I'm in LAW with you di IoNarrante (/viewuser.php?uid=122990)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 (parte 1) ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9 (parte 2) ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 34: *** EPILOGO ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
La pioggia battente imperversava
come se non ci fosse un domani, mentre i miei stivali schiaffeggiavano
l’acqua
producendo un rumoroso ciaf.
L’ombrello era pressoché inutilizzabile, viste le raffiche di vento che
mi
colpivano ogni volta svoltassi l’angolo, e conscia di essere zuppa fin
dentro
le ossa, l’avevo richiuso sbuffando, continuando poi a correre con la
mia
ventiquattr’ore sulla testa.
Della capitale inglese si poteva
dire di tutto. C’era chi provava un amore sviscerato per quei lampioni
in stile
vittoriano, chi si perdeva tra le immensità dei suoi parchi; c’era chi
addirittura preferiva percorrerla in bicicletta, assaporandone l’aria
libera
dalle polveri sottili. Io mi ero sempre schierata dalla sua parte, dal
lato
della città inglese, perché mi aveva fornito il trampolino di lancio
per
evadere da quella monotonia che era la mia vita. Adesso però, dopo
essermi
recentemente trasferita dall’Italia e dopo aver quasi finito tutti – e
dico tutti – i cambi d’abito che mi ero
portata in valigia a causa del mal tempo che non smetteva di colpire
Londra da
almeno una settimana intera, forse stavo lentamente cambiando le mie
preferenze.
M’imbucai di corsa nella stazione
di Lancaster Gate, cercando di non scivolare sul pavimento zuppo
d’acqua e mi
affannai a frugare nelle tasche del cappotto di tweed, alla ricerca
della
Oyster card per passare al tornello prima che si formasse una fila
chilometrica
dietro di me.
Purtroppo le mie tasche erano come
la borsa di Mary Poppins.
Tirai fuori le cartacce di vecchi
scontrini, il mazzo di chiavi del mio monolocale a Regent Park, persino
una
vecchia caramella appiccicaticcia, ma non c’era verso di estrarre il
portadocumenti con l’abbonamento ai mezzi pubblici. Nel frattempo
l’acqua mi
gocciolava dai capelli corti, tagliati poco prima di trasferirmi, e
rotolava
direttamente lungo la spina dorsale, accompagnata da un intenso brivido
di
freddo.
«Can
I…?»
Una voce alle mie spalle mi fece girare di scatto e, come avevo
sospettato, una
piccola fila di persone si era formata dietro l’unico tornello occupato
dalla
sottoscritta.
Imprecai mentalmente e mi scostai
di lato, non mancando di rifilare un’occhiataccia a quell’omaccione
panciuto e
impaziente. «Sorry.»
Già, sorry un corno!
Nel frattempo cercai quella
maledetta card anche nella ventiquattr’ore, che però non voleva saperne
di
aprirsi. Cominciavo a perdere davvero la pazienza. Quella mattina era
cominciata davvero male e rischiava di finire ancora peggio. Lo studio
Abbot&Abbot di Londra era situato al centro di Regent Street,
vicino
all’incrocio con Oxford Street e per raggiungerlo avrei dovuto
percorrere una
decina di fermate della Tube.
Se solo avessi trovato quella
stramaledettissima tessera…
«Eccola!»
gridai
sprizzante di gioia, tenendo tra pollice e indice l’oggetto della mia
agognata
ricerca. Ovviamente era finita nell’unico misero buchino nella fodera
del
cappotto ed era scivolata sempre più in basso, costringendo la
sottoscritta ad
improvvisarsi contorsionista del circo di Montecarlo.
Soddisfatta di aver finalmente
ripreso in mano la mia vita, afferrai la tessera e la passai sul
lettore
magnetico, facendo scattare le porte e dirigendomi verso l’ascensore.
«Wait,
please…!»
implorai, dirigendomi verso le porte che stavano per chiudersi. La mia
giornata
non poteva susseguirsi in modo peggiore di quello. Ci mancava solo che
perdessi
anche la corsa dell’ascensore e, con quella, la probabile metropolitana
che
passava ogni cinque minuti.
Una mano si frappose tra le
porte, incrociando il lettore ottico e facendole riaprire. Col fiatone
e con
ancora addosso i brividi di freddo, entrai nell’abitacolo e lasciai uno
sguardo
di ringraziamento al mio salvatore.
La mia attenzione si posò su un
ragazzo poco più grande di me, vestito di un completo gessato grigio
con il
soprabito abbinato. Il primo pensiero che mi sovvenne fu Affascinante,
ma ben presto cominciai a ricevere la visita del mio
coinquilino preferito. Il mio Cervello.
Cominciamo
bene, Ven. Sei qui da nemmeno una settimana e già metti il belloccio in
giacca
e cravatta al primo posto. Vuoi o non vuoi finire lo stage col massimo
dei
voti? Vuoi o non vuoi diventare socia dello studio?
Devo
ricordarti tutto?
Aveva perfettamente ragione, e io
stupida che ancora mi facevo condizionare da queste turbe
adolescenziali che
avrebbero solamente peggiorato la situazione. Ero arrivata a Londra
unicamente
per il master, per lavorare in uno degli studi di legge più famosi
della
capitale inglese, e non mi sarei fatta distrarre da nulla.
Strinsi saldamente il manico
della mia ventiquattr’ore e cercai di ignorare lo sguardo perforante di
quel
ragazzo che mi aveva gentilmente lasciato aperto le porte. «Thanks,» mormorai,
tentando di rimanere più normale possibile.
Non dovevo dare alcun segno
d’interesse, altrimenti avrebbe avuto via libera per provarci con la
sottoscritta. In quella grande città dovevo avere cent’occhi, mica uno.
Una
bella ragazza come me non passava di certo inosservata.
Ma
soprattutto una ragazza con un Gran Cervello.
Hai detto bene.
Il ragazzo in giacca e cravatta
mi fissò con quei suoi grandi occhi azzurri e per un attimo mi sentii
profondamente a disagio. In effetti, era da parecchio tempo che non mi
concedevo un’uscita con qualcuno che non fosse Robbeo il mangia-caccole
o
quell’altro decerebrato del fidanzato di Cel. Avevano provato più volte
ad
appiopparmi qualcuno, ma Venera Donati era di gusti difficili – anzi,
impossibili! – e per accontentarmi non bastava certo un bel visino o un
paio di
occhi azzurri come quelli del ragazzo di fronte a me.
In risposta al mio ‘Grazie’, lui
mi sorrise, poi le porte dell’ascensore si spalancarono dopo un dlin-dlon e il fiume di gente si riversò
nei cunicoli che conducevano alla banchina dove sarebbe passata la Red
Line di
lì a pochi minuti. Cercai di uscire senza essere spintonata troppo, ma
con
sollievo sapevo che la cavalleria inglese non era solo una diceria. Al
contrario di Roma, dove i ragazzi più erano vecchi e più ti avrebbero
schiacciato con i loro stivali firmati pur di accaparrarsi il posto
sulla scala
mobile, a Londra si offrivano anche di cederti quello a sedere.
Ero rimasta sorpresa appena
arrivata, ma adesso ci stavo pian piano facendo l’abitudine.
Please mind the
doors. Doors closing.
La voce metallica di una donna
avvertì la chiusura delle porte automatiche della Tube, così mi
affrettai a
salire sul vagone senza accorgermi che la Oyster mi era scivolata dalla
tasca
del cappotto di tweed. Me ne resi conto solo quando le porte si stavano
chiudendo e fui presa dal panico. La tessera andava passata sia
all’entrata che
all’uscita dei tornelli, e se me la fossi persa sarei rimasta bloccata
nella
Tube a discutere per ore con gli addetti della vigilanza.
Sarei sicuramente arrivata in
ritardo al mio appuntamento.
Allo stesso tempo, però, se fossi
riuscita a uscire dal vagone per raccogliere la tessera, avrei perso la
corsa e
sarei comunque arrivata tardi. Rimasi totalmente imbambolata a fissare
la
banchina inumidita dalla pioggia che i passanti si erano trascinati
dalla
strada quando, con un movimento agile e veloce, vidi il ragazzo in
giacca e
cravatta raccogliere il portadocumenti ed entrare nel vagone prima che
le porte
si chiudessero.
Mi si avvicinò trionfante e mi
porse l’astuccio con la Oyster dentro.
«Thanks,
again,»
dissi imbarazzata, visto che era la seconda volta che mi salvava dalla
mia
perenne sfortuna che sembrava perseguitarmi sin da quando ero atterrata
a
Londra.
Il ragazzo mi sorrise ed io
ricambiai il gesto, ricordandomi sempre di non dare troppa confidenza
perché
avevo un obiettivo ben chiaro in mente e non potevo permettermi alcuna
distrazione. Afferrai il portadocumenti e lo misi in tasca, anche se
subito
dopo preferii riporlo nella ventiquattr’ore visto lo spiacevole
incidente di
prima. Mi sentivo lievemente osservata dal ragazzo che si era
improvvisato mio
cavaliere per ben due volte, poi quando vidi che si era liberato un
posto a
sedere, preferii tirare fuori la mia copia di Mucchio
d’ossa e continuare a leggere dal capitolo dodici.
Nonostante tentassi di tenere il
segno con un dito, di tanto in tanto il mio sguardo vagava su quel
misterioso
ragazzo di poche parole. Era vestito molto elegante, questo valeva una
decina
di punti da parte della sottoscritta. Dopo aver passato l’intera
adolescenza
tra pantaloni a bracaloni, mutande di fuori, magliette talmente larghe
e
sbrindellate che avrebbero potuto improvvisare un tendone da circo, ero
diventata amante del buon vestire.
Notai che preferiva portare un
po’ di barba incolta, il che non guastava. Mi sentii notevolmente in
sintonia
con quel tipo, almeno apparentemente incarnava proprio il mio uomo
ideale.
Devo
forse ricordarti cosa siamo venuti a fare?
No! Aveva ragione il mio Cervello
ed io dovevo dargli retta. Il tempo per l’altro sesso lo avrei trovato
in
seguito, ora avrei dovuto pensare solamente alla mia carriera perché
era quello
che desideravo più al mondo. La famiglia, come tutto il resto, sarebbe
venuta
in seguito.
Next
Stop: Oxford Circus. Annunciò
la voce metallica
dell’alto parlante, così riposi il libro nella valigetta e mi apprestai
ad
uscire.
Il misterioso ragazzo sembrò non
fare caso alla mia presenza, così fissai lo sguardo sulle luci del
tunnel che
sferzavano a gran velocità davanti ai miei occhi. Avrei dovuto
impegnare tutta
me stessa per far bella figura in ufficio. Avevo ideato già un piano,
un
modello di comportamento che sicuramente mi avrebbe fatta spiccare nel
mezzo
della infinita bolgia che c’era allo studio.
Per il tirocinio alla
Abbot&Abbot eravamo stati assunti in cinque, e i miei quattro
‘adorati’
compagni tirocinanti non facevano altro che trasformare ogni mia
giornata allo
studio più infernale di quelle precedenti.
C’era in particolare una ragazza
giapponese, Yuki, che ogni volta che mi vedeva, tentava sempre di
mettermi i
bastoni tra le ruote, non solo metaforicamente. Era Miss Perfezione, la
maledetta, e il mio primo giorno di tirocinio mi aveva fatto lo
sgambetto
davanti a tutti ed io avevo finito col rovesciare il caffè sulla giacca
del
tailleur.
Una bastarda maledetta, ecco
cos’era.
L’unica mia vera rivale, perché
gli altri tre ragazzi erano più che altro figli di papà di Cambridge
che
passavano la maggior parte del tempo a fumare nei bagni e cazzeggiare
con la
macchina fotocopiatrice. Alla fine del tirocinio, lo studio avrebbe
offerto a
uno di noi il posto fisso come avvocato ed era una di quelle occasioni
che
capitano una volta nella vita.
La metro si fermò alla fermata di
Oxford Circus, mentre le porte scorrevoli si aprivano con una lentezza
disarmante. Strinsi la valigetta e posai il piede sulla banchina umida
di
pioggia per poi dirigermi ai tornelli e uscire finalmente in strada.
Prima di abbandonare il vagone,
però, non riuscii a fare a meno di lanciare un’ultima occhiata al
ragazzo in
giacca e cravatta. Mi guardava.
Tentai di rimanere impassibile,
nonostante mi avesse palesemente beccata a fissarlo, e mi diressi verso
l’uscita, preparandomi psicologicamente all’umidità che avrei trovato
una volta
all’aperto. Fortunatamente lo studio si trovava nelle vicinanze, quindi
non
avrei dovuto bagnarmi più di quanto non lo fossi già.
Passai la Oyster sul lettore
elettrico, dopodiché mi appropinquai a salire le scale che davano sulla
piazza.
Numerose persone mi sfilavano di fianco, precedendomi nella camminata,
ed io
maledissi mentalmente le mie gambe corte e il mio scarso metro e
sessanta.
Avere origini siciliane non
contribuiva certo alla fretta con cui si procedeva lì in città.
Una volta fuori dalla Tube,
respirai l’aria pungente di quella giornata ottobrina e piovosa.
Fortunatamente
l’acquazzone si era acquietato, lasciando il posto ad una lieve
pioggerellina.
Mi guardai intorno e riconobbi immediatamente Regent Street, con i suoi
grandi
e lussuosi negozi, così mi immisi nella strada principale alla ricerca
della
sede della Abbot&Abbot.
Il mio passo era spedito
sull’asfalto, nonostante gli stivali col tronchetto mi dessero
leggermente
fastidio. Non ero abituata a vestire in modo così elegante, ero sempre
stata
una ragazza da ‘tuta e scarpe da ginnastica’, invece mi ero ritrovata
ad
indossare completi per andare in ufficio, vista la concorrenza spietata
che
girava tra i tirocinanti.
Non lo avrei ammesso davanti a
nessuno ma, ahimè, l’aspetto contava molto per il mondo del lavoro.
Passai davanti alla vetrina di Burberry e mi specchiai nel riflesso,
rimanendo incantata a fissare un trench piuttosto elegante che avrei
volentieri
indossato. Peccato che costasse quanto l’affitto del mio monolocale.
Sconfitta,
tornai a camminare in direzione dello studio, ma mi accorsi di essere
seguita.
Inizialmente feci finta di nulla,
continuando a passeggiare impassibile e stringendo la valigetta
nervosamente,
poi tentai di guardarmi alle spalle.
Con la coda dell’occhio riuscii
ad intravedere il ragazzo in giacca e cravatta. Che diavolo voleva da
me?
Calma
Ven, non lasciarti prendere dal panico. Non ti si addice.
Diedi ascolto al mio caro
Cervello e proseguii senza dare alcun segno di preoccupazione. Regent
Street
era una delle strade più famose e affollate di Londra, era normale che
venisse
percorsa da un infinito numero di persone.
Non dovevo affatto preoccuparmi,
visto che quel tipo non mi aveva minimamente rivolto la parola
nonostante mi
avesse aiutato per ben due volte.
Anzi, era pure un gran maleducato!
Ripassai mentalmente la strategia
da adottare contro Yuki, visto che quella ragazza sarebbe passata
addirittura
sopra a suo padre pur di scavalcarmi nella corsa al posto fisso, e
ignorai il
barbuto dietro di me.
“Che poi non è nemmeno tutta ‘sta
bellezza,” mi ritrovai a pensare, accavallando il caso di Thomas
Crawford agli
occhi blu dello sconosciuto della metro. Era impossibile riuscire a
pensare
lucidamente con tutti quei pensieri che mi vorticavano nella testa, ma
per
fortuna ero quasi giunta a destinazione.
Imboccai una traversa di Great
Castle Street e mi diressi verso un appartamento signorile dove aveva
sede lo
studio. Mi sistemai il soprabito di tweed, sentendolo ancora umido
della
pioggia di quella stessa mattina, poi ravvivai un po’ i capelli a
caschetto e
mi decisi ad entrare.
Prima di varcare la soglia, però,
lanciai un’occhiata in direzione di Regent Street e per poco non ebbi
un
attacco cardiaco quando vidi il ragazzo in giacca e cravatta
sorridermi, mentre
si avvicinava con passo deciso.
Okay, quella non era
affatto una coincidenza.
Ignorai palesemente quel gesto
amichevole che mi aveva rivolto e mi fiondai di corsa all’interno dello
studio,
sperando vivamente che non mi seguisse fin lì.
«Sei
arrivata, finalmente.»
La voce fastidiosamente acuta di Yuki
mi sorprese non appena misi un piede all’interno del suo territorio.
Era la
persona più odiosa che conoscessi, persino peggio della fidanzata del
mangia-caccole.
Era incredibile come quell’ameba
di Romeo Ciuccio, incubo della mia vita sin dall’età di dodici anni,
fosse
riuscito a, punto primo, sopravvivere tutti questi anni, punto secondo,
a
trovarsi uno schianto di ragazza che nemmeno i suoi sogni più arditi
avrebbero
potuto partorire.
Devo
ricordarti il QI di Annalisa?
A tutto c’era una spiegazione, in
fin dei conti.
«È
piovuto tutto il giorno, ho trovato dei rallentamenti nella Tube,» le
dissi,
anche se non avevo alcuna ragione di darle delle spiegazioni.
Un suo sopracciglio alzato fu
sufficiente a farmi capire che non gliene poteva importare nulla.
Certo, ero
l’unica dei tirocinanti che si serviva dei mezzi pubblici per andare a
lavoro.
Tentai di ignorarla e di
concentrarmi sul vero motivo per cui mi ero fiondata all’interno della
palazzina neanche fossi inseguita da un’orda di cani randagi. Mi voltai
appena
e attraverso la porta a vetri riuscii a scorgerlo mentre saliva gli
scalini
dell’ingresso.
Oddio, ma che voleva?
Possibile che mi avesse inseguita
fin lì solo per chiedermi di uscire? Che si fosse fatto tutta quella
strada per
un misero appuntamento?
«Chi
è quello?»
se ne uscì Yuki, fissando fuori dalla porta. «È
carino.»
«Non
farlo entrare!»
la avvertii, ma non sapevo se mi avrebbe dato retta.
Nel frattempo mi tolsi il
soprabito di tweed e lo misi sull’appendiabiti, lisciando le pieghe
della gonna
e sistemandomi meglio. Un fuggevole sguardo allo specchio mi diede la
conferma
che somigliavo ad un pulcino caduto in un pozzo, ma ebbi l’accortezza
di
aggiustarmi il mascara colato sotto gli occhi.
“Ma quindi lui mi ha vista in
questo stato pietoso?” realizzai in ultimo, sentendomi davvero una
sciocca.
«Miss
Donati, buongiorno.»
La voce di Mr. Abbot, nonché uno
dei due fratelli proprietari dello studio legale più importante di
Londra, mi
si presentò davanti con il suo solito charm e il completo impeccabile
color
grigio chiaro. Quell’uomo incarnava tutto ciò che avrei voluto essere,
tranne
il sesso ovviamente. Era bello, affascinante, un avvocato di successo e
una
persona di buone maniere e gentile.
«Buona
giornata a lei, Mr. Abbot,»
risposi, lisciandomi i capelli che ancora non ne volevano sapere di
stare in
piega.
«Ha
trovato difficoltà a venire allo studio, stamane?» mi
domandò sempre gentile e
premuroso.
Stavo per rispondere con
altrettanta cordialità, quando con la coda dell’occhio vidi Yuki che
aveva
fatto entrare lo sconosciuto in giacca e cravatta.
Maledetta! Lo aveva fatto apposta
ed io me lo sarei dovuto aspettare da una persona infima come quella.
Stai
calma, Ven. Ancora non sai cosa quel tipo vuole da te.
E se mi chiedesse il numero di
telefono davanti al mio capo? No, sarebbe l’umiliazione peggiore della
mia vita
e mi giocherei il posto fisso allo studio.
Non poteva accadere. Ero andata
via di casa con l’unico scopo di lavorare alla Abbot&Abbot e cinque
anni di
sacrifici, più un master in Diritto penale comparato non potevano
essere
gettati al vento.
«Ehm…
no…»
temporeggiai, per poi incrociare lo sguardo del ragazzo-stalker che
sembrava
non avere alcuna intenzione di lasciarmi in pace.
Come una furia, mi precipitai
verso di lui a passo sostenuto, prima che potesse avvicinarmi e
screditarmi
davanti a tutti gli altri miei colleghi. Forse apparii un po’ scortese
agli
occhi di Mr. Abbot, ma dovevo salvarmi il cosiddetto posteriore e
mettere fine
a quella farsa che era cominciata quella stessa mattina.
Il tipo mi fissò sorpreso, ma non
ebbe il tempo di dire nulla che gli afferrai il braccio e feci per
condurlo
fuori dalla porta, senza la minima gentilezza. Se voleva il mio numero
di
telefono, non c’era alcun bisogno di chiederlo davanti al mio capo.
«Che
fai?»
chiese lui, sbigottito.
«Te
ne devi andare, ora,»
tuonai, sperando che Mr. Abbott non avesse visto la mia poca mancanza
di
professionalità. «È
uno studio privato, non puoi fare così.»
«Così,
come?»
domandò divertito.
Ah, se la rideva anche!
«Ho
capito cosa vuoi, ne discutiamo fuori di qui!»
«Hai
qualcosa da nascondere, Spaghetti-Girl?»
s’intromise anche la giapponese
bastarda.
Le mimai un ‘Taci’ che avrei
volentieri accompagnato con qualche bella espressione colorita che
avevo
imparato recentemente da quel troglodita calciatore fidanzato della mia
migliore amica. Leonardo Sogno: un nome, un programma.
Purtroppo Mr. Abbott era rimasto
a fissarmi incredulo, mentre si chiedeva quale razza di svitata aveva
assunto
per il suo tirocinio. Nel frattempo il ragazzo-stalker non la finiva di
ostentare un sorriso sfacciato che non faceva altro che farmi saltare i
nervi
più del dovuto.
Gentilmente tolse la mia mano
dalla sua giacca firmata e lisciò la porzione che avevo sgualcito col
fervore
delle mie azioni spropositate di poco prima.
«Zio
Henry,»
disse poi, rivolgendosi all’uomo alle mie spalle.
Sbiancai in trentatré secondi
netti, elaborando solo troppo tardi le evidenti somiglianze tra il
giovane che
mi perseguitava e il proprietario di tutta la baracca. Yuki sogghignava
sotto i
folti baffi che pensava di aver tolto dall’estetista, mentre io non
avevo
nemmeno il coraggio di voltarmi.
Sapevo che un fired!
urlato da Mr. Abbott non me lo
avrebbe tolto nessuno. Ero rovinata.
Soltanto
tu potevi scambiare il nipote del tuo capo per uno stalker!
Oh, non ti ci mettere anche tu
adesso!
«James!»
sorrise
l’uomo, andando in contro al ragazzo e abbracciandolo con calore. «Ti
aspettavo
per questo pomeriggio.»
«Sì,
ho fatto prima,»
si giustificò. «Il
treno da Canterbury è passato stranamente in orario.»
Cercai distintamente di
mimetizzarmi con la tappezzeria dell’ingresso, ma lo sguardo azzurro
brillante
di Mr. Abbott mi immobilizzò sul posto.
«Conosci
già una delle nostre tirocinanti?» disse al nipote, indicandomi.
Quel tale di nome James si
allargò in un sorriso sincero. «Ho
avuto questo onore.»
Lo zio rimase molto perplesso, ma
non ci fece caso. Se avessi saputo che il ragazzo era niente poco di
meno che
il nipote del mio capo, avrei tentato di tutto per non fare un’infinità
di
figure di merda davanti a lui.
«È
una ragazza brillante, una promessa. È italiana, sai?» e
tentai di
non arrossire dopo tutti i complimenti che Mr. Abbott stava elargendo,
facendo
diventare Yuki livida di rabbia.
«L’ho
capito dal suo accento, anche se ha una pronuncia quasi impeccabile,»
sorrise il
tipo.
«Bene,
bene,»
disse compiaciuto il vecchio avvocato. «Spero
proprio che andiate
d’accordo, anche perché non è escluso che vi faccia collaborare d’ora
in poi.»
«Zio,
non sono arrivato allo studio nemmeno da un giorno e già vuoi
sobbarcarmi di
lavoro?»
ridacchiò il ragazzo, trascinandomi in una risata finta come una
banconota da 3
sterline.
Il vecchio Abbott sorrise. «A dire
il
vero, mi è capitato un caso interessante tra le mani di recente e
vorrei proprio
vedere come ve la cavate,»
propose ed io continuai ad ascoltarlo.
Dentro di me non potevo che
gioire come una bambina al parco giochi, mentre Yuki si contorceva le
budella
dalla rabbia. Avevo rischiato il licenziamento, questo dovevo
ammetterlo, ma in
compenso ora potevo addirittura occuparmi di un caso vero e proprio,
anche se
avrei dovuto dividerlo con il bellimbusto.
«Beh,
non voglio stare qui ad annoiarvi. Torno in ufficio, ne parleremo
meglio quando
si presenterà l’occasione. Buona giornata e buon lavoro.» Così
Mr.
Abbott si congedò e mi lasciò da sola a specchiarmi nelle iridi
azzurrine di
quello strano ragazzo che avevo incontrato per caso quella mattina
sulla Tube.
La mano del destino alle volte
aveva un modo davvero curioso di agire, di muovere dei fili e di
tirarne degli
altri.
«Non
mi sono ancora presentato a dovere,» disse lui, sorprendendomi. «Piacere,
James
Abbott. Per gli amici Jamie.»
Gli strinsi la mano con
decisione, dopotutto si trattava pur sempre di un collega. Certo, il
suo
sorriso e quel suo sguardo erano disarmanti, ma io ero una
professionista, non
più una ragazzina alla sua prima cotta. Ero impassibile come un blocco
di
ghiaccio.
«Piacere
mio. Vènera.» sospirai,
marcando l’accento sulla prima ‘e’ del mio insolito nome.
Jamie, come da copione, spalancò
gli occhi dalla sorpresa nel sentire la particolarità del mio nome di
battesimo
ed io pensai subito che scoppiasse a ridermi in faccia.
Non sarebbe stata la prima volta,
dopo tutto.
Invece mi sorprese. «Bel
nome, mi
piacciono quelli particolari,»
sorrise. «Sento
già che sarà un piacere lavorare con te. Sei un tipetto niente male,
suppongo.»
Avrei voluto rispondergli per le
rime, ma dovevo mantenere un certo contegno. Ormai ero un avvocato e
non
sarebbe stato professionale perdere le staffe.
«Spero
che tu sia bravo a parole tanto quanto ad attaccarti ai cavilli
procedurali,
altrimenti dovrò sobbarcarmi tutto il lavoro,»
sghignazzai, sentendo di aver
fatto centro. «Ora
scusami, ma devo lavorare.»
Dopodiché mi avviai alla
scrivania sentendo gli occhi di Jamie incollati alla schiena. Sorrisi
dentro di
me e pensai che dopo tutto la giornata non era iniziata poi tanto male.
***
Eccomi qui con una nuova originale (che
pizza! ndr. i lettori)
Questa storia mi frullava da tempo in testa, precisamente da quando è
entrato il personaggio di Venera nella originale a 4 mani Come in un
Sogno. Diciamo che l'ho inquadrata subito, e che mi sarebbe piaciuto
molto fare uno spin-off su di lei perché è determinata ed adoro il suo
carattere. Come ho detto nella presentazione, non è affatto necessario
aver letto CIUS per capire di cosa si parla, perché si svolge in un
futuro ben lontano.
Beh, questo prologo introduttivo ci presenta il carattere della
protagonista, che è molto determinata e ci consente di dare uno sguardo
anche alla sua vita lavorativa nella capitale inglese e ci presenta
alcuni suoi colleghi.
Uno in particolare.
Ovviamente questo personaggio è ispirato ad una persona reale, cioè la
mia Wife, nonché beta, nonché tuttofare. I love u! Ovviamente il
capitolo è dedicato anche alle altre mie Crudelie, che mi supportano
sempre. Vi lovvo girls!
Spero proprio che vi susciti almeno un po' di curiosità. Ci rileggiamo
al prossimo capitolo :33
Kiss, Marty
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
Londra era un’enorme metropoli,
colma di persone che si riversavano nelle strade come l’acqua di un
fiume dopo
una giornata di piena. Quando avevo lasciato l’Italia, più in
particolare
Tivoli, per intraprendere la carriera giuridica nella capitale inglese,
non mi
sarei mai aspettata di incappare in alcune mie vecchie – e soprattutto
indesiderate – conoscenze.
Ma andiamo per ordine.
James Thomas Abbott era un ragazzo
sulla venticinquina, alto, ben piazzato e con un paio di profondi occhi
azzurri
al cui interno era nascosto un lampo di furbizia che, a mio modesto
parere,
ogni avvocato in erba doveva possedere. Chiunque poteva iscriversi alla
facoltà
di legge, ma soltanto una cerchia eletta poteva definirsi ‘avvocato’.
E lui era tra questi.
Il giorno dopo aver fatto la sua
conoscenza, nonostante inizialmente avessi pensato si trattasse di uno
stalker
maniaco, Jamie si era rivelato un valido membro dello studio, e non
solo perché
era il nipote di uno dei soci. In questa occasione, fui costretta a
mettere da
parte i pregiudizi sui cosiddetti “figli di papà” e a rimboccarmi le
maniche
perché il biondino ci sapeva fare.
Seppi da quell’arpia di Yuki che
James aveva studiato a Cambridge e si era laureato prima del tempo con
il
massimo dei voti, specializzandosi poi in diritto di famiglia. Non ce
lo vedevo
come avvocato divorzista, sinceramente, ma chi ero io per giudicare?
Personalmente, mi immaginavo un
giorno alla sbarra, urlando a squarciagola la mia arringa contro il
Pubblico
Ministero che voleva mandare in galera un povero innocente, quindi la
carriera
penalista era la mia prima scelta… purtroppo, quando Mr. Abbott ci
chiamò nel
suo studio, le mie aspettative si smontarono.
«Ti
sei persa qualcosa stamattina nella Tube?» mi
sorrise Jamie, ricordando il
modo in cui ci eravamo conosciuti.
Feci un finto sorriso, di quelli
strafottenti brevettati in cinque anni di liceo più altri cinque di
università.
«Per
tua fortuna no, ma qualcuno si è dimenticato il cervello sul comodino e
non
sono io,»
conclusi, soddisfatta della mia lingua tagliente.
Jamie fischiò e mi sorrise. Quei
suoi occhi vispi e azzurri, con un po’ di quella barba incolta che gli
dava
qualche anno di più di quanto avesse riportato sulla carta d’identità
gli
conferivano un’aria talmente affascinante che rischiavo di rimanerne
soggiogata.
Datti
una svegliata, Ven! Obiettivo primario: diventare socio dello studio,
anche a
costo di passare con i tuoi stivali vintage sopra quel bel corpo
muscoloso
davanti a te.
E
asciugati la bava, per l’amor di Dio!
Inconsciamente mi portai un dito
all’angolo delle labbra ed effettivamente raccolsi un po’ di saliva che
era
rimasta sospesa dopo aver schiuso la bocca troppo a lungo, in
contemplazione di
quel corpo statuario davanti a me. Aveva ragione il mio fidato
Cervello, era
mio dovere pensare prima alla carriera, poi sarebbe venuto tutto il
resto.
…e
non solo quello.
«Quale
caso credi che ci assegnerà tuo zio?» gli
domandai, rimanendo
saldamente sull’argomento lavoro-lavoro-lavoro-e-ancora-lavoro.
Lui si mise le mani nelle tasche
dei pantaloni dal taglio elegante e ci pensò su. Mi ritrovai a pensare
che
anche ogni suo gesto più semplice sembrava calcolato e fatto con quella
tipica
eleganza inglese che io avevo sempre ammirato.
Per non parlare dell’accento,
poi.
«Mio
zio è un tipo un po’ bizzarro,»
spiegò, ma feci fatica ad associare la parola “bizzarro” a Mr. Abbott.
Sì, era
un uomo alla mano e piuttosto gentile, al contrario del fratello –
l’altro zio
di James – ma addirittura definirlo bizzarro… «non so
davvero quale caso
potrebbe assegnarci, ma di sicuro ha fiducia nelle tue capacità.
Presumo non
sia nulla di semplice,»
e sorrise, di nuovo.
Maledetto.
Non feci in tempo a gonfiare il
petto d’orgoglio, sapendo quanto fossi brava nel mio lavoro, che la
segretaria
di Mr. Abbott, la signorina Austen, ci fece accomodare nello studio del
socio
anziano che subito ci accolse con il sorriso brevettato alla ‘Abbott’.
«Ragazzi
miei, benvenuti!»
E ci fece segno di accomodarci su due poltrone dall’aspetto molto
comodo. Presi
posto alla destra della scrivania, lisciandomi i pantaloni del completo
e
slacciando il bottone della giacchetta che indossavo. «Oggi
c’è bel
tempo, cosa rara qui a Londra, ed ho anche delle ottime notizie per voi
due.»
Tralasciando il fatto che
sembrava parlasse di noi non come team di colleghi ma come futuri
sposini,
aveva una strana luce d’eccitazione negli occhi ed io potevo solamente
tradurla
come qualcosa di brillante per il caso che ci avrebbe assegnato.
Il mio primo incarico come
avvocato in erba ed ero stata assegnata niente di meno che al nipote di
Mr.
Abbott. Non potevo chiedere nulla di meglio.
«Dunque,
stavo dicendo,»
continuò Mr. Abbott, senza smettere di lanciarci occhiate ammiccanti. «Ieri
vi avevo
preannunciato di avere un caso per le mani niente male, in cui potrete
collaborare e tirar fuori il meglio di voi.» Fece
una pausa calcolata giusto
il tempo per farmi agitare scompostamente sulla sedia che, nell’attesa,
sembrava esser stata foderata di irti chiodi. Guardò prima il nipote e
poi la
sottoscritta. «Jamie,
anche se sei arrivato da poco in questo studio, ripongo le mie
aspettative
nelle tue mani e poi ti ho assegnato una delle migliori tirocinanti che
abbiamo
qui allo studio, quindi sei in buone mani.»
Cercai di nascondere il rossore
sulle guance ma non vi riuscii molto bene. Essere definita una delle
migliori
da Mr. Abbott valeva più di qualsiasi altro complimento che avessi mai
ricevuto. Persino più della Laurea cum laude.
«E
tu, mia cara Venera,»
disse nella mia direzione. «Ci
sei stata raccomandata così calorosamente che mi sento in dovere di
darti
un’opportunità. Sei arrivata sin qui dall’Italia, hai studiato un
diverso
sistema giuridico soltanto per lavorare con noi, quindi te lo meriti.»
«Zio,
ma di cosa si tratta? Ci stai mettendo ansia,»
sorrise James.
Mr. Abbott arricciò le labbra e
lasciò che una sana risata gli sorgesse dal fondo della gola, poi ci
guardò con
quei suoi limpidi occhi azzurri. Aprì uno dei cassetti della sua
scrivania e ne
estrasse due cartellette che ruotò nelle nostre direzioni.
«Giorni
fa, mi ha chiamato una mia vecchia conoscenza, chiedendomi aiuto per un
suo
cliente ed io ho preso in esame questo caso. Non è nulla di
impossibile, ma
vorrei che foste in due ad occuparvene perché si tratta di un
personaggio di
spicco e necessita una certa privacy attorno a questa storia.»
Afferrai la cartella con mani
tremanti, quando James già stava esaminando i primi fogli. Non potevo
crederci,
il mio primo caso per lo studio Abbott&Abbott. Un sogno!
«Si
può fare,»
commentò il giovane Abbott ad una prima occhiata dei documenti.
Suo zio annuì soddisfatto. «Vi
suggerisco
di fare un salto dal vostro nuovo cliente, in modo da presentarvi e
discutere
meglio una linea d’azione. Mi aspetto il massimo della riservatezza,
nonché una
certa professionalità da parte vostra. Non si tratta di una persona del
mondo
dello spettacolo, ma è comunque un volto popolare, soprattutto qui
nella
capitale, ma anche nel resto del mondo.»
Okay, ero sufficientemente
curiosa da divorarmi l’intero plico pur di riuscire a leggere il
cognome del
nostro assistito. Aprii con foga la cartellina, non accorgendomi che i
fogli
erano liberi di schizzare via, così riuscii a rovesciarne tutto il
contenuto
per terra.
Sprofondai in un completo
imbarazzo. «M-Mi
dispiace!»
e mi affrettai a raccogliere tutti i fogli sparsi sul parquet come un
mare di
neve bianca.
Anche James si chinò ad aiutarmi,
così in fretta e furia riuscii a risistemare i fogli alla bell’è meglio
dentro
la cartellina. Mr. Abbott non si scompose e rimase con quella sua
solita espressione
bonaria in viso.
«Bene,
potete iniziare quando volete,»
ci comunicò tranquillamente. «Vi
ricordo solo di fare quella visita di presentazione, soprattutto a nome
dello
studio. Non ho parlato direttamente con il nostro cliente, ma con un
suo,
diciamo, ‘tutore’, quindi è bene che vi presentiate ufficialmente prima
di
esaminare le minuzie del caso.»
«Perfetto
zio, ci organizzeremo al più presto.»
«Certamente,» mi
aggiunsi
anch’io, riacquistando un po’ di professionalità dopo la figuraccia che
avevo
fatto prima.
Mr. Abbott ci congedò subito dopo
e io mi ritrovai nel corridoio a respirare come se non avessi
ossigenato il
cervello per tutto il tempo che ero stata nel suo ufficio. Non potevo
crederci.
Il primo caso assegnatomi niente di meno che da uno dei soci anziani
dello
studio in persona.
Certo, dovevo ammettere che Mr.
Abbott mi aveva nominata assistente del nipote, il vero
avvocato di questo caso, ma comunque era un’opportunità a cui
non avrei rinunciato per niente al mondo.
«Va
tutto bene? Sei bianca come un lenzuolo,»
asserì James, posando una mano
sulla mia spalla senza alcun secondo fine.
Deglutii e poi strinsi entrambe
le mani sulla cartella. «Certo,
sono solo emozionata per il caso.»
Jamie mi sorrise sincero, poi
apparve uno degli avvocati dello studio e lo chiamò per qualcosa cui
stava
lavorando.
Rimasi immobile con ancora la
sensazione del calore della sua mano sulla mia spalla e quell’eco di
felicità
che mi era rimasta addosso per la notizia di un nuovo ed entusiasmante
lavoro.
«Stai
cercando i tuoi neuroni?»
domandò Yuki arcigna.
Rinsavii quel tanto da
focalizzare la mia rivale per il posto fisso nello studio, e strinsi
con forza
la cartelletta contenente i documenti relativi al caso.
«Scusa,
non ho proprio tempo di insultarti,» sorrisi mefistofelica. «Devo
tornare a
casa al più presto per dare un’occhiata ai documenti del mio primo caso
assegnatomi da Mr. Abbott.»
Come previsto, Yuki sbiancò di
colpo. «C-Ca-Cas…
Quale caso?»
domandò esterrefatta.
Non ebbi il tempo sufficiente per
rispondere, perché James fece capolino dalla porta del suo ufficio e mi
chiamò.
Chiusi metaforicamente la porta
in faccia a Yuki e vidi Jamie Percival Abbot – anche io avevo fatto i
miei
compiti a casa – in piedi di fronte alla finestra che dava su una
meravigliosa
panoramica della City. Mi portavo ancora addosso gli strascichi
dell’euforia di
poco prima, ma tentai di contenerli.
«Ven,
so che ci conosciamo da pochissimo tempo,»
iniziò, senza distogliere lo
sguardo dal panorama.
Oddio,
mi vuole invitare ad uscire?
Ero troppo scombussolata da
riuscire a pensare con lucidità, così sperai in un intervento in
extremis del
mio Cervello, ma anche lui sembrava essersi preso una momentanea
vacanza.
Calma.
Poi Jamie si voltò ed io mi
specchiai in quei suoi occhi profondi, adulti ed estremamente
intelligenti. «Questo caso è
molto importante per me, mio zio ha riposto in entrambi una fiducia che
non
possiamo permetterci di tradire, perciò mi sento in dovere di chiederti
se sei
pronta a metterci tutta l’anima in questa cartelletta.»
Strinse con forza il plico di
fogli e mi guardò in attesa di una risposta. Era determinato quanto me
a
risolvere questo caso, ed io non potevo tirarmi indietro.
«Anche
se dovessi passare tutte le notti in bianco da qui alla fine del caso,
puoi
contare su di me!»
E gli sorrisi.
Jamie ricambiò il gesto e si
avvicinò posandomi una mano sulla spalla. «Domani
mattina andremo dal nostro
cliente, tieniti pronta. Dobbiamo fare buona impressione.»
Annuii convinta e inspirai in
cerca d’ossigeno. L’Hugo Boss di James mi riempiva le narici e non
riuscivo
ancora a pensare lucidamente.
Devo
farcela.
Il ritorno a casa fu meno
traumatico dell’andata. Alle 18.00 in punto, quando il Big Ben faceva
sei
rintocchi che riecheggiavano per tutta Parliament Square, la Tube si
riempiva
dei pendolari che, come la sottoscritta, facevano ritorno verso le
proprie
abitazioni.
Stavolta, però, all’interno della
mia valigetta di pelle nera, c’era una cartella con i fogli più
importanti che
avessi mai stretto tra le mie mani. Non potevo ancora crederci. Non ero
allo
studio nemmeno da un mese, e Mr. Abbott mi aveva già affidato il mio
primo
caso.
Tecnicamente
l’ha affidato a Mr. Occhiblu, tu sei solo la sua assistente.
Feci tacere mentalmente il mio
Cervello e continuai a crogiolarmi nella beatitudine con un sorriso
ebete
stampato in faccia. Persino un vecchietto seduto di fronte a me
cominciava a
guardarmi male, ma poco m’importava.
Finalmente Venera Donati poteva
dirsi realizzata nella vita.
Il monolocale in affitto di
Oxford Street non era certo il plus ultra del lusso. Situato all’ultimo
piano
senza ascensore di una palazzina in puro stile vittoriano, per
arrivarci il
primo giorno mi ero dovuta caricare cinquanta chilogrammi di trolley su
per sei
rampe di scale, mentre il proprietario della palazzina rideva e mi
osservava.
Purtroppo non avevo trovato di
meglio e, almeno fin quando non fossi diventata socia, mi sarei dovuta
accontentare. L’affitto era medio, ma almeno la fermata della Tube era
vicina e
raggiungibile a piedi in cinque minuti. In più, avevo Regent Park a
pochi passi
e innumerevoli negozietti di zona.
Entrai nell’androne e vi trovai
Mr. Cabret che guardava la televisione a tutto volume dal suo
gabbiotto. Era un
uomo sulla cinquantina, tipicamente inglese. Indossava la stessa giacca
di
tweed per una settimana intera e Dio solo sapeva che odoraccio emanava
quando
si giungeva al Venerdì. Per il resto, sembrava apposto.
Aveva le gote sempre arrossate e
in mano il classico bicchiere di whiskey con ghiaccio, invecchiato di
chissà
quanto. Avrei potuto quasi paragonarlo a mio padre, solo che al posto
del tweed
avrei messo la giacca di jeans consunta, con le toppe ai gomiti, e il
Jack
Daniel’s lo avrei sostituito con la grappa fatta in casa.
«Buonasera,
Mr. Cabret,»
sospirai, entrando esausta nell’androne della palazzina.
Il proprietario distolse appena
lo sguardo dal televisore e mi fece un cenno con la mano. Dopodiché
tornò a
guardare la BBC.
