista di nomi, prese a parlargli. La maggior parte delle persone non contemplava di riuscire a fare due cose in una volta senza perdere la concentrazione, ma Sherlock Holmes doveva avere tanta di quella materia grigia, che dedicarne una piccola parte all’esposizione di un suo ragionamento non doveva invalidare poi molto quella rimanente, impegnata in altro.

« Hai sentito quando ti ho detto che non è stato un incidente, vero? » chiese Sherlock.

Lestrade annuì. « Fin lì ci sono » disse l’ispettore: « perché lo pensi? » domandò.

« Ma perché è naturale, Jo- Lestrade » si corresse subito, facendo scattare brevemente la testa come per auto correggersi; a Greg venne quasi da ridere. Era palese che un’altra piccola parte del suo cervello, probabilmente infinitesimale ma comunque esistente, stava ancora rimuginando sul litigio avuto con John.

Era affascinante vedere che Sherlock Holmes poteva avere dei sentimenti, da qualche parte, in tutto quell’agglomerato di riccioli ed intelligenza.

« Lestrade, non ti distrarre » venne ripreso dal genio, e questa volta fu lui a scuotere la testa.

Negare era inutile. « Sì, scusa. Continua » disse.

« Ricorda i rottami, fissali nella mente. Scontro netto. Il carrello per la manutenzione è completamente incassato nella motrice, al centro dell’arcata della galleria stessa se si guarda il tutto da una prospettiva spaziale d’insieme. Sappiamo che il treno andava in direzione Paddington, dunque doveva trovarsi sul binario di sinistra per noi che veniamo da Embankment, e dato che è palese che lo scontro è stato frontale, vuol dire che il carrello correva sul binario opposto. Ma allora perché si trova lì, in una posizione così centrale? » domandò, probabilmente più retorico che altro.

Lestrade cercò di figurarsi ciò che aveva visto, di ricordarselo pezzo per pezzo.

Le parole “scontro netto” rimbombarono nella testa di Greg per qualche momento, e quelle che gli uscirono dalla bocca furono logica deduzione del pensiero che ne era nato: « è deragliato. Il carrello, intendo. Prima del treno, il cui deragliamento forse è una diretta conseguenza » disse.

Sherlock mosse l’angolo della bocca. « Quasi » disse però, riprendendo subito parola: « in effetti è deragliato, ma non per disgrazia.  E se avesse cercato di frenare, di rallentare la corsa almeno un po’, non sarebbe in una posizione così centrale e soprattutto così dritta. Il carrello era praticamente diritto, quando lo abbiamo visto. No, quel carrello non ha frenato. Ovviamente non possiamo cercare segni di frenata su binari così logori dal continuo passaggio di svariati treni ogni giorno, ma c’è qualcos’altro che i binari ci dicono... »  lasciò cadere, passando la parola a Lestrade.

Era così che John si sentiva, quando doveva ascoltare le deduzioni di Holmes? Sempre interrogato, sempre costretto a tenere il filo di quelle parole tutte appiccicate l’una all’altra, fornendo all’altro risposte a cui già era arrivato solo per il gusto di farlo divertire? Era deprimente. Anzi, era seccante.

Ma se da una parte era irritato da quel comportamento, dall’altra si sentiva incredulo da quanto il coinvolgimento nel ragionamento di Sherlock lo facesse sentire, a sua volta, intelligente sopra la media.

Come se l’intelligenza astrusa di Sherlock Holmes potesse uscire per osmosi tramite le sue parole e filtrare nell’interlocutore che lo ascoltava.

Tuttavia, quella volta non riusciva a trovare la risposta alla domanda postagli. « Emh... » esitò; troppo, Sherlock riprese la parola come se stessero giocando a palla avvelenata.

« Ci dicono il contrario, Lestrade. Ci dicono che non ha tentato di frenare » gli disse, trovando al contempo un nome interessante ed aprendo sullo schermo la scheda personale del soggetto in questione. Face un cenno negativo con il capo, poi la richiuse.

Greg ebbe un flash. « Il pezzo di ferro che hai raccolto! » esclamò, colto a una folgorazione improvvisa.

