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Autore: My Pride    13/03/2012    2 recensioni
La corda di un violino che si spezza produce una nota falsamente melodiosa;
all’orecchio dei morti risuona come lo stridio furente e vendicativo dell’acciaio.

Le malelingue erano sempre esistite, da che mondo era mondo, ma Don Zoroshia non vi aveva mai dato la benché minima importanza. O almeno fino a quel determinato momento.
«Il primo che si innamora è un uomo morto, Zoroshia»
«Allora io lo sono già da tempo, Sanjīno»
[ Ambientata durante il Mugiwara Theatre «Jingi-nai Time», ma non ha nulla a che fare con esso ]
[ ZoSan Centric || Riferimenti ZoLu, ZoNami e ZoRobin ad interpretazione strettamente personale ]
[ Terza classificata e vincitrice del Premio miglior trama al «Fangirl contest» indetto da Dark Aeris ]
[ Prima classificata e vincitrice del Premio Stile al contest «Dal numero alla storia» indetto da Akane_Hirai e valutato da Roro ]
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Monkey D. Rufy, Nami, Nico Robin, Roronoa Zoro, Sanji
Note: Otherverse | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Adagio_3
ATTO III
MINACCE DI MORTE AL CALAR DEL SOLE


    Nel
 riaprire gli occhi, il mattino seguente, Sanjīno si rese conto di aver passato la notte nel letto del suo acerrimo nemico.
    Sebbene si fosse ripromesso più e più volte di filarsela non appena gli fosse stato concesso, alla fine aveva lasciato che la sonnolenza provocatagli dal sesso si propagasse in tutto il suo corpo, intorpidendogli le membra senza il suo consenso. E si maledisse mentalmente quando, nel voltarsi verso sinistra, vide il volto addormentato di Zoroshia ad una spanna dal suo.
    Nel sonno appariva così indifeso, accidenti. Toglierlo di mezzo in quel preciso istante sarebbe stato un gioco da ragazzi, se non avesse avuto almeno un briciolo d’amor proprio. Non era mai stato il tipo da ricorrere a certe bassezze, e non lo avrebbe fatto nemmeno in quel momento. Avrebbe potuto tradire, uccidere a sangue freddo senza batter ciglio, ma togliere la vita a qualcuno mentre questi era addormentato, beh... nay, non era ancora arrivato a fare cose simili. Che Don Zoroshia si godesse quegli ultimi istanti di tranquillità che gli restavano. Il momento della resa sarebbe venuto in seguito.
    Dopo aver scansato da sé un braccio che scoprì non essere il proprio - e che a dirla tutta era stato anche bellamente lasciato fra le sue cosce senza il benché minimo pudore -, Sanjīno si mise a sedere sul bordo del materasso con un sonoro sbuffo e, borbottando qualcosa fra sé e sé a mezza voce, finì di scompigliarsi i capelli già scarmigliati. Per quanto odiasse ammetterlo a se stesso, non era stato per niente male lo scontro che aveva avuto con quello stupido marimo dopo tutto quel tempo. E che il culo gli facesse ancora male, beh... quello era un dettaglio a parte al quale non aveva la benché minima voglia di badare, in quel momento.
    Chinandosi verso il pavimento recuperò i propri calzoni e li gettò poi alla base del letto, frugando nelle tasche alla ricerca del suo fedele pacchetto di sigarette; afferrata una stecca, poi, prese anche l’accendino e accostò la fiamma all’estremità della cicca, traendo una lunga boccata quando se la portò alle labbra. Non c’era niente di meglio di una bella sigaretta di prima mattina, per lui. Era una delle poche cose che lo rilassavano, quella, e dopo quanto era accaduto la sera addietro ne aveva decisamente bisogno. Insieme ad una bella doccia, possibilmente. Ma mai e poi mai avrebbe osato usufruire anche di quella in casa del nemico.
    «Non credevo di trovarti ancora qui, sopracciglio a ricciolo». Alle sue spalle udì la voce roca e ancora impastata dal sonno di Zoroshia, ma non si voltò, anzi; si limitò solo a trarre un’altra boccata dalla sua stecca, soffiando il fumo verso il soffitto prima di puntare lo sguardo alla finestra.
    «Non farmici pensare, marimo», borbottò, osservando il lieve gonfiarsi della tenda ad ogni piccolo spiffero di vento che filtrava fra le fessure dell’intelaiatura di legno. «Io non sarei nemmeno dovuto venire in questa maledetta casa, accidenti a te», soggiunse, ed ebbe appena il tempo di soffiare fuori un altro po’ di fumo prima di sentire il sibilo stridente di una lama ed avvertirne in seguito la fredda consistenza al di sotto della gola.
    «Sei libero di andartene in qualsiasi momento, Sanjīno», replicò schietto Zoroshia, in ginocchio dietro di lui sul materasso con la spada sguainata. «A meno che tu non preferisca farlo come cadavere».