Strinsi la valigetta e mi
preparai ad affrontare le solite sei rampe di scale che, a lungo
andare, mi
avrebbero obbligata a mettermi un polmone d’acciaio. Mi tolsi le
decolleté per
evitare almeno eventuali vesciche, dopodiché posai i piedi fasciati da
calze
nere sulla moquette e cominciai a salire le scale.
Arrivata sino in cima, col fiato
corto e delle goccioline di sudore che mi imperlavano la fronte,
cominciai a
frugare alla disperata ricerca delle chiavi. Una volta afferrate, le
girai
nella toppa e finalmente entrai nel mio monolocale.
L’appartamento era costituito da
due stanze, se così si potevano chiamare. Una immensa, in cui c’era il
letto e
un piccolo angolo cottura, e uno spazio angusto che Mr. Cabret aveva
avuto il
coraggio di chiamare bagno.
Fortunatamente, grazie agli
innumerevoli anni passati a giocare a Tetris, ero riuscita a far
entrare tutti
i miei effetti personali dentro quel misero appartamento che non
raggiungeva
nemmeno i metri quadri della mia vecchia stanza a Tivoli.
Lì
vivevi in campagna, avevi un’intera magione.
Ringraziai mentalmente il mio
Cervello, che non perdeva occasione di ricordarmi quanti sacrifici
avessi fatto
per raggiungere il mio vero obiettivo, e alla fine crollai esausta sul
letto,
senza togliermi nemmeno il trench.
Riuscii a sporgermi quel tanto da
afferrare la valigetta ed estrarre i documenti per cominciare a
leggermeli per
bene, in vista di domani. Il mio pensieri non poté che vertere sul bel
sorriso
di James che mi avrebbe accolto una volta uscita dalla fermata della
Tube,
vicino all’indirizzo del nostro cliente.
Afferrai il plico e lo aprii,
cominciando a scorrere la prima pagina alla ricerca del nome e
dell’eventuale
indirizzo dell’abitazione, ma con mio estremo sgomento mi accorsi che i
documenti iniziavano subito a parlare del caso in questione.
C’erano alcune deposizioni, i
fatti esposti sia da una parte che dall’altra, ma non v’era traccia né
del nome
del nostro cliente, né del suo indirizzo.
Calmati
Ven, non sclerare. Sarà nella valigetta.
Mi alzai a sedere sul letto con
uno scatto degno di un lottatore di Wrestling, dopodiché mi gettai a
pesce
verso la ventiquattr’ore e la saccheggiai senza ritegno, finendo col
spargere
tutto il suo contenuto sulla trapunta.
Sgranai gli occhi ed ebbi un
tuffo al cuore.
Niente.
Non c’era traccia di nessun foglio, di nessun appunto, nemmeno un
misero
post-it ed io ebbi davvero la speranza che Mr. Abbott si fosse
dimenticato di
allegare le generalità del cliente, ma poi mi diedi subito della
sciocca.
James mi aveva chiaramente detto
di presentarmi l’indomani mattina a quell’indirizzo, segno che lui
l’aveva
letto e che nella cartella era presente, almeno quando Mr. Abbott ce
l’aveva
consegnata.
Non
ti sta sfuggendo qualcosa?
Forse avevo ignorato
deliberatamente l’amara verità che sussisteva attorno al mistero del
foglio
sparito, anche perché equivaleva ad un’ammissione di estrema stupidità.
Altro
che i neuroni perduti di Yuki, avrei volentieri aperto la finestra e mi
sarei
lanciata di sotto.
Nell’ufficio di Mr. Abbott mi era
caduto il plico con tutti i documenti, ed evidentemente, nella fretta
di
raccoglierli, ne avevo dimenticato uno. Quello più importante, poi.
«Maledizione!»
imprecai,
mettendomi le mani nei capelli.
Cercai il cellulare e sbloccai la
tastiera, pensando di telefonare a James e farmi inviare quantomeno
l’indirizzo, poi rimasi a fissare lo schermo come una scema. Ovviamente
non
avevo il suo numero, visto che l’avevo conosciuto il giorno prima.
«Cazzo.»
Adesso ero
davvero nei guai fino al collo. «Cazzo, cazzo, cazzo!»
Il mio primo caso in uno degli
studi più importanti di Londra, associata niente poco di meno che al
nipote del
socio anziano, ed io ero riuscita a perdermi l’unico foglio che
conteneva tutte
le generalità del cliente.
Nemmeno
se ti ci fossi impegnata, saresti riuscita a cacciarti in un guaio
peggiore.
Ignorai quel pensiero e afferrai
il telefono, pigiando con foga sui tasti e componendo il numero di
telefono
dello studio. C’era la speranza che qualcuno fosse rimasto, che magari
Jamie si
era trattenuto in ufficio per esaminare meglio il caso.
Pregai in tutti i modi che
qualcuno rispondesse agli squilli, ma dopo un po’ persi la speranza.
«Salve!» era
la voce
di Mr. Abbott.
«Signore,
mi dispiace chiamarla a quest’ora, ma è urgent-»
«Avete
chiamato lo studio Abbott&Abbott, ma nessuno può rispondere.
Lasciate un
messaggio dopo il bip.»
Era la segreteria.
Con un tuffo al cuore, chiusi la
chiamata e mi lasciai cadere sul letto. Non conoscevo l’indirizzo e non
sapevo
nemmeno in che zona di Londra abitasse. Non avevo il numero di telefono
di
James, né il nome o il cognome del cliente.
Come avrei fatto a trovarlo?
Quella notte la passai insonne.
Mi rigirai più volte tra le lenzuola, non riuscendo ad impedire al mio
cervello
di pensare ad un modo per trovare quel dannato indirizzo. Rimasi a
fissare il
soffitto scuro e muffo per quasi tutta la notte, fin quando il sole non
filtrò
attraverso le pesanti tende dai motivi damascati.
Posso
anche suicidarmi, adesso.
Mi alzai dal letto come uno
zombie e mi trascinai fino alla cucina per preparare la macchinetta del
caffè.
Andai in bagno e l’immagine che mi restituì lo specchio era quella di
una
ragazza in piena crisi, che in meno di due ore era passata dalla più
completa
beatitudine ad una vena suicida.
Pensai allo sguardo di Yuki una
volta che Mr. Abbott mi avrebbe sollevata dal caso per incompetenza, e
m’immaginai gli occhi di James delusi. Gli avevo fatto un giuramento, e
senza
nemmeno accorgermene l’avevo infranto sin da subito.
«Sono
proprio un’incompetente,»
bofonchiai tra me e me.
Andai sino al comodino,
sorseggiando il caffè bollente dall’unica tazza che mi ero portata da
casa,
afferrai il cellulare e lo accesi. Ero ancora intenta a maledirmi,
quando il
bip del messaggio mi sorprese. Pensai immediatamente che si trattasse
di Mr.
Abbott che mi diceva di fare le valigie e tornarmene a Roma con un volo
diretto, invece notai che era di un numero sconosciuto:
‘Giorno
collega!
Anche se
posso sembrare pressante, ti ricordo che ci vediamo alle 9.30 a
Piccadilly
Circus. L’appartamento del nostro cliente si trova a pochi isolati da
lì.
James.
La colonna sonora della mia vita,
con We are the champions in
sottofondo, cominciò a risuonare nella mia mente e se avessi avuto
James
davanti a me in quel momento di euforia, sicuramente lo avrei baciato.
Guardai
l’orologio con timore, ma erano ancora le 8.00 del mattino e avevo il
tempo
sufficiente per prepararmi in modo adeguato senza rischiare di sembrare
una
povera pazza.
Finalmente ero rientrata in
carreggiata e potevo sognare ad occhi aperti di far parte dello studio,
un
giorno. Certo, avrei dovuto fotocopiarmi il foglio con le generalità,
ma mi
sarei fatta trovare a Piccadilly Circus alle 9.15 per non rischiare
alcun
ritardo.
In meno di cinque minuti riuscii
a finire di prepararmi. Mi pettinai i corti capelli castani, mi passai
su viso
un velo di trucco, giusto per non sembrare un adolescente in piena
tempesta
ormonale, visto il mega brufolo sulla fronte che mi era spuntato quella
mattina, e indossai il mio miglior tailleur.
Dovevo fare bella figura, sia con
il cliente, ma soprattutto con James.
Ti
sei presa una bella cotta, eh?
Zitto tu!
Detto ciò, dando una veloce
occhiata all’appartamento che sembrava uscito fuori da un catalogo
della
‘perfetta mogliettina’, uscii di casa e mi fiondai giù per le scale,
attenta a
non capitombolare per terra. Infilai una mano in tasca per controllare
la
Oyster, riposi le chiavi nella valigetta, controllai se c’era il plico
con i
restanti fogli del caso e salutai Mr. Cabret che ancora dormiva sulla
sedia del
suo gabbiotto.
Una volta uscita dalla palazzina,
inspirai l’aria pungente di prima mattina e puntai lo sguardo verso il
cielo
plumbeo. Anche se il tempo era titubante e c’era in giro l’odore della
pioggia,
quella giornata si prospettava come una delle migliori di tutta la mia
vita. Mi
avviai verso la Tube e come ogni giorno, ripetei la classica routine
che mi
accompagnava fino in ufficio.
Anche la fermata era sempre la
stessa, con l’unica differenza che all’uscita avrei trovato James ad
aspettarmi.
Mi domandai se, nel caso ci
sarebbero state altre visite al cliente, avrei potuto chiedergli di
fare la
strada insieme, dal momento che la prima volta che ci eravamo visti, lo
avevo
incontrato in metro. Attesi la Red Line con questo pensiero fisso nella
mente,
che mi accompagnò per tutto il viaggio d’andata. Ero euforica,
elettrizzata,
eccitata all’idea che finalmente avrei potuto mettere in atto tutto ciò
per cui
avevo studiato così tanto.
Una signora anziana mi si
affiancò, così mi alzai per cederle il posto. «Prego.»
«Grazie,
bella ragazza,»
mi rispose lei sorridendo ed accomodandosi sul divanetto. «Com’è
sei
tutta raggiante? Stai andando dal fidanzato?» mi
domandò curiosa.
A quella domanda normalmente
sarei arrossita, oppure avrei cominciato col dirle che una donna in
carriera
come me non aveva bisogno di un uomo che la mantenesse, invece lì per
lì mi
uscì fuori un mezzo sorriso ebete.
«Una
specie,»
commentai, poi la voce metallica della Tube mi avvertì che la mia
fermata
sarebbe stata la prossima.
Salutai la vecchina e mi
avvicinai alle porte scorrevoli, dopodiché, tra spintoni e calca,
riuscii a
raggiungere la scala mobile e a vedere l’angelo di Piccadilly Circus
che
svettava verso il cielo plumbeo di quella mattina.
Mi sentii leggera come una piuma
e guardando l’orologio, mi accorsi di essere in perfetto orario. Alla
fine
tutto si era aggiustato, in un modo o nell’altro, e la fortuna era
girata dalla
mia parte ancora una volta. Mi guardai intorno alla ricerca di un paio
di occhi
azzurri, anche se ero ben consapevole di essere in netto anticipo, ma
dopo un
po’ mi sentii chiamare.
«Ehi,
collega!»
Mi voltai e incontrai il sorriso
a trentadue denti di James che mi accoglieva calorosamente, nonostante
la
giornata fosse un po’ fredda.
«Ehi!» gli
risposi,
con lo stesso entusiasmo.
L’occhio mi cadde subito sul suo
montgomery nero, a doppio petto, che nascondeva un completo gessato
grigio ed
una cravatta azzurra, dello stesso colore dei suoi occhi.
Possiamo
tornare sulla terra?
Scossi violentemente la testa e
mi concentrai. Non c’era tempo per James, ma soltanto per il caso che
avremmo
dovuto affrontare.
«Pronta?» mi
domandò.
Sfoderai un sorriso sghembo e mi
portai una ciocca di corti capelli dietro l’orecchio. «Io
sono nata
pronta.»
James sorrise e mi fece strada,
anche se ben presto realizzai di non aver letto nulla del caso. La sera
prima
ero stata troppo impegnata a cercare quel maledetto foglio per mettermi
al
corrente del resto, ma per fortuna si trattava più di una visita di
cortesia
che altro.
Non dovevo preoccuparmi.
L’appartamento effettivamente si
trovava a pochi isolati da Piccadilly, nel quartiere di Soho.
Camminammo per
circa un quarto d’ora, ma alla fine riuscimmo a trovare l’indirizzo.
Anzi, James ci riuscì visto che
io non sapevo nemmeno che cognome stessimo cercando.
Ci fermammo di fronte ad una
palazzina bianca, con delle colonne ai lati della piccola scalinata.
James salì
e citofonò, io rimasi più in basso perché non c’era molto spazio per
passare.
Il portone scattò senza che
nessuno rispondesse, poi entrammo nell’ingresso e attendemmo l’arrivo
dell’ascensore.
«È
nell’attico,»
mi disse James quando fummo dentro, poi spinse l’ultimo pulsante e la
macchina
si mosse chiudendo le porte in automatico.
Doveva trattarsi di un cliente
con un sacco di soldi, finii col pensare. Abbott&Abbott era uno
studio
rinomato ed era più che logico che i suoi clienti fossero tra i
personaggi di
spicco della società inglese. Non mi stupii che alla porta ci potesse
venire ad
aprire un Magistrato, un Ministro o un membro della Curia di
Westminster.
La verità era che ero rosa dalla
curiosità.
James si fermò di fronte al
portone e suonò il campanello, poi mi rivolse uno sguardo ed un sorriso
smagliante. «Dai
che lo conquisteremo, tigre!»
«Ovvio!»
trillai
entusiasta.
Fissai lo sguardo sul mogano
della porta e mi domandai quanto tempo ci volesse per aprire, dal
momento che
gli avevamo già citofonato.
Calma,
Ven. Non è il momento, né il luogo di andare in escandescenze.
Aspettai qualche altro secondo,
cominciando a picchiettare il piede sul pavimento del pianerottolo
quando il
rumore di una serratura che scattava mi destò dalle maledizioni che
stavo per
lanciargli.
Chissà chi sarebbe apparso oltre
l’anta.
Magari qualche attore di spicco
di Hollywood.
«Buongiorno,
Mr. Sogno. Siamo i suoi avvocati,» si presentò James ed io
sbiancai.
In quell’esatto momento diventai
dello stesso colore delle pareti: bianco latte. Appoggiato allo stipite
della
porta, con i capelli sparati in tutte le direzioni e vestito – se così
si
poteva dire – solo di un paio di pantaloni del pigiama a livello
inguinale
c’era niente poco di meno che uno dei miei acerrimi nemici.
«Che
cazzo ci fai qui?»
mi domandò Simone con la voce ancora impastata dal sonno.
Aveva ragione Celeste quando mi
parlava di Karma e roba del genere. Forse c’era una ragione per la
quale avevo
smarrito il foglio con le generalità del cliente, forse non mi sarei
mai dovuta
presentare e non avrei mai dovuto accettare il caso.
Certo, ma ormai era troppo tardi.
***
Bene,
benino!
Eccoci finalmente nel "vivo" della storia. Abbiamo finalmente dato una
sbirciatina al caso che la nostra Ven dovrà seguire sotto la
stretta (:3 molto stretta) supervisione di Jamie però si sa ancora poco
o niente. Ma l'evento fondamentale di questo primo capitolo è che
finalmente abbiamo capito chi è il famigerato cliente di cui si debbono
occupare.
TADAN!
Chi di voi se lo sarebbe mai aspettato? Eh? Eh? Eh?
Insomma non è facile liberarsi di un Sogno, non trovate? xD
Io personalmente adoro Simone, è un tipetto niente male e ho il vago
sospetto che darà filo da torcere a quella poveraccia di Ven . (tanta
pena per lei).
A questo punto mi metto (letteralmente) nelle vostre mani. Ditemi
tutto!
Bacioni e alla prossima!
Ah, se volete ''sclerare'' con me aggiungetevi al gruppo Crudelie
si nasce.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
CAPITOLO 2
Arrivava un momento nella vita di
una persona in cui tutti i segnali le facevano capire di aver sbagliato
strada,
di dover invertire la rotta, magari fare qualche passo indietro e
cambiare
strada. Ecco, io avevo deliberatamente ignorato quei segnali.
Gli occhi marrone scuro di Simone
mi squadravano da capo a piedi, aspettando ancora la risposta alla sua
domanda.
Anche Jamie si era sorpreso del tono del suo cliente, ed io ora mi
trovavo in
una posizione davvero compromettente.
Mai e poi mai avrei immaginato
che il mio primo cliente, del primissimo caso assegnatomi dal mio primo
datore
di lavoro fosse nient’altro che il cugino di Mr. Rinoceronte Leonardo,
nonché
fidanzato della mia migliore amica.
E
aggiungerei tuo nemico giurato.
Non mi rimase da fare altro che
ignorare l’istinto di girare i tacchi e tornarmene a casa a maledire il
karma,
per riacquistare la mia aria di professionalità.
«Come
ha detto il mio collega, siamo i tuoi avvocati,»
risposi tranquillamente, senza
dare spazio alla rabbia, o alla sorpresa.
Di tutti i milioni di abitanti
che c’erano nella capitale inglese, possibile che mi fosse capitato
l’unico con
cui avevo avuto dei trascorsi ben poco piacevoli?
Ovvio che sì. Come avevo pensato
in precedenza, alla Abbott&Abbott si rivolgevano unicamente
personaggi di
spicco e Simone Pisellino Sogno,
stella dell’Arfanal, Artenal, Arghenal, o che so io, non poteva essere
da meno.
«Ah,»
bofonchiò il
rinoceronte, sbadigliandoci di fronte senza premurarsi nemmeno di
nasconderci
la visuale di tutto il cavo orale. Riuscii anche a scorgere di che
colore
portava le mutande andando oltre le tonsille. «Comunque
non mi serve nessun
avvocato,»
tagliò corto.
Stava per chiuderci la porta in
faccia, quando James la bloccò e tirò immediatamente fuori la
cartelletta coi
documenti. «Suo
fratello ci ha assunti per occuparci del suo caso, e siamo venuti a
fare un
sopraluogo appena abbiamo potuto,» si giustificò.
Fratello?
Cercai di togliermi dalla faccia
quell’aria sorpresa, dal momento che avrei dovuto quantomeno dare
un’occhiata a
quel plico di fogli, ma rimasi sorpresa nell’apprendere che esisteva
ancora un
altro Sogno con cui fare i conti.
Cominciai col pensare che quella
famiglia si riproducesse alla stessa velocità di un allevamento di
conigli, poi
feci il punto della situazione: c’era Leonardo Chicco
Sogno, TermoSifone,
la piccola Sofia e questo quarto membro X senza nome apparente.
La faccia di Simone,
nell’apprendere la notizia, era impagabile.
Sbuffò contrariato, poi si spostò
da un lato della porta e ci fece entrare. Non la finiva di guardarmi
male, ma
tentai di ignorarlo almeno per fare bella figura di fronte a James. In
realtà,
con tutta la collaborazione di Cervello, stavo pensando ad un
escamotage per
non vedere il mio cliente tranne che direttamente nell’aula di
tribunale.
Per
il quieto vivere è meglio se non incontro la sua faccia tanto spesso.
L’attico era arredato con gusto,
ovviamente si vedeva che non era farina del suo sacco. D’altronde, con
tutti i
soldi che guadagnava rotolando dietro ad un pallone si poteva
permettere uno di
quegli arredatori gay con puzza sotto il naso.
Ci fece accomodare al bancone
della cucina, su degli sgabelli altri da bar.
Ovviamente per salirci sopra, con
le decolleté e il tailleur che mi impediva la maggior parte dei
movimenti mi
sentii un po’ goffa.
«Qualche
difficoltà, Lil’elf?» mi
apostrofò,
rispolverando quel soprannome che mi aveva affibbiato uno dei natali
passati
quando per caso ci eravamo trovati alla stessa festa organizzata da Cel
e Leo. «Potrei provare
a vedere se la vicina ha da prestarmi un seggiolone…»
Dio quanto lo odiavo.
Riuscii ad issarmi finalmente
sullo sgabello e gli scoccai un’occhiata fulminante. «No,
grazie.»
Mi morsi la lingua per non
aggiungere altro, altrimenti avrei potuto mandarlo direttamente a quel
paese
senza fare tanti complimenti. Dovevo essere professionale, almeno di
fronte a
Jamie.
Sei
un avvocato, ricordatelo. Questo ragazzino te lo mangi a colazione.
Simone, oltre ad essere
anagraficamente più giovane della sottoscritta, aveva anche dei
lineamenti così
delicati da farlo sembrare ancora un diciottenne. Sicuramente non
avrebbe mai
dovuto ricorrere al lifting.
«Suo
fratello è venuto per parlarci del suo problema,»
iniziò James
serio, trasudando intelligenza e ormoni d’avvocato da ogni poro della
sua
meravigliosa pelle. «Stando
ai documenti e alle prove fin ora raccolte, ci sono gli estremi per
andare in
tribunale e risolvere la questione senza che lei debba pagare alcunché
alla
signorina.»
Mi sentii in dovere almeno di
aprire il plico, visto che non sapevo di cosa stesse parlando. I primi
quattro
fogli contenevano una breve esposizione dei fatti dal punto di vista
del
cliente, ma dopo alcune pagine, compresi di che cosa ci saremmo dovuti
occupare.
«Che
si prenda pure tutti i soldi che vuole, l’importante è che torni a
giocare,» ringhiò
Simone, appoggiando i palmi sul nero marmo della cucina e lasciando che
il mio
occhio cadesse sulle vene che serpeggiavano lungo i suoi avambracci.
James rimase sorpreso. «Mr.
Sogno, suo
fratello ci ha assunti perché vincessimo questa causa e non scenderemo
a patti,
almeno per il momento.»
Bravo,
bello e determinato.
Un uomo da sposare, insomma.
«Tu
cosa dici, Ven?»
mi chiese poi, puntando quei grandi occhi azzurri su di me.
Considerando che avevo letto le
prime cinque pagine del plico, non avrei davvero saputo come esprimermi
ancora.
Avrei dovuto attingere all’unica mia arma rimastomi a disposizione: la
parlantina.
«Per
me dovremmo raccogliere le deposizioni da ambo le parti, confermare le
fonti e
soprattutto vedere se si tratta davvero di un caso di dubbia paternità
oppure
di un tentativo di estorsione da parte della ragazza in questione.»
«Quel
bambino non è mio!»
si difese subito Simone, come se lo avessi accusato di qualcosa.
«Ne
siamo più che sicuri, Mr. Sogno,» rispose prontamente James. «Purtroppo
nell’80% dei casi, una giuria punirebbe il padre, o presunto tale,
invece di
assegnare la pena alla ragazza gravida. A meno che non si abbiano delle
prove
schiaccianti. Ma io e Ven le troveremo,» e mi
sorrise facendomi perdere
un battito.
Simone anche puntò lo sguardo su
di me, ma io tentai di ignorarlo. Ancora non capiva per quale motivo
fossi
piombata nel suo appartamento, ma pensai di trovare del tempo per
ficcare in
quella sua zuccaccia vuota che non era stata affatto una scelta
personale.
Se avessi potuto cambiare cliente
o spararmi, lo avrei fatto.
«Quindi?»
domandò il
diretto interessato. «La
società mi ha chiaramente fatto capire che finché non risolvo questa cosa,» e indicò i fogli sparsi sul
bancone della cucina. «Non
potrò tornare a giocare. E la Premier è già iniziata.»
James sospirò, ricontrollando
ancora una volta alcune carte. «Mr.
Sogno, posso solo dirle che ci impegneremo per risolvere questa cosa
nel minor
tempo possibile, solo che nel frattempo dovrebbe promettermi una cosa.»
Sia Simone che la sottoscritta ci
voltammo all’unisono verso l’avvocato.
«Dovrebbe
limitare gli incontri con l’altro sesso.» Fu
spiccio e indolore.
«Cosa?»
sbottò
immediatamente il calciatore.
James annuì convinto,
raccogliendo le carte. «Non
sappiamo se la ragazza dice la verità o meno, come abbia inscenato il
tutto, ma
vogliamo evitare ulteriori scandali. Essendo lei un personaggio
pubblico e di
spicco, se i tabloid la vedessero in compagnia di una ragazza diversa
giorno
per giorno, sia lei che noi perderemmo credibilità di fronte ad
un’ipotetica
giuria. Quindi mi sento in dovere di suggerirle di non vedere nessuno
per un
po’ di tempo.»
Simone stava per scoppiare a
ridergli in faccia, ma io lo anticipai. La risata mi uscì d’istinto,
proprio
dal centro del petto, e rotolò fuori sorprendendo sia il calciatore che
Mr.
Abbott junior.
«S-Scusate…» mi
ripresi,
asciugandomi le lacrime senza sbaffare il trucco. «È solo
che non
ci riuscirà mai!»
e ricominciai a ridere.
James mi fissava allibito e
spostava lo sguardo da me a Simone – che nel frattempo mi stava
fulminando –
come in una partita di tennis.
«Ma…» fece
per
dire, ma fu interrotto.
«Che
ne sai tu, Miss ho-una-scopa-nel-culo, eh?» mi
ringhiò contro.
Le risate si persero nell’aria,
perché in quel momento c’era il set di coltelli vicino la mia mano
sinistra che
mi provocava inconsapevolmente.
«Lo
so e basta!»
tentai di tagliare corto, ricordandomi di essere professionale.
Ma Simone cercava rogna, e fin
quando avesse continuato di quel passo, ero sicura che avrei commesso
un
omicidio, altro che caso di dubbia paternità.
«Ma
voi due…»
continuò James, tentando di frapporsi nella conversazione.
«Ah!
Che ne vuoi sapere tu? Vuoi scommettere che potrei benissimo resistere?»
In quel momento, però, come se
fosse il chiaro segno del destino, si sentirono dei rumori provenire
dalla
camera da letto e ben presto fece il suo ingresso in cucina una
giraffona con
uno stacco di cosce da più di un metro.
Tutti si ammutolirono.
Si trattava sicuramente di una
modella, a giudicare dall’assenza di pancetta – che la sottoscritta
doveva
nascondere grazie ad un paio di calze contenitive – e all’altezza
esagerata.
Minimo un metro e ottanta, scartando il metro e venti costituito solo
dalle sue
lunghe gambe.
Io raggiungevo le due mele e
qualche centimetro.
«Bonjour à tous,»
sbadigliò la tipa, raggiungendo Simone e cingendogli il collo con
entrambe le
lunghe e flessuose braccia.
«Bonjour, ma
petite fleur rose,»
rispose lui, avvicinando il viso e cercando le labbra di lei.
Rimasi
abbastanza sorpresa dalla fluente pronuncia francese di TermoSifone,
vista la
sua ignoranza in quasi tutte le materie basilari, escluso sessuologia.
Lo
spettacolo della slinguazzata, però, me lo risparmiai e preferii
fissare lo
sguardo sul cesto di frutta.
«Stavamo
dicendo?» domandò poi, sorridendo. «Lei è di Tolosa,»
ammiccò diretto a James, come se l’avere un pendolino in mezzo alle
gambe
equivalesse a dire che c’era solidarietà maschile.
L’avvocato,
però, tossicchiò e tentò di rimanere serio. «Segua
il mio consiglio, Mr. Sogno. Credo che la mia collega abbia ragione.»
«Chi? Lil’Elf?» domandò lui sprezzante.
«Ma vi
conoscete, per caso?» chiese alla
fine James, riuscendo a non essere interrotto.
«Sì, ma perché
abbiamo degli amici in comune,»
tagliai corto io, senza dare alcuna importanza alla cosa.
«Quindi non c’è
un conflitto di interessi,» ipotizzò
James, spostando lo sguardo da me a Simone e ignorando la modella che
nel
frattempo sgranocchiava un biscotto. «Voi
non…» e lasciò la frase in
sospeso di proposito.
Realizzammo
all’unisono il significato di quei puntini di sospensione, e sgranammo
gli
occhi.
«NO!»
tuonammo
contemporaneamente, con le facce schifate.
«Preferirei
Osama Bin Laden.»
«Andrei
a letto con Angela Merkel.»
Rispondemmo ancora, sempre come
se ci fossimo messi preventivamente d’accordo. James sembrava sempre
più
sorpreso. «Curioso,
davvero curioso.»
Rimanemmo in silenzio, fino a
quando la giraffona non lo interruppe con un «Vous voulez un café avec des croissants?»
«Bene,
ora devo proprio scappare in ufficio,»
tagliò corto James, raccogliendo i fogli e sistemandoli nella
valigetta. «Ci risentiremo a breve, per ora segua il
mio consiglio. A cominciare da oggi.»
E scoccò un’occhiata alla francesina.
Imitai il mio
collega e mi preparai ad uscire da quell’appartamento infernale, non
mancando
di fare l’ennesima figuraccia grazie a quel maledetto sgabello alto
dodici
chilometri che mi rischiava di farmi sfracellare al suolo.
Stavo per
salutare Simone nel mio migliore dei modi, quando Jamie mi guardò. «Mi è venuta un’idea.»
Quella frase,
fu l’inizio di tutta la storia, nonché della mia rovina.
«Ven,
forse sarebbe meglio se tu venissi qui ogni giorno. Così potresti
tenere al
corrente Mr. Sogno dello svolgimento del caso e in particolare gli
impediresti
di cacciarsi in altri guai.»
«Ehm,
cosa?»
sbottai, visto che il mio cervello fu incapace di recepire l’ultima
informazione.
Jamie sospirò e si passò una mano
dietro la nuca, accarezzandosi i corti capelli castani. «Visto
che vi
conoscete e che fra di voi non sembra esserci mai stato nulla, non ho
problemi
ad affidarti ciecamente la tutela dell’integrità del nostro cliente,
Venera. So
che non è il compito che avresti sperato, ma mio zio è stato chiaro,
dobbiamo
limitare i danni che potrebbe fare la stampa venendo a conoscenza di
qualche
ulteriore pettegolezzo trapelato da una di queste ragazze,» e
indicò la giraffona.
«Scusate!»
s’intromise
Simone, aggirando l’isola di marmo della cucina e raggiungendo Jamie. «Sento
benissimo che state parlando di me, perciò non comprendo perché non vi
fidiate
del sottoscritto.»
Poi mi lanciò un’occhiata di sbieco. «Non ho
mica bisogno della
babysitter.»
Trattenni a stento una risata,
senza farmi beccare da Jamie. Era un miracolo se Simone riusciva ad
allacciarsi
le scarpe da solo e poi era rinomato che i Sogno non riuscissero ad
essere
fedeli nemmeno se legati ad un guinzaglio.
Forse
Leonardo è l’unica eccezione, o forse è Celeste che ha stretto il
cappio.
«Mi
dispiace, Mr. Sogno,»
insistette James, avviandosi alla porta. «Sono
sicuro che Venera sarà
discreta e non invaderà i suoi spazi, giusto?»
Alzai le mani e sorrisi. «Non
c’è alcun
pericolo: meno lo vedo, meglio mi sento.»
Jamie non comprese quella mia
allusione, ma dall’occhiata assassina che mi rifilò Simone, compresi
che in
realtà era stata una frase soltanto per noi due.
«Allora
ci rivediamo tra una settimana. Ven verrà qui ogni mattina a quest’ora,
dopo
essere passata in ufficio. La terrà aggiornato su tutto lo svolgimento
delle
indagini, fino al processo.»
«Okay,»
smozzicò
Simone, aprendo la porta dell’appartamento e accompagnando Jamie di
fuori.
In realtà non avevo alcuna voglia
di rimanere da sola con quel ragazzino squilibrato, ma non potevo
nemmeno
mettermi a fare la figura della codarda scongiurando James Abbott di
assegnarmi
qualsiasi altro incarico che non fosse assicurarmi che il pistolino di
Mr.
Sogno rimanesse segregato nel suoi jeans firmati.
Poveri
noi.
Quando la porta si chiuse, rimasi
a fissare il legno scuro dell’infisso mentre un silenzio innaturale e
imbarazzante avvolgeva quell’attico al centro di Londra. Mi voltai quel
tanto
da trovarmi le iridi marrone scuro di Simone puntate diritte su di me.
Era
seccato, ma mai quanto la sottoscritta.
«Si
può sapere perché cazzo mi perseguiti?» mi
chiese stupito.
Rimasi completamente basita. «Cosa?
Ma sei
scemo? Ti pare che io mi metta a pedinare le persone, ma soprattutto
che voglia
pedinare te?» gli ringhiai
contro.
Simone mi colpì con uno dei suoi
sorrisi sghembi brevettati dalla Sogno&Co. «Sono
pur sempre Simone Sogno,
capocannoniere della Premier.»
«A
campionato iniziato da poco più di due mesi…» mi
sentii in dovere di
aggiungere.
Simone aggrottò le sopracciglia,
poi si ricordò della giraffona e la raggiunse, posandole le mani su
quei
fianchi ossuti da cui partivano chilometri di gambe affusolate che io
non avrei
mai avuto, nemmeno dopo torture di allungamento degli arti in puro
stile
medievale.
«Ma chérie, vous pouvez nous laissaur
seuls?» le
domandò, cercando le sue labbra.
«È laisser, ignorante,»
lo corressi, scuotendo il capo.
Anche la
giraffona sorrise di quell’errore, ed io mi vantai compiaciuta.
«Devi
sempre essere così dannatamente irritante?»
cominciò a sbraitarmi contro,
stavolta in italiano.
«Tsk,
sei tu che fai figure di merda ogni cinque secondi. Io sono qui per
evitare che
ti umili da solo più del dovuto.»
La francesina ci fissava
allibita, non capendo nemmeno una parola di ciò che ci stavamo urlando
addosso.
Era risaputo che Simone non perdesse quasi mai il controllo, lo avevo
visto
sempre prendersi gioco degli altri – soprattutto del cugino – con una
naturalezza disarmante, eppure ero l’unica a fargli perdere le staffe.
Cervello
uno, Pisellino zero.
«Vedi
di essere carina con me, sono pur sempre io che ti pago. Posso anche
licenziarti,»
mi minacciò serio.
Assottigliai lo sguardo
comprendendo che aveva ragione. Quando si trattava di giocare sporco,
quel
ragazzino ci sapeva fare. «D’accordo,» dissi
e gli
porsi la mano. «Per
quieto vivere non ci metteremo i bastoni tra le ruote come di solito
facciamo
ad ogni riunione di famiglia. Sarà solo ed esclusivamente un rapporto
di
lavoro,»
conclusi.
Lui fissò la mia mano titubante,
non sapendo se fidarsi o meno.
Sbuffai annoiata. «Guarda
che non
mordo mica!»
sbottai.
Di punto in bianco, Simone colmò
la distanza che si separava e mi strinse la mano con forza, fissandomi
serio. «Affare fatto.»
Gli sorrisi di rimando, ma in
modo molto malizioso. «A
questo punto, devo adempire al mio dovere.» E mi
precipitai verso la
giraffona raccattando quei pochi vestiti che aveva in giro ed
accompagnandola
molto poco gentilmente verso la porta.
«Ehi,
ehi!»
tuonò Simone contrariato.
Gli puntai contro l’indice, con
fare minaccioso. «Hai
promesso. Devo fare il mio lavoro e tu non vedrai più un essere di
sesso
femminile fino a quando questo caso non sarà archiviato! Intesi?»
Il clangore metallico della
porta, ci riportò alla realtà. L’attico era vuoto ed io avrei dovuto
farmi
trovare lì ogni santa mattina, dopo essere passata in ufficio, per
impedire al
ragazzino di cacciarsi nei guai.
«Nessuna
è mai riuscita a tenermi al guinzaglio e di certo non ci riuscirai tu!» mi
urlò
contro, anche se quel viso delicato pareva tutto tranne che minaccioso.
«Perché
non hai avuto a che fare con me, TermoSifone.»
sghignazzai.
Simone incrociò le braccia a quel
petto ampio e glabro, così bianco da sembrare quasi di porcellana. «Sai
che ti sei
messa contro la persona sbagliata, vero?»
«Staremo
a vedere,»
lo misi in guardia. «Questo
è il primo caso che mi sia mai stato affidato e non ho alcuna
intenzione di vedermelo
portare via a causa di un poppante e dei suoi ormoni in subbuglio. Non
sono io
che faccio sesso non sicuro. Potevi pensarci prima!»
Simone si sentì attaccato dalla
sottoscritta. «Non
sai niente, quella si è inventata tutto.»
Mi spostai una ciocca di capelli
dietro l’orecchio. «Buon
per te, allora. Ciò non toglie che dobbiamo tenere i giornalisti il più
lontano
possibile da te. Ergo, passerò ogni giorno e ti aggiornerò sul caso,
assicurandomi che tu non abbia compagnia.»
L’idea di passare la maggior
parte delle ventiquattro ore concesse da un giorno solare insieme, non
piaceva
a nessuno dei due, ma c’era ben poco da fare. Il caso aveva la massima
importanza per me e se questo voleva dire passare delle tediose
giornate
insieme a Mr. Cel’hosoloio, allora
avrei fatto questo sacrificio.
Tornai a casa alle otto di sera,
stremata da un viaggio in metro schiacciata contro il finestrino. La
strada
dall’appartamento di TermoSifone sino al mio monolocale non era molta,
però
dopo una giornata passata a fare da babysitter a quell’individuo mi
sentivo
distrutta.
Posai le chiavi nella ciotola,
poi mi tolsi le scarpe e mi massaggiai il collo. Dopo tutto il
trambusto che
era successo quel giorno, afferrai il cellulare e mi ricordai il
messaggio di
James. Chissà come aveva avuto il mio numero.
Sorrisi ingenuamente e mi
avvicinai alla segreteria telefonica, vedendo lampeggiare ben tre
messaggi.
Spinsi il pulsante del riavvolgimento e ben presto sentii la voce di
mia madre
riempire i trenta metri quadri del piccolo appartamento.
“Tesoro,
come va lì a Londra? Io e tuo padre vorremmo sentirti qualche volta, ma
sappiamo che sei impegnata. Qui alla magione va tutto bene, quest’anno
abbiamo
avuto una buona stagione e l’uva è appena fatta. Ci manchi tanto,
piccola. Non
lavorare troppo.”
Sbuffai e cominciai a spogliarmi,
pregustando una cena precotta riscaldata al microonde e una bella
dormita. Era
vero che non avevo mai tempo per telefonare ai miei, ma era anche
giustificato
dalla vita che avevo scelto. Non c’era nulla di male nell’abitare in
campagna,
ma la vita che sognavo era tutt’altra ed ora ero a pochi passi dal
realizzare
il mio sogno.
I miei pensieri furono interrotti
dal bip del secondo messaggio.
“Ehi,
amica!” era Celeste in tutta
la sua squillante
voce. “Come al solito non sei a casa ed è
inutile che ti chiami al cellulare, tanto non rispondi. Lavoro, lavoro,
lavoro.
Qui va tutto bene, sto preparando la tesi mentre Leonardo fa di tutto
per
convincermi a venire a vederlo allo stadio Domenica prossima, ma se lo
scorda.
Non mi siedo in tribuna con quelle altre sgallettate, tutte silicone
che non
fanno altro che parlare al cellulare.”
Sorrisi, immaginandomi Cel tutta
arruffata che si guardava intorno scandalizzata dalla superficialità di
quel
mondo in cui era piombata per puro caso. Essere la ragazza di un famoso
calciatore non era tutto rosa e fiori.
“Comunque
ti ho telefonato perché mi è venuta la malsana idea di venirti a
trovare per
Natale, che ne dici? Oppure veniamo direttamente l’8 dicembre, tanto è
festa.
Leo me l’appoggia, basta che non incontra Tu-sai-chi. Beh, richiamami
quando
hai tempo e fatti sentire qualche volta.”
Mi gettai sul letto e cominciai a
stiracchiarmi, facendo scrocchiare qualche osso intirizzito proprio
come una
chiropratica esperta. L’idea che Celeste venisse qui a Londra mi
allettava, ma
allo stesso tempo non sapevo se avrei avuto del tempo sufficiente da
dedicarle.
Era Novembre inoltrato e avevo appena accettato il primo caso della mia
futura
carriera, Dicembre era vicinissimo e inoltre c’era il problema Simone.
Tra i due cugini Sogno non
correva buon sangue e se la sottoscritta gli avrebbe fatto da balia,
sicuramente le loro strade si sarebbero incrociate. Mi rigirai a pancia
sotto
ed abbracciai il cuscino. Era un gran bel dubbio da colmare, ma la
colpa
ricadeva sempre ed unicamente su una sola persona.
Perché il destino alle volte era
così ingiusto?
Perché fra milioni di persone,
doveva capitarmi proprio lui come cliente?
Un ultimo ‘bip’ mi avvertì che
mancava ancora da ascoltare l’ultimo messaggio registrato in
segreteria. Mi
sorpresi, perché oltre mia madre e Cel, di solito non mi chiamava
nessuno, a
parte qualche Call Center.
“Ciao
Spaghetti-girl!” la voce
trillante di Jamie mi
fece quasi rotolare giù dal letto. Afferrai con decisione la trapunta
per
mantenere almeno quel poco di dignità che mi rimaneva.
L’istinto di alzare la cornetta
era forte, ma la mia parte razionale mi ricordò che si trattava solo di
un
messaggio registrato nella segreteria.
“Spero
di non averti colto di sorpresa con la richiesta di questo pomeriggio.
So che
non è specificato nel tuo contratto di lavoro, ma preferirei tenere Mr.
Sogno
lontano dai guai il più possibile ed io so che mi posso fidare di te.”
Se mi avesse potuta vedere in
quel momento, ero sicura di essere diventata bordeaux fino alla punta
delle
orecchie.
Non erano passate nemmeno
quarantotto ore e lui affermava di potersi fidare ciecamente di una
stagista
appena conosciuta. Okay, dovevo ammettere che il ragazzo era un tipo
alla mano,
ma per sua fortuna aveva riposto la sua speranza in una botte di ferro.
Ti
riferisci ai chili che hai messo su questo mese?
Ignorai il pensiero pungente del
mio Cervello che mi ricordava, ormai molto spesso, che mangiare tutti i
giorni
al fast food non faceva bene né al mio fegato né al girovita delle
gonne che
dovevo indossare in ufficio.
“Bene,
spero tu domani non mi uccida allo studio” ridacchiò
e mai come in quel momento pensai che la voce di Jamie, anche
attraverso il
sottofondo gracchiante della segreteria, non poteva che essere
meravigliosa. “Tieni d’occhio il tuo amico,
per quanto possa aver capito di lui in
soli quindici minuti, ha davvero bisogno di qualcuno con la testa sulle
spalle.
Ci si vede domani, notte Spaghetti-girl!”
Sorvolai sulla parola “amico”
buttata lì nel bel mezzo della frase, a sottintendere il fatto che io e
TermoSifone ci conoscevamo già, e rimasi a contemplare la segreteria.
Sentivo
il cuore che mi batteva forte nel petto. Avevo avuto il mio primo caso,
il
primo incarico datomi direttamente da Mr. Abbott in persona e non
potevo
chiedere di meglio.
Inoltre, come se non fossi già
baciata dalla fortuna, il caso aveva voluto affiliarmi ad un avvocato
in erba
che di più brillanti, intelligenti e sexy in giro non ce n’erano,
nemmeno se li
avessi cercati col lanternino.
Stai
dimenticando forse qualcosa?
Beh, stai sempre a puntualizzare!
L’unico, piccolo, insignificante,
minuscolo, nanoproblema era rappresentato da quel calciatore da
strapazzo,
iper-vanitoso e talmente immaturo che anche una tartaruga ninja lo
avrebbe
superato in intelligenza. Dovevo rimanere calma. Il problema si poteva
arginare
tranquillamente.