Holmes annuì. « È un frammento di un meccanismo a forma di pinza comunemente detto “deragliatore portatile”; solitamente ne vengono applicati molti in sequenza. Sollevano la ruota di un treno dal binario permettendogli di deragliare abbastanza dolcemente, inclinandosi sul fianco opposto a dove è stato posizionato. Ora, ovviamente quelli vengono usati per treni molto più pesanti di un carrello di manutenzione, che per deragliare in quel modo potrebbe tranquillamente farsi bastare un solo deragliatore. Però sono usati più che altro per la Upperground(5), perché un deragliamento di quel tipo nella Underground causerebbe danni alle gallerie. Dunque cosa ci faceva un deragliatore qui sotto? » chiese, e questa volta Lestrade continuò senza il bisogno di ottenere la parola.

« Ce lo ha portato il colpevole. Lo ha posizionato nel punto giusto e nel momento in cui sapeva che non sarebbero passati treni per Lambeth, poi ha preso il carrello di manutenzione e si è diretto nella stessa direzione mentre passava il treno per Paddington, facendosi deragliare appositamente per provocare l’incidente » un istante di silenzio, un pensiero in mente: « ...mi stai dicendo che si è suicidato? » domandò l’ispettore, traendo le logiche conclusioni.

« Temo che un suicida non sia giuridicamente imputabile per provocata strage, giusto? » tentò di ironizzare Sherlock, ghignando soddisfatto quando trovò quello che cercava. « Ma torniamo a noi, Lestrade. Ora che sappiamo cos’è successo, chi andiamo a cercare? A chi attribuiamo la colpa? » domandò allora, girando questa volta il viso in direzione del poliziotto, guardandolo.

Fu però Joseph, che sia Lestrade che Holmes avevano completamente rimosso dalla stanza, a prendere parola: « incredibile... » disse, guardando Sherlock con la bocca aperta: « ma lei... ha lavorato nelle ferrovie, per sapere tutte queste cose? » domandò stupito, continuando a fissarlo.

Sherlock si dimostrò abbastanza seccato per l’interruzione e preferì non rispondere se non con un’occhiata truce. Greg intervenne a salvare la situazione.

« Quel Crew ha detto... » cominciò « ...che il carrello utilizzato era un modello vecchio, che pochi sapevano guidare al meglio. Probabilmente lo facevano portare solo ai membri più anziani... » ipotizzò, guardando il signor Joseph per trovare conferma delle sue teorie.

Quello annuì. « Ai giovani non viene nemmeno più insegnato come usare quei carrelli. Sono in lista per la rottamazione non appena smetteranno di funzionare. Solamente i dipendenti assunti prima del 1998 hanno il permetto di usarli » confermò.

Sherlock sembrò soddisfatto, e Greg ne fu stranamente sollevato. In realtà avrebbe dovuto sentirsi preso per i fondelli, e se ne rendeva perfettamente conto, ma come ogni volta era più concentrato su cosa potesse imparare dalle esperienze trascorse con Holmes che da quanto in ridicolo lo poneva ogni santa volta che risolveva un caso in un modo così incredibile.

Il consulting detective riprese parola: « dipendenti assunti prima del 1998, con un passato nella manutenzione o una carriera passata esclusivamente in quella posizione, che potessero essere presenti sulla scena del crimine senza destare sospetti. Movente: perché provocare una strage? Le statistiche ci dicono che la risposta è, la maggior parte delle volte, “vendetta”. Dunque, dipendenti che avevano un motivo per avercela con la TfL. Si potrebbe anche prendere in considerazione un conto in sospeso con qualcuno sul treno, ma non lo avrebbero fatto deragliare tralasciando in toto la possibilità che potesse sopravvivere all’impatto, lo avrebbero semplicemente ucciso altrove. Dunque no, doveva essere un dipendente scontento. Magari... » e dicendo queste parole, indicò lo schermo del computer: « ...qualcuno che ha passato vent’anni a mantenere attiva la Bakerloo Line e che si vede licenziato in tronco a causa di un richiamo disciplinare per negligenza, cosa che ovviamente non aveva commesso, considerando che non ha timbrato il cartellino in ritardo neanche una volta in vent’anni. Magari una persona con la moglie malata di Alzheimer e due figli a cui badare, dunque che vive in base al proprio stipendio e al quale una macchia di quel genere nel resoconto professionale avrebbe impedito di trovare qualsiasi altro impiego nel ramo » spiegò, lineare e veloce come una saetta, attaccando le parole una all’altra.