    A quel fare, Sanjīno aggrottò la fronte, voltando il capo per quanto glielo concedesse quell’arma che gli sfiorava la pelle del collo. «Con te non si può nemmeno finire una sigaretta in santa pace, dannato bastardo», sbottò, incontrando lo sguardo serio di Zoroshia. Quell’unico occhio verde scuro che possedeva sembrava squadrarlo con fare arcigno, ma non avrebbe dovuto meravigliarsene.
    «Cerca di darti una mossa», replicò in risposta lo spadaccino, allontanando la katana senza però rinfoderarla, limitandosi semplicemente ad alzarsi dal letto per raccattare intimo e calzoni. «Non voglio che Namimōre o Robīta ti vedano qui».
    Sanjīno si lasciò sfuggire uno sbuffo ilare, portandosi nuovamente alle labbra la sigaretta. «Io proprio non ti capisco, idiota d’un marimo», rimbeccò quasi sarcastico, osservandolo di sottecchi mentre si rivestiva e perdendosi con lo sguardo nel fissare la lunga cicatrice che gli segnava il petto ampio e muscoloso. «Con due belle donne come loro in casa, ti fai poi scaldare il letto da un uomo».
    Pur voltandosi tranquillamente, lo sguardo che Zoroshia gli rivolse fu duro e freddo come il ghiaccio. «Non sono affari che ti riguardano, sopracciglio a ricciolo. Ora va’ fuori di qui, e alla svelta», decretò con calma disarmante, inforcando gli occhiali da sole per poggiarseli sul naso prima di imboccare la porta, lasciando Sanjīno con un pugno di mosche su quel letto sfatto.
    Aveva fatto decisamente male a cedere, dannazione. Non gli sarebbe mai dovuta passare neanche per l’anticamera del cervello l’idea di dare ascolto al proprio istinto e prendersi ciò che voleva, ciò che aveva agognato in quei sei lunghi anni. Era stato uno stupido, e gli stupidi pagavano sempre le conseguenze, lo sapeva. Ed era proprio lo stesso pensiero che aveva appena formulato anche la mente di Don Sanjīno, quello.
    Con lo sguardo ancora rivolto in direzione della porta e quella sigaretta che si consumava pian piano fra le labbra, si era concentrato per qualche istante sui passi pesanti che rimbombavano nel corridoio, chiedendosi al contempo cosa l’avesse spinto a compiere quel folle gesto. Folle, già, poiché non avrebbe dovuto finire a letto con il proprio nemico.
    Non avrebbe dovuto bearsi dei tocchi frettolosi e un po’ rozzi che gli avevano sfiorato il corpo, del contatto che le sue dita avevano avuto, anche se per soli brevissimi attimi, con quelle spalle possenti e forti, della ruvida carezza che la lunga cicatrice sul petto gli aveva regalato contro la schiena quando Zoroshia l’aveva penetrato a fondo, spingendosi contro di lui. E si vergognò di se stesso nel ricordare con quanta foga, tra un’imprecazione grugnita a mezza voce e un sinuoso movimento di fianchi dettato dalla frustrazione del momento, l’avesse pregato letteralmente di scoparlo alla svelta, sentendo risuonare in seguito nelle orecchie il gemito languido di Zoroshia quando era venuto. Ancora gli sembrava di avvertire il suo respiro caldo e ansimante nel momento stesso in cui aveva chinato il capo verso di lui e poggiato la fronte nell’incavo del suo collo, tentando di riprendere fiato prima di circondargli i fianchi con un braccio muscoloso; era come se riuscisse ancora a sentire il suo battito cardiaco contro la schiena, quella sensazione di sgradevole intrusione che era andata via via scemando quando Zoroshia, con un altro lungo sospiro voluttuoso, era finalmente uscito da lui ed era rotolato al suo fianco, stringendolo a sé come un amante premuroso; e gli sembrava ancora di vedere il sorriso strafottente che gli si era dipinto sulle labbra prima che, sfinito, crollasse fra le braccia di Morfeo prima di lui.
    A quei ricordi si coprì il viso con il palmo di una mano, sentendo un vago senso di calore dentro di sé e il sangue colorargli le guance. Nay, si disse, non sarebbe mai più accaduta una cosa del genere. Non ci sarebbe cascato una seconda volta, dannazione. Imprecò dunque a denti stretti nel raccattare i propri calzoni e nell’indossarli alla svelta insieme alle mutande, ficcando con foga il pacchetto di sigarette in una tasca mentre mordicchiava quel che restava della sua cicca ormai quasi del tutto consumata. Arraffata la parte superiore dei propri abiti, poi, li indossò prima di passarsi una mano fra i capelli e si diresse alla porta, uscendo quasi di soppiatto.
    La calma che imperversava in quel corridoio era quasi bizzarra, come se tutti gli abitanti della casa fossero ancora sprofondati in un sonno profondo. Si chiese distrattamente che ore fossero, ma dalla luce che filtrava dalla grande vetrata alla sua sinistra, dove le tende diligentemente lasciate aperte facevano sì che si avesse una bellissima vista del giardino mozzafiato che attorniava la villa, pareva che fossero passate addirittura le cinque del pomeriggio.