Avrei semplicemente adempiuto al
compito che mi era stato assegnato senza necessariamente andare in
contro a
chissà quali difficoltà. TermoSifone aveva il cervello di un criceto
con la
dissenteria, perciò sarebbe stato un gioco manovrarlo.
Sbuffai e mi lasciai nuovamente
cadere sul materasso. L’indomani avrei cominciato il mio secondo
lavoro:
babysitter a tempo pieno. Solo l’idea mi faceva venire l’orticaria.
Ripassai mentalmente i programmi
per il giorno dopo, poi i crampi allo stomaco mi ricordarono la cena
che si
stava scongelando nel lavandino.
La afferrai e la misi nel
microonde, passandomi poi le mani tra i capelli.
Questi
Sogno mi manderanno ai pazzi, me lo sento.
Volevi fare l’avvocato, Ven?
Beh, eccoti accontentata.
***
Anyways!
Buona festa della mamma a tutte!!
Oggi è il compleanno di molte persone a me importanti, tra cui il
prestavolto di questa storiella (alias Simone) cioè Francisco Lachowski
che compie 21 anni. AUGURI!!!
Passiamo a cose serie, finalmente si ha un po' più di luce ne caso
giudiziario di cui Ven e Jamie dovranno occuparsi, e il bell'avvocato
inglese ha finalmente capito che quei due non gliela raccontano giusta!
Infatti si conoscono da molto più tempo di quanto lui credeva.
Ma veniamo all'idea di mettere Ven alle calcagna di Simo per non fargli
combinare altri guai appresso
alle gonnelle delle modelle. Eh si, se ne vedranno delle belle! :33
Ringrazio le mie crudelie, fonte d'ispirazione e di spronamento (?) per
questa storia, e soprattutto la mia Wife a cui è dedicata. Venera e
tutta la sua acidità sono solo per te, my love!
Inoltre, ringrazio chiunque abbia messo la storia tra le
preferite/seguite/ricordate, chi abbia lasciato un piccolo segno del
suo passaggio o chi semplicemente l'ha letta spinto dalla curiosità.
Grazie.
Al prossimo capitolo!
With love, Marty.
Crudelie si
nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re
Storie consigliate:
- Unexpected
as you (_caline);
- In her
shoes (HappyCloud);
- Il
meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's
Blue (BlueSmoke);
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 ***
CAPITOLO
3
Prendere la
Tube dopo aver tracannato un doppio cappuccino con doppia schiuma,
doppia panna
e doppia razione di zucchero non era l’ideale nemmeno per il mio povero
stomaco
abituato alle lasagne fritte di zia Concetta.
Ero
praticamente incollata ad uno dei pali piazzati al centro del vagone e
ad ogni
frenata del conducente, il mio stomaco riusciva a fare capolino dalla
gola,
salutando gli altri pendolari. Quella mattina ero talmente nervosa, che
mi era
stato impossibile non ingurgitare tutto ciò che mi ero trovata davanti
al viso,
così da ottenere il meraviglioso risultato di un’indigestione in piena
regola.
Perché non mi dai mai
ascolto?
Quando la
voce metallica annunciò la fermata di Piccadilly Circus, quasi non
riuscivo a
credere di essere finalmente arrivata. Mi precipitai fuori dal vagone,
attesi
con impazienza l’ascensore e mi diressi a rotta di collo verso i
tornelli per
riuscire finalmente a inspirare l’aria fresca londinese.
Peccato che
piovesse a dirotto.
Mi salvai
dalla doccia prematura solo grazie alla tettoia che saggiamente
riparava
l’entrata della metropolitana, così ebbi il tempo di tirare fuori
l’ombrello
dalla ventiquattr’ore ed incamminarmi verso Oxford Street. Afferrai
l’arnese
che la mia migliore amica si era raccomandata di regalarmi prima che io
partissi per l’Inghilterra e che io non avrei mai smesso di odiare, poi
cercai
di aprirlo.
È molto semplice, basta
staccare lo stetch e pigiare sul
pulsante. Comodo e veloce, così non ti bagnerai.
Celeste aveva
avuto un pensiero molto gentile all’aeroporto, ma ero più che sicura
che non si
sarebbe mai immaginata di avermi fatto dono di un oggetto infernale.
Staccai la
chiusura, poi allontani il manico per l’incolumità personale. I
passanti mi
fissavano come se fossi pazza, ma nessuno meglio di me sapeva che
quello era
l’ombrello del male. Dopo essermi
messa a distanza di sicurezza, pigiai il pulsante come Celeste si era
raccomandata ma quello che avvenne dopo fu drammatico.
La sicura
scattò e il manico dell’aggeggio infernale si aprì con uno scatto
talmente
potente che nemmeno il rinculo di un fucile avrebbe potuto eguagliare
la
potenza del colpo. Subito la raggiera metallica si aprì e soltanto dopo
quattro
o cinque colpi di assestamento fui veramente sicura di poterlo tenere
dritto
sulla testa senza il pericolo di venir risucchiata al suo interno, come
in una
pianta carnivora.
Le persone
attorno a me svanirono di colpo, forse troppo spaventate dal rumore di
quell’ombrello satanico, dopodiché decisi che era venuto il momento di
darmi
una mossa, altrimenti non sarei arrivata da nessuna parte. Imboccai
come al
solito Regent Street e mi diressi verso lo studio a passo svelto,
tentando
inutilmente di evitare le pozzanghere che avevano ridotto le mie
decolleté a
delle spugne.
Una volta
raggiunto il portone a vetri, mi precipitai all’interno venendo accolta
dallo
sguardo agghiacciante di Yuki che mi fissava dall’alto in basso con la
sua
solita aria snob.
«Hai
perso di nuovo la metro?» domandò
sarcastica, controllando un plico di documenti che aveva al braccio.
Ripresi fiato
dopo il passo svelto che avevo mantenuto per tutto il percorso,
dopodiché
tentai di chiudere quel maledetto arnese con scarso successo.
«Per
tua fortuna…» smozzicai
tra un tentativo e l’altro. «…questa
volta sono arrivata in orario. Un po’ bagnata, ma in orario.»
«Buongiorno,
Spaghetti-girl!» mi sorprese
Jamie, apparendomi alle spalle come un fantasma.
«’Giorno!»
ringhiai,
avvinghiandomi con entrambe le mani attorno a quel maledetto ombrello
che non
voleva saperne di chiudersi.
In un gesto
talmente veloce e fluente che me ne accorsi soltanto grazie allo
spostamento
d’aria, James afferrò l’arnese indemoniato e in pochi attimi riuscì a
chiuderlo
con facilità, porgendomelo poi con un sorriso di soddisfazione stampato
in
faccia.
«Non
si ottiene nulla con la
violenza,»
spiegò tranquillo.
Afferrai
l’ombrello con un gesto di stizza e lo riposti nel portaombrelli.
Cercai di
essere più composta possibile, anche se l’umidità di quella giornata
piovosa
aveva ridotto i miei capelli a dei fili stoppacciosi di fieno. Diedi
una
fuggevole occhiata allo specchio: sembravo appena fuggita da Auschwitz.
Tentai di
rassettarmi un po’, ma Jamie mi fece immediatamente cenno di seguirlo
nel suo
ufficio, così obbedii. Afferrai la ventiquattr’ore contenente il plico
con i
documenti del caso che stavamo seguendo e mi accomodai.
James Abbott
si sedette alla sua scrivania, raccogliendo le mani davanti a sé e
incrociandole sotto il mento. I suoi occhi blu mi fissavano intensi,
concentrati, due laghi così profondi da riuscire a soffocare anche la
mia
testardaggine.
«Non
so se hai ricevuto o meno il
mio messaggio ieri sera,»
cominciò ed io annuii solamente per non interromperlo. «So che
non
era mio dovere darti quella mansione, in fondo sei una ragazza
brillante e sai
fare il tuo lavoro, ma ti ho chiamata qui per spiegarti le mie ragioni.
Farmi
valere in questo studio per me è tutto. È stato sempre difficile
distinguermi
dalla massa visto che il mio cognome mi apriva le porte ancor prima che
potessi
parlare. Voglio solamente un’occasione per farmi valere senza che
qualcuno
interceda per me, soltanto con le mie forze.
E ovviamente
con la tua collaborazione, Venera,» concluse.
Afferrò
allora la cartelletta contenente i documenti del caso e l’aprì davanti
a sé. «Ho fatto
qualche indagine ieri, a casa, soltanto con l’utilizzo del pc ed ho
scoperto
che il nostro giovane Mr. Sogno si da spesso e volentieri alla pazza
gioia,
mostrandolo a tutto il mondo.»
Si voltò appena per afferrare un portadocumenti e porgendomelo.
Chissà perché quella notizia
riguardante TermoSifone non mi
sconvolgeva più di tanto.
Afferrai la
cartella e l’aprii. Al suo interno era pieno zeppo di pagine di tabloid
che
ritraevano Simone in atteggiamenti compromettenti e mostravano un suo
comportamento tutt’altro che adulto. Feste, rave party, alcool, donne e
chi più
ne ha, più ne metta.
«La
cosa non mi sorprende
affatto,»
conclusi, restituendo la cartella.
Jamie mi fissò
con l’aria interrogativa e pensierosa allo stesso tempo. «Sei
assolutamente sicura che non ci sia stato nulla…» e mi
indicò con la penna
stilografica. «Tra
te e il calciatore?»
Sgranai gli
occhi dalla sorpresa. Possibile che davvero la gente potesse credere
che una
persona razionale ed intelligente come la sottoscritta potesse anche
minimamente prendere in considerazione quel ragazzino?
«Lo
giuro sulla Corte Suprema,
guarda. Lungi da me immischiarmi nella vita privata di quello lì,»
risposi
quasi disgustata.
James parve
soddisfatto della mia risposta, così cominciò a sfogliare i documenti. «Allora,
come
avrai notato, è di vitale importanza tenere nascosta questa
ingiunzione. Se la
società dovesse venirne a conoscenza, c’è il rischio che Mr. Sogno non
possa
giocare per tutta la durata del processo. Inoltre, il tuo compito sarà
quello
di tenerlo il più lontano possibile dalla vita mondana a cui è
abituato, a
cominciare da oggi. Conti di farcela?» mi
domandò dubbioso.
Deglutii a
fatica, quasi come se qualcosa mi si fosse incollato al palato. Certo
non avrei
mai pensato di dover assolvere anche quel tipo di mansioni ma Jamie
contava su
di me e dovevo dare il meglio in qualsiasi circostanza.
Sai che potresti pentirtene,
vero?
«Ce
la farò, te lo prometto,» risposi,
ignorando il Cervello.
Quella stessa
mattina uscii dallo studio, in parte sollevata di non aver incontrato
Abbott
Senior nemmeno per dirgli “buongiorno”. Da una parte ammiravo
quell’uomo, il
suo lavoro, la sua dedizione e dovevo ammettere che si avvicinava il
più
possibile al modello di avvocato che sarei voluta diventare, ma
dall’altra mi
era impossibile pensare che a causa sua avevo dovuto fare nuovamente i
conti
con un capitolo della mia vita che pensavo ormai concluso da tempo.
Strinsi la
valigetta con entrambe le mani e fui sollevata di notare che almeno il
tempo mi
aveva graziata. Una densa coltre di nuvole ricopriva interamente la
città di
Londra, si poteva sentire una certa elettricità nell’aria e ormai ero
abbastanza brava a riconosce anche quando mancava poco al cadere della
pioggia.
Per quella
mattinata, almeno, avrebbe resistito.
Mi incamminai
a ritroso per Regent Street, dovendo raggiungere necessariamente a
piedi
Piccadilly Circus. Soltanto il giorno prima ero stata guidata da James
fino a casa
di TermoSifone e grazie alla mia memoria fotografica avrei trovato il
suo
appartamento in men che non si dica.
Diedi un
veloce sguardo all’orologio da polso con Paperino e rimasi sbigottita
dal
constatare quanto fosse tardi. Cominciai ad accelerare il passo,
pensando che
aspettare un bus sarebbe stata solo una perdita di tempo e tentai di
ignorare
la protesta dei miei poveri piedi fasciati dalle decolleté con il tacco
alto.
Alzai lo
sguardo sull’immensità di quella enorme strada, luogo di shopping
sfrenato da
parte di tutti i turisti in visita nella capitale, e mi resi lentamente
conto
che se non avessi fatto qualcosa sarei comunque arrivata in estremo
ritardo.
Fu allora che
iniziai a correre.
Guarda come ci siamo
ridotti. Una laurea cum laude per
correre dietro ad un ragazzino con troppe voglie.
Non potei
fare a meno di appoggiare il commento sarcastico del mio Cervello. La
sua
perspicacia era illuminante, ma in quel momento mi concentrai sulla
respirazione e su quelle pochissime volte in cui avevo fatto jogging
con mio
padre.
Odiavo
qualsiasi sport, era così difficile capirlo? In particolare mi
domandavo spesso
e volentieri come le persone potessero starsene rinchiuse la Domenica
pomeriggio a fissare un televisore con la bava alla bocca, sbraitando
contro
undici rinoceronti che rincorrevano il pallone.
Uomini, valli
a capire.
Mentre
correvo lungo tutta Regent Street pensai più volte di togliermi le
scarpe e
continuare a piedi nudi sull’asfalto, poi però pensai alla figura che
avrei
fatto una volta giunta a casa di Simone e decisi di tenermi il dolore e
soffrire in silenzio. Non che me ne importasse niente di cosa pensava
di me
quel deficiente, ma dovevo mostrarmi una persona seria e diligente.
Proprio come
James.
Inevitabilmente
finii col pensare al bell’avvocato che mi era stato affiancato nel
risolvere
questo caso delicato, ma tentai di scacciare la sua immagine il più
lontano
possibile da me. Okay, non potevo negare che fosse affascinante,
estremamente
sexy e intelligente ma era pur sempre un mio collega e non potevo
permettermi
passi falsi.
Se fossi
riuscita a portare in tribunale Simone e a risolvere il caso in breve
tempo,
ero più che sicura che Mr. Abbott non ci avrebbe pensato due volte a
far fuori
Yuki e a farmi diventare membro effettivo dello studio. Venera Donati
sarebbe
stata la prima giovane stagista a diventare socio di uno degli studi
legali più
famosi d’Inghilterra.
Arrivai a
Oxford Circus proprio quando un lampo squarciò il cielo ed io alzai
d’istinto
lo sguardo pregando che tenesse per qualche altro minuto. Imboccai il
quartiere
di Soho a passo svelto, anche perché era talmente gremito di persone
che era
quasi impossibile mettersi a correre.
Sentivo il
sudore che colava lentamente dietro la schiena, inumidendo la camicetta
di lino
e incollandomi i corti capelli del caschetto alla base del collo.
Fortunatamente riuscii ad intravedere il portone dell’appartamento
proprio
quando le prime gocce di pioggia stavano bagnando l’asfalto per la
seconda
volta in quella mattinata infernale, così feci un lungo balzo verso la
tettoia
e mi fermai un momento per riprendere fiato.
Mi abbarbicai
letteralmente sul citofono, strizzando gli occhi per azzeccare il
bottone da
pigiare. Non appena vidi Mr. Sogno scritto a lettere cubitali non potei
fare a
meno di pensare a quante manie di protagonismo poteva avere quel
ragazzino.
Sbuffai e
spinsi il pulsante, attendendo risposta.
Come la prima
volta, nessuno si disturbò a chiedere chi fosse ma sentii unicamente il
suono
metallico del portone scattare automaticamente. Mi trascinai
all’interno
dell’androne e attesi l’arrivo dell’ascensore.
«Buongiorno,» mi
sorprese
una voce che mi fece sobbalzare.
Mi voltai
spaventata e notai la presenza di un uomo vestito di tutto punto, con
una
divisa verde pisello e un berretto coordinato.
«Salve,»
smozzicai,
ancora provata dalla corsa.
«La
devo annunciare?» mi chiese,
prendendo in mano una sorta di telefono.
La prima
volta che ero venuta in quell’appartamento non avevo affatto notato la
presenza
di un usciere, ma adesso quell’uomo stava aspettando una mia risposta
che
facevo persino fatica ad articolare.
«N-No,
grazie. È una sorpresa,» sorrisi,
mentendo spudoratamente.
Il vantaggio
di studiare legge era il saper raccontare frottole a tutto spiano senza
destare
nell’altro il minimo sospetto. Avrei raggirato chiunque con la mia
parlantina e
di questo ne andavo più che fiera.
L’uomo mi
sorrise e mise giù il telefono. Non appena lo fece, l’ascensore
annunciò il suo
arrivo con un sonoro din-dlon e
subito lo vidi affaccendarsi per aprirmi la porta e lasciarmi entrare.
Su una
cosa ero più che certa: Simone era impaccato di soldi.
Rivolsi un
grazie appena accennato ed entrai, ricordando perfettamente
l’ubicazione
dell’appartamento di Mr. Sogno. Schiacciai l’ultimo pulsante, quello
dell’attico, e attesi che le porte si chiudessero. Non avrei dovuto
essere poi
tanto sorpresa dalla notizia delle facoltà di TermoSifone, in fondo, da
quel
poco che sapevo di quella famiglia, erano per lo più dei campioni che
facevano
del pallone la loro vita.
Mentre la
povera sottoscritta non riusciva nemmeno a pagarsi un taxi per arrivare
in
orario in ufficio.
Lanciai un
fuggevole sguardo allo specchio posto nella cabina dell’ascensore e per
poco
non rimasi pietrificata. Innanzitutto sembravo una specie di panda in
via di
estinzione, a causa del mascara che col sudore della corsa mi era
colato sino
al mento. Tentai in tutti i modi di sistemarmi, afferrando una
salviettina
umida e cominciando a sfregare, poi mi accorsi anche della piega
disastrosa che
come al solito avevano preso i miei capelli.
L’ascensore
si fermò proprio quando stavo tentando inutilmente di appiattire quel
crespo
che si era addensato sulla nuca, in un misto di sudore e di umidità che
avevano
reso la mia povera capigliatura più simile a una balla di fieno nel
selvaggio
West.
Ormai è fatta.
Decisi di
mandare al diavolo il mio aspetto e di svolgere il mio lavoro, che era
di gran
lunga più importante. Tanto avrei dovuto solamente monitorare quel
bambino
capriccioso rinchiuso nel corpo atletico di un giocatore di calcio
ventunenne,
mica sfilare per Giorgio Armani.
Anche perché i suoi vestiti
non ti entrerebbero dopo il
cheeseburger di ieri sera.
Inspirai
profondamente l’aria che profumava di detersivo per pavimenti e posai
un piede
dolorante sul pianerottolo di fronte all’attico di Simone. Rimasi col
dito a
mezz’aria, indecisa se suonare una sola volta oppure attaccarmi al
campanello
come una pazza forsennata.
Stavolta come
sarebbe venuto ad aprirmi? Completamente nudo?
Le svariate
versioni di Simone che spalancava il portone di ingresso si
susseguirono veloci
ed imbarazzanti nella mia mente, infine decisi di darci un taglio e
suonai il
campanello.
Ero più che
sicura che quel cialtrone non avesse minimamente dato ascolto agli
avvertimenti
di Jamie ed ero altrettanto certa che avesse rimorchiato la prima
sgallettata e
se la fosse portata a letto senza alcuna remora. Il mio istinto non
sbagliava
mai, era una cosa più che appurata.
Infatti, dopo
nemmeno cinque minuti dal suono del campanello, il portone di casa
Sogno si
aprì rivelando la figura alta e snella di una biondina coi capelli
ricci.
Lo sapevo. Maledetto
bastardo.
Eppure James
si era raccomandato di non creare ulteriori scandali e non dare altro
materiale
per far sì che l’accusa vincesse la causa senza nemmeno sforzarsi. Dio
quanto
era stupido quel marmocchio.
«Ciao!»
trillò la
ragazza, sorridendo. «Vieni,
entra pure.»
Quantomeno
stavolta aveva scelto una tipa apparentemente inglese e non si era
trastullato
con delle francesine. Il mio sguardo indagatore si soffermò sul corpo
alto e
snello della ragazza, sui suoi penetranti occhi azzurri e su quel
sorriso
apparentemente sincero e dolce.
Certo era
bella, questo non potevo negarlo. Anche nei movimenti armoniosi del suo
corpo,
da come chiuse la porta e mi fece strada nel salotto, da ogni piccolo
gesto si
vedeva che era stata educata a dovere.
La mia
domanda ora era logica: che cavolo ci faceva una come lei con quel
deficiente?
«Vuoi
qualcosa da bere? Un the?» mi chiese,
cominciando ad aprire gli sportelli della cucina. Notai con quanta
sicurezza si
muoveva in quella casa e non feci a meno di pensare che non era la
prima volta
che si trovava lì.
Sarà una
specie di “fidanzata”, anche se TermoSifone non è il tipo.
«No,
grazie. Sto bene così,» risposi,
continuando ad osservarla.
La ragazza mi
sorrise, ma tirò fuori il bollitore comunque mettendolo sul fuoco. Ora
toccava
la parte più drastica di tutta la faccenda.
«Simone
dov’è?» le domandai,
venendo subito al sodo.
Lei mi guardò
con quei grandi occhi color acquamarina e mi tolse un respiro. La sua
ingenuità
era palpabile, ma sentivo come un moto d’avvertimento. All’apparenza
poteva
avere l’aria della ragazza semplice e di buone maniere, ma era come se
dietro
quella maschera si nascondesse dell’altro.
Non sapevo
spiegarlo bene.
«È
sotto la doccia. Mi ha detto
di aprirti perché sapeva che saresti venuta,»
rispose lei.
Perfetto. Il
bellimbusto si era lavato le mani e aveva lasciato la “patata bollente”
alla
sottoscritta. Sarebbe toccato a me spedire fuori da questo appartamento
quella
signorina dalle sembianze di un angelo.
Inspirai,
pronta a mettere da parte quel forte senso di familiarità che mi
impediva di
prendere a pedate una delle tante ragazze che avrebbero potuto mandare
a rotoli
il primo vero caso a cui avrei lavorato.
«Senti,
non so come dirtelo,» iniziai,
mentre lei mi rivolse un altro di quei suoi sguardi brevettati. «Simone
non
avrebbe dovuto farti entrare, lo sapeva bene. Non posso spiegarti i
dettagli,
perché è una cosa della massima riservatezza, ma sarebbe molto meglio
per
entrambi se tu non ti facessi più vedere, né lo chiamassi.»
Stavolta un
sorriso affiorò su quel bel volto pulito e genuino.
Era pazza
forse?
Mi guardai in
giro e notai la presenza di una borsa di Louis Vuitton adagiata sul
divano, con
uno scialle e un trench color avorio. Mossi qualche passo incerto nella
direzione di quegli oggetti, con i piedi che ancora mi chiedevano
pietà, e li
afferrai spalancando poi la porta d’ingresso.
«Mi
rincresce molto, davvero,» continuai,
nella speranza che capisse cosa volessi intendere. Non potevo certo
parlarle
del fatto che il suo presunto compagno avesse in ballo una causa per
dubbia
paternità, perché altrimenti avrei compromesso il caso, ma potevo farle
capire
con le buone o con le cattive che doveva levare le tende. «Ti
accompagno
alla porta.»
Detto ciò
l’afferrai per un braccio e mi feci strada verso l’ingresso, aggirando
l’isola
nel bel mezzo della cucina. La biondina mi seguiva senza protestare e
per la
prima volta pensai che almeno una cosa nella mia vita andava nel verso
giusto.
Mi dispiaceva
davvero per lei, sembrava una ragazza apposto, però James era stato
chiaro e
contava su di me. Non potevo deluderlo al mio primo, semplice incarico.
A costo di
annodare l’uccello di quel deficiente.
Accompagnai
la ragazza fuori dall’appartamento, ma proprio quando stavo per
chiuderle
gentilmente la porta in faccia, una mano grande e ruvida si avvolse
attorno al
mio polso ed io mi voltai.
«Che
cazzo ti salta in mente?» mi apostrofò
un Simone gocciolante appena uscito dalla doccia.
Rimasi a
fissarlo con sgomento, pregando che avesse almeno avuto il buon senso
di
legarsi un asciugamano attorno alla vita.
Per fortuna
non era così scemo.
«Lasciami!» gli
intimai,
strattonando il braccio dalla sua presa. Lo fissai furente, così come
lui stava
facendo con me. «Il
tuo avvocato è stato chiaro. Niente ragazze fino a tutta la durata del
processo. Sei stupido o cosa?»
A quel punto
Simone sorrise, spiazzandomi del tutto.
C’era
qualcosa nel suo volto giovane e pulito che vagamente mi ricordava la
ragazza
che ci guardava ferma sul pianerottolo.
«Stavolta
hai preso un granchio, Lil’Elf»
sghignazzò, affibbiandomi
quell’odioso soprannome.
Okay, c’era
qualcosa di relativamente importante che mi stava sfuggendo. Intanto,
Simone si
allontanò dal portone permettendomi una migliore visione del suo
atletico
posteriore fasciato unicamente da un asciugamano bianco e parecchio
trasparente.
Distolsi
immediatamente lo sguardo sentendomi avvampare.
Nel frattempo
la biondina entrò nuovamente nell’appartamento ignorando i miei
avvertimenti e
posando la borsa sul mobile della cucina.
«Ma
cosa…?» stavo per
sbraitare contro Simone quando mi ritrovai la mano della ragazza a
pochi
centimetri dal viso.
«Piacere,
Sofia,» mi disse
tranquilla, inclinando il capo da un lato e facendo ondeggiare quella
massa
voluminosa di capelli ricci. «Sofia
Sogno,»
aggiunse, e mi fu tutto chiaro.
Le strinsi la
mano quasi meccanicamente, pensando a quanto potessi essere sembrata
stupida ai
suoi occhi. Era la sorella, dannazione. Ecco spiegata quella estrema
somiglianza che avevo visto nei tratti del suo volto.
«Simo
mi ha parlato tanto di te,» aggiunse,
tornando a controllare il bollitore che nel frattempo fischiava. «So che
ti
stai occupando del suo caso e sono molto felice. Leonardo mi ha detto
che sei
un avvocato in gamba, forse uno dei migliori.»
Il mio
cervello ci mise un po’ ad elaborare tutti i tasselli de puzzle, ma
alla fine
ricordai perfettamente quel nome nascosto tra i miei ricordi.
«Certo,
sei la cugina di
Leonardo,»
bofonchiai quasi incredula.
Sofia sorrise
con sincerità ed ogni suo gesto sembrava quasi irradiare quella stanza
di una
luce armoniosa. Aveva un buonumore contagioso e anche la mia perpetua
acidità
stava risentendo di quell’influsso.
«Esatto.»
«Che
effetto fa?» mi sorprese
alle spalle Simone, facendomi venire un infarto.
Per grazia
divina si era tolto l’asciugamano e si era infilato un paio di
pantaloni di una
tuta, ma era rimasto comunque mezzo gocciolante e a petto nudo.
«C-Cosa?»
chiesi,
ancora confusa.
«Il
sentirsi dei perfetti idioti.
Hai pensato davvero che Sofia potesse essere una delle mie ragazze?» e
cominciò a
ridere di gusto.
M’indispettii
immediatamente e gli rifilai una gomitata nel costato per invitarlo a
scollarsi
da me.
«Cosa
c’è di male, eh? È una
bella ragazza!»
mi giustificai, poi aggiunsi. «Anche
se è troppo intelligente per stare con un cretino come te.»
Mi morsi la
lingua pensando di suscitare qualche fastidio in Sofia, visto che era
sua
sorella, ma non appena sentii la sua risata cristallina, simile ad uno
scampanellio, mi sentii più sollevata. Mi aggiunsi anche io alla risata
e
Simone mi fissò accigliato.
«Perché?
Pensi che non potrei
stare con una ragazza intelligente?» bofonchiò offeso.
Raggiunsi con
fatica il divano e mi ci gettai di peso, ricordando solo allora quanto
fossi
stanca. «No,
penso che la ragazza in questione, se avesse almeno un po’ di sale in
zucca,
preferirebbe farsi suora che stare con uno come te.»
«In
effetti…» si aggiunse
Sofia, continuando a ridere.
«Sofi!
Ti ci metti pure tu!» urlò Simone
offeso.
Pensai
immediatamente che Sofia era forse l’unico membro della famiglia Sogno
che
sarei riuscita a sopportare. Era brillante, intelligente ed
estremamente bella.
In più, provava un gusto quasi perverso nel prendere in giro quel
poveraccio di
TermoSifone.
«Oh!
È tardissimo!» trillò
guardando l’orologio. «Ruben
arriverà a momenti.»
«Chi?
Quella specie di talpa?» sghignazzò
Simone.
Sgranai gli
occhi e sperai di aver capito male. «Un
momento,» mormorai. «Intendi
quel Ruben?»
Sofia si
lasciò andare ad un languido sorriso mentre controllava i messaggi nel
cellulare, poi il suo sguardo si alzò su di me.
«È
stato un piacere conoscerti,
Ven.»
mormorò, quando non ricordavo affatto di averle detto il mio nome. «Ora
devo
proprio scappare. Mi raccomando, prenditi cura di mio fratello. Te lo
affido.»
Mi alzai per
salutarla quando lei mi corse in contro e mi abbracciò, sommergendomi
con
quella massa di capelli ricci e profumati. Con la stessa velocità sparì
oltre
la porta mentre sentivo chiaramente Simone che borbottava un “Non ho
mica
bisogno della balia, io”.
Sbuffai e
tornai a sedermi, togliendomi le scarpe e dando sollievo ai miei poveri
piedi.
Dopo poco avvertii un leggero spostamento e vidi che Simone si era
seduto al
mio fianco.
«Che
vuoi?» ringhiai,
mentre sottostavo al suo sguardo indagatore.
Non avrei mai
fatto l’abitudine a quello sguardo. Gli occhi marroni di Simone avevano
un
qualcosa di estremamente profondo e scuro, quasi magnetico. Anche se la
sottoscritta aveva un debole per gli occhi chiari fin da quando avevo
memoria,
era la prima volta che qualcuno riuscisse a immobilizzarmi con uno
sguardo.
«Ma
che hai fatto? Sembri fuggita
da un campo di concentramento,»
sghignazzò, non perdendo occasione per umiliarmi.
Lo fulminai
con lo sguardo, poi mi imposi un po’ di calma per non dare di matto di
prima
mattina.
«Al
contrario di una certa
persona, io stamane mi sono svegliata all’alba per andare al lavoro. Ho
preso
la metro nonostante la pioggia, mi sono fatta due chilometri di strada
a piedi,
ho sistemato i documenti del tuo processo e sono tornata indietro di
corsa per
evitare un acquazzone. Tutto questo mentre tu dormivi o ti facevi la
doccia
nella tranquillità del tuo lussuoso appartamento,»
conclusi.
«Mi
stai rimproverando per essere
ricco e per avere un lavoro che non mi obbliga a prendere i mezzi
pubblici?» domandò lui
divertito.
Si poteva
essere più idioti?
«No,
ti sto dicendo che non tutti
affrontano la vita allo stesso modo. Ecco.» Alla
fine riuscii a tirare
fuori il plico con i documenti e lo aprii sul tavolinetto di vetro del
salotto.
Distrattamente
mi massaggiai il collo, indolenzito dopo la lunga mattinata appena
trascorsa.
«Vuoi
che chiami Nina?» mi domandò
Simone osservandomi.
«Nina?»
«La
mia massaggiatrice russa,» rispose con
noncuranza, tirando fuori dalla tasca della tuta il suo IPhone.
Per poco non
lo afferrai e glielo lanciai dalla finestra. Pensai che alla fine di
quella
estenuante avventura lavorativa, come minimo mi sarei presa un anno
sabbatico.
«Per
l’amor del cielo, la vuoi
smettere?»
ringhiai.
«Di
fare cosa?»
Senza trovare
le parole adatte, lo indicai esausta. «Di
essere te, almeno per
un secondo. Ascolta quello che ho da dirti su questo caso e poi puoi
tornare ad
essere lo snob che sei.»
«Io
non sono snob,» protestò
lui, sottovoce.
Sbuffai,
imponendomi di non continuare quella conversazione all’infinito o avrei
veramente rischiato di buttarlo di sotto.
«Puoi
andare a metterti qualcosa
addosso?»
gli chiesi, notando che era ancora con le “tette” al vento.
Simone
sogghignò soddisfatto. «Ti
senti minacciata dalla possenza del mio corpo?»
«Punto
primo, non esiste possenza.
Magari imperiosità, virilità, o qualsiasi altro sinonimo. Punto
secondo, ti sto
chiedendo di vestirti perché il mio sguardo sta tentando inutilmente di
trovare
un accenno di peluria in quel petto da quindicenne che ti ritrovi.
Sicuro di
non essere androgino?»
Venera 1,
Simone 0.
Si alzò con
uno scatto, assottigliando lo sguardo, poi sparì nell’altra stanza
ciabattando
rumorosamente. Sorrisi nel mio piccolo per la vittoria, poi continuai a
sbirciare i documenti per fare un quadro della situazione.
Quando Simone
tornò nel soggiorno, indossava un maglione a collo alto color ghiaccio
che
faceva risaltare ancora di più la sua carnagione perlacea. Alla luce
plumbea di
quella giornata uggiosa, la sua pelle sembrava quasi fatta di
porcellana.
Sentii
l’impulso di sfiorarla con una mano, ma mi trattenni per non sembrare
completamente idiota.
«Che
c’è? Non vado bene manco
così?»
osservò frustrato.
Feci
spallucce e lo ignorai, soffocando anche quel bisogno di contatto che
avevo
avvertito nei posti più reconditi del mio corpo.
«Allora,
sono stata incaricata di
metterti al corrente di tutti gli sviluppi del caso, non che di tenerti
alla
larga da eventuali tentazioni,»
cominciai,
con tono professionale. «Adesso
vorrei che tu mi raccontassi come sei potuto arrivare a questo punto.
Non
tralasciare nulla, perché anche il più piccolo particolare può esserci
utile.»
Simone
sospirò e si lasciò andare contro lo schienale del divano di pelle.
Posò un
braccio sugli occhi e schiuse quelle labbra così rosse in confronto al
bianco
niveo della sua pelle.
La smettiamo, o cosa?
Scossi
violentemente la testa e mi imposi di pensare lucidamente. Lavorolavorolavorolavoro, esisteva
unicamente quello.
«È
successo una sera in un
locale, il Bros, mi pare. Ho conosciuto Helena, così si chiama la
ragazza, e mi
è sembrata subito un tipetto tutto pepe che voleva unicamente
divertirsi, se
sai cosa intendo…»
sorrise malizioso, spostando il braccio e aprendo pigramente un occhio.
Lo fissai
seria e lui sbuffò.
«Mi
dimentico sempre che sto
parlando con Miss Scopanelculo,»
commentò acido.
«Scopanelculo
che tenta di salvare il tuo, di posteriore,» gli
feci presente, cercando di
non andare in escandescenze.
Simone mi
ignorò deliberatamente e riprese il racconto. «Ovviamente
abbiamo subito preso
fuoco, ricordo che appena mi sono presentato mi è saltata letteralmente
addosso.»
«Non
mi meraviglio,» commentai.
Lui sfoderò
un sorriso sghembo. «Finalmente
hai capito quanto posso essere fantastico?»
Con calma
quasi zen, gli posai una mano sulla gamba e cominciai a picchiettare,
come si
fa assecondando i pazzi. «Non
ti è sembrato minimamente sospetto che quella ragazza si fosse scoperta
improvvisamente così libertina non appena saputo il tuo nome? Sarà che
ormai
sono abituata a pensare male di tutto e di tutto, ma un po’ di sale in
zucca.»
Simone mi
fissò con gli occhi più grandi che avessi mai visto. «Dici
che era
tutto programmato?»
«Ci
hai fatto sesso o no con
questa tizia?»
insistetti, altrimenti non avrei mai finito questo interrogatorio.
Il calciatore
tornò al suo racconto, arrivando al momento fatidico e infarcendolo con
i più
minuziosi particolari. Lo avrei volentieri interrotto chiedendogli di
risparmiarmi la sua performance sotto le lenzuola, ma era talmente
infervorato
dal racconto che fu quasi impossibile prendere la parola.
«…e
poi, dopo un round durato
addirittura un’ora e mezza mi sono accasciato sul letto esausto e
pienamente
soddisfatto!»
trillò entusiasta.
«Wow,
addirittura un’ora hai
resistito?»
chiesi sarcastica.
Mi era
impossibile evitare di prenderlo in giro. Mi divertivo troppo.
Simone mi
fissò di sbieco. «Almeno
io lo faccio, sesso, tu da quant’è che sei in bianco Lil’Elf?
Il caro e vecchio Santa Claus non ti soddisfa come
dovrebbe?»
L’immagine di
Babbo Natale in versione maestro sadomaso mi fece correre un lungo
brivido
dietro la schiena, così decisi che era meglio tornare ad occuparmi del
caso. Il
racconto corrispondeva ai fatti esposti dalla ragazza, ma su un piccolo
particolare discordavano.
«Quindi
tu sei assolutamente
sicuro di aver messo le protezioni?» gli chiesi di nuovo, mettendolo
agli atti.
Simone annuì
convinto. «Sarò
anche poco sveglio, ma non stupido fino a questo punto.»
«Ho
dei seri dubbi in proposito,» commentai,
acida come sempre.
«Ci
provi così tanto gusto a
sentirti superiore? Non sei l’unica ad avere cervello e anche se ti
approfitti
di me, non mi lascerò calpestare da una alta un metro e due mele.»
Lo fissai
seria, affrontandolo. «Innanzitutto
io sono superiore, sia per
intelligenza che per maturità. Ho più anni di te, più esperienza, una
laurea e
non mi ritengo brava solo perché so correre dietro ad un pallone,»
cominciai,
facendo intravedere solo la punta dell’iceberg. «Inoltre,
credo proprio che
dovresti essere più rispettoso nei miei confronti, anche perché ti sto
salvando
le palle, se non sbaglio. Vuoi tornare a fare il bisonte decerebrato,
oppure
no?»
A quel punto
Simone si alzò con uno scatto dal divano, sovrastandomi col suo corpo. «Hai
solo tre
anni più di me, non quaranta. E poi tu sei già vecchia dentro. Ripeto:
ti
servirebbe una bella scopata.»
Detto questo se ne andò dal salone lasciandomi sola.
Magari se avessi usato un
po’ più di tatto e non gli avessi
dato del deficiente.
Ma lui è deficiente.
Sbuffai e mi
lasciai cadere sul divano, completamente esausta. Col senno di poi,
riflettei e
pensai che forse non era stato proprio il caso fare quella scenata.
Okay,
TermoSifone non brillava certo in intelligenza e spesso e volentieri
era
talmente fastidioso da mandarmi fuori dai gangheri, ma si trattava pur
sempre
del mio cliente e gli dovevo rispetto.
Lo squillo
del cellulare mi distolse dai miei pensieri.
Afferrai
l’apparecchio e notai il nome di Jamie brillare tra i colori
caleidoscopici
dello schermo LCD. Persi un battito.
Mi affrettai
a rispondere prima di perdere la chiamata come una sciocca.
«Pronto?»
«Come
va, Spaghetti-girl? Hai
riferito tutto a Mr. Sogno?»
«Ho
giusto finito di raccogliere
la sua versione dei fatti, sembra che corrisponda a quella della
ragazza, salvo
per il particolare dell’uso di protezioni. Lui dice di aver fatto sesso
protetto, allora come si spiega la gravidanza?»
Sentii un
silenzio pensieroso dall’altra parte e attesi.
«Beh,
non voglio essere drastico
ma credo proprio che il motivo ruoti attorno alla fama di Mr. Sogno. Ne
ho
studiati parecchi di questi casi, come quello recente di Cristiano
Ronaldo,
eppure dobbiamo andarci coi piedi di piombo. Se sosteniamo che la
ragazza
mente, dobbiamo essere sicuri al cento per cento che il test di
paternità
risulti negativo.»
«Altrimenti
ne andrebbe la
validità dello studio,»
soffiai.
«Esatto,»
rispose lui,
serio. «Bene,
continua ad indagare e tieni Mr. Sogno lontano dai guai e dagli sguardi
indiscreti dei tabloid. Io vedrò di raccogliere altre informazioni,
magari
interrogando qualche persona che era presente nel pub quella sera. Ci
aggiorniamo domani mattina. Bye!»
«Bye…»
snocciolai,
incapace di dire altro.
Posai il
telefono sul tavolinetto di vetro, vicino ai documenti sparsi e
disordinati. La
situazione era più spinosa di quanto avessi mai pensato, soprattutto
dopo aver
sentito il tono di voce di James. Sarebbe stato molto difficile
dimostrare
l’innocenza di Simone, visti i suoi trascorsi poi. L’ultimo test
sarebbe stato
quello di paternità, ma prima di arrivare a quel punto, avremmo dovuto
sostenere con tutti i mezzi possibili la sua innocenza.
Loro erano
stati effettivamente a letto insieme quella notte, c’erano milioni di
persone
che li avevano visti andare via, eppure chiunque avrebbe potuto
affibbiare una
falsa gravidanza ad una persona famosa. Sarebbe bastato andare a letto
con
qualcun altro il giorno dopo, in fondo i test di gravidanza non erano
così
affidabili da determinare persino il giorno e l’ora del concepimento.
C’era un
ampio margine d’errore.
Sbuffai e mi
tenni la testa tra le mani.
Il flusso dei
miei ingarbugliati pensieri fu interrotto dall’ingresso rumoroso di
Simone, ora
completamente vestito con la tuta dell’Arsenal, il cappotto e il
borsone. Mi
fissava aspettando una mia reazione che non tardò ad arrivare.
«Dove
vai?» gli chiesi,
stupita.
Lui sorrise
sornione e afferrò un mazzo di chiavi dalla ciotola vicino alla porta. «Agli
allenamenti, mi pare ovvio,»
commentò sarcastico.
Scattai in
piedi allarmata, visto che ero stata presa completamente alla
sprovvista.
«E
io cosa dovrei fare?» gli chiesi,
raccogliendo i documenti nel minor tempo possibile.
Simone fece
spallucce e mi ignorò. «La
cosa non mi riguarda,»
disse semplicemente, aprendo il portone. «Se
vuoi venire, vieni.
Altrimenti ti chiudo dentro come un cane.»
Era
ufficiale: lo odiavo con ogni fibra del mio corpo.
Stupido,
arrogante bamboccio. Me l’avrebbe pagata!
«Aspettami!» gli
dissi,
tentando di infilarmi le scarpe che ormai erano diventate troppo
strette per i
miei poveri piedi gonfi.
«Il
tempo è denaro!» disse,
aprendo la porta e sparendo nell’ingresso.
Fui costretta
a rincorrerlo con le vesciche che premevano pesantemente contro i bordi
delle
decolleté non perdendo occasione di maledirlo durante tutto il tragitto.
***
Buon sabato mattina a tutte!!
Il capitolo è un po' in ritardo per colpa di Torino e di Chris
(l'ammore mio!) che mi ha trattenuta dopo il concerto e quindi non ho
potuto pubblicare U.U
Insomma, Sofia ha fatto la sua entrata in scena trionfale, in tutta la
sua fulgida bellezza (la adoro!)
Simone è scontroso come al solito e l'idea che Ven debba stargli alle
calcagna non gli va a genio per niente, ma nemmeno a Ven poverina. Sono
entrambi abbastanza insoddisfatti della soluzione adottata da Jamie.
Insomma, chissà cosa combineranno agli allenamenti dell'Arsenal? Ne
vedremo sicuramente delle belle.