Lestrade osservò la foto di un uomo dalla faccia onesta sullo schermo del computer, con gli occhi sinceri e tristi ed un paio di baffi ingrigiti dall’età. Paul Coleman - così si chiamava - era quello che Lestrade avrebbe chiamato “un povero diavolo”; e lui sapeva riconoscerli a vista, solo dallo sguardo. Quelle persone con le quali la vita è profondamente ingiusta ma che non farebbero del male ad una mosca.

Doveva proprio avercela con il mondo, quel povero diavolo.

Sospirando, prese nota del nome e dei famigliari: « manderò qualcuno a parlare con i figli » disse; poi, rivolgendosi a Sherlock, lo guardò negli occhi. « Grazie... di nuovo » sospirò l’ispettore, voltandosi ed incamminandosi verso l’esterno.

« Quando vuoi, ispettore » gli rispose Holmes, alzandosi a sua volta.

Ma prima che potesse guadagnare a sua volta l’uscita – e togliersi tutta quella polvere dal cappotto – Joseph lo fermò.

« Scusi, ma... come fa a dire che è stato proprio Paul? I dipendenti assunti prima del 1998 sono decine... » soffiò.

Nome proprio, nessun “signor”, tono dispiaciuto. Lo conosceva. Probabilmente anche bene.

Sherlock sospirò. Lo riteneva una ripetizione dell’ovvio, ma volle per lo meno fornire quell’ultimo particolare. « Sono decine in tutta la rete. Su di una linea specifica sono di meno, dieci in tutto forse, in questo caso solamente otto. Non sono molti quelli che rimangono a lavorare nell’Underground per tutta la vita, la maggior parte sono giovani in attesa di altro impiego o persone che sono state licenziate dopo la crisi, dunque negli ultimi cinque anni. Nel nostro caso, degli otto rintracciati dal sistema due sono di turno sulla Central Line, due sono attualmente al piano superiore e sono già stati interrogati, due sono stati promossi e hanno ottenuto un posto in ufficio e uno ha il giorno di riposo, anch’egli scagionato. Uno solo è stato licenziato, uno solo aveva il movente e la possibilità di passare inosservato. Paul Coleman » disse, non attendendo risposte di sorta prima di incamminarsi a sua volta verso l’esterno.

Salì le scale velocemente, notando non appena uscito all’aria aperta che Lestrade stava già parlando con una pattuglia di agenti della Mef. In lontananza, le sirene delle ambulanze giunte a Waterloo, dall’altra parte del ponte, riempivano l’aria risuonando fra i grattacieli della City.

Solo allora, quando la soddisfazione di un caso risolto gli riempì l’animo di realizzazione personale – che sarebbe stata presto sostituita dalla noia, probabilmente appena sarebbe tornato a Baker Street – si ricordò del messaggio di John.

Sapeva cosa c’era scritto, ma non era una scusa per non leggerlo.

Infilando la mano nella tasca del cappotto, estrasse il cellulare e sbloccò lo schermo, visualizzando il testo dell’sms.

C’è un momento nella vita di ogni persona in cui il fiato semplicemente viene a mancare.

Apnea, questo è il termine tecnico. E non accade solo quando si è sottacqua; può succedere in ogni momento, anche camminando per strada, oppure leggendo un libro particolarmente triste o intrigante.

È comunque segno di una potente reazione emotiva. Solitamente, sorpresa. Più spesso, paura.

Teneva in mano quel cellulare e gli sembrava, voleva, che non fosse reale. Che quel messaggio non esistesse, che fosse tutto un errore, una bugia, un modo per spaventarlo, per vendicarsi, per fargliela pagare. Non seppe esattamente quale parte di sé, se il cervello o il cuore che teoricamente non doveva avere, cominciò per prima a pregare. Irrazionalmente. Quasi ipocritamente.

L’ora non lasciava dubbi. Era una prova. “Ricevuto alle ore 09:31 del 03 Marzo”.

Lo rilesse.

Mi dispiace per prima. Sono a Lambeth, nessun taxi, prendo la metro. Ci vediamo dopo. – John.

I battiti del suo cuore aumentarono senza che potesse controllarli. Senza che ci provasse, a farlo.

“... Sono a Lambeth, nessun taxi, prendo la metro...

Trattenne nuovamente il fiato.

... prendo la metro...

Il cervello accettò quello che il cuore, infantile e ancora troppo immaturo, rifiutò.

