Sara stava finalmente per
tornare a casa dopo tanto tempo.
«Sei anni…» sussurrò,
ricordando l’ultima volta in cui gli occhi le si erano posati sulla sua
casa e la madre l’aveva stretta tra le braccia. Da quel giorno si erano
sentite tramite lettera o ponte radio; non altro, perché là nella
montagna di neve perenne i cellulari non avevano campo.
Si avvicinò allo sportello della biglietteria ferroviaria, mettendosi
sulle punte dei piedi e appendendosi alla balaustra in simil marmo –
gli anni erano sì passati, ma era certa che sarebbe rimasta una tappa.
«Buongiorno!» Sara salutò
cordiale l’annoiato dipendente. «Un biglietto
per NevediNotte».
«Per dove?» domandò l’uomo,
aggiustandosi gli occhiali sul naso e sporgendosi verso il vetro forato
per sentire meglio.
Sara scandì meglio “Neve di Notte”, separando le parole, ma solo quando
l’impiegato grugnì ancora e scosse la testa capì la propria gaffe. «Ah,
mi scusi. L’ho chiamata con il nome locale. Intendevo un biglietto
per…».
Il viaggio fu lungo, lunghissimo. E noioso, noiosissimo.
Il cellulare fece in tempo a scaricarsi lungo strada e l’MP3 lo seguì a
ruota. La temperatura scendeva sempre di più man mano che si avvicinava
la sua fermata – e il vagone non era nemmeno adeguatamente
climatizzato.
Ma tutto venne presto dimenticato quando, scesa dal treno – l’unica a
fare tappa lì –, vide un uomo sulla banchina che sembrava proprio
attenderla.
«Zio!» gridò allegra,
buttandosi letteralmente tra le braccia del parente, venuto fino alla
stazione per prenderla.
Era bello potersi rivedere dopo anni.
Presero la 4x4 parcheggiata accanto all’uscita della fatiscente
stazione e si diressero verso il paese.
Risate e chiacchiere si sprecarono a fiumi durante il lungo percorso
che dovettero attraversare, ma raggiunsero la loro meta abbondantemente
prima del tramonto.
«Zio, puoi fermarti un attimo?»
domandò la ragazza, giunti quasi in prossimità dello steccato.
L’uomo la accontentò e la vide scendere e raggiungere il grosso masso
accanto alla strada principale: una inamovibile pietra dura e scura,
dove era stato inciso il nome del paesino.
«Nevermore…» lesse la
ragazza a voce alta, sfiorando il masso coperto dai licheni e corroso
in parte dal tempo. «Zio… tu sei diventato il
sindaco qui, vero?» chiese la ragazza. L’uomo
annuì. «Allora… Perché questo paese ha un nome
così... triste?».
L’uomo scese dall’auto e le si avvicinò, posandole una mano sulla
spalla.
«Il mio predecessore mi ha detto che è stata
chiamata “Nevermore” perché “una cosa del genere dovrà mai più
accadere”»
disse in tono basso.
Sara si girò verso di lui.
«Cosa non deve più capitare?»
domandò.
Il sindaco le accarezzò i capelli con la mancina. «Solo
la Neve lo sa» rispose lui, facendole capire
che, anche se sapeva, non avrebbe parlato.
«Il fantasma?».
«Forse…».
Sara guardò verso il bosco, come se sperasse di scorgerla. «Neve…
Magari glielo chiederò… Se mai la vedrò».
«Non tutti possono vederla: io non l’ho mai vista».
«E chi è che la può vedere?».
«Non si sa. Alcuni ci riescono, altri no».
«Forse è lei che decide a chi mostrarsi…».
«Chissà…» sospirò l’uomo.
Fece per andare via, ma la giovane lo trattenne per la manica del
cappotto pesante.
«Perché gli anziani la chiamano “NevediNotte”?»
domandò ancora. «Solo perché nevica di notte?».
Per il sindaco fu molto più facile rispondere a quella domanda,
perché anche lui aveva porto quella questione e non fece altro che
ripeterle la risposta che aveva udito lui stesso da un vecchio ormai
defunto: «Sì e no».
Sara non sembrò soddisfatta. Lasciò perdere l’argomento. «Dopo
vorrei andare a salutare anche Ferdinando» disse
di punto in bianco, tornando all’automobile.
«Magari domani. Stasera si farà tardi».
E la giovane ben sapeva che le regole del villaggio non erano cambiate.
Sorridendo, risalì in macchina con lo zio, che la accompagnò dalla
propria sorella perché potesse riabbracciare la figlia dopo gli anni
passati lontana all’università.
Non sapeva che nel cervello della ragazza era scattato qualcosa da
anni, da quando era ancora bambina.
Non sapeva che lei, ora glottologa, aveva notato una cosa sfuggita ai
più.
C’era un apostrofo, mascherato da una piccola frattura nella roccia, e
ne era certa.
Nevermore.
Neve’rmore.
Neve or more.
Neve o di più.
Lo aveva studiato a scuola: chi non conosce il proprio passato, non può
conoscere il proprio futuro.
E lei non aveva mai smesso di voler scoprire cosa nascondeva (la) Neve.
Cos’era quel “di più”?
Il suo amico poteva aiutarla in questa sua ricerca, anche se per farlo
avrebbero dovuto scavare nei ricordi custoditi dai morti.
«§Fine§
Note:
Ferdinado è un PG già apparso nel capitolo:
11. L'Antro dei Ricordi.
Nella frase finale Sara dice: "Conosco il latino", in lingua latina,
appunto.
Dopo tanto, finalmente,
sono tornata ad aggiornare questa storia.
Mi dispiace davvero per l'attesa, non sono una che molla le sue
creature così: la storia continuerà fino alla fine. Ringrazio di cuore
tutte le persone che hanno continuato a sostenermi in questo periodo di
pausa, grazie di cuore.
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Disclaimer:
Lo scritto ed i personaggi sono interamente di mia
proprietà. Tutti i personaggi di questa storia sono
maggiorenni e comunque non esistono/non sono esistiti realmente, come
d’altronde i fatti in essa narrati.