Ringrazio tantissimamente le mie Crudeliozze che mi spronano a
continuare questa storiella così e cosà, a tutte le fanghérl impazzite
sul gruppo Crudelie
si nasce e le persone che hanno letto/recensito/ricordato/preferito
I'm in law with you.
Vi adoro!
Storie consigliate:
- Unexpected
as you (_caline);
- In her
shoes (HappyCloud);
- Il
meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's
Blue (BlueSmoke);
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 ***
CAPITOLO 4
«Allacciati
la
cintura,»
mi disse solamente Simone, gettando la borsa sui sedili posteriori
della sua
Cinquecento senza alcuna cura delle cose contenute dentro.
Lo
fissai allibita e mi affrettai a fare come voleva, anche perché non
avevo
alcuna intenzione di finire spiaccicata contro il parabrezza. Non
appena feci
scattare la chiusura, TermoSifone chiuse lo sportello e girò la chiave
nel
cruscotto, facendo rombare il motore.
Non
sapevo né dove stessimo andando né se sarei arrivata viva a
destinazione, ma il
mio compito ormai era quello di monitorare il ragazzino
ventiquattr’ore su ventiquattro. Avrei dovuto sopportare
anche un’eventuale settimana di stitichezza relativa a quel viaggio in
quella
specie di scatoletta che lui chiamava macchina.
«Ma
dove
andiamo di preciso?»
provai a chiedergli.
Simone
mi lanciò un’occhiata con la coda dell’occhio senza darmi risposta.
Fece però
scattare la freccia e si immise lungo la strada che ci avrebbe condotti
ai
famosi allenamenti di questo Artenal, Arfenal, Afronal…
Nel
frattempo la canzone dei Coldplay cominciò a suonare dall’interno
dell’abitacolo. Rimasi piacevolmente sorpresa che un decerebrato come
TermoSifone avesse dei gusti musicali quasi accettabili.
Lentamente
la Cinquecento avanzava nelle strade ordinate di Londra, zigzagando nel
traffico
che era soltanto un pallido ricordo rispetto a quello rumoroso ed
assordante di
Roma. Non appena cominciammo ad allontanarci dal centro cittadino,
Simone
accelerò di rimando, facendomi sprofondare nel sedile del passeggero.
Mi
artigliai letteralmente alla tappezzeria, per paura che quel poppante
finisse
col schiantarsi contro qualche muretto.
«Una
domanda
puramente a titolo informativo… sei neo-patentato?»
domandai,
visto che non sapevo nemmeno da quanto fosse maggiorenne.
Lui
mi fulminò con lo sguardo e storse la bocca. «Non la
finirai tanto presto di
atteggiarti a “mammina” della situazione, eh?»
Alzai
un sopracciglio, infastidita. «Mi
stai dando della vecchia?»
Allora
Simone stirò un sorriso sbieco. «Mi stai dando del ragazzino?»
Quanto ti odio.
Mi
limitai ad incrociare le braccia al petto, per quanto quella guida
spericolata
da stuntman potesse concedermi. Ero stanca e non era nemmeno giunta
l’ora di
pranzo. Quella mattina ero stata schiacciata nella Tube, avevo discusso
con
Yuki per l’ennesima volta, James mi aveva ribadito quanto contasse sul
mio
aiuto per questo caso e, come se non bastasse, il moccioso aveva avuto
la bella
idea di andare agli allenamenti di quella sua stupida squadra.
Non
poteva andare peggio di così.
Beh, potrebbe piovere.
E
infatti dopo nemmeno cinque secondi delle goccioline si infransero sul
vetro
della Cinquecento di Simone, costringendolo a rallentare e ad azionare
i
tergicristalli.
Perfetto.
La
giornata non poteva andare avanti meglio di così. Inoltre, non sapevo
ancora quanto
lontano fosse 'sto posto sperduto nel bel mezzo del nulla.
«Posso,
di
grazia, sapere dove stiamo andando?» gli chiesi infastidita,
reggendomi al corrimano dopo che Simone prese una curva a tutta
velocità.
Il
calciatore rimase in silenzio per qualche secondo, mentre da Paradise
si
passava a Hurts like heavens.
«Mi
vuoi
ignorare per tutto il viaggio?»
puntualizzai. Odiavo le persone che mi snobbavano, soprattutto quando
volevo
ottenere un’informazione importante come quella.
Simone
allora sbuffò. «Ho
tentato, ma è quasi impossibile farti stare zitta,»
osservò
piccato. «Comunque
stiamo andando a Leafy Hertfordshire, a quarantacinque minuti
dall’Emirates
Stadium. Contenta?»
Premesso
che non sapevo affatto dove si trovasse questo Emire-qualcosa, ero
comunque
soddisfatta di aver ottenuto quello che volevo. Alla faccia sua.
«Sì,
ora posso
avvertire i soccorsi nel caso ci schiantassimo. Visto che guidi come un
ubriaco.»
Lui
sgranò gli occhi e mi fissò allibito. «Ao’,
tié!» mi fece,
toccandosi in modo abbastanza vistoso il cavallo dei pantaloni. «Oltre
che una
rompicazzi, sei pure una iettatrice!»
Era
la prima volta che gli sentivo abbandonare quell’accento tipicamente
inglese
che aveva appreso vivendo tutti questi anni qui a Londra. La parlata in
dialetto romano non si addiceva al suo viso delicato, nonostante però
non potei
fermare un brivido che corse lungo tutta la spina dorsale.
In
un attimo mi ripresi da quelle mie momentanee divagazioni.
«Ma
vaffanculo!» gli
risposi per le rime.
«Vaffanculo
te! Non ho chiesto io di averti sempre intorno!» mi
urlò contro, sbandando
lievemente dalla carreggiata.
Rimanemmo
in silenzio fin quando la macchina non riprese il suo assetto.
Per
un attimo pensai davvero di aver influito lievemente sulla mano del
destino, ma
scacciai subito quel pensiero. Non avrei mai dato ragione a quel
cretino.
Feci
passare qualche secondo, in cui attesi che il mio cuore tornasse al
battito
regolare.
«Nemmeno
io ho
chiesto questo. Sappilo,»
mormorai. «Non
ho certo studiato tutti questi anni per ridurmi a fare da balia a te.»
«Non
ho
bisogno della babysitter.»
«No,
infatti.
Avresti bisogno della vasectomia,» sibilai acida.
Simone
non fece in tempo a rispondermi che si accorse che eravamo finalmente
giunti a
destinazione, così lasciò la disputa e svoltò sulla sinistra.
Entrammo
in un viale alberato, all’apparenza molto lussuoso e ben tenuto. A mano
a mano
che si avanzava sulla ghiaia che scrocchiava sotto le ruote della
Cinquecento,
cominciai ad intravedere due grandi campi da calcio, una sala pesi e
una
piscina al chiuso.
Eravamo
giunti a Leafy Hertfordshire.
La
Cinquecento si avvicinò ad un immenso parcheggio, sicuramente più
grande di
trenta miei monolocali messi in fila l’uno dietro l’altro, pieno di
macchine
lussuose. Di sicuro la più “economica” era la scatoletta di Simone...
Spense
il motore ed uscì dalla macchina, nonostante fuori avesse cominciato a
piovere
a dirotto. Afferrai la valigetta coi documenti e l’aprii, afferrando
l’ombrello
killer. Soppesai l’idea di aprirlo o meno, considerato che la struttura
fosse a
pochi metri dalla macchina.
Alla
fine Simone picchiettò sul vetro. «Te voi move?»
sbraitò,
mezzo fradicio.
Sbuffai
e soffocai la voglia di sparargli dritto in faccia l’ombrello killer,
col
rischio di venir arrestata. Aprii lo sportello e sentii subito il
freddo delle
gocce di pioggia che s’insinuavano all’interno dell’impermeabile,
facendomi
rabbrividire.
Tenni
la valigetta stretta al petto, tentando di correre verso la struttura
con i
tacchi delle decolleté nella ghiaia.
Appunto per il futuro:
bruciare
quelle cazzo di scarpe!
Fortunatamente
riuscii a mettere un piede sul mattonato proprio quando sembrava che il
temporale stesse peggiorando, ma non calcolai affatto l’attrito della
suola
liscia. Cominciai ad oscillare all’indietro, accorgendomi troppo tardi
di star
cadendo a terra come la proverbiale pera cotta.
Ci
mancava solo che mi spaccassi la schiena, nel vero senso della parola.
Pensai
già all’impatto che il mio povero sedere avrebbe avuto con la ghiaia e
sperai
con tutto il cuore di non rovinare il completo, anche perché era
l’ultimo
pulito che avevo, quando avvertii delle braccia che mi afferrarono al
volo,
impedendomi di cadere rovinosamente a terra.
Il
mio cuore prese a battere velocemente.
«Oltre
ad
essere asfissiante, sei pure impedita!» mi
apostrofò Simone ed io mi
voltai appena, fissando il suo viso bagnato di pioggia.
Aveva
i capelli appiccicati alla fronte, così come lo erano i miei, mentre
rivoli
d’acqua gli solcavano quel volto marmoreo. Mi riscossi quasi subito dai
quei pensieri
e lo scostai, riacquistando l’equilibrio.
«Prego,
comunque,»
disse acido, proseguendo verso la struttura.
Ignorai
la punta di fastidio che sentivo alla bocca dello stomaco per non
avergli
saputo rispondere per le rime, poi decisi finalmente di togliermi da
quella
doccia naturale.
Odiavo il tempo inglese.
Una
volta entrati dalla porta scorrevole, fui invasa da un getto piacevole
di aria
calda. Ci voleva proprio dopo tutta quell’umidità che avevo preso. La
cosa che
notai immediatamente dopo, furono innumerevoli corpi maschili mezzi
nudi e
sudaticci che pompavano i muscoli agli attrezzi della palestra.
Sono forse morta?
Deglutii
a fatica un blocco di bile che mi si era incastrato in fondo alla gola,
quando
un signore ci corse in contro con degli asciugamani.
«Là
fuori c’è
un tempo da cani!»
sorrise a Simone, permettendogli di asciugarsi.
Dopodiché
passò alla sottoscritta. «Piacere,
Henry,»
mi disse cordiale, porgendomi la mano. «Vieni
che ci asciughiamo.»
Mi
fece fare un giro della sala pesi, dopodiché arrivammo fino ad una
specie di
tavolo da cui tirò fuori un morbido accappatoio e altri asciugamani. «Mettitelo
addosso, così non sentirai freddo,» mi suggerì cordiale.
Gli
sorrisi ringraziandolo, poi lasciai vagare lo sguardo su quel mare di
addominali guizzanti e riuscii a mala pena a mettere due pensieri
sensati l’uno
di fila all’altro.
Che fine ha fatto la Ven
calma e
razionale?
È
stata rapita da un Tarzan sudaticcio.
Non
l’avrei ammesso nemmeno sotto tortura, ma forse quella giornata stava
prendendo
una piega davvero notevole. Per un momento persi di vista il mio
obiettivo
principale, poi lo trovai a chiacchierare animatamente con alcuni dei
suoi
compagni, mentre abbandonava la borsa sul pavimento e si spogliava.
Dopotutto
non sarebbe stata una giornata noiosa.
Avvertii
solo all’ultimo il telefono che vibrava nella tasca del pantalone. Lo
presi con
difficoltà, visto che addosso avevo ancora l’accappatoio, e lessi l’SMS.
Era
di James.
Ehi,
spaghetti-girl!
come va col
nostro assistito? non ti stancare troppo,
mi raccomando. mi servi pimpante per il processo.
Pensai
per un momento di scrivergli che andava tutto per il verso sbagliato,
che avrei
volentieri fatto carte false per rimanere a fare le fotocopie in
ufficio, ma
alla fine rinunciai. Non potevo cominciare a lamentarmi dopo nemmeno un
giorno.
Sarebbe
stato poco professionale.
tutto a
meraviglia. non preoccuparti.
stasera mi
farò una sana dormita. :)
Inviai
il messaggio di testo proprio quando un’ombra mi comparve alle spalle
facendomi
sobbalzare.
«Ciao
piccolina, e tu chi saresti?»
mi domandò un tizio che si era avvicinato incuriosito.
Lo
fissai socchiudendo le palpebre. «Venera, piacere.»
Rimase
stupito dalla particolarità del mio nome, come lo era ormai tutto il
genere
umano, ma non fece domande per fortuna. Il tipo all’apparenza sembrava
apposto,
aveva anche un bel paio di occhi talmente blu e talmente profondi che
per un
attimo mi ricordarono quelli di James.
«Piacere,
Sebastian,»
si presentò, baldanzoso, porgendomi la mano.
La
fissai come se fosse stato uno degli otto arti di un polipo, ma alla
fine mi
decisi a stringerla a mia volta, per non sembrare scortese. Sapevo che
gli
inglesi se la prendevano per un nonnulla.
«Non
ho potuto
fare a meno di notare che sei venuta insieme a Simone,»
osservò, ostentando
un sorriso malandrino.
Sull’evidenza
non potei mentire.
«Sì,
mi ha
accompagnata lui,»
smozzicai, e sperai non insistesse.
Ero
vincolata dal segreto professionale e non potevo certo sbandierare ai
quattro
venti di essere il suo avvocato e che il grande Mr. Sogno avesse un
caso che
gli pendeva sulla testa come una spada di Damocle.
Il
sorriso sul bel volto di Sebastian si accentuò. «Sei la
sua ragazza?»
A
quella domanda trasalii e mi tesi come una corda di violino. «Certo
che no!» sbottai
incredula, alzando un tantinello di troppo il tono della mia voce.
Ovviamente
tutta la sala pesi si voltò verso noi due, compreso Simone, e per la
prima
volta in tutta la mia vita ebbi almeno venti maschioni sudati e
accaldati con
gli occhi puntati su di me.
Il
tipo che mi aveva interrogata sminuì quella mia risposta con una
risatina,
dopodiché notai lo sguardo che TermoSifone aveva rivolto a questo tale
Sebastian.
Per
fortuna l’ingresso di un signore anziano distolse l’intera squadra
dalla
sottoscritta.
«Allora?
Non
sento cigolare nessun macchinario, stiamo battendo la fiacca?» tuonò
imperioso e autoritario.
Era
alto, anzi altissimo e la sua folta capigliatura canuta gli conferiva
un’aria
affascinante, quasi come quella di Mr. Abbott. Sprofondai ancora di più
nel mio
accappatoio bianco, sentendo che pian piano riuscivo ad allontanare il
senso
d’umidità che la pioggia mi aveva lasciato addosso.
I
macchinari della palestra ricominciarono la loro attività, così come i
venti
giocatori che ora si stavano allenando come potevano, viste le
condizioni
meteorologiche.
D’improvviso
mi sentii osservata, e non da quel tipo fastidioso di nome Sebastian.
Un
paio di vividi occhi azzurri mi penetrarono da parte a parte quando si
accorsero della mia presenza. Il signore anziano mi si avvicinò e
mentre
camminava notai quanto fosse magro, oltre che alto.
Quasi
come un fuso.
Pensai
immediatamente di fare la disinvolta anche perché soltanto in quel
momento
notai di essere l’unico essere di sesso femminile presente in quella
stanza.
Ecco spiegati gli sguardi
indagatori di poco prima.
Purtroppo
però, gli occhi penetranti dell’uomo mi fissavano dritti e non potevo
di certo
ignorarli. Si avvicinò studiandomi da capo a piedi, ed io rimasi
immobile sotto
quello sguardo intenso. Forse era la prima volta in assoluto che
qualcuno
riusciva a farmi un tale effetto.
«E
lei
sarebbe?»
mi chiese, andando subito al dunque.
Incrociò
le braccia al petto con fare meditativo, nonostante era chiaro quali
intenzioni
avesse. Mi stava studiando, osservando, chissà per quale assurdo motivo.
«Mi
chiamo
Venera Donati,»
dissi, porgendogli la mano. «Sono
venuta con…»
e lì fui interrotta dallo sguardo tagliente che mi rivolse.
«Mi
lasci
indovinare,»
fece il misterioso. «Simon!» urlò, con
tono che non ammetteva repliche né dinieghi.
Dal
fondo della sala si udì un mesto borbottio, seguito dal clangore di un
bilanciere che venne abbandonato sulla panca per i pesi. Vidi Simone
avvicinarsi con un’espressione sul volto tutt’altro che allegra.
«Sì,
Mister?» chiese,
massaggiandosi il collo indolenzito.
A
quel punto compresi che l’uomo alto e allampanato che mi stava di
fronte, altri
non era che il famoso allenatore dell’Arfonal.
È Arsenal.
È
uguale, una vale l’altra.
E poi cosa dici “famoso” se
non
sai pronunciare nemmeno il nome della squadra.
Taci.
«Quante
volte
ho ripetuto, quasi fino alla nausea, che è vietato portare le proprie
fidanzate/sorelle/madri/parenti agli allenamenti? Siamo qui per
chiacchierare?
Vuoi preparare del the?»
Simone
sgranò gli occhi. «Quella
non è la mia ragazza. E tanto meno mia sorella,» disse
schifato.
Sorvolai
sull’utilizzo sfrontato di “quella” come appellativo verso la
sottoscritta, e
cominciai a sentire il bisogno di spiaccicare la faccia di TermoSifone
contro
la scrivania a pochi passi da me.
«Ah,
no?» domandò
allora il Mister.
«Certo
che no!» obiettò
ovviamente, quasi come se fosse chiaro come il sole che una come me non
sarebbe
potuta mai lontanamente essere imparentata con un Sogno.
«E
allora cosa
ci fa qui?»
chiese l’allenatore, sempre più spazientito. «Sai
bene quali sono le politiche
della società. Avete bisogno di concentrazione, non di una ragazzina
sculettante che se ne va in giro per tutto il comprensorio!»
Ragazzina sculettante?
Simone
si sfiorò nervosamente i capelli dietro la nuca, più corti rispetto a
quelli
davanti che gli solleticavano il viso. «Lei è…»
smozzicò.
Sgranai
gli occhi con il timore che potesse davvero dire la verità, mandando a
quel
paese tutto il lavoro di segretezza che stavamo costruendo attorno a
quella
storia. Lo facevo stupido, ma non fino a questo punto.
Mi
lanciai letteralmente su di lui, pronta a bloccarlo se avesse aggiunto
anche
solo una sillaba, quando fui afferrata al volo da quel tipo strano di
nome
Sebastian.
«Lei
è la
nostra mascotte, Mister,»
disse coinciso, ridacchiando.
Simone
ci pensò un po’ su, sorpreso, poi annuì con vigore.
«Confermo.»
Il
tipo allampanato che chiamavano Mister mi fissò con dubbio, dalla testa
ai
piedi, notando quanto quell’accappatoio bianco che avevo addosso mi
rendesse
profondamente ridicola.
«Quindi
tu
saresti la ragazza che sostituisce Thomas?»
domandò alla sottoscritta,
anche se io non avevo idea di chi fosse questo tizio.
Sia
Sebastian che Simone cominciarono a farmi degli strani cenni, muovendo
la testa
dall’alto verso il basso.
«S-Sì?»
tentennai la
risposta, poi il Mister si rilassò.
«Quindi
da
oggi indosserai il costume del drago per tifare i Gunners, giusto?»
sorrise,
senza alcuna traccia di sospetto questa volta.
Deglutii
a fatica, realizzando immediatamente di essermi messa nei guai da sola.
«Domenica
prossima sarà in campo con noi, Mister!» si
aggiunse Sebastian, portando
avanti quella pantomima assurda.
Ci
mancava solo che mi trovassi un dopo-lavoro come mascotte di una
squadra di cui
non sapevo nemmeno pronunciare il nome.
Il
signore alto e magro mi fissò un’ultima volta, apparentemente
soddisfatto, poi
si rivolse nuovamente alla sua squadra.
«Continuate
ad
allenarvi. Anche se oggi questo tempo vi ha graziati, domani non sarà
tanto
indulgente. Domenica ci sarà una partita importante e dobbiamo essere
pronti,» comunicò
serio, mentre ogni giocatore tornava a pompare i propri muscoli in
palestra.
Tirai
un sospiro di sollievo quando il Mister si allontanò dalla stanza,
passando per
la grande porta a vetri che la separava da un piccolo ingresso. Solo
quando la
situazione sembrava del tutto risolta, mi rivolsi a quel Sebastian con
un
diavolo per capello.
Fui
però anticipata da Simone.
«Ma
che
diavolo t’è venuto in mente!»
gli urlò contro, spazientito.
Sebastian
fece spallucce, senza smettere di sorridermi. Mi faceva venire i
brividi quella
sua espressione maliziosa e, al tempo stesso, furba.
«L’importante
è che ho evitato alla tua ragazza di passare il resto della giornata in
macchina,»
rispose tranquillamente, ignorando l’aria di sfida che Simone stava
ostentando
nei suoi confronti.
«Non
sono la
sua ragazza,»
insistetti, constatando che quello era ormai diventato un pensiero
piuttosto
comune lì dentro.
Sebastian,
allora, alzò un sopracciglio sorpreso, senza smettere quel sorriso
sghembo che
mi faceva correre un lungo brivido dietro la schiena. «Di
bene in
meglio,»
commentò, quasi sarcastico.
Sentii
Simone sbuffare, poi alzò le mani in segno di resa e si allontanò.
Prima, però,
mi rivolse uno sguardo di taglio. «Rimani lì e cerca di non fare
altri casini,»
mi disse coinciso.
Strinsi
le mani a pugno con l’indescrivibile voglia di mettermi ad urlare.
Io?
Casini? Ma se era unicamente colpa sua e di quel suo uccellaccio che
non voleva
saperne di restare nei pantaloni!
Ingoiai
il magone di rabbia che lentamente si arrampicava lungo il mio esofago
e decisi
di sedermi in un angoletto, incrociando le braccia al petto e
aspettando che
quello sbarbatello finisse di pompare i bicipiti.
Calma Ven, in fondo non è
successo nulla di grave.
Come
no. Ero bagnata fin dentro le ossa, mi sentivo profondamente frustrata
e
infuriata perché di tutte le migliaia di persone che abitavano a
Londra, doveva
proprio capitarmi quella più odiosa. Inoltre, non mi ero nemmeno
concentrata
sul caso.
Quella
storia faceva sempre più schifo e avevo il timore che sarebbe
peggiorata.
Una
volta conclusi gli allenamenti, Simone e il resto della squadra
sparirono in
un’altra stanza, che presumibilmente era lo spogliatoio, con docce e
tutto il
resto. Riconsegnai l’accappatoio a Henry, nonostante avessi ancora
addosso i
brividi di freddo a causa della pioggia che mi aveva inumidito i
vestiti.
«Sicura
che
non preferisci cambiarti d’abito? Potresti ammalarti,» mi
suggerì
il custode.
Sorrisi
per la sua premura. «Grazie
del pensiero, ma appena torno a casa avevo in mente di passare in
ufficio.
Presentarmi con la tuta non sarebbe una grande idea,»
spiegai.
Henry
mi sorrise ed io ricambiai. Poi la gente sosteneva che gli inglesi non
fossero
cordiali, che avessero l’aria snob e la puzza sotto il naso.
Mai
giudicare un libro dalla copertina.
Come tu hai sempre fatto con
Simone?
Decisi
che prima o poi avrei fatto un trapianto di Cervello, giusto per non
sentirmi
continuamente dire che stavo sbagliando. Sbadigliai annoiata da quella
giornata, pregustando il momento di potermi finalmente mettere sotto le
calde
coperte del mio letto, nel monolocale vicino Regent Park.
L’idea
di passare un’ultima volta in ufficio prima di tornare a casa non era
nelle mie
migliori aspettative, ma Jamie era stato tassativo. Dovevo fargli
rapporto a
fine giornata ed io ero una donna di parola.
Tornai
a sedermi avvertendo un certo dolore alle gambe, fin dentro le ossa, e
pensai
si trattasse della stanchezza accumulata in quei due giorni di lavoro.
Era
incredibile, come avrei fatto a sostenere quel ritmo per tutta la
durata del
caso?
Ci
farò l’abitudine.
Dopo
mezz’ora di estenuante attesa, in cui rischiai di addormentarmi addosso
alla
parete puzzolente della palestra, mi sentii scuotere la spalla.
«Che…?»
bofonchiai.
«Vuoi
mettere
radici o ce ne torniamo a casa?»
mi domandò Simone, divertito.
Assottigliai
lo sguardo e non gli risposi. Mi limitai ad alzarmi e raccattare le mie
cose,
sperando di arrivare il più presto possibile a destinazione. Non vedevo
l’ora
che quella giornata finisse, di poter finalmente tornare a casa e
mettere la
parola “fine” a quelle assurde ventiquattr’ore.
Seguii
TermoSifone verso l’uscita della palestra, ma proprio quando stavo per
mettere
una mano sulla porta a vetri dell’ingresso, mi sentii chiamare.
«Ehi,
piccola
mascotte!»
mi urlò una voce alle spalle.
Mi
voltai quel tanto per scorgere gli occhi azzurri e vispi di Sebastian
che mi
fissavano altezzosi.
«Domani
alla stessa
ora?»
mi domandò sarcastico.
Sbuffai
sonoramente, roteando gli occhi. Ero troppo vecchia e troppo stanca per
pensare
a quelle cose, per sottostare a tutti quei giochetti fatti da ventenni
col
cervello di un dodicenne.
«Come
no!» gli risposi,
decidendo di uscire.
Simone
era già partito verso la Cinquecento blu metallizzata che spiccava fra
le
innumerevoli automobili ed io mi appropinquai per seguirlo. Aprii lo
sportello
e mi gettai di peso sul sedile del passeggero, completamente esausta.
Non
appena Simone si sedette al mio fianco, avvertii una nuvola di profumo
invadere
la macchina. Era zuccherino, dolce, e pensai immediatamente si
trattasse di un
qualche bagnoschiuma.
Simone
mi lanciò uno sguardo interrogativo ed io feci finta di niente. Ero
troppo stanca
persino per litigare.
Girò
la chiave nel cruscotto e fece marcia indietro. Imboccammo la strada al
contrario e ci dirigemmo verso la capitale, mentre la macchina era
immersa nel
silenzio.
Posai
la fronte sul finestrino, pensierosa, mentre mi massaggiavo le gambe
che
incominciavano ad indolenzirsi. Strinsi la valigetta tra le mie mani e
pensai
che una volta tornata a casa avrei dovuto almeno trascrivere la
deposizione di
Simone, per quello che potevo ricordare.
Sicuramente dovresti
omettere
tutti i suoi patetici tentativi di sembrare il maschio alfa della
situazione.
Ovviamente.
«Domani
rimarrai a casa,»
disse di punto in bianco TermoSifone, perentorio.
«Ch-Che?»
domandai,
ancora cullata dal torpore dei miei pensieri.
Lui
mi rivolse uno sguardo serio ed io rimasi impressionata da come
potessero
essere profonde quelle iridi scure. Un colore così anonimo, eppure
talmente
significativo da togliermi il fiato.
«Quella
storia
della mascotte è una balla, e mister Arsene non è un tipo che si
inganna
facilmente. Come hai visto, agli allenamenti non ho nessuna
distrazione. Perciò
tu domani rimani a casa,»
ripeté, tornando a fissare la strada.
Nonostante
il torpore che continuava a prendere pieno possesso della mia mente, il
mio
cervello era ancora in grado di elaborare le informazioni basilari:
Marmocchio.
Sta. Impartendo. Ordini.
A
quel punto mi voltai quasi del tutto verso di lui, fissandolo seria. «Forse
non hai
capito bene il punto principale: non hai scelta!»
sbottai. «Pensi davvero
che a me faccia piacere seguirti in lungo e in largo come un cagnolino?
Pensi
che non abbia altro a cui pensare? Credi davvero che mi diverta a
fissarti
mentre rincorri un pallone come un deficiente e sottostare agli scherni
dei
tuoi stupidi compagni di squadra?»
Simone
allora s’incupì. «Sebastian
non ti stava prendendo in giro,»
affermò solamente, cambiando discorso.
Tornai
a sprofondare nel sedile della cinquecento. «Continua
pure a fare di testa
tua, non ti libererai di me tanto facilmente,» lo
minacciai.
Il
resto del viaggio passò in silenzio. Ci scambiammo solamente degli
sguardi di
traverso, carichi di tensione, mentre la macchina sfrecciava tra le vie
del
centro, in direzione del quartiere di Soho.
Simone
trovò subito parcheggio in uno dei grandi garage vicino alla sua
palazzina,
così smontammo dalla Cinquecento per imboccare l’ascensore della
palazzina da
un’altra entrata laterale.
Mi
trascinai letteralmente sulle decolleté, che una volta tornata sana e
salva a
casa, avrei bruciato senza nessuna remora. Quella giornata sembrava non
voler
arrivare alla conclusione.
Sbuffai
e salii anche gli ultimi gradini, poi, sempre in silenzio, prendemmo
l’ascensore fino a raggiungere l’attico della palazzina. Mi appoggiai
alla
parete di legno della cabina, sentendomi sempre più spossata e debole.
Dovresti fare sport, mi
sembri
una vecchietta con gli acciacchi.
Simone
mi lanciò un’occhiata pigra, mentre si sistemava meglio il borsone
sulla
spalla. «Non
hai una bella cera,»
constatò semplicemente.
Subito
m’indispettii. «Nemmeno
tu sei Mr. Universo,»
ringhiai.
Ero
davvero troppo stufa di tutta quella storia, e mi scocciava
maggiormente
spendere la metà delle mie energie per litigare con quel ragazzino
viziato.
Simone
come al solito se la prese, così si voltò e mi ignorò del tutto.
Meglio così.
Attesi
che le porte dell’ascensore si aprissero sul pianerottolo di fronte
alla porta
dell’attico, poi uscii per poi attendere che mi venisse aperto. Simone
trotterellò in avanti e infilò una mano nelle tasche della tuta alla
vana
ricerca di un mazzo di chiavi.
Prima
di poter inserirle nella toppa, si udì un rumore al di là della porta
blindata
e rimanemmo entrambi di sasso.
Sulla
soglia ci venne ad aprire un uomo molto alto, dalla carnagione scura e
dal
taglio degli occhi molto simile a quello di Simone. Rimasi perplessa e
confusa.
Quella
casa era un via vai di gente?
«Ti
ho
chiamato cinquanta volte,»
disse esasperato, rivolgendosi a Simone e ignorandomi del tutto.
Sbuffò
sonoramente e ignorò l’altro, entrando prepotentemente
nell’appartamento.
Mi
sentii davvero di troppo in quel momento, così attesi fuori la porta
come un
cucciolo smarrito. Cosa avrei dovuto fare?
In
soccorso mi arrivò lo sguardo del tipo sulla soglia. «E tu
chi
saresti?»
mi domandò curioso.
Era
già la seconda volta in quella giornata che mi veniva rivolta la stessa
domanda. Quanto odiavo quella parte del mio lavoro.
Tesi
la mano e sorrisi. «Venera
Donati, piacere,»
dissi, sicura di me.
L'uomo
mi lanciò un’occhiata piuttosto interrogativa, poi mi strinse la mano
con
diffidenza.
«Gabe,
tanto
piacere.»
In
seguito mi lasciò entrare, per poi rivolgersi a Simone che si stava
togliendo
il giacchetto lanciandolo scompostamente sul divano.
«Hai
parlato
coi tuoi avvocati? Non ti ricordi cosa ti hanno detto in proposito
delle…» e fece una
pausa. «…tue
ampie compagnie?»
Simone
gli scoccò un’occhiata di traverso, poi sorrise sornione. «Ho
capito fin
troppo bene. Mi hanno messo fido-bau alle calcagna,»
sghignazzò
indicandomi.
Gabe
mi fissò allibito. «Sei
il suo avvocato?»
chiese dubbioso.
Io
gonfiai il petto d’orgoglio. «Sono
uno dei suoi avvocati, lavoro per lo studio di Mr. Abbott e affianco
James
Percival Abbott nel seguire il caso di Mr. Sogno.»
Fu
a quel punto che quel tipo mi sorrise. «Ma
quanti anni hai?» mi chiese.
Assottigliai
lo sguardo offesa, come se la mia giovane età mi privasse delle stesse
qualità
che avrebbe avuto un avvocato più anziano.
«È
più vecchia
di quanto sembri, Bro’,»
sghignazzò Simone.
«Aspettate
un
secondo,»
dissi, completamente confusa, passando lo sguardo tra Gabe e Simone.
Fui
però preceduta. «Io
sono il fratello di Simone, quello che vi ha ingaggiati. Mi chiamo
Gabriele.» Poi fece la
solita pausa studiata. «Gabriele
Sogno.»
E
lì il mio mondo crollò in un’istante.
Premesso
che già ero circondata da tutti i membri di quella stramba famiglia, ci
mancava
anche l’ultimo da conoscere.
«Siamo
numerosi, lo so,»
aggiunse ridacchiando. «Devo
ricordarmi di telefonare ad August e complimentarmi con lui per la
scelta dello
staff. Fossero tutti così gli avvocati,»
insinuò malizioso.
Era
un complimento o un’offesa?
Direi un vano tentativo di
flirt.
«Gabe,
che
cosa vuoi?»
tagliò corto Simone, infastidito.
L’altro
si mise le mani nelle tasche del completo firmato lo guardò. «Volevo
assicurarmi che fossi in buone mani,» disse
semplicemente. «E che Sabato
fossi a pranzo da noi. È più di un mese che rimandi e Marianne si sta
insospettendo. Ci sarà anche Sofi e quella specie di pseudo-fidanzato
che si
porta appresso.»
Simone
sbuffò sonoramente, dando le spalle al fratello. «Domenica
giochiamo contro il New
Castle, non so.»
Gabriele
gli si avvicinò, cercando un contatto visivo. Nel frattempo cominciai a
sentirmi davvero stanca, così, senza interrompere nulla, mi avvicinai
al divano
e mi stesi sopra, appoggiando la testa sul bracciolo.
«Susanna
vorrebbe vedere il suo zietto famoso. Le ho detto che ci sarai,» provò
a
convincerlo.
Zietto…
allora era sposato ed aveva prole.
Davvero un’ottima deduzione,
Sherlock.
Socchiusi
le palpebre un paio di volte, sentendo che la stanchezza montava dentro
e
premeva per farmi riposare lì su quel comodo divano. Non potevo
permettermelo,
sarei dovuta passare da James per aggiornarlo della situazione, avrei
dovuto
trascrivere la deposizione.
Il
sonno era per i deboli.
«Verrò,
contento?»
sbottò alla fine Simone, esasperato. «Sappi
che ci sarà anche
fido-bau, perché mi deve tenere sott’occhio.»
Vidi
a mala pena Gabe fare un sorriso. «Dimmi che ti dispiace, allora,»
insinuò.
Simone
fece una faccia scandalizzata. «Ovvio!
Non penserai mica che uno come me possa stare con quella cozza lì giù!»
«Ti
ho
sentito, stronzo!»
lo redarguii, con un filo di voce.
Gabriele
rimase davvero soddisfatto da quello scambio di battutine, però io mi
sentivo
davvero troppo stanca per aggiungere qualcosa, così mi adagiai
definitivamente
sul divano e chiusi gli occhi.
In
quel lasso di tempo tra il sonno e la veglia udii delle frasi
smozzicate e
confuse.
Shhh, si è addormentata…
…abbiamo preso l’acqua, oggi…
Febbre…
Poi
fu tutto un sonno privo di sogni.
***
Eh insomma, insomma.
Ven alla fine si è buscata una vera e propria influenza, poverina.
Purtroppo il tempo londinese non è il massimo a chi è abituato a vivere
in Italia, che comunque ha una temperatura piuttosto stabile, inoltre,
fare da balia a Simone le porta via la maggior parte del tempo e non
riesce mai a riposarsi.
Cosa dire di questo capitolo?
Un nuovo personaggio è comparso all'orizzonte (?) e devo ancora
decidere bene se sarà o meno influente all'interno di tutta la trama.
Non vorrei creare troppa confusione, ma Sebastian mi piace parecchio :33
Per quanto riguarda Ven, ormai si è ben capito che il bell'avvocato di
nome James ha un forte ascendente su di lei, chissà che il futuro non
riservi delle belle sorprese a quei due *sospira* ce li vedo troppo
bene insieme, voi che dite?
Beh, non mi resta che lasciarvi alle vostre opinioni, con una bella
recensione o un commento, che dite?
Ringrazio le persone che recensiscono/seguono/preferiscono/leggono
questa storia, alle ragazze del gruppo Crudelie si
nasce
che mi sta dando sempre più soddisfazioni. Alle mie care crudelie più
strette, che mi sostengono (col fucile puntato) ogni giorno affinché
continui a scrivere e non mi sollazzi nella bambagia, ma soprattutto a
Nessie (mia wifuccia) a cui è totalmente ispirato il personaggio di
Venera.
Beh, alla prossima guys!
Bye Bye!
Marty
Crudelie si
nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re
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as you (_caline);
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shoes (HappyCloud);
- Il
meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's
Blue (BlueSmoke);
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 ***
CAPITOLO 5
Svegliati!
Ven, è ora di alzarti, devi
andare a scuola…
Sei in ritardo, perderai la
lezione!
«Altri
cinque
minuti,»
bofonchiai senza alcuna forza.
Mi
sentivo la testa pesante come un macigno e non riuscivo nemmeno a
muovere un
muscolo. D’improvviso avvertii delle dita calde sfiorare la mia fronte,
che
spostavano ciuffi di capelli, i quali ormai avevano raggiunto la
consistenza
della stoppa.
«Ha
la febbre
alta.»
Udii una voce piuttosto familiare.
Non
era certo quella di mia madre, come nel mio sogno appena concluso, e ci
misi
pochi secondi a ricordare tutto. Il mio tirocinio alla
Abbott&Abbott,
l’associazione niente di meno che al nipote del socio anziano dello
studio, il
mio primo caso come avvocato dopo la laurea e il master, e infine il
viso
strafottente di quel cretino di Simone.
«Dobbiamo
portarla a casa.»
Avvertii ancora quella voce, così mi decisi ad aprire pigramente un
occhio.
La
fisionomia di un viso mascolino, spigoloso e velato da un po’ di barba
comparve
davanti al mio sguardo avido di quella visione. James era qualcosa di
ultraterreno, come se gli angeli fossero scesi sulla terra per scolpire
dal
marmo vergine quel suo corpo statuario.
E
quegli occhi erano davvero capaci di sciogliermi.
«Ehi,
spaghetti-girl,»
mi sorrise, non appena si accorse che ero cosciente.
«D-Dove
sono…?» bofonchiai
esausta.
Mi
faceva male il petto persino a parlare, non riuscivo nemmeno a muovermi
e non
avevo idea di quale virus avessi beccato.
«Stai
lasciando la sindone sul mio divano, ecco dove sei!» La
voce
acida di Simone raggiunse il mio orecchio più tagliente di una lama.
Non
perdeva mai occasione di essere così “gentile” nei miei confronti.
«Fottiti…» gli
risposi
a monosillabi, poi mi ricordai che c’era anche James e arrossii.
«Credo
che tu
abbia preso troppa pioggia in questi giorni,» si
aggiunse un’altra voce, che
mi risuonava vagamente familiare. Nel mio campo visivo, infatti,
rientrò anche
Gabriele – l’altro Sogno. «Hai
semplicemente qualche linea di febbre, nulla che un po’ di riposo non
possa
guarire,»
sentenziò.
Jamie
mi rivolse uno sguardo davvero preoccupato. «Dobbiamo
portarla a casa,» annunciò
agli altri.
Simone
aveva le braccia incrociate e mi fissava talmente in cagnesco che se
avesse
potuto, mi avrebbe incenerita con lo sguardo.
«E
cosa stai
aspettando?»
gli disse burbero.
Gabriele
lanciò uno sguardo sbieco al fratello più piccolo, ammonendolo senza
dire una
parola.
Fu
James allora a parlare. «Purtroppo
non ho la macchina, o meglio, sono venuto con i mezzi questa mattina e
non mi
sembra saggio portarla fino al suo appartamento utilizzando un mezzo
pubblico,
con l’alto rischio di contagio.»
Simone
sbuffò. «Ma
avrà sì e no qualche linea di febbre, non l’aviaria!»
È stupido come una gallina.
L’hai
scoperto ora?
«Mio
fratello
sarà felice di accompagnarvi fino all’appartamento della dolce Venera,» disse
Gabriele con quello charme che Simone non avrebbe ereditato nemmeno tra
un
milione di anni.
«Cosa?»
sbottò,
infatti, quest’ultimo. «Io
sono tornato ora, non puoi portarli tu?»
L’uomo,
dai penetranti occhi azzurri, gli rivolse uno sguardo malizioso. «Ho una
riunione con la società e devo organizzarti altre conferenze stampa.
Sono il
tuo manager, non il tuo autista.»
James
a quel punto si alzò in piedi, lasciandomi con un’ultima carezza
accennata. «Potrei
chiamare un taxi, se il passaggio crea così tanto disturbo,»
sospirò.
James
Percival Abbott era stato davvero creato da un angelo.
Non
solo era dotato di una bellezza e di un carattere da invidiare, ma era
gentile,
educato, cercava di non creare disturbo laddove la situazione si faceva
spinosa.
Ven, stai delirando. È la
febbre
che ti fa parlare.
Simone
e Jamie si scambiarono un fuggevole sguardo, ognuno pensando qualcosa
che mi
era impossibile capire in quelle condizioni. Era evidente che
TermoSifone non
avesse alcuna voglia di accompagnare la sottoscritta nel suo monolocale
a
Kensington Garden e tanto meno io avevo voglia di passare ancora del
tempo con
lui.
Nelle
condizioni in cui mi trovavo, era persino difficile riuscire a pensare,
figurarsi rispondere per le rime a quel pallone gonfiato. Mi sentivo
debole,
indifesa, alla completa mercé di quello sguardo che continuava a
fissarmi
scocciato.
«E
va bene!» sbuffò,
affondando le mani nelle tasche della tuta.
Sul
volto di Jamie si allargò un sorriso sincero e cortese. «Grazie
mille,
davvero,»
gli disse riconoscente, facendo per stringergli la mano.
Ovviamente
quel cafone di Simone ignorò il gesto e si diresse verso la porta.
«Chiudi
tu?» domandò a
Gabe. «Visto
che ti diverti ad entrare ed uscire da questa casa a tuo piacimento.»
Il
maggiore dei due Sogno annuì, poi Simone si rivolse a me e a Jamie. «Andiamo?»
mormorò
spazientito.
L’avvocato,
con uno dei sorrisi più belli che gli avessi mai visto in volto, mi
aiutò ad
alzarmi, portandosi un mio braccio attorno alle spalle. Dovevo avere un
aspetto
orrendo, ci pensai solo in ultimo, ma non me ne curai più di tanto.
Facevo
fatica persino a respirare, con i polmoni intrisi di catarro, e
l’apparenza non
aveva mai contato tanto per me.
«Ce
la fai?» mi chiese
James premuroso, fissandomi con quei suoi occhi.
Annuii
debolmente, poi ci dirigemmo fuori dalla porta. Diedi una fuggevole
occhiata a
Gabriele prima di varcare la soglia, giusto per salutarlo, e lui mi
fissò con
quel suo solito sorriso malizioso.
Però devi ammettere che è un
figo.
Ovvio
che lo avrei ammesso, anche davanti alla corte marziale.
Gabriele
aveva tutto: successo, fascino, avvenenza, buona educazione e non ci
voleva
soltanto un bel visino, come quello di Simone, per essere considerato
l’uomo
perfetto.