    Era mai possibile che fosse rimasto addormentato in quel dannato letto per tutto quel tempo, e che nessuno dei servitori avesse pensato di andare a chiamare Zoroshia per svegliarlo, beccandoli così entrambi? Beh, aye, forse era possibilissimo, conoscendo il pessimo caratteraccio di quel marimo di merda. Le brutte abitudini erano dure a morire, ed era quasi certo che, nonostante gli anni trascorsi, non avesse affatto rinunciato al suo solito poltrire per ore ed ore anche durante il giorno se non era dedito ad allenarsi. Che nessuno fosse andato a disturbare il suo sonno, quindi, non era poi una cosa così sconvolgente.
    Scosse il capo e sbuffò, incamminandosi per quei corridoi silenziosi dopo aver spento la sigaretta sotto la suola della scarpa. I suoi passi erano l’unico suono che sentiva riecheggiare in tutta quella vastità, e dovette ammettere a se stesso che era una sensazione alquanto fastidiosa e... bizzarra. Bizzarra, aye, non avrebbe saputo trovare un termine migliore per definirla. Fu però nello svoltare a destra che incrociò finalmente un’altra forma di vita, e il suo cuore ebbe quasi un sussulto prima che si rendesse conto che non si trattava di Zoroshia o di qualcuno dei suoi fedeli servitori; abbozzò un sorriso galante verso la donna che lo squadrava con fare vagamente accigliato, prendendole la mano per posarle sul palmo un bacio leggerlo.
    «Enchanté, madame Robīta», le sussurrò leggiadro contro la pelle, sentendola ridacchiare di gusto prima che anch’ella ricambiasse con fare furbo il sorriso; con delicatezza, poi, sfilò la mano da quella del biondo, e i loro occhi si incontrarono per qualche istante, abbandonandosi esattamente qualche istante dopo.
    La donna gli girò intorno e cominciò poi ad allontanarsi, senza però abbandonare lo strano sorriso che aveva incurvato le sue belle labbra. «Spero abbia passato una buona permanenza qui, stanotte, Don Sanjīno», disse distratta, adocchiando un’ultima volta l’altro prima di incamminarsi con passo sicuro, ancheggiando nel lungo corridoio di marmo senza attendere la benché minima risposta.
    Ciò, però, parve bastare al biondo, che la seguì con lo sguardo per quanto concessogli, vedendola sparire oltre l’angolo come un fantasma; trasse poi un lungo sospiro, affrettandosi a raggiungere la porta d’entrata prima di fare incontri ben più spiacevoli. Era stata una fortuna, forse, incontrare proprio Robīta. E ne fu ancor più sicuro quando, una volta raggiunto il grande atrio che dava fuori nel vasto e curato giardino, si ritrovò ad infilare una mano in tasca e ad afferrare il telefono, osservandolo per qualche attimo prima di comporre un numero alla svelta. Gli parve l’attesa più snervante di tutta la sua vita quella che lo separò dalla voce del suo interlocutore, e fu solo al decimo squillo che quel qualcuno si degnò finalmente di rispondere.
    Frattanto era uscito al di fuori del cancello placcato in vernice nera della grande ville, lasciandosi alle spalle quella costruzione e in special modo ciò che era accaduto al suo interno. Non avrebbe più pensato a quella maledetta storia né tanto meno a Zoroshia, si disse, concentrandosi unicamente sulla voce che udì qualche istante dopo.
    «Choparīni», cominciò pacato, stringendo la presa sul telefono, quasi temesse che potesse fuggire via dalle sue mani. «E’ tutto confermato per domani notte». Sorrise al vuoto, ascoltando con fare divertito la voce che gli rispondeva quasi concitata. «Tranquillo, è già stata avvertita», lo rassicurò in fretta. «L’ho fatto io personalmente», soggiunse in tono vagamente allusivo, perdendosi in ultimi convenevoli prima di riagganciare e riporre il telefono al proprio posto. Inforcò poi gli occhiali e li indossò, portandosi una nuova stecca alle labbra senza però accenderla.  
    Rivolse solo lo sguardo oscurato dalle lenti verso quel sole morente, incamminandosi verso quella che, ne era certo, sarebbe stata la sua ultima missione
.








_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Uhm... tutti i nodi stanno venendo al pettine? Non ne sarei così sicura, anche se ormai mancano soltanto altri due capitoli alla fine di questa storia
I risultati del contest dovrebbero arrivare a breve - purtroppo ci siamo dovuti rivolgere ad un giudice sostitutivo dunque le cose si sono prolungate -, ma tutto questo con la storia per il momento c'entra ben poco u_u
Posso solo dire che adoro la parte iniziale in cui Zoroshia punta una spada alla gola di
Sanjīno. Son pazza? Aye, molto probabile, ma ho uno strano debole per scene del genere e credo si sia potuto benissimo notare.
Direi adesso di chiuderla qui, perché sto letteralmente sclerando
Commenti e critiche, come sempre, son ben accetti, dato che a leggere siete in molti, un piccolo appunto sarebbe gradito, dunque per il momento ringrazio Connie.
Al prossimo capitolo. ♥




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