Là sotto. Era là sotto.

John. Il suo John. Non uno dei tanti John di Londra e del Regno Unito, no. Il suo John.

Aprì la bocca per parlare, ma inizialmente gli uscì solo un rantolo soffocato. Teneva le iridi azzurre piantate sullo schermo del telefonino, incredulo, fisse sulle parole “prendo la metro” come se cercasse di farle scomparire o sostituirle con un più innocuo “prendo l’autobus” oppure “vado a piedi”.

« Les... tr... » cercò di parlare nuovamente, immerso forse nel primo, vero attacco di panico mai avuto in vita sua.

La sua voce era viscida come lava e dura come cemento. Non voleva uscire dalla gola. Non voleva.

La forzò.

« Lestrade... » sussurrò.

John... rantolò la sua mente.

« Lestrade » disse.

John.

« Lestrade! » esclamò.

John!

« LESTRADE! » urlò.

JOHN!

 

L’ispettore, sentendo il suo nome urlato in quel modo improbabile, si girò di scatto verso la fonte di quella voce. Si stupì nel constatare che fosse stato Sherlock ad urlare, ma ancora di più rimase interdetto dall’espressione che aveva addosso il detective privato.

Pallido, respirava in fretta. Sembrava agitato, forse... forse spaventato.

Inutile dire che si agitò a sua volta, avvicinandosi cauto. « Cosa c’è? » gli chiese.

Mai Gregory Lestrade aveva visto, negli anni in cui aveva avuto l’occasione di frequentare Sherlock Holmes, gli occhi dell’altro completamente immersi in un silenzioso terrore. Un’inquietudine posata, incarcerata solo in quelle iridi chiare, ma non meno terrificante.

A quel punto, Lestrade ebbe tutto il diritto di agitarsi a sua volta. « Sherlock, cosa ti succede? » domandò, appoggiandogli una mano sulla spalla, quasi come faceva con i parenti delle vittime con cui immancabilmente doveva parlare per portare avanti le indagini.

Holmes, senza parlare, gli passò il cellulare.

Lo stesso, silenzioso panico si impresse, qualche attimo dopo, anche negli occhi di Gregory Lestrade.

 

 

~ to be continued...

 

 

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1. Io non so niente del passato del caro Jawn, però mi accodo a qualche altra fanfic che ho letto in giro in cui il padre si è dato alla macchia quand'era piccolo, mentre la madre è morta poco prima della sua laurea. Chiamatela licenza poetica.

 

2. Il 5th Northumberland Fusiliers - il reggimento di John - ormai non è più da considerarsi individualmente; è stato infatti riunito, insieme agli altri 3 reggimenti di fucilieri (Royal Warwickshire Fusiliers, Lancashire Fusiliers e Royal Fusiliers - City of London Regiment), sotto un unico battaglione, ovvero il Royal Regiment of Fusiliers.Questo è avvenuto negli anni sessanta, tipo, e John non poteva proprio essere già un militare all'epoca... ma nonostante tutto nel telefilm viene salutato come ex-appartenente a quel battaglione ("A Scandal in Belgravia", puntata 2x01, mentre sono a Buckingham Palace).

Sinceramente non ho spolpato tutta la storia della British Army dunque, supponendo che Moffat e Gatiss ne sappiano più di me, prendo per scontato che nonostante siano tutti nello stesso battaglione la denominazione dei vecchi reggimenti sia comunque ancora in uso.

 

3. La testa dell'omero è la parte finale dell'omonimo osso, ovvero la parte superiore del braccio. Ha la forma sferica, levigato, ed è quello che - insieme a qualche legamento – forma la spalla e permette alle nostre braccia di compiere archi di 180 gradi. Nel caso in cui la spalla si lussi, cosa che capita spesso agli sportivi e/o in seguito a traumi, la testa dell'omero esce fuori sede (chiamata cavità glenoidea) e la persona diviene del tutto incapace di muovere il braccio.

 

4. "Met" è come gli inglesi chiamano la Polizia Metropolitana.

 

5. Probabilmente l'ho già detto, ma mi dicono che ripetere non fa mai male. Viene chiamata "Underground" la linea metropolitana di Londra, che passa nel sottosuolo; di conseguenza, la "Upperground" è l'insieme di tutte le linee londinesi ferroviarie di superficie.

   
 
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