Impiegammo
meno tempo dell’andata per giungere la Cinquecento blu metallizzata
parcheggiata nel garage della palazzina. Spiegai quell’incongruenza con
la poca
forza che avevo nel tenere gli occhi aperti. Mi sembrò quasi un sogno
quel viaggio;
infatti, ricordai unicamente di aver mormorato il mio indirizzo
all’orecchio di
Jamie e il minuto successivo mi trovavo davanti alla porta d’ingresso
del mio
appartamento.
«Siamo
arrivati,»
annunciò Jamie trionfante.
«Era
ora,» si aggiunse
un’altra voce ed io mi sorpresi di avere ancora Simone alle spalle.
Mi
voltai con difficoltà ed incrociai il suo sguardo. «C-Che
ci fai
ancora q-qui?»
Lui
mi fissò in cagnesco e incrociò le braccia al petto. «Bel
ringraziamento per averti risparmiato il taxi,»
ringhiò.
Prima
che potessi elaborare una risposta sensata a quel suo acido commento,
Jamie
riuscì a far girare la chiave nella toppa e fummo invasi dalla luce
giallo-arancio della sera che filtrava dall’unica, grande finestra del
monolocale.
Mi
staccai da James per raggiungere in completa autonomia il letto,
sedendomi di
peso sopra di esso. Fissai allora lo sguardo sui miei due
accompagnatori.
«Grazie
mille,
ora potete anche andare,»
dissi, sperando mi lasciassero da sola a crogiolarmi in quel senso di
spossatezza
che solo l’influenza poteva dare.
Simone
rimase appoggiato allo stipite della porta, fissandosi intorno
stralunato.
James, invece, entrò e si diresse nel bagno. Poco dopo lo sentii
armeggiare con
l’armadietto dei medicinali alla ricerca di un’aspirina.
Tornò
di corsa e mi porse un bicchiere d’acqua e la pasticca.
«Ti
sentirai
subito meglio, vedrai,»
mi sorrise.
«Ma
tu non eri
avvocato? Mo’ fai pure il dottore?» gli chiese Simone, scortese
come sempre.
James
rimase con la bocca dischiusa, incapace di proferire parola. E certo,
con uno
scemo del genere non bisognava nemmeno sprecare il fiato.
«Ignoralo,» dissi
coincisa, ingoiando la pastiglia e bevendo l’acqua.
«Sai,
non credevo che a Londra adibissero gli stanzini ad appartamenti,»
continuò
imperterrito Simone, tirando fuori quella parlantina velenosa da Mr-So-Tutto-Io.
«Riesco
persino a percorrerlo tutto in dieci secondi, guarda!» E si
mise a
cronometrare i suoi stessi passi con l’orologio.
Nel
frattempo Jamie lo fissava quasi inorridito.
«Da
quant’è
che vi conoscete?»
ci chiese, mentre mi aiutava a mettermi vestita sotto le pesanti
coperte del
letto matrimoniale.
Posai
la testa sul cuscino, quasi completamente esausta. Ero davvero spossata
da
quella pesante giornata, ma pensai che dopo una bella e sana dormita,
sarebbe
passato tutto.
«Non
è che ci
conosciamo proprio,»
arrancai, sospirando. Sentivo le guance scottare.
«Infatti!»
rimarcò
subito Simone, bighellonando nel mio piccolo appartamento. «Quello
scemo
di mio cugino s’è fidanzato con una sua amica, e alla fine ho avuto il piacere di incontrare anche lei.» E
m’indicò
con disprezzo.
«Non
devi
andare a guardarti video porno o altro?» gli
chiesi stizzita.
Simone
mi rifilò uno sguardo di sottecchi. «Va
bene, ho capito. Sono di
troppo.»
E fece per andarsene dal monolocale.
Finalmente.
«Vieni,
avvocato?»
chiese in direzione di Jamie, aspettando una sua risposta e
giocherellando con
il mazzo di chiavi della Cinquecento.
James
si alzò dalla posizione accovacciata che aveva assunto per mettermi a
letto,
poi spiegò il suo vestito elegante. Aveva classe, c’era ben poco da
fare.
Sicuramente il mio era un pensiero di parte, perché avevo un certo
debole per
gli inglesi, soprattutto quel loro accento particolare che mi faceva
accapponare la pelle, ma il giovane Abbott era qualcosa che esulava da
tutto
ciò.
«Credo
che
prenderò i mezzi per il ritorno, grazie. Penso di rimanere un altro po’
qui, ad
assicurarmi che Ven abbia tutto ciò che le occorre.» E
sorrise,
uno di quei gesti sinceri e inaspettati che avrebbero scaldato anche il
più
cinico dei cuori.
Simone
fece spallucce e aprì la porta d’ingresso. «Fa un
po’ come vuoi,» e fece per
uscire, poi mi rivolse un ultimo sguardo. «Tornatene
a Roma, non sei fatta
per vivere qui,»
e se ne andò.
Era forse una minaccia?
«Che
razza di
deficiente!»
ringhiai infuriata, sentendo la gola pizzicarmi.
James
si portò una mano alle labbra e soffocò una risata. «Non vi
sopportate proprio,»
commentò ironico. «È
come se foste cane e gatto.»
Sbuffai
e sprofondai nei morbidi cuscini dietro le mie spalle. «L’hai
visto
anche tu, no? È un bambino, nient’altro.»
«In
effetti, è
un po’ immaturo,»
convenne, sedendosi sul bordo del letto. «Avrete
qualche anno di
differenza, giusto?»
Annuii
sconsolata. «Tre,
per l’esattezza.»
Jamie
annuì pensieroso, poi si grattò il mento velato di barba. «Come
ti
senti?»
mormorò, cambiando argomento.
«Molto
meglio,
grazie,»
sorrisi, tentando di non arrossire.
Quello
che accadde dopo, però, non lo avrei mai messo in conto. Senza alcun
preavviso,
James si sporse verso la sottoscritta, facendo perno sulle sue braccia
che posò
ai lati del mio corpo. Si avvicinò lentamente e con cautela, fissandomi
con
quei grandi occhi acquamarina.
Sentivo
il mio cuore battere forte nella gabbia toracica, potevo avvertire le
costole
che stavano trattenendo a stento la potenza di quel muscolo
involontario. Non
sapevo se fossi accaldata a causa della febbre o per la stretta
vicinanza
dell’affascinante avvocato.
Chiusi
gli occhi e tentai di respirare. In quel momento tutti i buoni
propositi che
avevo fatto prima di partire per la capitale inglese, come pensare
unicamente
al lavoro e diventare socio dello studio, si stavano lentamente
spegnendo come
quei poveri neuroni sopravvissuti alla febbre. Respiravo a fatica,
avvertendo
il battito accelerare ancora.
L’hai letta la circolare sui
rapporti inter-ufficio?
Ignorai
il mio cervello quando avvertii una nuvola di fiato caldo solleticarmi
la pelle
del viso. Stava per succedere, ormai non era quasi più un sogno.
Così
come l’aspettativa del piacere, era già piacere essa stessa, così dopo
che
avvertii le sue labbra posarsi sulla mia fronte, rimasi quasi delusa.
Schiusi
lentamente le palpebre, per paura della reazione che avrei potuto
avere, mentre
il cuore non cessava di martellarmi in petto come una grancassa. Quel
contatto
fu così intimo, eppure altrettanto innocente.
Jamie
si staccò quasi subito, sorridendomi come al solito. «La
febbre sta
scendendo,»
disse soddisfatto.
Gli
sorrisi di rimando, perché era quasi impossibile non farlo. Il suo
buonumore
era contagioso, così come quei modi affabili, gentili e sempre
premurosi verso
il prossimo, chiunque esso fosse.
«Bene,
così
domani potrò tornare a lavoro!»
dissi raggiante, tossendo qualche minuto dopo a causa dell’euforia e
dei
polmoni ancora deboli.
Lo
sguardo di James si fece all’improvviso preoccupato. «Assolutamente!» se ne
uscì,
allargando le braccia. «Tu
domani ti riposi, rimani qui a casa, e penserò io a tutto il resto. Zio
August
sicuramente capirà.»
«Ma…»
tentai di
protestare, alzandomi dai cuscini e avvertendo in quel momento una
fitta la
petto.
«Ma
niente,» disse
perentorio. «Nel
caso, puoi rileggere i documenti che ti ho portato dal lavoro, sulle
deposizioni che ho raccolto quest’oggi direttamente dal barista. Vedi
se riesci
a capirci qualcosa.»
«Okay,
le
guarderò,»
risposi sconsolata.
James
afferrò la sua valigetta e mi porse un plico di documenti che aveva
proprio
l’aria di essere abbastanza noioso. In quel momento ricordai che avrei
dovuto
trascrivere la deposizione di Simone, prima che dimenticassi qualche
particolare importante.
Tipo le svariate posizioni
in
cui l’hanno fatto?
Ovviamente
no.
«Potresti
passarmi quel blocco e la penna?» chiesi a James, approfittando
della sua gentilezza.
Lui
alzò un sopracciglio e mi fissò. «Cosa vuoi fare?»
Sbuffai
per il solo fatto di non avere abbastanza forza per prenderlo da me. «Devo
trascrivere la deposizione di Simone, altrimenti potrei non ricordarmi
tutto.»
«Non
l’hai
registrata?»
mi chiese con ovvietà.
A
quel punto sbiancai, come un lenzuolo. Era raro che dimenticassi la
procedura,
avendo fatto mille simulazioni e avendo studiato più volte il
materiale. Non
avevo idea di come mi fosse potuto passare di mente. Era ovvio anche
per un
bambino che avrei dovuto necessariamente registrare una deposizione, in
modo da
non perdere nemmeno la minima informazione.
«Ehi,
ehi, non
preoccuparti,»
mi sorrise James. «Ora
riposati, domani trascrivi quello che ti ricordi, nel caso farai un
altro incontro
con Mr. Sogno. Bisogna comunque tenerlo d’occhio,» e
ammiccò.
Già,
quel pallone gonfiato non scarterebbe nemmeno una caramella senza che
qualcuno
lo faccia al suo posto.
«Va
bene,» smozzicai,
sentendo la stanchezza prendere possesso di ogni mia facoltà mentale.
James,
vedendo che facevo fatica a tenere gli occhi aperti per più di cinque
secondi,
si alzò dal letto e afferrò la valigetta ormai vuota. «Bene,
è il
momento che mi ritiri,»
scherzò.
«Grazie...» gli
dissi
con imbarazzo. «…di
tutto,»
aggiunsi, cercando di non arrossire a quel ricordo di poco prima. Mi
aveva
tolto dieci anni di vita, ma non era giusto farglielo pesare.
Lui
mi sorrise ancora, poi si chinò e mi sfiorò una guancia con la mano. Un
lungo
brivido mi percorse la spina dorsale e rimasi totalmente imbambolata a
fissare
il vuoto.
«Ci
sentiamo
domani, spaghetti-girl,»
mi disse, scherzando; poi uscì dalla porta ed io rimasi per qualche
minuto in
uno stato di trance.
Quella
giornata era stata estenuante e da una parte ero contenta che stesse
finalmente
volgendo al termine. Diedi un ultimo sguardo alle pratiche sparpagliate
sul mio
letto, poi mi rannicchiai su me stessa, tentando di riposare.
Allora?
Allora,
cosa?
Vuoi affrontare o no il
fatto
che ti stai prendendo una bella sbandata per l’avvocato sexy?
Il
mio cervello riusciva ad essere fin troppo puntiglioso nei momenti meno
opportuni della mia vita. Da una parte dovevo ammettere di non essere
ormai
indifferente di fronte al fascino di James, ma dall’altra non potevo
ancora
chiamare in altro modo quell’attrazione.
C’era
chimica, lo sentivo, ma c’erano anche mille altre ragioni per cui
quella storia
non avrebbe nemmeno dovuto nascere. Jamie era il mio collega, io ero la
sua
associata, inoltre, come se non bastasse, lui era il nipote del socio
anziano
dello studio, mio unico garante per l’assunzione alla Abbott&Abbot.
Avrei
messo in gioco tutto quello per cui avevo lavorato duramente quegli
anni.
Per
ora non ne valeva la pena, anche se James incarnava ciò che avevo
sempre
sognato in un uomo.
Tranne quello sguardo
penetrante
che ti fa rabbrividire.
Quel
tipo di sguardo lo avevo unicamente notato nella persona più odiosa di
tutto
l’universo, che avrei volentieri barattato con una gomma da masticare
se ce ne
fosse stata l’occasione.
Infilai
le mani sotto il cuscino e chiusi gli occhi.
Domani
sarebbe stato un altro giorno, magari utile per pensare e per rimediare
alla
terribile distrazione che avevo commesso non registrando la deposizione.
Chiusi
gli occhi e mi abbandonai cullata dai sogni. Lentamente la febbre
scendeva,
avvolgendomi in un caldo bozzolo di stanchezza.
L’aula
di tribunale era silenziosa, così come la giuria che pendeva dalle mie
labbra
durante l’arringa. Stringevo convulsamente la sbarra, senza mai
distogliere lo
sguardo dalla testimone che sedeva al banco degli imputati.
«…e
con
questo, ho concluso vostro onore!» dissi convinta.
Mi
voltai quel tanto da incontrare lo sguardo del Giudice, con tanto di
parrucca
bianca e toga, quando il rumore del martelletto cominciò a perforarmi
le
orecchie. Non riuscivo a capire perché
continuasse a sbatterlo, nonostante non ci fosse nessun motivo
apparente.
«Che
sta
succedendo?»
chiesi, ma il rumore era assordante e mi costrinse a tapparmi le
orecchie.
Se
avesse continuato di questo passo, mi sarebbe esploso il cervello.
Spalancai
gli occhi sentendo la testa pesante come un macigno, e brontolai
qualcosa prima
di avvertire un pizzicore in fondo alla gola che mi fece tossire. Mi
sentivo
come uno zombie dopo essere stato investito e malmenato.
Inoltre,
il rumore assordante che avevo scambiato per il martelletto del
giudice, non
era altro che il bussare alla porta del mio monolocale.
«Chi
è?» brontolai
con voce roca, ricordando pian piano tutti gli avvenimenti del giorno
prima.
C’era
stata la pioggia, Simone, la litigata con Simone, la febbre, Jamie,
ancora
Simone, e infine Jamie che mi aveva lasciato un timido bacio sulla
fronte.
Decisi
di non arrossire, anche se la mia condizione di salute avrebbe
facilmente
mascherato quella pallida emozione.
«Sono
io Ven,
aprimi. Sono Sofi!»
trillò una voce dall’altra parte dell’uscio.
Sgranai
gli occhi e rimasi immobile per qualche secondo, metabolizzando ciò che
le mie
orecchie avevano appena udito. Cosa ci faceva qui Sofia? Come diavolo
sapeva
dove abitassi?
Ma cosa più importante, cosa
vuole da noi?
Avrei
potuto far finta di stare troppo male, di non riuscire ad aprire la
porta, ma
mi pareva una meschinità troppo grande. In fondo, quella Sofia non mi
aveva
fatto nulla di male. Il suo unico difetto era avere metà dei geni in
comune con
quel deficiente del fratello.
Quello più piccolo.
Ovvio,
l’altro era una specie di semi-dio.
«Sto
arrivando,»
dissi, dirigendomi verso la porta con passo cadenzato, visto che avevo
ancora
tutti gli acciacchi della notte passata a sfebbrare.
Raggiunsi
il portone e feci girare la maniglia; si aprì l’uscio e mi trovai
davanti la
chioma riccia e bionda di una ragazza sorridente come un raggio di sole.
Ovviamente
c’era anche qualcun altro.
«Sei
ancora
più cessa del solito, Lil’Elf,»
commentò
arcigno Simone, fissando il mio aspetto stravolto.
Sofia
lo fissò subito di traverso. «Simo!
Ha avuto la febbre, povera piccola!» Si lanciò verso la sottoscritta
e mi abbracciò senza alcun timore di essere contagiata. «Fortuna
che
Gabriele mi ha avvertita, così mi sono potuta liberare in sala
registrazione
per venirti a trovare,»
sorrise.
Sala
registrazione?
Senza
che diedi il permesso di entrare a nessuno dei due, i fratelli Sogno si
catapultarono nel mio piccolo monolocale, facendo come se fossero a
casa loro.
Era incredibile la facilità con cui non si facessero alcun problema,
per loro
gli spazi personali erano un optional.
«Ehm,
scusate…?» chiesi,
tentando di capire cosa diavolo ci facessero alle nove del mattino ad
Oxford
St.
Sofia
si diresse immediatamente verso la finestra e spalancò la tenda,
lasciando
entrare tutta la luce possibile che quella giornata uggiosa avrebbe
concesso alla
capitale inglese.
«Per
prima
cosa, facciamo entrare un po’ di sole!» gridò
estasiata.
«Ma
se oggi
danno temporale,»
disse annoiato Simone, gettandosi di peso su una sedia e rimanendo in
quell’angolo con le braccia incrociate e l’espressione scocciata.
La
bella biondina ignorò il fratello e continuò a sfaccendare per casa. «Certo
che è
proprio angusto qui, riesco a mala pena a muovermi…»
commentò
poco dopo, urtando un piccolo porta scarpe.
«È
quello che
posso permettermi,»
commentai, con voce rauca.
Sofia
continuò a impilare i piatti sporchi nel lavello, tirandosi poi su le
maniche e
cominciando a far scorrere l’acqua.
«Ma
non è
necessario!»
tentai di fermarla, prima che potesse versare il sapone per i piatti
sulla
spugnetta di rame.
Lei
mi bloccò con uno sguardo. «Sì
che lo è! Stai facendo molto per mio fratello ed è colpa sua se ti sei
ammalata.»
«Ehi!»
protestò
immediatamente Simone. «È
lei che ha voluto seguirmi come un cagnolino.»
«Se
tu non
avessi un debole per ogni paio di tette che ti passa davanti!»
ringhiai,
stufa quanto lui di tutta quella storia della babysitter.
«Beh,
alla
fine Simone abita tutto solo in quell’appartamento…»
sospirò
Sofia, al di sopra dello scrosciare dell’acqua nel lavello.
«E
allora?» dicemmo entrambi
all’unisono, fissandoci poi in cagnesco.
Sofia
fece spallucce ed ignorò momentaneamente il nostro bisogno di sapere a
cosa
alludesse con quella frase sospetta. Ero sinceramente troppo stanca per
star
dietro anche alle pazzie della più piccola dei Sogno, davvero.
Fissai
i documenti del caso sparsi sul mio letto sfatto e mi ricordai
immediatamente
che dovevo riscrivere la deposizione, ora che Simone era fortunatamente
ad
oziare nel mio appartamento.
«Senti,
dovrei
rifarti le domande dell’altro giorno,»
cominciai, afferrando il
registratore ed un blocco per gli appunti.
Simone
alzò un sopracciglio e mi fissò annoiato. «Perché?»
Sbuffai
infastidita da quelle sciocche domande.
Non vuoi ammettere che ti
sei
dimenticata di registrarlo.
Anche.
«Lo
devo fare,
e basta. Me l’ha detto Jamie,»
sputai fuori, anche se non era del tutto vero.
«Jamie,
eh?
Siamo passati ai nomignoli. Lui come ti chiama, Lil’Elf?»
mi domandò serio, mentre Sofia
era impegnata a lavare le
stoviglie.
«Che
diavolo
vuoi? Tu mi hai sempre affibbiato i peggiori soprannomi e questo non
vuol dire
che tra di noi ci sia qualcosa,»
sputai fuori, sedendomi sul bordo del letto e aspettando che decidesse
a
rilasciarmi quella dannata deposizione.
«Io
non conto.
E poi pensi che non sappia che mi chiami TermoSifone?!»
ringhiò.
Sghignazzai
senza alcun controllo, chiedendomi come l’avesse scoperto. Non era
colpa mia se
quel deficiente mi ispirava così tanta violenza fisica.
«Almeno
il mio
è intelligente e arguto. “Piccolo Elfo” non significa nulla.»
sbuffai.
«Meglio
Jamie,
allora,»
tagliò corto.
«Sicuramente!»
asserii,
ripensando al giorno prima. Mi chiesi soltanto in quell’istante com’era
possibile che il bell’avvocato fosse piombato in casa Sogno per
riportarmi nel
mio appartamento. Mi era completamente sfuggito di mente questo
particolare. «Ma come ha
fatto James a sapere che non mi sentivo bene?» gli
chiesi.
Simone
sembrò indeciso se rispondermi o meno, poi sbuffò contrariato, seguendo
col
dito indice i ghirigori della tovaglia. «Quando
ti sei addormentata, il
tuo cellulare non la finiva di squillare così ho risposto,» disse
fissandomi, con quegli occhi scuri e tremendamente espressivi. «Era
l’avvocato. Gli ho detto cosa avevi e subito dopo me lo sono ritrovato
alla
porta,»
sbuffò. Incrociò le braccia dietro la testa e si sbracò sulla sedia
come meglio
poteva.
Arrossii
immediatamente e non riuscii a fermarmi. Forse quella dimostrazione di
ieri non
era stata solo un caso fortuito, non si era trattato di un controllo di
temperatura, forse Jamie provava qualcosa per me.
O forse ti stai facendo i
filmini.
«Che
cosa
romantica…»
sospirò Sofia, avendo origliato tutta la conversazione. Si asciugò le
mani su
uno strofinaccio e si sedette al mio fianco. «Questo
James dev’essere
bellissimo.»
«Non
è tutto
‘sto granché,»
commentò acido Simone.
«E
non solo!» continuai
io, da vera comare. «È
anche così intelligente, gentile, di buone maniere, con quella tipica
cavalleria inglese che in Italia puoi solo sognare.»
Tessevo
le lodi di James come una ragazzina innamorata, ma ormai c’era ben poco
da
fare. Potevo ripetere al mio Cervello di non cadere in tentazione un
milione di
volte, ma mi ero scottata. Questo era certo.
«A
me non
sembra così bello,»
insistette Simone, cercando attenzioni da me e dalla sorella. «Io
sono meglio.»
Gli
scoppiai a ridere in faccia, senza trattenermi.
Lo
vidi accigliarsi talmente tanto che sul suo volto comparve una smorfia
talmente
divertente che non riuscii a smettere di ridere.
«Simo,
lascia
parlare Ven. Anche Gabe mi ha detto che questo Abbott è un gran bel
ragazzo,» insistette
Sofia.
«Innanzitutto
James è un uomo,» e
sottolineai quella parola con due ottave di voce più basse. «Non un
ragazzino che corre dietro un pallone. Inoltre, lui è così maturo,
serio, non
un tipo che insegue le gonnelle come un lupo affamato.»
«Potrebbe
essere un padre di famiglia!»
sospirò Sofia estasiata.
«Certamente,»
affermai con
sicurezza.
«Sofi,
ma si
può sapere da che parte stai?»
chiese Simone spazientito.
Sofia
sorrise furba al fratello e si spostò i folti capelli ricci da una
spalla. «Oh, non fare
il guastafeste! Non puoi vincere sempre tu. Accetta la realtà e
ammettilo che
questo James Abbott è un gran figo.»
Simone
incrociò le braccia al petto. «Facciamo
‘sta deposizione, va'!»
preferì cambiare argomento piuttosto che continuare a parlare di Jamie.
Sorrisi
senza riuscire a smettere di fissare quell’espressione seccata che il
grande
Simone Sogno aveva dipinta sul viso e non riuscii ad evitare di provare
una
strana sensazione. Cercai di scacciarla, di farne a meno, di spingerla
via dal
petto, ma quella tornava a prendere posizione in un piccolo angolino
del mio
cuore.
Non
sapevo spiegarmi cosa fosse, era come se all’improvviso Simone non
fosse più
soltanto un cinico imbecille.
Era
quasi... carino.
Mentre
Sofia si dilettava nei lavori di casa, io riuscii finalmente a
trascrivere per
intero la deposizione di Simone, registrandola e archiviandola senza
nessun
pensiero. Finalmente potevo dire a Jamie di non essere un completo
disastro.
«Finito,
finalmente!»
esultai, tirando fuori il cellulare da sotto le coperte e preparandomi
a
scrivere un SMS di vittoria all’indirizzo del mio avvocato preferito.
«Nemmeno
hai
concluso di scrivere, che già gli mandi un text?»
osservò Simone piccato.
Innanzitutto
la mia vita privata e lavorativa non erano affari suoi, secondo poi
cosa
voleva?
«Fatti
gli
affari tuoi. È lavoro,»
sibilai acida.
«Sì,
certo. Ti
sei innamorata di quell’avvocatucolo da strapazzo»
commentò, senza risparmiarsi
per nessun motivo.
Riposi
il cellulare sul tavolo e lo fissai in cagnesco. Stava oltrepassando il
limite.
«Senti
chi
parla, Mr. Non-riesco-a-tenermelo-dentro-i-pantaloni-per-dieci-secondi!»
ringhiai,
stufa che fossi sempre l’oggetto della sua malalingua.
Sofia
ci fissò allibita, sorridendo di tanto in tanto ai nostri battibecchi.
«Almeno
io lo
faccio. La tua cosa avrà le ragnatele lì sotto,» e
indicò distrattamente le mie
gambe.
Schiumai
di rabbia, perché davvero non poteva venire in casa mia ad insultarmi
come più
gli pareva. «Tu!
Sei solo un ragazzino con le smanie di onnipotenza! Ti credi tanto
bello e
tanto forte, secondo me è solo un modo per colmare la carenza di
qualcos’altro!» e allusi
chiaramente al soprannome Pisellino.
Simone
a quel punto si alzò di scatto e mi sovrastò col suo corpo e la sua
altezza.
Aveva gli occhi che mandavano lampi e saette, così come i miei. Se
cinque
secondi prima avevo pensato che quel calciatore da strapazzo fosse
quanto meno
recuperabile, mi ero sbagliata di grosso.
Lo
odiavo. Punto.
«Sembrate
quasi una coppia sposata,»
commentò Sofia divertita da tutta quella situazione.
Le
scoccai un’occhiata in tralice. «Premesso che non ho alcuna
intenzione di sposarmi prima di essere diventata socia dello studio,
non vedo
come questo stoccafisso possa mai diventare marito di qualcuno. Forse
una
povera ritardata!»
«Ah!
Senti chi
parla,»
intervenne subito lui. «Secondo
te quale persona sana di mente vorrebbe come moglie una maniaca del
controllo,
acida, rompicoglioni e bacchettona come te! Non sei manco tutta ‘sta
bellezza!»
A
quel punto avrei dovuto prenderlo per i capelli e sbatterlo fuori di
casa, se
soltanto non avrei rischiato di mandare tutto il mio lavoro a farsi
benedire.
C’era qualcosa in Simone che gli permetteva di avere così tanto
successo nella
vita, ma sicuramente non era quel suo carattere di merda.
«Stiamo
calmi,
ragazzi,»
disse Sofi, vedendo che la situazione le era sfuggita di mano. «Che ne
dite
se esco un attimo a comprare qualcosa da mangiare? Pizza?»
propose
solare.
Annuii
distrattamente e mi ributtai sul letto esausta, sapendo che non avrei
potuto
allontanare TermoSifone da me. Lo avrei dovuto controllare come una
balia,
giorno e notte, e se Maometto non poteva andare alla montagna, Simone
sarebbe
venuto nel mio appartamento.
Anche
lui si lasciò andare sulla sedia, mentre la sorella raccoglieva il
cappotto e
la borsa e usciva per comprare delle vivande. Rimanemmo da soli a
fissare
reciprocamente il muro o il pavimento, anche perché non c’era nulla da
aggiungere a quello che ci eravamo urlati contro fino ad ora.
«Non
hai gli
allenamenti?»
gli chiesi, visto che come al solito non si lamentava di avermi sempre
alle
calcagna.
Simone
ci mise un po’ a rispondere, forse ancora incazzato per ciò che gli
avevo
detto.
«Sì,
ma sul
tardi,»
commentò svogliato.
Mi
domandai per quale motivo fosse rimasto senza protestare ogni tre
secondi e
senza cercare una scusa buona per andar dietro alla sorella. In fondo,
ci
odiavamo dal primo momento che ci eravamo visti, era normale voler star
separati.
«Perché
vuoi
aiutarmi?»
mi domandò di punto in bianco, mentre ricopiavo in bella la deposizione.
«Scusami?»
chiesi,
pensando di aver capito male.
Simone
sospirò e si passò una mano fra quei capelli castano scuro che giurai
avessero
la consistenza della seta.
Ti piacerebbe toccarli.
No,
ma sei scemo?
«Dico,»
continuò,
attirando la mia attenzione in quegli occhi così scuri da inghiottire
qualsiasi
barlume di luce in tutta quella stanza. Era come se il mio mondo
sparisse perso
in quello sguardo. «Per
quale motivo mi stai aiutando. Dovremmo odiarci io e te. Io di sicuro,
perché
non ti sopporto.»
Sorrisi
dell’ingenuità di quel ragazzino. Pensava davvero che lo stessi facendo
per
lui? Per un qualche strano senso di pietà o per immedesimarmi in una
buona
samaritana?
«Credi
davvero
che ti stia aiutando perché ho scelta?»
Sentivo che ormai la febbre mi
aveva completamente abbandonata. «Lo faccio unicamente per sperare
in un posto come socio della Abbott&Abbott e se risolvo il tuo
stupido
caso, ci sono buone possibilità che lo diventi. Ho studiato una vita
intera solo
per arrivare a questo momento, e certo non me lo farò sfuggire dalle
mani da un
ragazzino pieno di sé come te.»
Simone
s’incupì, stranamente. Non era la risposta che forse aveva desiderato,
ma poco
importava. Era ancora troppo immaturo per credere che il mondo non
fosse solo
rosa e fiori, che non si riducesse tutto alla sua vita idilliaca da
sexy
calciatore.
«Sabato
siamo
stati invitati a pranzo da Gabriele,» mi
ricordò ed io tentai
vagamente di rimembrarmi quando mi era stata comunicata tale notizia.
«Non
posso,» dissi
subito. «C’è
una riunione sabato.»
Il
calciatore mi fissò con un sorriso beffardo. «Meno
male, un giorno intero
lontano da miss-ce-l’ho-solo-io.»
«La
pianti di
affibbiarmi questi soprannomi scadenti? Non fanno ridere nessuno.»
«Fanno
ridere
me.»
«Sei
proprio
un bambino,»
sbuffai, scuotendo la testa.
Simone
si alzò dalla sedia facendola strisciare rumorosamente sul pavimento,
poi mi
raggiunse a grandi falcate. Non che ci impiegò tanto a colmare la
distanza tra
di noi, visto che il mio monolocale era poco più che a norma di legge.
«Non
sono un
bambino,»
mi ringhiò a pochi centimetri dal viso. «Ho una
carriera, sono famoso,
potrei avere qualunque donna ai miei piedi, basta che scocchi queste
dita.» E mi mostrò
pollice ed indice. «Sei
l’unica che non mi porta il benché minimo di rispetto.»
«E
questo ti
da fastidio?»
gli chiesi, con un sorriso beffardo.
«Tremendamente,»
sibilò in un
soffio.
Gli
posai una mano sul petto, spingendo per allontanarlo da me. Nessuno
poteva
stare a più venticinque centimetri dalla sottoscritta.
Escluso Jamie.
Escluso
Jamie.
Simone
non smise nemmeno un secondo di fissarmi con un paio di iridi
trasudanti d’odio
e risentimento. Sembrava un bambino sull’orlo di un pianto isterico,
quando gli
si era negato un gioco. Ecco, lui era proprio così.
Lo
avevo capito subito, non ci sarebbe di certo voluto un genio.
La
famiglia Sogno non era certo famosa per avere dei futuri Einstein tra
le loro
fila – vedi Leonardo –, piuttosto
portava con sé, forse radicata sin dentro il proprio DNA, una specie di
sindrome di Peter Pan che impediva loro di maturare.
Mentre
da una parte c’ero io, ventitreenne in carriera con un affitto e delle
scadenze
sulle spalle, dall’altra c’erano Sofia, Simone, Gabriele e Leonardo che
se la
spassavano senza che la loro vita interferisse minimamente nei loro
desideri.
Avevano tutto ciò che desideravano e nessuno di loro aveva mai faticato
quanto
la sottoscritta.
C’era
un abisso tra me e loro. Io ero stata costretta a maturare per tempo,
andando
via di casa già per lo stage e poi per iniziare questo tirocinio che mi
stava
sfiancando. Simone si alzava quando gli pareva, andava agli
“allenamenti” e
tirava due o tre calci al pallone.
Però guadagna il doppio.
E
vive in una casa che è il quadruplo di questa, da solo.
Gli vorresti chiedere di
convivere?
Ma
nemmeno per sogno!
Sogno?
Ignorai
quella tiritera del mio cervello quando sentii bussare alla porta.
Glissai lo
sguardo del calciatore e mi precipitai ad aprire a Sofia che rientrava
con tre
cartoni di pizza fumanti.
«Si
mangia!» esultò la
biondina. Entrò e fece spazio per pranzare.
Vidi
Simone che si lanciò letteralmente sulla pizza, senza nemmeno aspettare
che
apparecchiassimo, poi ci distribuimmo attorno al piccolo tavolino e
consumammo
il pasto.
«Perché
tu e
Ven non dividete l’appartamento?» se ne uscì di punto in bianco
Sofi, rischiando di farmi strozzare.
«C-Cofa?» urlò
Simone.
«C-Che?»
ringhiai io.
Sofia
adagiò sul cartone il pezzo di pizza, poi si pulì l’angolo delle
labbra. «Scusate, ma
visto che Venera dev’essere la tua ombra e dato che casa tua è a pochi
passi
dal suo ufficio, non è comodo che lei venga a vivere con te?»
«Il
mio
appartamento è sacro! Col cavolo che lo divido con questa,»
e mi indicò schifato.
«Nemmeno
io
voglio vivere con uno dei Teletubbies,» gli
risposi per le rime.
Sofia
non sembrava voler gettare la spugna. «Pensa
ai soldi che
risparmieresti, Ven! Non dovresti più prendere la Tube per andare a
lavoro e
bagnarti per poi farti venire l’influenza,»
osservò intelligentemente. «Inoltre,
fratellino,»
disse rivolta a Simone, «lei
potrebbe occuparsi della casa senza che ogni volta venga io a
sistemarti tutto
e farti la spesa.»
Rimanemmo
entrambi in silenzio perché le argomentazioni della biondina non erano
del
tutto sbagliate. Da una parte c’era la prospettiva di mettere da parte
un bel
gruzzolo, senza bisogno di pagare l’affitto di quel buco in cui
abitavo,
dall’altra c’era il problema Simone.
E
lui stava pensando la stessa. identica. cosa.
«Te
che dici?» gli chiesi,
lasciandogli la decisione.
Non
avevo certo tempo per fare un trasloco, ma almeno potevo organizzarmi
per il
week-end, in modo da poter trasportare le poche cose che avevo.
Simone
si stiracchiò le membra, chiudendo gli occhi e sbadigliando assonnato. «Anche
se la
prospettiva di averti intorno non mi alletta per niente…»
sospirò
annoiato. «Sembra
proprio che dovrò abituarmi, visto che sei il mio avvocato.»
«Quindi
è un
sì?»
trillò estasiata Sofia.
«È
un forse,» specificai
io. «Intanto
vediamo come va.»
La
piccola Sogno esplose in un gridolino di felicità che mi perforò un
timpano,
poi corse ad abbracciarmi. «Sono
così felice!»
gridò. «Finalmente
saremo una famiglia!»
Lasciai
libera interpretazione a quella frase, perché non ne avevo capito il
senso.
Sofia
Sogno mi era parsa inizialmente una ragazza semplice, gioiosa, ingenua
e
solare, ma lo sguardo che mi stava rivolgendo in quel momento, anzi,
che ci stava rivolgendo, non prometteva
nulla di buono.
Credo che Simone non sarà il
tuo
unico problema.
***
Beh, diciamo che con questo
capitolo ho spiazzato un po' tutti.
Chi se lo sarebbe mai aspettato? Simo e Ven a dividere lo stesso
appartamento, lo stesso spazio personale? Come la mettiamo? La
situazione per la nostra Ven sta peggiorando sempre di più, ed io -da
sadica di professione quale sono- rigiro il coltello nella piaga e non
li lascio per niente in pace. Sono così pucci, li devo mettere a
confronto l'uno con l'altro, senza dimenticare però James.
Lui è una parte importantissima di questa storia.
Bene, mi sottopongo ai vostri giudizi/opinioni/fucilate e quant'altro.
Fatemi sapere, bella gente!
Ringrazio le persone che hanno recensito lo scorso capitolo (*-* così
tante!), quelle che lo seguono/lo leggono/lo preferiscono. Vi adoro
tutti allo stesso modo, e vi adora anche Simone. E' qui vicino a me, fa
il bravo. CUCCIA!
Come al solito dedico questo capitolo a tutte le ragazze del gurppo
Crudelie si nasce che mi sostengono ogni giorno e mi ricordano
amorevolmente (ovvero con la cucchiara in mano e la lupara nell'altra)
di aprire il foglio Word e continuare a scrivere fino a farmi
sanguinare le dita. In particolar modo, ringrazio la mia wife che mi
beta/sopporta/ascolta ogni giorno e corregge con freddezza le sparate
che ogni tanto partorisco per la trama e che non c'entrano
assolutamente NULLA con la storia. Sono proprio da internare.
Beh, baciozzi! Alla prossima!
Marty.
Crudelie si
nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re
Storie consigliate:
- Unexpected
as you (_caline);
- In her
shoes (HappyCloud);
- Il
meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's
Blue (BlueSmoke);
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Capitolo 7 *** Capitolo 6 ***
CAPITOLO 6
Questo
capitoletto è per la mia BiancaVeve
come
in braccio alla bandana per la sua maturità.
We
love U.
Avere uno
spazio totalmente proprio, almeno per la sottoscritta, valeva più di
ogni altra
cosa al mondo. Me ne accorsi troppo tardi, purtroppo. Dopo che
l’influenza fu
passata del tutto, o quasi, infatti, erano rimasti i postumi, che mi
costringevano ad andare in giro con un fazzoletto alla mano; cominciai così a raccogliere parte delle mie cose per
potermi trasferire a casa di TermoSifone.
Ancora
stentavo a pronunciarlo ad alta voce. Mi limitavo a pensare.
E
ad ammorbare il sottoscritto.
Sofia mi
aveva convinta a lasciare il mio piccolo monolocale dislocato, in
Oxoford
Street, per dividere l’appartamento, o meglio, l’attico e il super
attico di
Simone in modo da non fare tardi a lavoro ogni santa mattina,
rischiando di
inzupparmi dalla testa ai piedi cinque volte su sei, ma soprattutto per
monitorare Simone senza doverlo lasciare in balia dei suoi istinti
primordiali.
A mio
avviso,
era vantaggioso. In fondo, l’affitto di quella specie di tana di
coniglio si
portava via metà del mio stipendio di tirocinante, mentre con Simone
non avrei
avuto problemi di soldi, visto che la casa era tutta sua.
Strano,
che non abbia comprato tutto il palazzo.
O la via.
O
l’intero quartiere.
Feci
spallucce e incartai qualche fotografia, misi in valigia quei pochi
completi
che ero costretta a lavare la sera tardi e asciugare la mattina dopo
col phon,
onde evitare di andare a lavoro vestita come una stracciona, poi
accantonai gli
scatoloni vicino alla porta.
Tutte le
mie
cose si riducevano a quattro miseri contenitori.
Sospirai
sonoramente e cercai fino alla fine cinque buoni motivi per lasciar
perdere
quell’idea assurda e ritornare sui miei passi. In fondo, ero partita
col
presupposto di farcela da sola, di vivere la mia vita in maniera
indipendente,
senza rendere conto a nessuno; invece mi sarei presto ritrovata a dover
dividere il mio spazio personale con la persona più odiosa
dell’universo.
Almeno
potrai portare a termine il tuo lavoro di
monitoraggio.
Quella era
l’unica nota positiva di tutta la faccenda. Avendo Simone sott’occhio
ventiquattr’ore su ventiquattro, se si escludevano magari gli
allenamenti che
avevo deciso di accantonare pur di non rivedere quell’insulso essere di
nome
Sebastian, avrei potuto assolvere egregiamente il compito che Jamie mi
aveva assegnato,
rimanendo comodamente in pantofole e vestaglia.
Eppure,
c’era
qualcosa che ancora non mi convinceva. Era come se stessi trascurando
qualche
particolare, un elemento importante che galleggiava proprio davanti ai
miei
occhi ma non riuscivo a vedere. C’era e non c’era, quasi come
un’essenza
nascosta.
Ti
verrà in mente.
Gli
addetti
al trasloco sarebbero venuti a prendere le mie cose nel pomeriggio,
così mi
sistemai meglio la giacca del tailleur, controllai i documenti e la
deposizione
di Simone, con registrazione annessa, poi uscii dall’appartamento e mi
diressi
come ogni mattina a lavoro.
Mi sentivo
ancora un po’ spossata dall’influenza, ma non potevo permettermi altre
assenze
perché James era stato sin troppo buono con me.
Arrossii
automaticamente al ricordo delle sue labbra morbide sulla mia fronte e
mi
sentii una sciocca. Scossi energicamente la testa e mi diressi in
strada,
investita immediatamente da una folata di vento fin troppo freddo.
Avevo
portato
con me solo un borsone con qualche cambio, nel caso i traslocatori
avessero
fatto casino. La chiave del monolocale l’avevo restituita al
proprietario che
si sarebbe occupato di aprire quando fossero venuti gli addetti al
trasloco.
Ormai era tutto pianificato.
Raggiunsi
la
Tube del tutto illesa, con i capelli completamente stravolti ma per
fortuna
sana e salva. Con il meteo londinese non si doveva scherzare, per
nessuno
motivo, soprattutto se si era reduci da una lieve influenza. Non potevo
permettermi altre assenze: c’erano sino troppi sciacalli che ambivano
al mio
posto.
Alle otto
meno dieci mi trovavo davanti all’ufficio, così salii le scalette che
conducevano all’ingresso e mi ritrovai immediatamente davanti Mr.
Abbott.
Senior ovviamente.
«B-Buongiorno!»
salutai,
aggiustandomi la tracolla del borsone come meglio potevo.
L’uomo in
giacca e cravatta mi sorrise, spalancando quegli enormi occhi azzurri
così
simili a quelli di James.
«Stranamente
non è in ritardo,
Miss Donati,»
ridacchiò, sorseggiando un tè caldo.
Abbozzai
un
mezzo sorriso. «Non
è piovuto oggi,»
mi giustificai alla bell’è meglio, sperando che non mi facesse domande
sull’assenza di ieri.
«Sono
contento di vedere che si è
rimessa. È una donna in gamba, Miss Donati,» si complimentò. Mi salutò
poi
con un cenno del capo e afferrò distrattamente il Times ripiegato su un
mobiletto.
Avvertii
come
un macigno che lentamente veniva sollevato dal mio povero cuore. Non mi
sarei
mai aspettata per nulla al mondo di impattare col socio anziano di
prima
mattina, reduce da una sfebbrata notturna che mi aveva lasciata senza
forze.
«Ti sei
data latitante, ieri?» trillò una
voce alle mie spalle.
Senza
voltarmi capii che si trattava niente meno di quell’arpia di Yuki che
mi stava
con il fiato sul collo.
Cercai di
ignorarla. «Sono
stata poco bene, ma adesso sono tornata,» tagliai corto.
Purtroppo
la
giapponesina era dura di comprendonio. «Girano voci sul fatto che te ne
vai a zonzo tutto il giorno, seguendo un calciatore. È vero?» ridacchiò
lei. «Sei
una stalker, per caso?»
Premesso
che
meno notizie sul caso di Sogno trapelavano in giro – anche all’interno
dello
studio stesso – meglio era, per quale assurdo motivo avrei dovuto
spiegarlo ad
una deficiente come quella?
«Credi
quello che vuoi.»
Nel
frattempo
afferrai la ventiquattr’ore e ne estrassi la deposizione di Simone da
consegnare a Jamie. Puntai dritta il suo ufficio, quando Yuki mi si
parò
davanti come una muraglia cinese.
È
giapponese.
Muraglia
orientale?
«Cosa c’è
in quel borsone? Un
cadavere?»
mi tampinò di domande, con quella vocetta acuta e insopportabile.
Chiusi gli
occhi a fessure e mi preparai alla sfuriata. «Sì! Il tuo se non ti levi
subito
di mezzo!»
le urlai quasi addosso.
In quel
preciso istante, James aprì la porta del suo ufficio e mi fissò
allibito. Non
poteva scegliere momento peggiore per fare la sua comparsa, tanto che
Yuki si
defilò così velocemente com’era apparsa.
«Posso
spiegare…» tentai di
articolare qualche scusa, più che altro per non risultare una pazza
esaltata
che si mette ad urlare nell’ingresso di uno degli uffici più importanti
della
capitale inglese.
James però
mi
sorprese ancora una volta e sorrise. «Sei una sorpresa continua,
spaghetti-girl,»
soffiò con voce bassa, quasi maliziosa.
Se non
avessi
avuto ancora dei brividi di freddo, residui dell’influenza, mi sarei
sentita
accaldata.
James
Abbott
aveva un fascino che conquistava, ma soprattutto riusciva a smuovermi
qualcosa
dentro, a fare breccia nel mio cinismo e attraverso il muro che mi ero
costruita attorno. Mi spiazzava, così come io sorprendevo lui.
«Forza,
cominciamo!» disse poi,
con rinnovato entusiasmo.
Per un
attimo
fui colta dal panico. Pensieri impuri cominciarono a riempire la mia
povera
mente da avvocato ventiquattrenne in crisi ormonale. «C-Cosa?»
Il ragazzo
spalancò ancor di più quei pozzi marini che aveva al posto delle iridi.
«Vieni dentro,
così parliamo meglio della deposizione,» mi spiegò sorridendo e forse
intuendo qualcosa.
Mi sarei
volentieri sotterrata, se soltanto non avessi indossato l’unico
completo pulito
che avevo.
«Arrivo,»
smozzicai,
avvertendo soltanto in quel momento il mio cellulare che vibrava
allegro nella
tasca della giacca. «Un
momento solo.»
Jamie si
ritirò nel suo ufficio mentre io vidi un numero sconosciuto lampeggiare
sul
display, così pigiai il verde per rispondere alla chiamata.
«Pronto?»
«Dov’è la
mia colazione?»
La voce
dall’altra parte del telefono l’avrei riconosciuta tra milioni,
nonostante
fosse un po’ più greve e assonnata.
«Cosa? Che
cavolo vuoi?» ringhiai,
capendo che Simone si era fumato qualcosa per chiamarmi sul posto di
lavoro, a
quell’ora del mattino.
Passò
qualche
minuto di silenzio in cui avvertii dei grugniti animaleschi provenire
dall’altro capo del telefono, infine un bel tonfo.
«Ahi!
Tacci…» farfugliò,
poi si avvertì solo un fruscio.
Decisi che
ero troppo intelligente e occupata per preoccuparmi anche di che cosa
avesse in
mente quel bamboccio viziato, considerando anche il fatto di come si
fosse
procurato il mio numero di telefono.
Elenco
telefonico?
...ma
saprà
leggere?
Rimasi con
quell’interrogativo e interruppi la chiamata, dirigendomi a passo
svelto verso
l’ufficio di James e chiudendo la porta alle mie spalle. Jamie mi
rivolse un
sorriso non appena mi vide, alzando il capo da una valanga di
scartoffie che
riempivano la scrivania.
«Siediti,»
disse,
sistemando meglio i documenti. «Come
vedi, un giorno senza la mia collega e sono perso!» sghignazzò,
facendomi diventare bordeaux.
Calmati,
Ven, non sclerare.
Avrei
dovuto
seguire un corso sull’auto-controllo, perché non potevo perdere la
testa per un
ragazzo – uomo – del genere, ogni
santo minuto. Era un mio collega, anzi, un mio superiore ed era anche
il nipote
del socio anziano dello studio. Non potevo mandare tutti i miei sforzi
a farsi
benedire per un bel paio di occhi blu.
«Già,»
risposi
atona, chinandomi per raccogliere i documenti della deposizione. «Qui
dentro
c’è il resoconto fatto da Mr. Sogno nei riguardi della notte in
questione. Ci
sono orari approssimativi e nomi di possibili testimoni oculari. Ho
messo tutto
su nastro,»
e gli porsi anche il cd.
«Ottimo,»
rispose
James, aprendo la cartelletta e dando sommariamente un’occhiata.
Nel
frattempo
avvertii il cellulare vibrare di nuovo, facendo un rumore assordante.
Decisi di
ignorarlo e fissare lo sguardo sulla bella pianta all’angolo
dell’ufficio.
Jamie alzò
lievemente lo sguardo, fissandomi interrogativo. «Non rispondi?»
Feci
spallucce e tentai di ignorare ancora il problema Simone, ma il
telefono
non la finiva di vibrare e sentivo ormai il tailleur che tornava a vita
propria.
«Scusami,»
dissi
mortificata a James, alzandomi in piedi e avvicinandomi alla finestra.
«Che
vuoi?!» ringhiai in
direzione della cornetta, abbassando la voce per non sembrare una pazza
isterica.
«Cosa
voglio?» Simone aveva
riacquistato il suo solito tono di voce altezzoso e giurai che avesse
stampato
sul viso quel sorriso strafottente che ostentava ogni volta che ci
vedevamo. «La mia
colazione, ad esempio.»
«Cucinatela
da solo,» risposi
perentoria, cercando di non perdere la pazienza di fronte al mio
collega.
Sentii uno
sbuffo dall’altra parte del telefono. «E allora cosa ti trasferisci a
fare qui? Devi sdebitarti in qualche modo…» e lasciò volutamente la
frase
in sospeso.
«Io non
sarò mai la tua schiava,
questo non era nei patti!»
Ora mi stavo veramente alterando.
«C’è
qualche problema?» intervenne
James preoccupato.
Gli feci
il
cenno di attendere un altro minuto, in modo che potessi mandare a quel
paese
quel deficiente di Simone.
«Senti,»
sibilai a
denti stretti. «Finisco
una cosa in ufficio e poi vengo da te. Sappi che questa è la prima e
l’ultima
volta che ti permetto di parlarmi in questo modo. Sono il tuo avvocato,
non una
delle sgallettate che ti porti a letto!»
«Muoviti,
ho fame,» disse
solamente, prima di chiudermi il telefono in faccia.
Se non
avessi
avuto assolutamente bisogno di quell’apparecchio per vivere, ero sicura
che
l’avrei lasciato contro il muro fino a ridurlo in mille pezzi. Mi
limitai a
stringerlo nella mano e a sbollire la rabbia che quel marmocchio mi
faceva
venire sottopelle.
Inspirai
un
paio di volte e tentai di tranquillizzarmi.
«Tutto
bene?» mi chiese
James preoccupato.
Mi lasciai
andare ad un sorriso sincero, pensando a quanto quei due fossero l’uno
l’opposto dell’altro. James incarnava tutto ciò che io desideravo e
cercavo in
un uomo, Simone non era nemmeno un uomo, quindi…
«Era
Simone,» gli spiegai,
evitando di aggiungere che mi aveva trattato come una pezza da piedi.
«Mi ha offerto
di trasferirmi da lui, così sono più vicina all’ufficio e posso
monitorarlo
ventiquattr’ore su ventiquattro,» dissi e tornai a sedermi.
«Hai
accettato?» mi chiese
sbalordito, storcendo il naso.
Il cambio
d’espressione che fece mi spaventò, soprattutto perché non avevo mai
visto James
così… preoccupato.
«Mi è
sembrata una buona offerta,
visto che l’affitto che pagavo era anche alto,» dissi sincera, sperando
di
alleviare la tensione.
Invece
Jamie
si limitò a stirare le labbra in una linea dritta. «Avremmo
potuto darti un anticipo,»
aggiunse poco dopo.
Cos’era,
un
vano tentativo per dirmi che non condivideva la mia convivenza?
«Non
credevo si potesse fare,» smozzicai,
non sapendo davvero come comportarmi.
Ero in
imbarazzo, ormai era un dato di fatto. Non riuscivo a capire se James
fosse
infastidito dalla notizia dell’appartamento oppure dal fatto che non
gli avessi
parlato dei miei problemi economici.
Jamie
sospirò
e tornò a maneggiare le scartoffie della deposizione. «Sei sicura
che non ci sia nulla tra voi due?»
Ancora
quelle
insinuazioni. Avrei davvero voluto avere una confidenza maggiore con
James solo
per raccontargli quanto detestavo quell’insulso ragazzino senza
cervello. Se
solo lo avesse conosciuto come lo conoscevo io, non mi avrebbe mai
rivolto
quella domanda.
«Davvero,
non c’è niente. E mai
ci sarà,»
mi sentii in dovere di aggiungere, per rimarcare il concetto.
James
sospirò, ma sembrò abbastanza soddisfatto. «Ti credo,» concluse. «È
solo che
questo caso di dubbia paternità non è facile da gestire. Si tratta
davvero di
una situazione delicata e non vorrei dover spiegare alla giuria che il
mio
assistito è innocente, quando flirta con il suo avvocato nell’aula di
tribunale.»
Già l’idea
di
flirt associato al volto di Simone era lungi dai miei standard di
incubo
notturno, ma la situazione si stava facendo davvero esagerata.
«Non
capiterà, te lo giuro,» ripetei con
più convinzione.
Io e
Simone
non avevamo passato, né presente e ancor meno avremmo avuto futuro.
Questa
convivenza infatti era più che altro un esperimento, presto o tardi ci
saremmo
resi conto che non si poteva fare.
«Mi fido
di te, Ven,» disse poi,
sorridendomi di nuovo.
Era la
prima
volta che mi chiamava col mio nome, senza nessun buffo appellativo.
Quando
finalmente riuscii a liberarmi dalla marea di scartoffie e fotocopie in
ufficio, feci un salto veloce da Starbucks per comprare un cappuccino e
qualche
ciambella. Sua maestà Ho-il-culo-pesante aveva pensato che
sarei passata
da lui prima di andare in ufficio solo per cucinargli qualcosa da
mangiare.
Si
sbagliava
di grosso.
Nemmeno
mia
madre e mio padre erano a questi livelli, ed erano sposati da ventisei
anni
ormai.
Pur di non
sentirlo lamentarsi una volta giunta finalmente nella mia nuova
sistemazione,
avevo deciso di portargli qualcosa di pronto, così ero passata in
caffetteria
ed ora mi trovavo in ascensore avvolta da un denso odore di muffin
caldi.
Entrai
sull’ormai familiare pianerottolo e guardai il campanello con
indecisione,
sistemandomi meglio la borsa tracolla su una spalla. Avevo ancora i
capelli
lievemente arruffati da quella mattina, ma non ci badai. In fondo si
trattava
pur sempre di TermoSifone.
Bastava
avere
un paio di tette ed essere alte un metro e novanta ed entravi subito
nelle sue grazie.
Tu
ne hai una su due.
Deviai
immediatamente quei pensieri da un terreno estremamente scivoloso e
decisi di
suonare il campanello, ricordandomi di farmi un duplicato delle chiavi.
Avvertii
un
ciabattare annoiato dall’altra parte dell’uscio e poco dopo Simone fece
la sua
teatrale comparsa, indossando ancora il pigiama.
Lo fissai
con
un sopracciglio inarcato e un’espressione schifata.
«Fammi
capire: sono le dieci e
mezza del mattino e tu sei ancora in pigiama?» gli chiesi. Entrai
nell’ingresso e posai la borsa sul pavimento.
Simone, in
risposta, sbadigliò senza avere la premura di nascondere alla mia vista
le sue
belle tonsille. «Chi
sei? Mia madre?»
borbottò, poi gli sovvenne un pensiero birichino. «L’età è
quella, però, il gusto nel vestire pure.» E se la rise da solo.
«Che
arguzia, mamma mia…» commentai
sarcastica, poi posai il sacchetto di Starbucks sul mobile della cucina.
Simone
fissò
quell’oggetto come un leone puntava la sua preda. Per un secondo,
credetti che
avesse persino fiutato le ciambelle.
«Che c’è
lì dentro?» mi domandò
con uno sguardo bramoso.
Pensai che
essere più stupido di lui non esistesse al mondo. «Un braccio
umano,»
sospirai, afferrando di nuovo la borsa e sbirciando oltre il corridoio.
Non avevo
mai
girato per intero la casa, troppo impegnata a rimproverare Simone lì
nell’ingresso. Era strano da pensare, ma quella sarebbe stata la mia
casa per
chissà quanto tempo.
«Qual è la
mia stanza?» gli chiesi,
osservandolo mentre si avventava con un balzo sulle cibarie che avevo
comprato.
Ora che lo
osservavo meglio, vidi che aveva i capelli sparati in ogni direzione,
arruffati
e senza alcuna piega. Inoltre, il pigiama con le nuvolette celesti che
indossava era davvero ridicolo, ma non sembrava preoccuparsene più di
tanto.
Quello che
mi
fece venir voglia di prendere il cellulare e postare su twitter la foto
furono
le ciabatte a forma di ippopotamo che aveva ai piedi.
«Che fe?»
mi chiese,
ingurgitando un pasticcino dopo l’altro.
«Carine…»
gli feci
mentre indicavo le pantofole.
Lui si
limitò
ad alzare un piede, piegando la stoffa in modo che il buffo animale
assumesse
un’espressione davvero buffa. «Regalo
di Sofi,»
tagliò corto e si incamminò verso l’altra parte della casa.
Mi
affrettai
a seguirlo, prima che potesse sparire in qualche corridoio nascosto in
quell’appartamento immenso, fin quando non si fermò ed aprì una porta.
«Questo è
uno dei bagni,» mi mostrò,
schiudendo appena l’uscio. «Ce
ne sono altri due, ma uso quasi sempre questo perché gli altri sono
troppo
lontani.»
«Oppure
non ti ricordi nemmeno
dove sono?»
chiesi ridacchiando.
Simone mi
ignorò di proposito e passò oltre. Sfilammo davanti ad un’altra porta
chiusa,
proprio in prossimità del bagno, e pensai si trattasse della sua camera
da
letto visto che non gli sfiorò nemmeno l’idea di aprirla per
mostrarmela.
Sarà
il covo degli orrori.
«Eccoci
qui,» disse
trionfante. Si portò un dito indice alle labbra e succhiò forte,
ripulendolo
dal cioccolato fuso.
Ma
quanti anni ha, cinque?
Fissai il
mio
sguardo all’interno di una stanzetta angusta, buia e puzzolente, senza
nemmeno
l’ombra di una finestra. Pareva quasi…
«Ma questo
è uno sgabuzzino!» protestai
immediatamente e trovai quel suo sguardo divertito.
«No, è la
tua stanza,» insistette
lui, terribilmente serio.
Stavo
cominciando davvero a perdere la pazienza e non amavo l’idea di essere
presa
per i fondelli alle dieci del mattino. Davvero credeva che mi sarei
ridotta a
vivere lì dentro?
«Come
pretendi di farmi dormire
lì?»
ringhiai, cominciando ad alzare il tono di voce.
«È molto
più grande di tutto il
tuo ex appartamento, Fido-bau,» commentò sarcastico, puntando
quelle iridi scure nelle mie e mettendomi addosso una soggezione che
non
riuscivo ad evitare.
Possibile
che
fosse così dannatamente bravo a tenermi testa?
«Facciamo
così,» sospirai.
Non avevo alcuna intenzione di dargliela vinta. «Tu dormi in questa
specie di
cuccia per cani, mentre io mi prendo la tua stanza,» decretai,
anche se ero più che sicura che in quella casa immensa ci fossero
almeno altre
tre stanze da letto.
Lo aveva
fatto di proposito, tutto per farmi uscire fuori dai gangheri.
«Tu non
metterai piede da nessuna
parte. Questa è sempre casa mia e le regole le faccio io,» sibilò
serio.
Incrociai
le
braccia al petto e decisi di sostenere il suo sguardo. «Allora io mi
impegno a farti andare in galera, fosse l’ultima cosa che faccio. Non
giocherai
a pallone mai più,»
minacciai.
Fortunatamente
avevo sempre un asso nella manica: infatti, Simone si accigliò sempre
di più e
ridusse gli occhi a fessure per fissarmi di traverso. Aveva voluto la
guerra?
Ci sarebbe stato tempo sufficiente per metterlo in riga e per fargli
capire chi
è che comandava.
Avere tre
anni in più serviva a qualcosa, soprattutto quando la maturità di chi
avevi di
fronte rasentava l’inverosimile.
«Ucciderò
Sofia,» disse
solamente, chiudendo la porta dello sgabuzzino e curvando le spalle
sconfitto. «Lei e questa
stupida idea di metterti fra i miei piedi,» borbottò.
«Non
credere che a me vada a
genio questa convivenza,»
aggiunsi, nel caso si fosse fatto strane idee.
Mi lanciò
un’occhiata da sopra la spalla. «Seh, come no. Vitto e alloggio
pagato, inoltre ti godi pure un bel panorama,» sogghignò.
«Ma quale
panorama, se ci sono
soltanto palazzi!»
protestai.
Fu allora
che
Simone tirò fuori quel sorriso sbieco che mi faceva correre un singolo,
lungo,
brivido per la schiena. «Intendevo
questo bel panorama,» sorrise,
sollevandosi appena la maglietta e mostrandomi gli addominali scolpiti
con
tanto di V pubica che spariva al di sotto dell’elastico dei pantaloni.
Che
razza di esibizionista del cavolo.
«Ti
prego…» biascicai
annoiata, afferrando la maglia del pigiama e tirandogliela verso il
basso. «Ho appena
mangiato, non ho voglia di vomitare.»
Certo non
avrei ingannato nessuno, nemmeno me stessa. Simone poteva essere un
cazzone, un
deficiente, avere il cervello grosso quanto una nocciolina, ma, ahimè,
era
dannatamente bello e il suo corpo lo gridava ai quattro venti senza
vergognarsene.
Il mio
orgoglio veniva colpito e affondato ogni volta che cercava di accampare
scuse
su come quel fisico atletico non mi mandasse in orbita l’ormone, ma
dovevo pur
fare qualcosa o altrimenti avrebbe vinto!
«Allora
avevo ragione,» disse
pensieroso mentre avanzava lungo il corridoio.
«Su cosa?»
chiesi,
pensando a quale cazzata potesse sparare questa volta.
Simone si
fermò proprio di fronte ad una porta socchiusa, spalancandola e
mostrandomi
l’interno di una stanza piuttosto anonima, con un letto a due piazze e
tinte
color pastello. Tutto sommato era accogliente.
«Che ti
piace la Iolanda,» sogghignò
soddisfatto, rimanendo a fissarmi appoggiato allo stipite della porta,
con le
braccia conserte.
Lo fissai
di
sbieco, poi entrai e cominciai a sistemare quelle poche cose che avevo.
Non
erano passati nemmeno cinque minuti e già non lo sopportavo più.
«Adesso
solo perché non ti sbavo
addosso, pensi che mi piacciono le donne?» gli domandai razionale,
senza
perdere la pazienza. Avevo capito che con Simone bastava affrontare il
discorso
ritorcendogli le sue stesse domande contro, lasciandolo perplesso e
insoddisfatto.
«Ovvio,»
affermò con
sicurezza, squadrandomi dall’alto in basso. «Nessuna donna
eterosessuale
riesce a resistere al mio fascino animale,» sottolineò, stropicciandosi
ancora quei capelli che avevano assunto una piega leonina.
Alzai un
sopracciglio stupita. «Animale?» sghignazzai.
«Ma
se nemmeno ti fai la barba, la mattina! Sicuro di aver sviluppato?»
Simone
accusò
il colpo e quel sorrisetto strafottente scomparve dal suo bel viso
liscio. La
carta della mancata virilità funzionava sempre.
Uomini.
Sono più
facili da leggere di un manuale di diritto civile.
Quel
silenzio
imbarazzante fu interrotto dalla serratura della porta che veniva
aperta,
mentre un rumore di tacchi riempiva il silenzio momentaneo
dell’abitazione.
«Simo?
Ven?» trillò una
voce che mi mise addosso una cascata di brividi.
Sofia
era in casa.
Vidi
Simone
roteare gli occhi al cielo e sbuffare sonoramente, prima di rispondere
annoiato
alla sorella. «Siamo
qui in corridoio!»
urlò di rimando. Lasciò lo stipite della mia stanza e ciabattò fino
all’ingresso.
Rimasi da
sola con il borsone sul letto e la chiusura lampo aperta per metà.
Notai la
presenza di una grande cassettiera e di un armadio a muro che avrebbe
contenuto
i miei pochi completi per il lavoro. Di spazio ce n’era in abbondanza.
Quella
stanza era grande quanto il mio intero monolocale di Oxford St.
È
sempre una situazione provvisoria, mi
ricordò il mio Cervello.
Quando
avremmo affrontato e risolto il caso che pendeva sulla testa di Simone,
avrei
fatto nuovamente i bagagli e avrei cercato una nuova sistemazione. Con
l’arrivo
dell’aumento come socio effettivo della Abbott&Abbott mi sarei
potuta
permettere qualcosa di meglio.
Inoltre,
avevo notato il fastidio di Simone nell’avermi intorno e mi domandai
per quale
assurdo motivo avesse accettato a dividere l’appartamento con la
sottoscritta.
Feci
spallucce e cominciai a piegare le mie cose, posizionandole nei
cassetti.
Tirai
fuori
una vecchia fotografia incorniciata, che vedeva me, Celeste e Romeo
stretti in
un abbraccio forzato dalla strettezza dell’inquadratura. Era l’anno
della
maturità, lo ricordavo ancora e rimembravo perfettamente quanto tempo
ci era
voluto a Cel per convincermi ad apparire nella stessa istantanea di
quel
mangia-caccole.
«Ti sei
sistemata?» mi domandò
Sofia, apparendo sulla soglia della mia stanza con un sorriso serafico
in
volto. Indossava un paio di jeans stretti e un trench avana legato in
vita. Con
le ballerine ai piedi e quei lunghi, vaporosi capelli biondi sembrava
una
specie di ninfa dei boschi.
«Sto
mettendo apposto queste
poche cose. Nel pomeriggio dovrebbe arrivare il resto del carico,» le
spiegai e
poggai la cornice sul comodino.
«Leonardo
mi ha raccontato molto
di te, sai?»
mi confessò all’improvviso ed io fui davvero curiosa di sapere cosa le
avesse
detto. Sicuramente le aveva parlato del fatto che fossi insopportabile,
puntigliosa e sospettosa verso qualsiasi essere di sesso maschile.
Quelle erano
le prime caratteristiche che permettevano alle persone di giudicarmi.
«Ah, si?»
feci
curiosa.
Lei annuì
e
si sedette sul bordo del letto, accavallando le lunghe gambe
affusolate. «Mi ha detto
di come hai convinto Cel a venire qui a Londra per farli
riappacificare. Di
come nonostante non ti fidassi di mio cugino, gli hai comunque voluto
dare
un’altra possibilità.»
Rimasi con
le
mani a mezz’aria, metà all’interno del cassetto e metà fuori. Nessuno
aveva mai
detto cose positive su di me, sicuramente non qualcuno che mi conosceva
così
poco come Leotordo.
«L’ho
fatto soprattutto per
Celeste,»
mi giustificai, sperando di poter cambiare argomento al più presto.
Sofia non
sembrava dello stesso avviso perché continuò ad insistere su quel punto
come un
martello pneumatico.
«Tu e Simo
siete molto simili,
sai?»
E adesso
cosa
c’entrava quel paragone?
Mi voltai
di
scatto verso di lei e la fissai come se fosse appena scesa da
un’astronave. «Stai
scherzando, vero?»
sbottai incredula.
Sofia mi
sorrise bonaria, quasi non si fosse resa conto dell’assurdità appena
detta. «No, no!» insistette. «Voi due
mostrate sempre una sola faccia del vostro vero carattere, quasi aveste
paura
di lasciare che gli altri scavino molto più a fondo,» disse
soddisfatta.
Rimasi a
pensare sulle sue parole, senza avere alcun argomento con cui
controbattere.
Non potevo certo dire di Simone, perché non lo conoscevo così a fondo,
ma per
quanto riguardava la sottoscritta, in parte la piccola Sogno aveva
ragione.
«Preferisco
che gli altri mi
vedano come mi mostro. È molto più comodo.» conclusi, sperando davvero
che
questa volta fosse finita.
Odiavo
parlare di me stessa, soprattutto davanti ad una sconosciuta.
«Prima,
Simone non era così.» sospirò
pensierosa. «Quando
eravamo piccoli era diverso, molto meno presuntuoso di adesso. È come
se il
successo lo avesse reso quello che è ora.»
Avvertii
una
nota di tristezza nella sua voce e mi venne quasi voglia di abbracciare
la
piccola Sofia.
Quasi.
Infatti,
rimasi immobile dov’ero.
«Capita,»
le risposi,
senza davvero sapere cosa dirle. Per me aveva ragione, Simone adesso
era
solamente un pallone gonfiato pieno di sé e se non avesse cambiato
atteggiamento sarebbe durato molto poco.
Doveva
maturare e crescere.
Sofia alzò
il
suo sguardo oltremare su di me e sorrise. «Tu invece sei così matura
per la
tua età,»
confermò, quasi leggendo i miei pensieri.
Gongolai
nel
mio piccolo, anche se sapevo di essere una persona responsabile. «Sono
dovuta
crescere in fretta, fra Università, Master e poi il tirocinio in
un’altra
città. Diciamo che sono stata costretta.» le spiegai.
«Infatti
ha già le rughe di una
cinquantenne,»
commentò Simone, apparendo nel momento meno opportuno. Come suo solito.
Lo
fulminai
con lo sguardo e tentai di ignorare quella sensazione che mi diceva di
afferrare il primo oggetto contundente sotto mano e lanciarglielo
addosso.
Stava addentando felicemente una ciambella grondante di cioccolato, in
barba a
quelle come me che dovevano stare sempre a dieta continuando ad
ingrassare
solamente fissando quei dolci.
Si godeva
quella prelibatezza quasi fosse un nettare afrodisiaco, portandosene
dei
pezzetti alle labbra e succhiandosi poi le dita come avrebbe fatto un
adolescente.
Sa
muovere bene quelle labbra.
In quel
momento scossi violentemente la testa, pensando che il mio Cervello
fosse stato
improvvisamente scalzato da un altro coinquilino molto più pericoloso:
Ormone.
Lo avevo
messo a tacere esattamente un anno fa, proprio all’inizio del master a
Cambridge e avevo deciso di concentrarmi unicamente sullo studio e
sulla vita
lavorativa, mettendo da parte il resto. Era rimasto buono, buono in un
angolo,
a farsi da parte, ma con l’arrivo di Jamie e di quella specie di
pornodivo di
dodici anni aveva preteso improvvisamente un po’ più di spazio.
«Quanto
sei cattivo, fratellone,» lo
rimproverò Sofia, alzandosi in piedi e raggiungendomi. «Venera è così
bella, non vedi?»
gli disse, indicandomi quasi fossi un oggetto messo all’asta. «Con
questi
occhioni blu, la vitina stretta, i capelli corti e sbarazzini…»
«…una
lingua tagliente e un
carattere insopportabile,»
concluse lui, offendendomi.
«Senti chi
parla!» sibilai e
incrociai le braccia offesa.
«Tu sei
molto peggio di me,
inoltre sei anche frigida. Miss Ho-una-scopa-nel-culo!» mi
ringhiò
addosso, mandando giù l’ultimo pezzo di dolce.
Aveva le
labbra completamente sporche di cioccolato scuro e denso.
Un lungo
brivido mi percorse la schiena quando vidi quella piccola lingua rosa
spuntare
fuori dalle sue labbra e togliere tutta quella cioccolata. Simone
socchiuse gli
occhi, rapito dal piacere, ed io sentii l’improvviso bisogno di
dissetarmi.
Non
di acqua, però.
«Dovreste
condurre uno show!» ridacchiò
Sofia, divertita da tutta quella faccenda.
Alzai le
mani
in segno di resa, senza più riuscire a dare un senso a quello che mi
circondava. Avevo messo un piede in quell’appartamento e stavo già
svalvolando.
La famiglia Sogno aveva uno strano potere su di me e forse non era
stato
proprio saggio dividere l’appartamento con il mio cliente.
«L’unica
cosa che può condurre
Simone è il suo Pisellino nella tazza
del water,»
sghignazzai, prendendomi la vendetta per i bollori che quel
bell’imbusto mi
aveva fatto venire poco fa.
Sofia
cominciò a ridere, tenendosi la pancia.
Simone
invece
si accigliò fin quasi a far unire le sopracciglia l’una con l’altra.
«Ancora questa
storia!»
sbuffò contrariato. «Ci
metto poco a buttarti fuori di casa!»
«E io ci
metto poco a farti
perdere la causa!»
gli risposi per le rime.
Nel
frattempo
la piccola Sogno assisteva estasiata a quello scambio di battute,
mentre
l’elettricità che c’era nell’aria cominciava a crepitare. Se avessi
dovuto
spendere tutte quelle energie in un solo giorno, anzi, in una
mattinata, sarei
arrivata alla sera con le pile completamente scariche.
Simone mi
spossava, era estenuante. Mi succhiava via ogni briciolo di energia.
«Ah!»
trillò la
bionda all’improvviso. Raggiunse la borsetta che aveva lasciato
sull’ampio
letto a due piazze. Tornò verso di me con una lettera tra le mani.
«Prima di
venire qui sono passata al tuo appartamento per vedere se erano
arrivati i
traslocatori e ho trovato questo invito nella tua cassetta delle
lettere.
Sembra importante,»
e mi porse la busta.
Me la
rigirai
tra le mani, impedendo la visuale a Simone che tentava in tutti i modi
di
sbirciare di cosa si trattasse. Prima di tutto, dovevo assicurarmi che
non fosse
una cosa imbarazzante, tipo qualche pubblicità sul Viagra o qualche
marca di
preservativi, come le e-mail che mi arrivavano ogni giorno sul pc.
Tastai la
busta e notai che era rigida, di buona fattura. La voltai e sbiancai
d’improvviso, non appena notai uno stemma a me familiare.
«Non è
l’università di Cambridge?» mi chiese
Sofia, sempre più incuriosita.
Annuii
titubante, non capendo cosa mai volessero da me dopo che erano passati
sei mesi
dal Master che avevo conseguito.
Simone
sghignazzò. «Magari
c’è scritto che avevano sbagliato persona e che in realtà la tua laurea
non
vale un piffero!»
Gli
rifilai
una gomitata in pieno addome, visto che ormai si era posizionato alle
mise
spalle e lui tossicchiò dolorante. Gli stava bene.
Aprii la
busta e ne estrassi una lettera scritta al computer, in una calligrafia
da
cerimonia quasi.
Lessi le
prime righe e lentamente tirai un sospiro di sollievo, perché il mio
master era
salvo, ma allo stesso tempo sbiancai per un altro motivo.
La
classe del 2013 la invita cordialmente ad una riunione
scolastica per il 02 di Dicembre nei locali dell’Università. È
obbligatorio
l’abito scuro, così come un accompagnatore per il party che si terrà
nei
giardini coperti e nella sala del consiglio.
Cordiali
saluti,
Il
Rettore.
Queste
erano
le ultime righe della lettera, o almeno quelle che la mia mente era
riuscita a
leggere senza dare di matto. Innanzitutto non ci tenevo a rivedere le
facce dei
miei compagni di corso, tutti damerini snob senza alcuna attinenza allo
studio;
secondo poi non avevo alcun abito nero, se non i completi che usavo in
ufficio
e terza cosa… zero accompagnatore.
Il
gridolino
di Sofia permise al mio cervello di distrarsi, troppo impegnato ad
impedire che
diventassi sorda tutto d’un tratto.
«Una festa
in abito lungo!» trillò
estasiata, cominciando a saltellare per tutta la stanza.
Simone
sbuffò, deluso dalla notizia che non gli avrebbe giovato per nulla.
«Capirai,» si infilò le
mani in tasca per poi trotterellare fuori dalla mia stanza.
«Non penso
di andarci,» tagliai
corto, rigirandomi la lettera tra le mani.
Sofia si
fermò di scatto e mi fissò, con gli occhi sgranati. «Devi andarci!»
insistette. «È una
riunione di classe, per di più a Cambridge e in abito scuro! Quando ti
ricapita
un’occasione per far vedere come te la stai cavando? In fondo, sei o
non sei
l’avvocato di un famoso calciatore dell’Arsenal?» ridacchiò lei,
puntando sul mio
maledetto orgoglio.
L’idea di
sbattere in faccia la mia brillante carriera a quei compagni di corso
che mi
vedevano solo come una campagnola italiana venuta in Inghilterra in
cerca di
fortuna era allettante. Ma come avrei fatto con l’accompagnatore?
«Non ho
nessuno che mi ci porti,» le spiegai,
sperando gettasse la spugna.
Sofia
sorrise. Sembrava addirittura un elfo quando assumeva quell’espressione
di chi
vede più in là del proprio naso. «Potresti chiedere a James,» insinuò
malandrina e l’idea non mi parve malaccio.
«Ascoltami,»
insistette
poi. «Io
e te andiamo a fare shopping uno di questi giorni, ci prepariamo e nel
frattempo tu studi un modo per chiedere al bell’avvocato se ti
accompagna a
questo ricevimento,»
concluse lei per me.
«Ma è
proprio necessario che io
ci vada?»
le chiesi un’ultima volta.
Sofia
annuì
convinta. «Devi!» insistette.
«Ormai sei
parte integrante della vita mondana londinese e devi fare notizia.
Comincia da
questa festa e poi sali lentamente la scala del successo. Vedrai che
una volta
vinta la causa, sarai sulla bocca di tutti.»
Il suo
ragionamento non faceva una piega, inoltre, avrei avuto la scusa per
poter
vedere James fuori dall’orario di lavoro. Era una prospettiva piuttosto
allettante a cui una con l’ego grosso come il mio non poteva rinunciare.
«Affare
fatto!» annunciai,
prima di avvertire il campanello suonare.
«Trasloco!»
urlarono degli omaccioni
al di là dell’uscio, così mi incamminai per raccogliere le mie cose
prima che
Simone avesse la scusa di buttarle fuori dalla finestra.
***
Allora,
devo ancora rispondere alle recensioni dello scorso capitolo, ma conto
di farlo dopo aver pubblicato. Non disperate!
Cosa dire?
Siamo arrivati a questo benedetto (?) sesto capitolo, un po' più
movimentato, questo è certo. Vediamo una James dal comportamento sempre
più sospetto, quasi come se si fosse preso una piccola sbandatella per
Ven. Ma come biasimarlo, è una ragazza formidabile! *limona con Venera*
E dall'altra parte c'è Simone. Adorabile (odioso) Simone, che pretende
che la nostra piccola avvocatessa diventi la sua nuova schiava
personale. Ancora non ha capito con chi ha a che fare, poveraccio.
E c'è Sofi. Il mio personaggio più puccio e preferito. La amo! **
Diciamo che abbiamo visto solo la punta dell'iceberg di questa
convivenza, tra un paio di capitoletti ci sarà davvero da divertirsi. E
chissà come si evolverà tutta questa situazione. Chissà <3
Cosa ne dite del nuovo "banner"? Simone è sempre più gnocco. Lo amo.
Vabbé, alla prossima. Mi raccomando, c'è anche il booktrailer. Dategli
uno sguardo.
Kiss, Marty.
Crudelie
si nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re
Storie consigliate:
- Unexpected
as you (_caline);
- In her
shoes (HappyCloud);
- Il
meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's
Blue (BlueSmoke);
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 7 ***
CAPITOLO 7
Era
esattamente di fronte a me, nudo, completamente ricoperto di finissimo
cioccolato extra-fondente. Sembrava un cioccolatino ripieno pronto per
essere
assaggiato. L’unica cosa che si distingueva in mezzo a quel mare di
cioccolato
erano un paio di occhi scurissimi e profondi che mi fissavano ed un
sorriso
malizioso e sfrontato.
Simone
si portò un dito sull’addome scolpito, premendolo e facendolo scorrere
verso il
basso; portò via una grossa porzione di cioccolato scuro che lasciò
intravedere
la sua pelle lattea al di sotto. I miei occhi tentarono più volte di
non
scendere al di sotto della cintura, ma era quasi impossibile deviare lo
sguardo
da quell’apoteosi di perfezione che era il suo corpo. Mi stupii che il
mio
Cervello non mi fosse già venuto in aiuto e mi sentii profondamente
persa.
«Vuoi
assaggiarmi?» Simone mi
porse il dito indice grondante di cioccolato scuro.
D’improvviso
mi sentii completamente priva di ogni facoltà mentale, come se tutte le
nozioni
che avevo studiato alla facoltà di Legge si fossero volatilizzate
insieme al
mio buon senso.
Simone
si morse un labbro, assaggiando il cioccolato che ricopriva la sua
pelle
bianca. «Ho
un buon sapore…»
soffiò avvicinandomi con quella falange tentatrice che sporgeva verso
di me. «Fuori amaro,
dentro dolce,»
aggiunse.
Non
sapevo più che pesci pigliare con lui, perché sapevo di dovergli
rispondere per
le rime, prenderlo per la collottola, come un cucciolo, e calciarlo
fuori dalla
porta della mia stanza. Invece rimasi immobile come una statuina.
«Assaggiami,
Ven… non te ne pentirai,»
sussurrò malizioso, e a quel punto schiusi le labbra, ormai arrendevole.
Spalancai
gli occhi di colpo, sentendomi accaldata.
Ci
misi qualche secondo a capire che quello che avevo fatto era stato
soltanto un
sogno e la sensazione di sollievo che ne scaturì mi fece sentire come
dopo un
30 e lode in Diritto Internazionale.
Sei salva.
Sbattei
le palpebre un paio di volte per cominciare a recepire dove mi
trovassi, non
ricordando affatto di avere tutto quello spazio a disposizione nel mio
vecchio
appartamento. D’improvviso il trasloco, gli scatoloni, la proposta di
Sofia mi
tornarono alla mente, così sbuffai.
Mi
ero trasferita a casa di Mr. Sono-un-bambino-che-puzza-ancora-di-latte.
In
tutto quel trambusto sospeso tra sogno e realtà, non mi resi conto di
essere
osservata così mi voltai nel grande letto a due piazze e mi trovai un
paio di
iridi scure che mi fissavano curiose. Per poco non imprecai e caddi dal
letto,
ma per fortuna i miei riflessi mi permisero di aggrapparmi alle
lenzuola e non
capitombolare sul duro pavimento di linoleum.
«Che
cazzo ci
fai qui?»
ringhiai, in direzione di Simone che mi fissava divertito.
In
risposta scrollò le spalle e mi fissò col solito sorrisetto beffardo. «Certo
che sei
proprio strana quando dormi. Hai annegato il cuscino di bava... stavi
sognando
di mangiarti un intero pollo arrosto?»
Sbiancai,
ringraziando il cielo che Simone non sapesse leggermi nel pensiero;
infatti,
scattai subito sulla difensiva.
«Non
sono
affari tuoi,»
tagliai corto. «Piuttosto,
cosa ci fai nella mia stanza?»
chiesi di nuovo, cercando di non fargli evadere ancora la domanda.
«La
colazione,» rispose
solo, fissandomi con il mento appoggiato sul pugno chiuso. «Ho
fame,» si lagnò.
Roteai
gli occhi al cielo, cercando di non farmi prendere dalla furia
mattutina delle
8.30. Possibile che fosse così deficiente?
Calmati, Ven, è soltanto il
primo giorno. Alla fine di questa settimana nemmeno ti accorgerai di
lui.
Ovvio,
perché lo ammazzo!
Suvvia, ragazzi. Il gioco
vale
la candela, almeno può vederlo gironzolare nudo per tutta casa!
E
tu chi saresti?
Ormone, è tornato. Non si fa
vedere da un po' troppo tempo.
«Ohi,
ho fame,» m’interruppe
Simone, di nuovo.
A
quel punto feci appello a tutto il mio autocontrollo, perché altrimenti
lo
avrei soffocato con il cuscino grondante di bava.
«Senti,»
iniziai
calma, tentando di appiattire il più possibile i capelli da letto che
mi si
erano spiaccicati a un angolo del viso. «Non so
cosa tu abbia capito, ma
io nella vita faccio l’avvocato non la cameriera, né tanto meno la tua
schiava.
Se vuoi la colazione, te la prepari da solo,»
tagliai corto, senza uscire
fuori di senno.
Almeno
per il momento.
Simone
mi fissò stordito, e solo in quel momento mi accorsi che anche lui si
era
svegliato da poco. I capelli castani erano sparati in ogni direzione,
sembrava
quasi un leone appena destato dal sonnellino pomeridiano. Si stropicciò
un
occhio e grugnì. «Sei
assolutamente inutile.»
M’indispettii
subito, visto che nessuno poteva permettersi di offendermi. Non era
passato
nemmeno un giorno e già rischiavo di lanciargli l’intero servizio di
piatti
addosso.
«Ma
non hai
due mani per prepararti 'sto dannato caffè? Come facevi fino a ieri?» gli
chiesi,
realizzando soltanto in quel momento che mi sarei dovuta preparare per
andare
in ufficio. Scostai le coperte e scesi dal letto.
Simone
mi fissò sghignazzando. «Bel
pigiama,»
commentò, riferendosi ai porcellini rubicondi disegnati sopra la stoffa.
Grazie
tante, mamma.
«Bello
il tuo,» ringhiai di
rimando, scoccando un’occhiata al suo.
«Mphf,»
sbuffò
annoiato. «Ieri
me l’hai portata tu, la colazione, non ti ricordi?» mi
fece
presente, pensando di avermi zittita.
Ci
voleva ben altro per far tacere un avvocato in erba come la
sottoscritta.
«E
l’altro
ieri? Una settimana fa? Come cavolo hai fatto a sopravvivere tutti
questi anni
da solo?»
gli chiesi stupita. Era grasso che cola se riusciva ad aprire le porte
nel
verso giusto, senza sbattersele sul naso.
In
risposta, Simone si stiracchiò come un gatto, stendendosi a pancia
sotto su
quello che fino a prova contraria era il mio letto e alzando il sedere
in alto,
lasciando che la schiena si stirasse da sola.
Che chiappe…
Forse
il tempestivo ingresso dell’altro mio coinquilino nella scatola cranica
occupata solo da Cervello non era stato previsto, né programmato, ma da
quando
avevo incontrato Simone era come se una parte del mio raziocinio
venisse lentamente
bruciata e sostituita da qualcosa di incontrollabile.
Scossi
violentemente la testa e feci per andarmene.
«Le
ragazze
che porto qui mi hanno sempre preparato la colazione, il giorno dopo,» disse
malizioso, voltandosi e spaparanzandosi sul mio letto quasi come fosse
il suo.
Tecnicamente lo è.
«Vuoi
paragonarmi ad una di quelle sciacquette francesi?» lo
provocai,
volendo vedere fino a che punto si spingesse oltre.
Non
aveva idea che stava giocando con il fuoco.
Simone
finalmente si decise ad alzarsi, calzando quelle ormai famose pantofole
a forma
di ippopotamo. «Ovvio
che no,»
rispose, avvicinandomi e superandomi oltre la soglia.
Certo
era alto, molto alto. Gli arrivavo a mala pena sopra l’ombelico e
guardarlo in
faccia era come favorire un bel torcicollo il giorno dopo.
«Io
non mi
porterei mai a letto una come te, senza offesa. Ti paragono più che
altro…» e finse di
pensare. «…a
una delle due brutte sorellastre di Cenerentola, magari Genoveffa.»
Quello
era davvero, oltre ogni modo, indiscutibilmente troppo.
«Sei
proprio
uno stronzo,»
sibilai.
«E
tu una
racchia,»
rispose di rimando.
Assottigliai
gli occhi a fessure. «Sai
che potrei sempre rinunciare a seguire il tuo caso e fare in modo che
non
giochi mai più, vero?»
gli giocai sempre la carta del ricatto.
Simone
ghignò. «Non
lo faresti mai.»
Sbattei
le palpebre sorpresa. «E
cosa ne sai?»
«Perché
Gabriele
mi ha detto che sei soltanto in prova, che da questa causa dipende la
tua
carriera e tu devi vincerla per forza. Perciò non mi faresti mai
affondare,» rispose
soddisfatto.
Schiumai
di rabbia e ponderai il modo per poter uccidere l’altro Sogno, quello
che mi
aveva venduta al miglior offerente. Simone era dannatamente furbo,
nonostante
puzzasse ancora di latte. L’avevo sottovalutato.
«Perciò…»
continuò
sorridendo. Passò un dito indice sulla mia spalla, facendolo scorrere
lungo il
pigiama provocandomi una scia di brividi lungo il braccio. «…la
colazione?»
Imbufalita,
scostai violentemente il braccio dalla mia persona e mi diressi a passo
pesante
verso la cucina, intenzionata a prepararmi il più velocemente possibile
in modo
da fuggire in ufficio, lontano da quella casa e da quel maledetto di
Simone.
«Era
un sì?» mi urlò
dietro, mentre sparii dietro l’angolo.
«Vaffanculo!»
ringhiai in
risposta, sentendomi davvero una stupida.
Afferrai
con violenza la macchinetta del caffè, aprendo poi ogni sportello e
sbattendolo
violentemente alla ricerca del barattolo contenente la miscela.
Brucia la sconfitta, eh?
Non
ti ci mettere anche tu!
Devi ammettere che nessuno
riesce a tenerti testa come fa quel piccoletto laggiù.
Inoltre, è pure gnocco.
La
volete finire voi due?
«È
davanti a
te,»
mi sorprese una voce alle spalle, facendomi trasalire.
«Cosa?»
ringhiai
infuriata.
Simone
avanzò nella cucina e afferrò un sacchetto con su scritto “Caffè”. «Prima
che mi
distruggi la cucina…»
Glielo
strappai di mano assottigliando lo sguardo, senza nemmeno dirgli
grazie. Non si
meritava nulla, né dalla sottoscritta né da nessun altro. Per quieto
vivere lo
avrei sopportato, ma nulla di più. Non appena la causa fosse stata
archiviata,
avrei trovato al più presto un’altra sistemazione.
Riempii
la macchinetta e la misi sul fuoco, nel frattempo cercai il latte e lo
versai
in un pentolino per riscaldarlo. Aprii nuovamente gli sportelli,
cercando
cereali, biscotti o quant’altro, quando notai delle scatole poste
proprio sopra
gli ultimi ripiani della dispensa.
Cercai
di arrampicarmi per afferrarli, ma erano troppo in alto per una di
appena un
metro e sessanta.
Dopo
un paio di tentativi, sentii qualcuno ridacchiare al mio fianco.
«Lo
trovi così
divertente?»
gli feci presente, incrociando le braccia al petto.
«In
effetti
sì,»
affermò lui, sorridendo anche con gli occhi. «È la
prima volta che vedo
qualcuno faticare tanto per arrivare ad un pacco di biscotti,»
sghignazzò.
M’indispettii
immediatamente, scattando sulla difensiva. «Se non
te ne stessi lì impalato
a giudicare, forse potremmo fare colazione e finalmente riuscirei ad
andare a
lavoro.»
«Giselle
ci
arriva benissimo a prendermi i biscotti al cioccolato,»
commentò,
spostandosi dal bancone e raggiungendomi in quel lato della cucina.
Supposi
che tale Giselle fosse la giraffona francese dell’altro giorno. «Quella
è una
pertica, ti credo che ci arriva. Io non posso allungarmi, purtroppo,
sennò lo
avrei già fatto da tempo.»
Simone
ridacchiò sempre più divertito ed io pensai che fosse completamente
scemo. Non
c’erano altre spiegazioni.
Si
posizionò alle mie spalle e mi fissò dall’alto in basso. «Sei
proprio
un piccolo elfo,»
sghignazzò.
Infine
si alzò in punta di piedi, schiacciandomi tra il suo corpo e il bancone
della
cucina, per afferrare quei dannati biscotti. Sgranai gli occhi e
cominciai a
boccheggiare. Per fortuna, o sfortuna, gli avevo dato le spalle, in
modo che
non potesse bearsi dell’espressione che in quel momento avevo dipinta
in volto.
Sentivo
tutto, ma proprio tutto.
In
pochi attimi l’aria mi mancò tutta insieme ed io strinsi con forza il
marmo
della cucina fino a farmi diventare le dita bianche.
Pisellino non gli rende
giustizia…
In
quel momento mi sarei fatta volentieri una auto-lobotomia pur di non
far
svettare quei pensieri nella mia testa alla velocità della luce.
Istintivamente
sentii il bisogno di spostarmi e così feci, fingendo che il caffè
stesse
bruciando.
«Che
ti
prende?»
mi chiese Simone sorpreso, anche se quella luce di malizia che aveva
nello
sguardo non me la raccontava giusta. Che avesse previsto tutto sin
dall’inizio?
Non
gli risposi, ma afferrai due tazze e vi versai una bella dose di latte
e caffè,
posandole sul tavolo e precipitandomi a consumare in fretta e furia la
mia
colazione. Se c’era una cosa che non sopportavo era mostrarmi
imbarazzata di
fronte a qualsiasi persona.
Che
fosse Simone, era centomila volte peggio.
Lui
si sedette di fronte a me e afferrò i biscotti al cioccolato,
cominciando a
sbocconcellarne qualcuno. Ogni volta che beveva una sorsata di latte e
caffè,
gli rimanevano degli sbaffi di latte su entrambe le labbra, quasi come
avrei
fatto io all’età di dieci anni.
Possibile
che non fosse cresciuto?
«A
che ora
devi andare?»
mi chiese d’improvviso, destandomi dai miei pensieri.
Lanciai
uno sguardo al grande orologio a muro. «Fra
mezz’ora devo essere in
ufficio,»
risposi.
«E
ce la fai a
restaurarti in così poco tempo?»
sghignazzò lui. «Mia
madre ci mette le ore per truccarsi. Sai, le rughe…»
Afferrai
la prima cosa che mi capitò a tiro, ovvero il cacao in polvere che
avevo
aggiunto al caffè latte, e glielo soffiai addosso, facendolo diventare
marrone.
«La
prossima
volta impari a stare al tuo posto!» dissi, vedendolo stropicciarsi
gli occhi come un bambino per togliersi il cacao dal viso.
Si
fissò le mani impiastricciate, così come la faccia, poi posò quei
grandi occhi
scuri su di me. «Poi
sarei io il bambino,»
sorrise, ma non diedi tempo al mio cervello di memorizzare quella
meravigliosa
espressione di Simone, perché volai subito in bagno a prepararmi.
Dopo
un quarto d’ora – secondo più, secondo meno – uscii completamente
pronta e
truccata. Mi sentivo molto più riposata rispetto a due giorni prima,
quando
ancora mi ero portata dietro gli strascichi dell’influenza, così mi
precipitai
in cucina con la ventiquattr’ore pronta ad indossare il cappotto e
uscire in
strada.
Simone
era ancora seduto a fare colazione.
Sgranai
gli occhi quando mi accorsi che si era finito tutta la scatola di
biscotti al
cioccolato, oltre ai cereali che stava trangugiando in quel preciso
istante.
Ma è una fogna!
«Che
c'è?» mi domandò
tranquillamente.
«Ancora
stai
mangiando?»
gli chiesi dubbiosa. Come poteva mantenersi così in forma e mangiare
così male
allo stesso tempo.
Simone
scrollò le spalle. «Metabolismo
veloce. Ho sempre fame.»
Ignorai
la voglia di soffocarlo solo perché io ero costretta a cibarmi di
carote e
sedano per farmi entrare quelle dannate gonne a vita alta che
altrimenti mi
sarebbero scoppiate, e raggiunsi l’attaccapanni, dove riposava il mio
trench.
Lo
indossai e mi preparai ad uscire, fin quando Simone non mi fermò sulla
soglia.
«Oggi
siamo a
pranzo da mio fratello, te lo ricordi, vero?» mi
disse, mentre io scavai
nella mia memoria per ritrovare quell’informazione perduta.
Un
paio di immagini di Gabe che faceva promettere a Simone di essere
presente ad
un pranzo con la sua famiglia cominciarono a diventare sempre più
nitide, così
sbuffai.
«Cercherò
di
fare in tempo,»
tagliai corto, sperando che quel pranzo non si trasformasse in un vero
e
proprio incubo.
«Ci
sarà anche
Sofia,»
disse ancora, mentre chiudevo la porta.
Mi
ritrovai davanti allo specchio dell’ascensore con un’espressione in
volto
stravolta, pensando inorridita al momento in cui mi sarei ritrovata di
fronte
tutti e tre i fratelli Sogno.
«Miss
Cloverfield ha fissato un incontro con il suo avvocato per discutere
dell’udienza preliminare la prossima settimana,» mi
annunciò Jamie non appena
misi piede nel suo studio.
Afferrai
la mia agenda dalla ventiquattr’ore e mi segnai precisamente il giorno
dell’incontro con l’accusa. Era logico che prima di entrare in un’aula
di
tribunale le due parti coinvolte tentassero di trovare un punto
d’accordo senza
coinvolgere direttamente un giudice.
«Chi
ha scelto
come suo difensore?»
chiesi a James, sempre più incuriosita.
I
suoi occhi si fecero più scuri, quasi blu oltremare, e
quell’espressione seria
che aveva in volto non prometteva nulla di buono.
«St.
James,» mormorò
calmo. «Carl
St. James,»
aggiunse poi, tornando a fissare un plico di documenti.
Sbiancai
di colpo e strinsi con forza la bic che avevo tra le mani. Non ero a
conoscenza
di tutti i nomi di spicco nel mondo dell’avvocatura lì nella capitale
inglese,
ma Carl St. James era un nome che pochi riuscivano a dimenticare.
Si
era laureato a Oxford all’età di ventidue anni, col massimo dei voti
ovviamente, e aveva subito preso la carriera facendo tirocinio prima lì
alla
Abbott&Abbott, poi, dopo aver assimilato il più possibile, si era
“schierato” con lo studio rivale: George, Vicarot and Hewit.
«Merda,»
imprecai,
accorgendomi subito dopo che ero ancora di fronte a James.
Lui
mi sorrise e finalmente riacquistò quella particolare luce che aveva in
quei
timidi occhi azzurri.
«Non
avrei
saputo esprimermi meglio,»
commentò.
A
quel punto la domanda mi scaturì logica. «Ma
Miss Cloverfield come ha
fatto a garantirsi l’appoggio di uno come St. James?»
chiesi
sorpresa.
Avevo
dato per scontato, data la mia ignoranza in materia di gossip e
quant’altro,
che tale Miss Cloverfield fosse una delle tante sciacquette che
TermoSifone si
era portato a letto in una delle sue notti brave. Una delle tante
tacche sul
suo bastone delle scopate.
James
cominciò a frugare in quella che sembrava un campo di battaglia di
carta A4, e
che invece doveva assomigliare ad una scrivania in mogano da ufficio.
Ne ricavò
un giornaletto che mi porse e sulla cui copertina spiccavano un paio di
meravigliosi occhi scuri, labbra carnose, capelli castano biondo e un
nasino
appena accennato su un viso scarno, tipicamente da modella.
Alta
un metro e cinquemila chilometri.
Una gnocca.
«Lei
è
Elizabeth Ginevra Cloverfield. È una delle top model inglesi più famose
al
mondo. Ha sfilato anche a Roma, se ti interessa,» mi
sorrise James.
Premesso
che non leggevo un giornale di gossip dai tempi di Cioè,
un giornaletto per ragazzine del liceo, non avevo idea di chi
quella ragazza fosse, anche se dalle foto in copertina appariva tanto
sicura di
sé, come una vera professionista.
«Ma
allora lei
non vuole i soldi da Simone!»
me ne uscii all’improvviso, utilizzando il suo nome di battesimo sovra
pensiero.
Vidi
James storcere lievemente il naso, anche se non fui proprio sicura che
si
trattasse di una reazione dovuta alla nomina del calciatore.
«No,
infatti,» mi confermò.
«Inizialmente
Miss Cloverfield non aveva dato le sue generalità e si sapeva
unicamente di una
modella che faceva causa per il riconoscimento dei doveri di paternità
da parte
di Mr. Sogno sul bambino che portava in grembo; successivamente St.
James ha
reso pubblica l’identità di Miss Cloverfield e da lì è caduta la mia
ipotesi
della finta gravidanza per un risarcimento in denaro.»
Guardai
nuovamente la rivista, perplessa. Il volto della giovane donna appariva
sicuro,
sfacciato, così come quel corpo perfetto, slanciato, e soprattutto
scheletrico.
Mi
ritrovai a pensarla col pancione.
Le si spezzeranno le
ginocchia
col peso.
Poco
ma sicuro, sembrava che avesse le ossa cave come gli uccelli e di punto
in
bianco potesse spiccare il volo. Come diavolo facevano a piacergli
donne del
genere a Simone?
E questa domanda?
Ignorala.
«E
allora cosa
vuole?»
chiesi, visto che ormai eravamo in ballo.
Se
volevano un incontro preliminare, sicuramente avrebbero messo a nudo le
intenzioni di Miss Cloverfield, ma sarebbe stato più saggio arrivare
all’appuntamento preparati a tutto. L’opzione soldi era scartata, visto
che
quella signorina guadagnava con una sfilata più di quanto io avrei
risparmiato
in cinque anni lì allo studio.
James
sospirò, stendendosi con la schiena sulla poltrona dell’ufficio. Si
mise le
mani sulle tempie massaggiandole e stirò le labbra in una piega seria.
Era
talmente affascinante che nemmeno se ne rendeva conto. Rimasi a fissare
la
linea dura della mascella, così mascolina, con quel velo di barba
spruzzato
sopra e ne rimasi affascinata.
C’erano
uomini e uomini. Io potevo dire di averne conosciuti abbastanza, certo
non mi
reputavo un’esperta, ma avevo sviluppato un buon occhio per quelle
cose. James
apparteneva ad una cerchia ristretta di persone, di quelle che si
incontrano
una volta nella vita, forse due.
Aveva
una capacità innata di trasmettere sicurezza alle persone che aveva
intorno, di
calmarle, suscitava una strana empatia a chi gli era vicino e per un
avvocato
era forse una delle migliori qualità che si potessero desiderare. Lo
invidiavo?
Molto probabilmente no, non sarei riuscita a rimanere calma e
controllata
davanti a tutto e a tutti, senza mai perdere la calma.
Devo ricordarti la sfuriata
di
stamattina?
Appunto.
«Ancora
non lo
sappiamo con certezza,»
mi rispose calmo, schiudendo le palpebre. Con la luce del tardo mattino
che
filtrava dalle tapparelle dell’ufficio, notai delle pagliuzze dorate
brillare
in quelle iridi e ne rimasi quasi estasiata nel contemplarle. «La
cosa che
mi preoccupa di più è che non avendo trovato il vero movente di questa
accusa a
carico di Mr. Sogno, l’unica cosa che mi rimane da ipotizzare è che la
gravidanza sia vera,»
sospirò.
Uno
strano senso di fastidio s’insinuò sotto pelle e cominciò a darmi un
leggero
prurito.
«Conoscendo
le
abitudini, il carattere e i comportamenti di Mr. Sogno, non escluderei
del
tutto il fatto che tutta la storia sia vera. In fondo, l’hai visto
anche tu che
si comporta come un bambino,»
aggiunse.
«Lui
è
un bambino,»
lo corressi subito, sorridendo.
Eppure
quella sensazione di fastidio sotto pelle non se ne andava. Rimaneva
lì, a
darmi il tormento, e più tentavo di porvi sollievo, magari
accarezzandomi
distrattamente un braccio, più quel prurito s’intensificava.
Non è che il bamboccio ti ha
attaccato qualche malattia?
La
Simonite?
James
sorrise gentilmente e il suo viso s’illuminò come la prima giornata
d’estate.
Era bello, c’era poco da fare, e anche se non volessi ammetterlo a me
stessa,
mi stavo facendo coinvolgere sempre di più. Altro che tutto lavoro e
niente
vita privata.
Sei un essere umano.
No,
io sono Venera e devo resistere!
«Comunque
non
è da escludere questa possibilità, visto il carattere del cliente. Poi
tu lo
conosci meglio di me, visto che ti sei trasferita a casa sua...» e
lasciò la
frase in sospeso di proposito, cosicché il silenzio che ne seguì
crepitò
nell’aria con un accenno di elettricità.
Avevo
intuito che gli desse fastidio il fatto che avessi deciso di
condividere
l’appartamento con Simone, ma non riuscivo a comprenderne il motivo. In
fondo,
eravamo colleghi e ci conoscevamo da pochissimo tempo. Avevo il diritto
di
abitare dove volessi.
«Lasciamo
perdere,»
sospirai, incapace di nascondere il mio fastidio per tutta quella
assurda
situazione. A partire da quella stessa mattina.
Fissai
distrattamente l’orologio da polso e sbiancai, notando che fosse quasi
ora di
pranzo e che mi aspettasse un appuntamento direttamente a casa Sogno.
«Cavolo,
è
tardissimo!»
esclamai, alzandomi dalla poltroncina e cominciando a raccogliere tutti
i
documenti.
James
mi aiutò senza mai staccarmi gli occhi di dosso. «Dove
devi andare?» mi chiese,
cercando di non risultare troppo invasivo.
Adoravo
le buone maniere inglesi. Altro che le scenate dei ragazzi con cui ero
stata
precedentemente.
A
quel punto alzai lo sguardo e lo intrecciai col suo. Avrei potuto
mentirgli,
affermando di dover correre agli allenamenti con Simone oppure da
qualsiasi
altra parte il calciatore volesse andare, oppure affrontarlo e dirgli
la
verità.
In
fondo non eravamo nulla l’uno per l’altra, per quale motivo avrei
dovuto dire
una bugia?
«Devo
andare a
pranzo da Gabriele, il fratello di Mr. Sogno,» dissi
distrattamente, almeno
fingendo che non me ne importasse un fico secco.
Fingendo?
Cioè,
intendevo che non me ne fregava davvero nulla di quel maledetto pranzo.
«Capisco,»
smozzicò
lui, ed io avvertii una nota di... delusione?, nella sua voce.
Non
sapevo come comportarmi con James. Sembrava un ragazzo a posto,
all’apparenza
semplice e di buone maniere, avevo avuto la presunzione di riuscire a
capirlo
come un libro aperto, eppure mi spiazzava ogni volta.
Cosa
pretendeva? Mi aveva ordinato lui di essere l’ombra di Simone, di
seguirlo
dappertutto per impedirgli di cacciarsi nei guai ed ora mi metteva il
muso?
«Hanno
invitato Mr. Sogno perché a quanto pare non si fa mai vedere in
famiglia, così
mi sono dovuta accodare anche io,» dissi contrita, in modo da
dimostrargli che non me ne fregava una ceppa di andare a quello stupido
pranzo.
James
mi sorrise. «Non
devi darmi alcuna spiegazione.»
E qui ci fu il primo, forte, colpo al cuore. Credetti quasi si
spezzasse se non
fosse ricoperto di ferro. «In
fondo te l’ho chiesto io di tenerlo d’occhio, non devi giustificarti.»
Pensai
davvero che si fosse offeso, che se mai ci fosse stata una qualche
speranza di
poter uscire insieme un giorno, per colpa di Simone era tutto andato a
farsi
benedire.
D’improvviso
si udì il suono di un clacson provenire dalla strada di fronte
all’ufficio,
così ci avviammo verso l’ingresso, notando un nugolo di persone
accalcate
davanti alla porta a vetri. Il fastidioso suono del clacson proseguiva
imperterrito, nonostante la maggior parte delle persone nei dintorni
urlasse
qualcosa del tipo “abbi un po’ di rispetto, giovanotto” oppure “qui si
lavora!”.
Pensai
a quale razza di deficiente potesse parcheggiare su Regent Street e
cominciare
a strombazzare senza curarsi minimamente dell’inquinamento acustico o
del
rispetto dell’altrui persona, poi mi avvicinai al vetro della porta
d’ingresso
e scorsi la cinquecento blu metallizzata di Simone.
Avevi forse dei dubbi?
No,
infatti. Che deficiente.
«Oh,
Gesù…
aiutami…»
sospirai, mettendomi letteralmente le mani nei capelli.
Si
poteva essere più deficienti e immaturi di lui? Evidentemente no,
perché non
era normale richiamare con il clacson la mia attenzione quando
esistevano i
telefoni cellulari dal lontano 1997.
Era
il massimo della cafoneria.
«M-Mr.
Sogno?» chiese
scioccato James, sgranando gli occhi in direzione del ragazzo con gli
occhiali
da sole e con un braccio fuori dal finestrino che continuava
imperterrito a
suonare.
Roteai
gli occhi al cielo e pensai immediatamente di raggiungerlo, almeno per
fargli
smettere quel rumore assordante che avrebbe mandato chiunque ai pazzi.
Almeno
prima che arrivasse Abbott Senior dovevo assicurarmi che Simone
sparisse.
«Certo
che il
tuo ragazzo è un vero cafone!»
commentò acida Yuki.
Le
lanciai un’occhiata di traverso per incenerirla, ma in quel momento
avevo ben
altre cose a cui pensare. Lei era sicuramente l’ultima dei miei
infiniti
problemi.
Scattai
immediatamente verso la porta, scendendo i gradini ed uscendo in strada
per
raggiungere finalmente Simone che si tolse gli occhiali da sole e fece
un gesto
come a dire “era ora!”.
D’improvviso,
però, mi sentii trattenere da qualcuno e, voltandomi, mi ritrovai gli
occhi di
James addosso, stupendi e più azzurri che mai.
Non
sapevo cosa dire, né chiedere spiegazioni sul perché mi avesse fermato
in mezzo
alla strada. C’erano ancora gli altri colleghi dello studio a
guardarci, nonché
Simone e il suo sguardo scuro che mi perforava la schiena.
«Ti
va di
andare al Torsolo di Mela, stasera?» mi
domandò
quasi sottovoce, per non farsi udire dagli altri.
Il
Torsolo di Mela era un ristorante-pub nelle vicinanze dell’ufficio,
abbastanza
carino ma popolato per lo più da coppiette che cenavano allegramente
nel
piccolo spazio che c’era in quel locale. Deglutii a fatica, non capendo
esattamente le intenzioni del bell’avvocato.
«Così
discutiamo meglio del caso, altrimenti non riesco mai a vederti con il
problema
di babysitting,»
scherzò, tirando fuori un sorriso che avrebbe spento di colpo tutte le
stelle
del firmamento.
Stiracchiai
un sorriso imbarazzato a mia volta, tentando di non arrossire. «Certo,» gli
risposi
tranquilla, forzandomi di pensare che non si trattasse di un
appuntamento ma di
qualcos’altro. Magari un incontro di lavoro post-orario.
Seh, come no!
Zitto,
tu!
James
mi sorrise, dopodiché il suo sguardo era come se mi suggerisse di
raggiungere
Simone prima che ricominciasse a suonare quel clacson fastidioso. Mi
voltai per
raggiungere la Cinquecento blu metallizzata e sentii ogni passo farsi
sempre
più leggero, quasi volteggiassi su quel marciapiede di roccia arenaria.
Sapevo
di non dovermi fare strane idee, perché in fondo non si trattava di un
vero e
proprio appuntamento, ma quello slancio di James nei miei confronti
proprio
quando avevo pensato che non ci sarebbe più stata speranza per un noi, voleva dire tanto per la
sottoscritta.
Raggiunsi
il posto del passeggero e mi sedetti al fianco di Simone, che sembrava
particolarmente scazzato. Nonostante avesse rotto le palle fino a
cinque minuti
prima, aveva un diavolo per capello.
«Che
voleva quello?» mi domandò subito.
«Quello è il tuo avvocato,
innanzitutto,»
gli ricordai, visto che non aveva il minimo rispetto per il lavoro che
stavamo
facendo per salvargli il culo. «Secondo,
poi, cosa ti importa? Hai fatto un casino con questo clacson senza
curarti
minimamente del disturbo pubblico che hai creato. Non è la tua città e
tu non
sei il padrone di questa strada, te lo vuoi mettere in testa?»
Simone
si accigliò sempre di più, diventando scuro in volto. Non mi rispose,
ma
indossò di nuovo gli occhiali da sole e lasciò che la Cinquecento si
immettesse
in strada senza aggiungere una parola.
Non
sapevo perché fosse così arrabbiato, visto che quella mattina aveva
avuto la
sua rivincita sulla sottoscritta. Odiavo dover indovinare l’umore della
gente e
sinceramente non mi importava granché visto che la mia mente per ora
era
occupata unicamente da James e dai suoi meravigliosi occhi blu.
Zigzagammo
nel poco traffico dell’ora di pranzo fino a dirigerci nella zona di
Marble
Arch, vicino la parte settentrionale di Hyde Park. Era una zona
verdeggiante e
abbastanza abitabile, molto tranquilla.
Avevo
visto un appartamento lì, prima di trasferirmi nel monolocale di Oxford
Street,
ma era troppo costoso per il budget che avevo messo da parte per
l’appartamento.
Mi
ritrovai a pensare a quale lavoro facesse Gabriele. L’avevo visto solo
una
volta, a casa di Simone, vestito di tutto punto.
Tutti
e tre i fratelli Sogno, da quel poco che avevo intuito conoscendoli,
erano
persone distinte, molto signorili, dal portamento elegante; anche se
Simone…
…è Simone, punto. Non si può
descrivere uno così.
«Tuo
fratello
vive qui?»
gli chiesi, osservando di nuovo il quartiere vicino Marble Arch. La
strada
costeggiava la piccola piazza dove troneggiava l’arco di marmo molto
simile
all’arco di Costantino che si trovava vicino al Colosseo.
«No,
sto
girando a vuoto da un’ora cercando parcheggio per poi prendere la Tube
e andare
fino a Greenwich dove abita realmente Gabe,»
rispose Simone stizzito.
Cos’era?
Sarcasmo?
«Oggi
ti rode,
eh?»
osservai piccata.
Lui
mi rivolse una mezza occhiataccia e continuò a gironzolare con la
Cinquecento
alla ricerca di un posto libero. Si vedeva che era più nervoso del
solito, ma
non pensai fosse colpa di James, anche se sembrava avercela a morte con
l’avvocato. C’era qualcos’altro nei suoi gesti che gli metteva addosso
una
strana pressione e magari era per quello che evitava spesso e
volentieri questi
incontri ravvicinati con la sua famiglia.
Alla fine, anche tu fingi di
avere il ciclo quando zia Guendalina ti invita a pranzo.
Gli
amici te li scegli, ma i parenti ti toccano. Mai alcun detto fu più
azzeccato
di quello.
Non
appena un parcheggio fu liberato da una Matiz, Simone svoltò
velocemente e dopo
un paio di manovre riuscì a mettere perfettamente la Cinquecento entro
le
strisce, in modo da evitare qualsiasi multa.
«Non
è vicino
quanto mi aspettassi, ma va bene,» disse, dopo aver controllato lo
specchietto retrovisore.
«Ti
pesa il
culo?»
lo apostrofai, decidendo di lasciare la ventiquattr’ore nella macchina.
Simone
mi lanciò un’occhiataccia, poi però sorrise sornione. «A me
no, ma
il tuo è talmente grosso che ti ci vorrà una carriola per arrivare da
Gabe,» sghignazzò.
Cercai
di non prendermela perché sarebbe stato come sparare sulla croce rossa.
Era
così idiota.
«Ovvio
che il
mio sedere è grosso, visto che sei abituato a farti i manici di scopa
senza
nemmeno un filo di grasso a parte pelle e ossa,»
commentai acida, soprattutto
ricordando Miss Cloverfield.
«Meglio
delle
balene,»
sibilò in risposta, uscendo dalla macchina.
Lo
seguii per raggiungerlo sul marciapiede, mentre aumentava il passo di
proposito
con quelle sue lunghe e atletiche gambe da calciatore.
«Sicuramente
si saranno vomitate pure il cervello dal naso per raggiungere quel peso,»
commentai
ancora, senza mai smettere di pungolarlo.
Era
vero che quel discorso non ci avrebbe portato da nessuna parte, perché
Simone
era più testardo della sottoscritta, ma ero stufa di dover sempre
smettere per
prima. Avrei insistito finché Simone non si fosse arreso. Era una
questione
d’orgoglio.
«Bello
l’avvocato, allora,»
insistette lui, scoccandomi un’occhiata di traverso mentre aumentava il
passo.
Dovetti cominciare a correre per stargli dietro. Possibile che avesse
una
falcata di dieci metri?
«Perché?
Hai
qualcosa contro James?»
gli feci incuriosita.
Si
comportava in modo davvero strano e stava dando sfogo a tutto il
nervosismo che
gli avevo visto addosso. Stamattina non mi aveva dato modo di
preoccuparmi in
quel verso, anzi, era stato più tranquillo del solito.
Simone
fece spallucce e proseguì, fermandosi poi di fronte ad un’alta
palazzina in
puro stile vittoriano. «Sembra
mio nonno,»
commentò.
Spinse
il pulsante sul citofono e attese. In seguito il portone scattò ed
entrammo
velocemente nell’androne dove ci aspettava il portiere che ci salutò
con un
cenno del capo ed un Buon pomeriggio.
Attendemmo
di fronte l’ascensore quando un dlin-dlon
ci comunicò l’arrivo della cabina. Entrammo frettolosamente e Simone
spinse il
secondo piano.
«Comunque
non
è James ad essere vecchio,»
continuai, riprendendo il discorso di prima. «Sei tu
ad essere un marmocchio.
È quella l’unica differenza.»
Simone
mi fissò come se avessi appena detto chissà quale blasfemia. «Quello
me
pulisce ‘e scarpe!»
sbottò in romano ed io avvertii nuovamente quel brivido e quello strano
prurito
su tutta la pelle.
Che
diavolo mi stava succedendo?
Saranno i postumi
dell’influenza?
«Quello
ha una laurea e un master, inoltre è intelligente, forbito, educato,»
sospirai. «Cose di cui
tu non sai nemmeno l’etimologia della parola.»
«Lo
dici tu,
saccentona,»
ringhiò offeso.
«Non
lo conosci
nemmeno!»
sbottai, stufa di dover prendere le difese di James.
Non
aveva alcun diritto di parlar male di lui, quando Simone era il primo
ad avere
mille mila difetti di cui non si preoccupava minimamente.
«Mi
è bastato
vederlo atteggiarsi a damerino dei miei stivali,»
commentò, sempre più acido.
Ma
cosa gli prendeva?
«Cosa
ne sai
tu, eh? Da che pulpito viene la predica,poi!»
m’impuntai, stufa di quel suo
comportamento da donna mestruata. «Sei l’unico che ha un Ego grosso
quanto una casa e parla sempre di se stesso quasi fosse l’unico uomo
sulla
Terra. Capisco che sei pieno di te, che sei un pallone gonfiato,
tronfio e
insopportabile, ma almeno finiscila di fare la morale agli altri quando
tu sei
il primo a pavoneggiarti ogni santo giorno e ad atteggiarsi a damerino
con la
puzza sotto il naso!»
Simone
sgranò gli occhi poco prima che le porte si aprissero col solito suono
metallico.
Davanti
a noi apparve una porta in mogano scura, con due belle piante di ficus
ai lati
a decorarne l’ingresso. Il pianerottolo era più piccolo di quello di
Simone, ma
già la palazzina di per sé trasudava antichità per le rifiniture e gli
affreschi vittoriani su alcune delle pareti.
«Allora
ti
piace…»
insinuò Simone, prima di suonare il campanello a tradimento.
Sgranai
gli occhi sorpresa, cercando di non arrossire. «C-Cos-Chi?»
sbottai,
facendo la finta tonta.
Non
ebbi mai la sua risposta perché sulla soglia apparve immediatamente una
bambina
di circa cinque-sei anni, con i capelli a caschetto castani e un paio
di occhi
grigi.
Sorrise,
mostrandoci la finestrella di uno dei suoi dentini davanti, poi si
lanciò
letteralmente ad abbracciare una delle lunghe gambe di Simone.
«Zio
Simo! Zio
Simo! Zio Simoooooo!»
gridò quasi come un’ossessa, abbarbicandosi all’arto come una piccola
scimmietta.
Simone
sorrise e fu come se tutta la tensione accumulata fino a qualche
momento prima
fosse volata via d’improvviso.
«Ehi,
piccola
peste!»
le disse, afferrandola e portandola in braccio. La bambina gli si
avvinghiò
come un cucciolo di koala, ma la cosa che mi sconvolse maggiormente fu
il
sorriso di Simone. Non lo avevo mai visto sorridere in quel modo, con
quello
che veniva chiamato calore.
Sembrava
ardere di affetto per quella piccola bambina, e davvero stentavo a
riconoscerlo.
D’improvviso
quel paio di occhi grigio-blu si posarono sulla sottoscritta. Il visino
della
bambina spuntò dalla spalla muscolosa di Simone e mi fissò di traverso.
Era
timida e dolce, la salutai con la mano e le sorrisi.
«Ciao!» le
dissi
poi, cercando di conquistarmi il suo favore.
Da
principio la piccola si nascose ancor più contro il collo di suo zio –
ancora
mi faceva strano sentire questa parola ed associarla a Simone –, poi
rialzò
nuovamente lo sguardo.
«È
la tua
fidanzata, zio?»
gli chiese, parlando correttamente in italiano.
Co-cosa?
Io la fidanzata del bamboccio? Beata innocenza...
Stai sorvolando
appositamente
sul fatto che ormai tutti ti paragonino alla fidanzata di
TermoSifone?
Sto
cercando di ignorarlo, sì.
Simone
si voltò verso di me e sghignazzò divertito.
Stavo
subito per risponderle di no, che ero solamente un’amica del caro
zietto e che
molto probabilmente non mi avrebbe mai più rivista, quando il
calciatore
ghignò, facendo sparire quel sorriso estasiato e irriconoscibile che
gli avevo
visto fare poco prima.
«Sì,
tesoro,» le sussurrò
all’orecchio in un italiano perfetto. Mi fissava mentre glielo diceva,
mi
fissava con quegli occhi scuri e maliziosi, ferini come quelli di un
gatto. «Quella laggiù
è la fidanzata di zio Simone. È bruttina, vero?» le
chiese ed io m’inacidii
subito.
Che
razza di stronzo.
Vidi
la bambina osservarmi meglio, spalancare quegli occhioni plumbei e
squadrarmi
dall’alto in basso come avrebbe fatto una persona adulta. Di certo non
dovevo
stupirmi, era una Sogno pure lei dopo tutto.
«Non
è vero,
zio,»
disse con sincerità, sorprendendo anche Simone. Lo vidi spalancare
quegli occhi
scuri e tendere ogni porzione di quel viso liscio, quasi come quello
della sua
nipotina. Sembravano due bambini messi a confronto l’uno con l’altro.
Certo Simone sembra così
giovane.
«Lei è bella.
Molto più bella di quelle di prima,» sorrise, nascondendo poi il
viso di nuovo nell’incavo della spalla del calciatore.
Ad
interrompere quel momento di imbarazzo, intervenne una donna alta e
posata.
Sembrava uscita anche lei da una rivista di moda, ma di una di alta
classe.
Aveva i capelli raccolti in una crocchia elegante e ordinata, sul volto
aveva
appena un accenno di trucco e il suo sorriso era così cordiale che mi
sembrò di
essere di nuovo nella mia campagna di Tivoli.
«Benvenuti,» disse
in un
accento perfetto, che mi suggerì subito la sua appartenenza all’isola
britannica. «Prego,
venite in sala da pranzo e datemi pure i cappotti.»
Entrammo
nel piccolo ingresso dell’abitazione mentre la piccola ancora si
stringeva a
Simone senza mai lasciarlo andare. La donna sorrise bonaria guardando
la
bambina.
«Susy,
vuoi
lasciar respirare tuo zio?»
le chiese, tentando di scollarla da Simone.
La
piccola in risposta si spiaccicò ancora di più contro il petto del
calciatore. «No!» disse,
facendo i capricci.
La
donna sospirò con eleganza e si portò le mani in grembo. Pensai che
qualsiasi
gesto facesse, trasudava eleganza e buone maniere. Era così posata,
tranquilla
e solare. Quella era una delle caratteristiche che invidiavo
maggiormente del
popolo anglosassone, o, almeno, di quello più aristocratico.
Il
suo sguardo infine si posò su di me. «Tanto
piacere, il mio nome è
Rose e sono la moglie di Gabriele,» disse, porgendomi la mano.
Immediatamente
mi riscossi dai miei pensieri e le afferrai la mano con decisione. «Venera,» dissi
impacciata. «Venera
Donati,»
aggiunsi.
Lei
spalancò delicatamente gli occhi, poi mi sorrise. «Sei
italiana
anche tu,»
e ammiccò a Simone.
Ma in quella famiglia
giravano cospirazioni
a mia insaputa?
Simone
non afferrò subito quell’occhiata, perché distolse lo sguardo e si
concentrò
sulla piccola che aveva in braccio. La bambina, in risposta, si rivolse
subito
alla madre come se non aspettasse altro.
«Mamma,
mamma!» le urlò,
stavolta lasciando andare Simone e costringendolo a metterla giù. Si
affrettò a
raggiungere la gonna della madre e a tirarla con forza finché la donna
non
abbassò lo sguardo verso di lei. «Lo sai che lei è la fidanzata di
zio Simone? Non è bellissima?»
Di
colpo arrossii come se tutto l’imbarazzo che avevo cercato di
nascondere poco
prima, dilagasse sul mio viso senza alcun freno.
«Non
è vero,» mi affrettai
a rispondere, mettendo le mani avanti, sia metaforicamente che
realmente.
Rose
si limitò a sorridermi e a lanciare uno sguardo verso Simo che faceva
l’indifferente. Anzi, sembrava proprio che quella situazione lo
divertisse più
del dovuto.
«Io
non
smentisco né confermo,»
si limitò a rispondere e per poco non lo fulminai con lo sguardo.
Come
se quella situazione non fosse già delle peggiori, Susanna cominciò a
correre
per tutto il corridoio della casa, urlando a squarciagola che suo zio
Simone
aveva portato la fidanzata a casa per conoscerla.
Ovviamente
desiderai sprofondare nel pavimento oppure diventare un camaleonte come
Pascal.
«Venite
da
questa parte,»
ci propose Rose, invitandoci a proseguire lungo il corridoio percorso
prima da
Susanna.
La
donna ci fece strada fino ad un grande salone già apparecchiato, con un
centro
tavola fatto di fiori freschi e profumati. Tutto l’ambiente era
immacolato ed
ordinato, ma soprattutto arredato con gusto e finezza. Mi ritrovai a
pensare
ancor più che Rose doveva essere una donna di gran classe, anche se mi
pareva
maleducazione chiederle cosa facesse di preciso per vivere.
Non
appena mettemmo piede nel salone, subito sei paia di occhi ci furono
addosso.
Tra
le tante persone che erano sedute in salotto, riconobbi immediatamente
Gabriele
nel suo completo elegante, Sofia col suo sorriso elfico e quello
sguardo
malizioso che mi fissava e, infine, anche un paio di occhiali spessi
come fondi
di bottiglia, sospesi su un viso che somigliava vagamente a quello di
una
talpa.
Quel tizio l’ho già visto da
qualche parte…
Sofia
si alzò dalla poltroncina e mi corse incontro, saltellando allegra come
poco
prima aveva fatto Susanna. I suoi lunghi capelli biondi volteggiavano
come una
nuvola di sole e il suo profumo mi avvolse quando mi buttò
letteralmente le
braccia al collo.
«Che
piacere
rivederti!»
mi disse estasiata.
Barcollai
qualche passo più indietro, sostenendo l’impeto di quell’abbraccio, poi
lo
ricambiai.
«C-Ci
siamo
viste ieri, veramente,»
le feci presente, ma lei mi ignorò.
Quando
mi lasciò andare dal suo abbraccio soffocante, vidi alle sue spalle il
ragazzo
con gli occhiali timido che mi pareva di aver già visto da qualche
parte. Si
fece avanti, con la testa affossata nelle spalle e un’espressione che
rasentava
lo svenimento.
«C-Ciao,
m-mi-mi chi-chia-chiamo, mi chiamo Ru-Rub-Ruben,»
disse, porgendomi la mano. «N-No, No-Non
so s-e-se-se ti ri-rico-ricordi d-di di me!» sputò
poi, tutto d’un fiato.
In
quel momento mi ricordai di quel ragazzo silenzioso e mite, il migliore
amico
di quel troglodita di Leonardo, nonché suo manager.
«Sì,
mi
ricordo!»
dissi all’improvviso, quasi come un’epifania.
Lui
mi sorrise, dopodiché vidi Sofia avvicinarsi a quella sottospecie di
rospo con
i binocoli al posto degli occhiali e stringergli amorevolmente la mano,
tranquillizzandolo.
Che quei due stessero…?
Simone
si chinò quel tanto da sfiorarmi l’orecchio con le labbra. «Mia
sorella
ha gusti raffinati,»
mi sussurrò, facendomi rabbrividire. «Come
vedi preferisce i troll
alle persone normali.»
Avrei
voluto assestargli una bella gomitata nell’addome lì davanti a tutti,
ma quando
un uomo sui cinquanta, vestito di tutto punto e con un sorriso davvero
ammaliante
mi si presentò di fronte, il mio cervello azzerò qualsiasi facoltà
mentale.
Gli
occhi scuri dell’uomo mi folgorarono. Dentro di essi vi si poteva
leggere
determinazione, sicurezza di sé, un potere sugli altri davvero
disarmante.
Mi
ricordarono molto quelli di Simone.
«Tanto
piacere
di conoscerti,»
mi disse con garbo ed io gli porsi la mano.
Invece
di stringerla come avrebbero fatto tanti, l’afferrò e chinandosi mi
fece il
baciamano, quasi fossi una dama d’un tempo.
Arrossii
violentemente senza riuscire a controllarmi.
«Vuoi smetterla,
pa’?»
disse Simone, infastidito, frapponendosi tra me e il signore distinto
che
emanava un fascino magnetico e sensuale.
Davvero,
era impossibile resistergli.
L’uomo
sorrise e mise le mani nelle tasche del completo elegante, sfoderando
poi
un’espressione furbesca.
«Suvvia,
Simone, non crederai mica che possa soffiarti la fidanzata,» e
sogghignò
nella mia direzione.
A
quel punto rabbrividii perché compresi chi fosse realmente quell’uomo
su cui
momentaneamente avevo avuto delle fantasie poco caste.
Maledetti ormoni.
«Io
sono
Marco, il padre di Simone. Mio figlio è talmente scortese che non
concepisce il
concetto di buone maniere,»
commentò sorridendo e trovando l’ulteriore scusa per farsi più vicino.
«Oh,
lo so
perfettamente.»
Quel
commento mi sfuggì dalle labbra, anche se avevo l’intenzione di tenerlo
per me.
Fuoriuscì da solo, senza controllo, tanto che Mr. Sogno – senior –
sorrise
furbescamente.
«È
diversa da
tutte le altre che ci hai portato» disse, rivolto al figlio.
Simone
fece spallucce e se ne disinteressò completamente. Anzi, mi mise un
braccio
sulla testa, quasi mi avesse scambiata per un comodino, o qualcosa del
genere.
«Sarà
l’altezza…»
smozzicò.
Mi
divincolai immediatamente da quella posizione imbarazzante, quando,
indietreggiando, non mi scontrai con l’ultimo dei Sogno che mancavano
all’appello.
«S-Scusa!»
dissi,
nuovamente rossa dall’imbarazzo.
Possibile
che ogni due per tre dovessi fare una figura di merda?
Gabriele
mi sorrise e mi aiutò a tornare in equilibrio, per quanto quelle
decolleté
scomode me lo consentissero. «Simone
fa questo effetto certe volte,»
commentò. «Riesce
a far scappare le donne.»
«Non
è vero!» protestò
immediatamente lui, con il volto imbronciato.
«Sicuramente
scapperanno per la cura con cui tiene la sua stanza da letto,»
ridacchiai,
trovandomi sempre meglio in quella famiglia così simpatica.
Simone
mi fulminò con lo sguardo, ma gli sguardi di tutti erano puntati su di
me.
C’era la piccola Susanna che evidentemente mi aveva preso in simpatia,
perché
continuava a fissarmi con quei grandi occhi grigi, così come Sofia che
aveva
sempre quel taglio degli occhi enigmatico.
L’unico
normale in quella famiglia doveva essere il povero Ruben che non
rasentava la
perfezione come tutti i membri dei Sogno.
«Sta'
zitta
che hai annegato il cuscino di bava questa mattina!» mi
ringhiò
contro lui, vendicandosi dell’allusione di poco prima.
La
piccola Susanna cominciò a ridere a crepapelle, appoggiandosi alle
gambe
slanciate del padre. In seguito corse verso il nonno – e che gran bel
pezzo di
nonno – e gli tirò la giacca con vigore per attirare la sua attenzione.
«Nonno,
nonno!» trillò
estasiata.
«Che
cosa c’è
angelo mio?»
le chiese il signor Marco, abbassandosi all’altezza della piccola.
Lei
si nascose ancora al mio sguardo, affossando il volto nella giacca di
Mr.
Sogno, e mi lanciava delle occhiate divertite di tanto in tanto,
arrossendo.
«Zio
Simo e
zia Ven dormono assieme!»
trillò eccitata.
Sbiancai
di colpo, come un candido lenzuolino lasciato ad asciugare al sole.
Sentii
la risata cristallina di Sofia al mio fianco, fresca e pura come una
sorgente
d’acqua fresca. Anche Gabriele e Rose sorrisero, così come il signor
Marco che
ci fissò malizioso.
«N-No!
È
assolutamente falso!»
cercai di mettere le mani avanti, sentendomi una perfetta idiota. «Diglielo
anche tu!»
mi rivolsi a Simone, ma lui era di tutt’altro avviso.
Infatti,
si limitò a scrollare le spalle e a sedersi a tavola, ignorando tutti
gli
altri.
Mi
voltai verso Sofia e scossi energicamente la testa. «È
soltanto un
equivoco,»
mi giustificai.
«E
come fa a
sapere che stamattina hai inondato il cuscino di saliva?»
sorrise
Gabriele, sempre più divertito.
Quella
famiglia mi avrebbe mandato ai pazzi.
«Quindi
vivete
assieme?»
s’informò Mr. Sogno, prendendo in braccio la piccola nipotina.
Stavo
prontamente per rispondere con un bel “NO” urlato a gran voce, quando
Gabriele
si intromise in quella conversazione, anticipandomi.
«Venera
aveva
bisogno di una sistemazione, e visto che Simo ha casa grande, si è
offerto di
ospitarla,»
giustificò il maggiore dei fratelli Sogno.
«E
cosa fai
nella vita, tesoro?»
mi chiese l’uomo, esercitando sempre quel fascino magnetico.
Questa
volta mi preparai mentalmente un bel discorso sulla mia brillante
carriera come
futuro avvocato, inserendo anche la causa che stavo seguendo per conto
del suo
stesso figlio, quando fu Sofia ad intromettersi.
«Studia!» disse
sbrigativa, facendo un cenno con lo sguardo verso Rose.
La
donna comprese al volo e annunciò che era pronto in tavola, sparendo in
cucina
e cominciando a servire le diverse portate.
Mi
stavano nascondendo qualcosa, ed evidentemente coinvolgeva il
capofamiglia dei
Sogno.
D’improvviso,
come una nuvola di Chiffon e Chantel n°5, fece il suo ingresso in
salotto una
delle donne più affascinanti mai viste nella mia vita. Aveva una vita
stretta,
esile, così delicata da sembrare quasi una bambola di porcellana.
Un
paio di occhi azzurri e vispi, molto simili a quelli di Sofia, si
posarono
sulla sottoscritta vi indugiarono più del dovuto.
«Mamma,
era
ora!»
sbuffò Simone e subito la donna gli corse incontro abbracciandolo e
sommergendolo di baci. «E
dai, smettila!»
protestò poi, tentando di lisciarsi i capelli che la donna aveva
involontariamente scompigliato.
Poi
il suo sguardo tornò a tormentarmi. Era così armonioso il suo
portamento ma non
c’era quella stessa dolcezza e sicurezza che invece avevo visto in
Rose, la
moglie di Gabriele.
«Mamma,
lei è
Venera,»
s’intromise Sofia.
Quella
donna era la madre di tutti e tre i fratelli Sogno e non me ne stupii
più di
tanto perché le caratteristiche genetiche ereditate c’erano tutte. Era
una
copia sputata della più piccola di famiglia.
La
donna mi guardò e sorrise. Era bellissima.
«Tanto
piacere, cara,»
e mi porse la mano.
Mi
alzai goffamente dalla sedia, visto che avevamo già preso posto
pensando di
dover iniziare a mangiare, e strinsi la sua sporgendomi un po’ troppo
verso
Simone.
«Il
piacere è
tutto mio,»
dissi, sicura di me.
La
signora Sogno mi studiò da capo a piedi, osservando ogni mio lineamento
del
viso e mi sentii lievemente in imbarazzo. Ero stata praticamente
sondata
dall’intera famiglia.
In
seguito Rose arrivò con gli antipasti e la donna bionda si andò a
sedere vicino
a Mr. Sogno senior, il quale le rivolse solo un accenno di sorriso.
«Sono
separati, se è questo che ti stai chiedendo,»
borbottò Simone, allungandosi
per afferrare una tartina.
«Veramente
stavo pensando ad altro,»
mentii, ma dal modo in cui il signor Marco e la madre di Simone si
guardavano,
era evidente che qualcosa tra di loro c’era stato. Forse erano rimasti
in buoni
rapporti.
«Marianne,
vuoi della zucca?»
le chiese gentilmente Rose, passandole un vassoio con altre tartine.
Simone
si lanciò letteralmente su alcune di esse e ne afferrò una manciata
intera,
portandosela alla bocca come uno scimpanzé.
La
madre per fortuna non rimase tanto scandalizzata. «No,
grazie.
Tu ne vuoi, Marco?»
domandò al marito, o ex-marito.
Quella
famiglia era peggio di Beautiful e me
ne stavo accorgendo solo ora.
Con
l’apparizione della mamma di Simone, mi ero completamente dimenticata
di quel
vano tentativo da parte di Gabriele e Sofia di sviare l’attenzione di
Mr. Sogno
dalla mia professione.
«Ma
tuo padre
sa dell’accusa che ti è stata rivolta?»
chiesi a Simone sottovoce,
tagliuzzando la mia tartina con forchetta e coltello.
Lui
mi fissò allibito, mentre mi portavo una piccola porzione alle labbra. «Che
c’è?»
Lui
scrollò le spalle e fece l’indifferente. «Mangi
pure come una vecchia,» commentò
acido. «Comunque
no, non lo sa. E per Gabe non lo deve sapere nemmeno la mamma. Sai,
Marco non
approva l’ambiente in cui mi trovo. Per lui è controproducente che
faccia il
calciatore, preferirebbe che avessi preso una laurea a Oxford come
Gabriele,» borbottò,
stavolta prendendo del toast bruscato e spalmandoci sopra della crema
di olive.
Continuai
ad inforchettare la tartina sul piatto, rimanendo imbambolata a seguire
i
ghirigori dei disegni. Quindi il padre di Simone non approvava il
lavoro del
figlio, nonostante fosse così famoso.
È tenerezza quella che
percepisco?
Pena?
Non mi freghi, ero embrione
insieme a te nella pancia di tua madre.
Sbuffai
sonoramente e continuai a mangiare, infischiandomene dei chili che
avrei preso
e delle gonne che non mi sarebbero più entrate.
«Da
quanto
tempo state insieme, insomma?»
mi domandò Marianne, così si chiamava.
Ovviamente
la tartina incriminata mi andò immediatamente di traverso e tossi
cinque o sei
volte prima di prendere un bicchiere d’acqua e ritornare del mio colore
naturale.
«Ti
senti
bene, cara?»
mi chiese la donna preoccupata.
«Oh,
non ti
preoccupare,»
intervenne Simone, dandomi due forti pacche sulle spalle. Lo aveva
fatto di
proposito quell’idiota. «Fa
sempre così, anche a casa. Mangia e si strozza.»
«Lasciala
in
pace, Simo!»
protestò subito Sofia, guardando male il fratello.
Mi
ripresi giusto in tempo per mettere fine a quella assurda discussione.
«Credo
sia
giunto il momento di mettere fine a questa pantomima,» dissi
in
modo teatrale, facendo cadere il silenzio in tavola. Simone mi fissava
divertito da tutta quella faccenda, ma non gli diedi troppo peso.
«Io
non sono
la ragazza di Simone, siamo soltanto coinquilini. Tutto qui,» dissi
tranquillamente.
Era
la pura verità, omettendo il particolare che fossi anche il suo
avvocato.
Mr.
Sogno mi fissava con quelle iridi ardenti come braci, mentre Marianne
aveva uno
sguardo glaciale. Quei due erano opposti come il cielo e la terra e non
compresi
fino in fondo come fossero potuti andare d’accordo tanto da sfornare
ben tre
figli.
«Zia
Ven…» pigolò
Susanna dal fondo della tavola. Mi voltai per vedere gli occhi della
piccola ad
un palmo dal bordo del tavolino, lievemente velati di lacrime.
«Sì,
tesoro?» Mi ero
completamente dimenticata della piccola Susanna e sperai con tutto il
cuore che
non si mettesse a piangere in quel preciso istante, rovinando il pranzo
di
famiglia.
Posò
le piccole manine paffute sul bordo e si arrampicò meglio sulla sedia,
scostandosi
i capelli castani dalla fronte. «Tu non vuoi bene a zio Simo?» mi
domandò
sincera.
Avrei
tenuto testa a chiunque in quella sala, se qualcuno avesse continuato a
sostenere che io e quel troglodita di TermoSifone formavamo una coppia,
ma lo
sguardo di Susanna era così…
…così puro e innocente.
Un
dito ossuto mi perforò il fianco ed io sobbalzai sorpresa. Il sorriso
sghembo
di Simone mi fissò divertito ed io avrei volentieri voluto strangolarlo.
«Allora,
mi
vuoi bene, zia Ven?»
ridacchiò.
Strinsi
le mani a pugni, conficcandomi le unghie nella carne. C’era una cosa
che non
sopportavo, oltre a perdere una causa: il lasciare l’ultima parola a
quella
specie di deficiente con il cervello di un babbuino.
«A
casa
facciamo i conti,»
gli sibilai minacciosa.
Il
suo sguardo scuro mi guardò prima verso l’alto, poi via via sempre più
in
basso, senza smettere di sorridere come un marpione. Mi sentii
improvvisamente
a nudo sotto quello sguardo, avvertendo di nuovo quel pizzicore sotto
pelle.
Forse
mi stavo davvero ammalando.
Mal d’Ormone.
«Allora,
zia?» chiese la
bambina, sempre più speranzosa.
Mi
ritrovai tutti gli occhi puntati addosso, compresi quelli elfici di
Sofia che
sogghignava soddisfatta e stringeva teneramente la mano a Ruben.
Quella
famiglia mi avrebbe fatto invecchiare a ventiquattr’anni.
Già ti si vede un capello
bianco.
Ecco,
appunto.
«Certo
che
voglio bene a zio Simone,»
dissi, cercando di non essere troppo drammatica. La tensione sembrò
sciogliersi
e i sorrisi affiorarono alle labbra dei commensali. «Sarò
la tua
zia Ven se lo vorrai, ma io e Simo siamo amici. Tutto qui,» le
dissi,
sperando avesse capito.
Susanna
sembrò ragionare su quelle mie parole e per fortuna non pianse. «Ho
capito.
Quindi siete come la Bella e la Bestia, vero?»
«Cosa
vuoi
dire, tesoro?»
la esortò Gabriele, incuriosito con tutto il resto della famiglia.
La
bambina attese qualche secondo per riordinare le idee. Sembrava me da
bambina,
quando provavo a vincere le battaglie verbali coi miei cugini più
grandi.
Ovviamente
ci riuscivo sempre.
«Loro
vivono
nello stesso castello, diventano amici, poi si sposano. Giusto?»
ridacchiò,
arrossendo e nascondendosi col tovagliolo.
Subito
la sala fu invasa dalle risate di tutta la famiglia, a cui mi unii
stiracchiando un sorrisetto preoccupato. Una caratteristica di quella
famiglia
era sicuramente il sapersi rigirare la frittata a proprio vantaggio.
«Bene,
continuiamo a mangiare,»
annunciò Rose, sparendo nuovamente in cucina.
Il
resto del pranzo si svolse nella normalità e si parlò del più e del
meno. Venni
a sapere che Mr. Sogno Senior era stato per trent’anni assistente
delegato in
una azienda che si occupava della lavorazione ed esportazione di
cellulosa in
tutto il mondo, ma poi, stanco di rimanere chiuso in ufficio
ventiquattr’ore su
ventiquattro, aveva acquistato un’ampia distesa di terra in Toscana,
nella
valle del Chianti, dove aveva fondato un’azienda vinicola che esportava
i
prodotti in tutto il mondo, soprattutto in Inghilterra.
Venni
a sapere poi, che Marianne e Marco si erano conosciuti ai tempi del
college,
quando lui studiava Economia e management e lei si dedicava alle
pitture di
Raffaello e Michelangelo, seguendo un corso d’Arte e Restauro.
Quando
lei seppe che Marco era italiano, fu amore a prima vista.
Rimasi
estasiata ad ascoltare le storie di vita di tutti i membri della
famiglia
Sogno, nonostante il continuo sbuffare di Simone al mio fianco mi
distraesse
dalla narrazione.
«Gabriele
invece è il manager di Simone,»
annunciò Marianne, fissando il figlio maggiore con orgoglio. «Non
riesce
proprio a stare lontano dal fratellino. Visto che Simone ha una
propensione per
cacciarsi nei guai, sono contenta che gli stia vicino.»
«Almeno
gli
impedisce di fare cavolate!»
ridacchiò Marco, ma l’occhiata che gli lanciò il figlio minore non mi
sfuggì
affatto.
«Lei
invece
che lavoro fa?»
chiesi a Rose, seduta a qualche posto di distanza.
Gli
occhi della donna si addolcirono subito, così come il suo sorriso. «Ho
aperto una
scuola di danza; ci va anche Susy, vero tesoro?»
La
piccola subito annuì e scese dal tavolo improvvisando qualche plié e
qualche
piroetta goffa.
Tutti
i presenti sorrisero, soprattutto i nonni che sembravano stravedere per
quella
ragazzina così dolce e tremendamente gentile.
«Tu
invece
cosa studi?»
mi domandò d’improvviso il signor Marco, fissandomi dritto negli occhi.
Quell’uomo
aveva uno strano magnetismo, molto simile a quello che entrambi i suoi
figli
esercitavano purtroppo sulla
sottoscritta.
Sarà una cosa genetica.
«Legge,» fu la
prima
cosa che mi venne in mente, e la più ovvia.
Avevo
finito gli studi già da un pezzo, ma era come tornare indietro nel
tempo e
fingermi studentessa solo quando mi trovavo in compagnia dei genitori
di
Simone.
Ovvero
mai più dopo quella infinita giornata.
«Molto
interessante!»
disse Marianne estasiata. «Si
vede che sei una ragazza molto
intelligente, oltre
che bellissima.»
«Bellissima…» sghignazzò
Simone con sarcasmo, pensando non lo avesse sentito nessuno.
«Sei
proprio
un cafone!»
lo apostrofò Sofia, tentando di dargli uno scappellotto al di là del
tavolo.
La
anticipai io, mollandogli un ceffone dietro la nuca. Di punto in bianco
però mi
pentii di quel gesto, perché mi trovavo pur sempre in terra “straniera”.
«Dovevi
darglielo più forte!»
sorrise Marianne.
«Certe
volte
dai solo aria alla bocca, Simo’!» intervenne anche Gabriele.
«La
bellezza è
soggettiva, figliolo. Ricordatelo,» si aggiunse anche Mr. Sogno,
poi si zittì non appena un’occhiata gelida dell’ex-moglie lo raggiunse.
«Qualcuno
vuole un caffè?»
propose Rose, ormai avvezza alle tipiche tradizioni italiane.
Dopo
aver quasi del tutto digerito l’abbondante pranzo che la cognata di
Simone
aveva diligentemente preparato, ci avviammo verso la porta perché si
erano già
fatte le cinque del pomeriggio ed era ora di andare.
Ci
furono restituiti cappelli e cappotti, così proseguimmo verso il
portone
d’ingresso.
«Insomma,
a
quando la prossima rimpatriata?»
domandò subito Gabe.
«Noi
ci
vediamo quasi sempre,»
trillò Sofia estasiata, senza mai lasciare la mano di Ruben.
Marianne
e Marco rimasero in disparte, sorridendo comunque. «È
stato un
vero piacere conoscerti, Venera,» disse la donna ed io non mi
feci scrupoli e andai ad abbracciarla.
Alla
fine le donne della famiglia Sogno non erano affatto male, forse la
maledizione
del cognome era valida solo per il gene Y.
«Grazie
mille,
anche per me,»
risposi cordialmente.
Fu
in quel preciso istante, proprio quando stavo per sciogliere
l’abbraccio che le
sentii dire qualcosa.
«Avrebbe
proprio bisogno di una come te, mio figlio,»
sussurrò, senza che nessun
altro la sentisse.
Rimasi
imbambolata a fissare le trame del tappeto quando mi sentii tirare la
gonna
dalla piccola Susanna. Mi abbassai quel tanto da stringerla tra le
braccia e mi
scostai i capelli dall’orecchio.
Doveva essere la serata
delle
confessioni quella.
«Zio
Simo mi
sembra un po’ triste, puoi aiutarlo vero?» mi
chiese timidamente.
Annuii
con un semplice cenno del capo e ben presto fummo fuori al
pianerottolo,
aspettando l’ascensore. Raggiungemmo la cinquecento blu metallizzata
nel
completo silenzio, anche se di cose ce ne sarebbero state da dire.
Avevo
ancora tutta la rabbia da sfogare per la pantomima che quel cretino
aveva messo
in scena con la sua famiglia. Però quelle preoccupazioni volarono
immediatamente via e mi alleggerirono il cuore con troppa fretta. Io
ero un
tipo che serbavo rancore, spesso per molto tempo, invece in
quell’occasione mi
sentii profondamente sollevata.
«Allora?» mi
domandò,
una volta entrati in macchina.
«Allora
cosa?» chiesi.
Simone
sbuffò e cominciò a fare manovra. «Cosa ne pensi, di loro?» e
fece un
cenno verso l’alto, indicando la palazzina da cui eravamo appena usciti.
Il
tramonto stava calando sulla città e le nuvole all’orizzonte avevano
acquistato
il classico colore rosa-celeste che sfumava via via verso l’arancione.
Tentai
di ricordare come fosse il tramonto di Tivoli, ma rimasi sorpresa da
quanto
fossero confusi quei ricordi.
«Sono
molto
simpatici,»
dissi brevemente.
«Nessun
commento acido? O forse quelli li riservi solo per il sottoscritto?» mi
disse,
mesto.
«Sai
che le
imprecazioni sono tutte tue, è inutile che te lo ricordi,»
sorrisi.
Ci
immettemmo subito nel corso principale, attendendo al semaforo una coda
di
pendolari che rientravano nelle proprie case dal lavoro.
«Domani
hai la
partita?»
chiesi distrattamente, ricordando un discorso fatto con Gabriele.
Simone
annuì continuando a fissare la strada.
Gli
lanciai un’occhiata di traverso, cercando di non farmi scoprire e
ripensai alle
parole di Marianne. Forse nemmeno Sofia aveva tutti i torti, dicendo
che non
conoscevo affatto il vero Simone. Magari era come me, si nascondeva
dietro una
scorza più dura e consumata di quanto volesse far credere.
Ti stai intenerendo o cosa?
«Pensano
tutti
che siamo fidanzati,»
se ne uscì lui d’improvviso, facendomi sobbalzare sul sedile del
passeggero. «Il Mister,
quel cazzone di Sebastian, mio fratello, Sofia è convinta che presto ci
sposeremo.»
Non
sapevo cosa rispondergli, in compenso il mio Cervello era andato a
farsi una
bella vacanza lasciando il posto a quegli ormai consueti brividi che
avvertivo
lungo tutto il corpo. Il prurito cominciò ad insinuarsi sotto pelle e
distrattamente cercai di pensare ad altro che non fossimo noi due e il
suo
sguardo dentro quella macchina.
Guardalo, ora.
No,
non posso. Me ne pentirei.
Volta il viso e guardalo. Ti
sta
aspettando.
La
voce dell’Ormone gridava dentro la mia testa ed io non riuscivo a
soffocarla,
in alcun modo. Sentivo come se il mio viso fosse attratto da una
calamita
perché sapevo che mi stava guardando.
Lo sentivo.
«Evidentemente
hanno capito che sei perso senza di me,»
dissi, fissando ancora lo
sguardo fuori il finestrino.
Dovevo
evitarlo, il più possibile, come la peste.
Lo
sentii ridere e per la prima volta sentii distintamente il mio cuore
perdere un
battito. Avvertii un sobbalzo e poi più niente.
«Hai
sempre la
battuta pronta. Mi piace,»
disse.
Fu
allora che feci l’errore più grande della mia vita e mi voltai. Sì, lo
feci.
Ignorai del tutto gli avvertimenti del mio raziocinio e seguii
unicamente
l’istinto, incrociando quel paio di occhi scuri che mi fecero subito
correre un
lungo brivido dietro la schiena.
Era
impossibile resistere al suo fascino, nonostante fosse uno spocchioso
arrogante.
Ci
fu un istante in cui nessuno dei due parlò e il tempo parve sospeso in
una
bolla di vetro, lontana nello spazio. Isolata da ogni cosa e da ogni
rumore che
potesse interrompere quel contatto. Mi mancò il respiro per chissà
quanto
tempo, ancora adesso non saprei dirlo, eppure ero in apnea.
Non
mi ero mai resa conto di quanto fossero scuri gli occhi di Simone fino
a quel
giorno e quante pagliuzze dorate contenesse il contorno dell’iride.
La
linea delle labbra sottili, la mascella pronunciata e completamente
liscia, la
pelle lattea e il taglio degli occhi così esotico. Aveva tratti
riconoscibili
sia di Marco che di Marianne, ma sicuramente era più bello di entrambi.
Mayday, mayday, mayday!
D’improvviso
il mio cellulare ebbe un sussulto, poi il suono di un messaggio
interruppe
quella magia di sguardi e mi fece tornare letteralmente coi piedi per
terra.
Con mani tremanti afferrai l’apparecchio e lessi il messaggio.
Era
di James.
Mi
diceva l’ora in cui mi sarebbe passato a prendere per vederci al Torsolo di Mela.
Per
un attimo, soltanto un piccolo istante, sentii un moto di delusione
avvolgersi
lentamente attorno al mio cuore, poi alzai lo sguardo e vidi Simone che
leggeva
attentamente ogni parola dal mio telefono.
Senza
dire nulla ingranò la prima marcia e scomparve nel traffico delle sei.
***
Okay, finalmente avete fatto la
conoscenza ufficiale della famiglia Sogno! *che squillino le trombe e i
tromboni! (?)*
Io dico e ripeto soltanto che amo Sofia, come devo ripeterlo? Basta, è
una santa quella donna ed io la adoro. Per quanto riguarda Simo, è
sempre il solito! Poi abbiamo fatto la conoscenza di quel piccolo amore
che è Susanna, della moglie di Gabriele, Rose, e dei coniugi Sogno.
Chi più ne ha, più ne metta! Questo è davvero il capitolo delle
presentazioni e della famiglia. Lo adoro.
E alla fine, il quadretto di Ven e Simone nella cinquecento blu
metallizzata ci stava proprio bene. Chissà se veramente si sta
smuovendo qualcosa tra quei due, oppure sono talmente cocciuti da non
accorgersene. Mah...
Scusate il ritardo nel postare questo chappy, ma come ben sapete
d'estate non si sta mai a casa >.< #scusedelcavolo.
Bene, mi rimetto ai vostri giudizi e vado a rispondere alla recensioni
-anche quelle con immenso ritardo!-
Bacibaci!
Se volete scoprire i "volti" dei nostri protagonisti, vi invito a
segnarvi al gruppo di cazzeggio! Ci sarà da divertirsi.
Crudelie si
nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re
Storie consigliate:
- Until
my last step (Daphne921);
- Unexpected
as you (_caline);
- In her
shoes (HappyCloud);
- Il
meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's
Blue (BlueSmoke);
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 8 ***
Quando
rientrammo nell’appartamento di Soho, c’era come uno strano silenzio ad
aspettare il nostro ritorno. Dall’arrivo dell’SMS 'incriminato',
nessuno dei
due aveva più detto una parola e alla fine era stato meglio così.
Non
so cosa mi fosse preso dentro quella macchina. L’euforia di quel pranzo
di
famiglia mi aveva ricordato l’infanzia a Tivoli, con le lunghe tavolate
piene
di parenti, i pomeriggi passati a riposarsi al sole e le passeggiate in
prossimità delle terme.
C’è aria di nostalgia…
Zittii
immediatamente la mia voce interiore, pensando subito ai sacrifici che
avevo
fatto per andarmene via da quel paese che mi avrebbe altrimenti tarpato
le ali
e non mi avrebbe permesso di raggiungere il livello a cui avevo sempre
aspirato. Certo, rimanendo in Italia avrei potuto trovare un normale
impiego a
Roma, la grande città più vicina, ma da sempre sognavo di trasferirmi
all’estero e quella era stata una buona occasione.
Cambridge,
poi, aveva cambiato ogni cosa.
Simone
si chiuse la porta alle spalle e si tolse le scarpe, calciandole via in
qualche
parte indistinta del salone. Era già calato il crepuscolo e la penombra
cominciava a scurire le pareti della stanza. La poca luce che ancora
illuminava
la grigia città di Londra filtrava attraverso le tapparelle delle
persiane
proiettandosi sulle pareti come delle lame.
Proseguii
per la stanza e poggiai distrattamente la ventiquattr’ore sul divano
dell’ingresso, poi mi diressi immediatamente nella mia stanza, pronta
per
mettere a soqquadro l’armadio alla disperata ricerca di un vestito
decente da
indossare.
Erano
le sei del pomeriggio e James sarebbe passato esattamente tra un’ora e
mezza.
Giusto il tempo di farmi una doccia veloce e scegliere cosa indossare.
«Dove
ti
porterebbe, il tizio?»
mi domandò Simone all’improvviso.
Mi
voltai e lo vidi con le braccia conserte e una spalla contro il
montante della
porta. I capelli castano scuro erano disordinati, come sempre
d’altronde, ma un
ciuffo in particolare gli adombrava il viso, quasi a voler nascondere
quello
strano sguardo criptico.
Ero
indecisa se rispondergli o meno, in fondo mica dovevo rendere conto a
lui di
ciò che facevo nella vita privata. Dovevo sempre tenere a mente il
fatto che lui
fosse mio cliente ed io il suo avvocato.
Ormai tendi troppo spesso a
dimenticarlo.
«Andiamo
a
cena al Torsolo di Mela,» dissi
senza
dargli troppa importanza. Cominciai a tirare fuori dai cassetti qualche
maglietta da abbinare all’unico paio di pantaloni taglio classico che
ancora
non avevo indossato in ufficio.
Il
dramma di uscire a cena con il proprio collega – nonché avvocato sexy –
era la
scelta dell’abito adatto. Dovevo indossare ogni santissimo giorno dei
tailleur
o dei completi classici ed era davvero difficile riuscire a trovare
qualcosa di
semplice da poter indossare in una serata tranquilla.
Purtroppo
da casa mi ero portata poche cose: contavo di tornare a prendere il
resto una
volta trasferitami definitivamente.
Simone
grugnì qualcosa in cenno di assenso, ma non si scollò dalla porta. «Che
altro
vuoi?»
insistetti, sperando non volesse rimanere lì impalato anche quando
avessi
deciso di farmi la doccia.
Perché ti dispiacerebbe,
immagino.
Ovvio!
Il
ragazzino si limitò a fissarmi dall’alto in basso, senza scomporsi
minimamente.
Ma non aveva di meglio da fare che stare a controllare ogni mio
movimento? E
poi non riuscivo a capire perché si fosse comportato in quel modo
assurdo a
casa del fratello: innanzitutto era impossibile evitare di vedere come
fosse
soggetto all’umore del padre, poi quella strana storia di nascondergli
la causa
in corso... In quella famiglia c’erano molti lati segreti, ma io non
ero certo
una persona che si metteva a giudicare.
Avranno
i loro buoni motivi.
«Nulla,» mi
fece, dopo
aver distolto lo sguardo per osservarsi distrattamente le unghie della
mano. «È solo che
quel ristorante è pidocchioso.»
Sfoderò poi quel solito sorriso sbieco che mi faceva accapponare la
pelle.
Crepitare.
Forse quella era la parola più azzeccata. Quando le labbra di Simone
s’increspavano in quella strana piega diabolica, era come se percepissi
ogni
cellula del mio corpo vibrare.
Come
se quel suo semplice gesto accendesse una miccia.
Afferrai
distrattamente una blusa giallo limone e la appoggiai sul pantalone
scuro,
provando l’abbinamento. Non ci voleva certo Giorgio Armani per capire
che
faceva cagare.
Sbuffai
infastidita sia dagli occhi di Simone che avevo incollati alla schiena,
sia da
quello stupido guardaroba che rimaneva sempre uguale, anche se avessi
aperto
l’armadio un centinaio di volte.
«Senti,» gli
dissi,
voltandomi esasperata e incollando gli occhi ai suoi. «Fatti
gli
affaracci tuoi e smamma, moccioso: non ho tempo da perdere con te,» gli
dissi
stizzita.
Vidi
quelle iridi scure spalancarsi e lasciare che tutto lo stupore
guizzasse fuori
senza nulla a celarlo. Avevo ottenuto una piccola vittoria con quella
risposta,
me ne rendevo conto da sola, ma la guerra era ben lungi dall’essere
vinta.
Simone,
accortosi di aver lasciato trasparire più di quanto dovesse, ritornò ad
indossare quella sua maschera fatta di strafottenza e a guardarmi di
traverso.
«Ripeto:
quel
ristorante è pidocchioso,»
concluse. Lasciò la mia stanza senza che potessi in alcun modo
replicare. Stavo
per fare un sospiro di sollievo, visto che la “piaga” aveva finalmente
deciso
di lasciarmi vivere in pace quei pochi minuti che mi rimanevano prima
dell’arrivo
di Jamie, quando lo vidi fare capolino nuovamente dalla porta.
«Ah,
e
comunque quella maglietta è orrenda.» Sparì
in fretta e furia prima
che potessi lanciargli qualsiasi tipo di oggetto contundente a portata
di mano.
Non
ebbi il coraggio di rincorrerlo unicamente perché, dopo aver dato
un’ultima
occhiata alla mise scelta per quella sera, non riuscii a contraddirlo.
Avevo
svuotato l’armadio già due volte, ma i vestiti erano sempre gli stessi,
così
come i possibili abbinamenti.
Come
una furba, mi ero portata i completi per l’ufficio ed una stra-grande
quantità
di tute da casa, oppure di vestiti vintage che avrei messo unicamente
per
uscire la domenica, giorno non lavorativo.
Contavi di concentrarti
unicamente sul lavoro, non sull’intingere la penna nel calamaio
dell’ufficio.
Quando
avevo preparato la valigia per Londra, il mio unico pensiero era stato
quello
di finire il master e buttarmi a capofitto nel tirocinio, sperando in
un posto
fisso allo studio. Il resto poteva anche aspettare. E così era stato,
peccato
che poi avevo incontrato James.
Ero
stata presa in contropiede, non me lo sarei mai aspettato. Avevo sempre
creduto
di avere la situazione in mano sin dall’inizio, di aver programmato per
intero
la mia vita, studiandola sin nei minimi particolari.
C’era
stata prima la laurea, la partenza, il master e poi il tirocinio. Ci
sarebbe
stato il posto fisso allo studio, l’avanzamento di carriera, l’acquisto
della
nuova e spaziosa casa e, forse alla fine, avrei trovato il tempo per
una
relazione.
Invece
era stato tutto anticipato perché mai avrei pensato di prendermi una
bella
sbandata per un collega/capo.
Forse sarà il caso che ti
vada a
lavare, hai passato mezz’ora a fissare il giallo limone di quella blusa
e a
litigare col Termosifone. Jamie ti troverà ancora in pigiama.
O,
peggio, vestita come stamattina.
Afferrai
le poche cose che avevo per il bagno – quali spazzola e shampoo per
capelli – e
mi fiondai in uno dei due bagni di cui disponeva l’enorme casa di
Simone. C’era
quello in fondo al corridoio, vicino alla sua stanza, che supposi fosse
off-limits, perciò girai i tacchi e con l’accappatoio rosa shocking
ancora in
mano, gironzolai per il resto della casa alla ricerca della seconda
porta.
Aprii
per sbagli due stanze, che si rivelarono uno studio arredato con tanto
di
piccola biblioteca in stile antico, con caminetto incluso, e un’altra
camera da
letto.
E quel cretino voleva
rifilarti
il ripostiglio.
Lo
odio.
Come
se non bastasse, in un fruscio di camicia e pantaloni da ginnastica, me
lo
ritrovai alle spalle mentre sbocconcellava un biscotto.
«Ti
sei persa?» chiese
divertito.
«Vedo
che il
tuo stomaco è come la tua testa,» dissi in risposta.
Fece
finta di pensarci su, ma non capì. «Cioè?»
«Vuoto,
cretino!»
Spalancai stavolta la porta giusta e trovai il secondo bagno
dell’appartamento.
Simone
ghignò nonostante la batosta verbale che aveva ricevuto, ma non mi
preoccupai
della sua successiva reazione, perché gli sbattei la porta in faccia.
Rialzai
lo sguardo e me lo ritrovai riflesso nello specchio sopra il lavello.
Tutto
sommato quella casa non era arredata proprio malissimo, anzi, c’era un
non-so-che di femminile e armonioso nella disposizione degli oggetti e
nella
scelta dei colori.
Si sarà trombato
un’arredatrice.
Tutto
può essere.
Cominciai
a far scorrere l’acqua nella doccia, nel frattempo mi spogliai della
camicetta
e della gonna a vita alta e finalmente mi potei liberare di quelle
odiosissime
decolleté. Tolsi anche gli ultimi indumenti, afferrai il flacone di
shampoo e
la spazzola ed entrai di corsa nel box doccia perché cominciavo a
sentire un
po’ di freddo.
Non
l’avessi mai fatto.
L’acqua
era gelida, con tanto di vento siberiano che filtrava dalla finestra
lasciata
lievemente aperta. Schizzai letteralmente fuori dal box doccia e mi
avvolsi
immediatamente nell’accappatoio cercando di calmare i brividi che non
accennavano a cessare.
Al
di fuori del bagno avvertii una risata semi-soffocata.
Ovviamente
divenni peggio di un toro di Pamplona con un’intera folla di ragazzi
completamente vestiti di rosso. Avrei buttato giù la porta a testate.
«Che
hai
fatto?»
ringhiai, spalancando l’infisso e dimenticandomi completamente di
essere in
accappatoio.
Lo
sguardo di Simone fissò immediatamente la stoffa rosa che si apriva
leggermente
al di sopra della cintura, lasciando intravedere una piccola porzione
di pelle.
«Io
non ho
fatto nulla,»
si giustificò sorridendo e passandosi la lingua sul labbro inferiore.
Lo sta facendo davvero?
Deglutii
a fatica, trovandomi immediatamente a corto di parole e persino di
fiato.
Cercai di fare appello all’ultimo briciolo di autocontrollo e mi
sforzai di
ricordare il motivo per cui fosse infuriata come una belva.
La
doccia gelida.
«L’acqua
è
ghiacciata, sai spiegarlo?»
ringhiai, coprendomi meglio con l’accappatoio e sbattendo sul pavimento
con il
piede fasciato da una tenera ciabattina di spugna piumosa.
Simone
fissò lo sguardo su quello strano corredo, affiancandolo alla sua
pantofola a
forma di ippopotamo. «Ti
ho detto che non è colpa mia. Quel bagno è rotto,»
spiegò con tranquillità.
A
quel punto rimasi di sasso. «Da
quanto è rotto?»
Lui
fece spallucce e afferrò un altro biscotto dalla scatola che ancora
teneva in
mano, trangugiandolo avidamente. «Da più di un mese,» buttò
lì,
come se fosse chissà quale ovvietà per lui.
Mi
sforzai di non inarcare le sopracciglia tanto da unirle una con l’altra
e
sembrare lo Yeti delle nevi, ma con Simone ci voleva la pazienza di
un’orda di
santi.
«Quindi
fammi
capire: perché mi hai lasciata entrare sapendo che non c'era acqua
calda, qui?» ringhiai
imbufalita.
«Che
ne
sapevo, magari dovevi spegnere i bollori,»
sghignazzò.
Lo
fissai con gli occhi ridotti a fessure e un diavolo per capello, anzi,
avevo le
stalattiti al posto dei capelli, ma l’ora tarda non mi consentiva di
indugiare
troppo sui miei pensieri. Dovevo prepararmi in fretta e furia,
altrimenti avrei
fatto unicamente una figuraccia con Jamie.
«L’altro
bagno
funziona?»
chiesi, con la voce a metà fra un ringhio e un’imprecazione.
Simone
si limitò ad annuire, senza smettere di ingozzarsi come un maiale. Ma
dove le
metteva, tutte quelle schifezze?
Cercai
di sorvolare sulla voglia di lanciargli la spazzola per capelli in
pieno viso e
raccolsi le mie cose per trasferirmi nell’altro bagno. Aprii la porta e
mi
trovai di fronte il putiferio.
Mother of God.
Non
c’erano parole migliori per descrivere l’Armageddon che regnava
in quel
poco spazio. C’erano calzini sparsi ovunque, tranne che nel cesto della
biancheria sporca, flaconi di bagnoschiuma vuoti, la vasca – separata
dalla
doccia – conteneva uno strano liquido giallognolo, coperto con un
foglio di
pellicola trasparente e tutto intorno si sentiva un dolce odore di
limone.
Spalancai
la porta, ritrovando ancora Simone che ciabattava verso la sua stanza.
Si
immobilizzò fissando la mia espressione furente, poi abbassò lievemente
lo
sguardo.
«Ti
si vede
una tetta,»
commentò. Ingoiò un altro
biscotto e masticò
senza alcuna remora di farmi vedere la sua bella ortopanoramica. «Ah!»
aggiunse,
prima di sparire completamente nella sua stanza. «Non
toccare il mio limoncello, è
quasi pronto.»
Dopodiché mi sbatté la porta in faccia.
Rimasi
ferma sull’uscio con lo sguardo perso nel vuoto. Se non avessi avuto i
minuti
contati, avrei sfondato la porta della sua stanza e lo avrei affogato
in quel
maledetto limoncello.
Tornai
in bagno decisa ad ignorare quel putiferio e mi gettai sotto la doccia,
questa
volta calda, e cercai di godermela il più possibile in santa pace.
Così
feci e mi asciugai anche i capelli, cercando di pettinarli e di non
urtare –
nemmeno per sbaglio – una di quelle bombe H che la gente comune avrebbe
chiamato calzini. Fra l’odore nauseabondo di quegli indumenti e l’aroma
acre
del limone, stavo per rimettere.
Ma
avevo poco tempo, dovevo sbrigarmi.
Uscii
dal bagno in una nuvola di profumo e bagnoschiuma, attenta a non
incontrare
nemmeno per sbaglio lo sguardo di Simone. Avevo i minuti contati e
dovevo
ancora trovare un abbinamento decente con le poche cose che mi ero
portata
dall’Italia. Decisi che era inutile rimuginare ancora sull’abbinamento
e mi
lasciai guidare dall’istinto, optando per un top morbido color blu
oceano, un
pantaloni dal taglio classico a sigaretta e una giacchina abbinata.
Inoltre
mi sarei dovuta truccare.
Avrei
infine indossato il solito trench, magari con uno scialle intonato.
Corsi
allo specchio e cominciai a truccarmi velocemente, poi pettinai i
capelli in
modo da non farli sembrare appena passati con il phon e pregai tutti i
santi in
Paradiso di far scendere il livello d’umidità di quella notte,
altrimenti sarei
diventata paragonabile ad un barboncino.
Indossai
il completo che avevo scelto, poi mi diedi una veloce occhiata allo
specchio
dell’armadio a muro.
Meglio di così non si può.
Mi
rassegnai a ciò che l’evidenza mi mostrava, ma erano le sette meno
cinque e non
potevo permettermi altro tempo per indugiare.
Così la prossima volta
impari a
portare il trolley “medio”, preferendo i sandali alla schiava piuttosto
che una
bella Chanel tacco dodici.
Nel
frattempo mi stavo ancora convincendo mentalmente che quello non fosse
un
appuntamento, bensì un incontro post-lavoro tra colleghi, magari per
parlare
ancora del caso e scambiare anche delle chiacchiere da salotto.
E io sono Napoleone.
Vive
l’amour!
Afferrai
la borsa – sola ed unica che mi ero portata da casa – e controllai che
fosse
presente tutto. Ovviamente l’unica cosa che mancava era un mazzo di
chiavi del nuovo appartamento. Dato che ero sempre
entrata ed uscita agli stessi orari di Simone, non avevo avuto
l’accortezza di
chiedergliene una copia, ma ora mi serviva.
Sgusciai
in salotto camminando sulle mie decolleté, stavolta un paio diverso
perché le
altre mi avevano ridotto i piedi a dei colabrodi, e mi avviai verso la
stanza
di Simone, sperando di non incappare in qualche spettacolo poco gradito.
«Vai
alla
riunione condominiale?»
mi raggelò una voce alle mie spalle.
Simone
se ne stava appollaiato – sì, proprio appollaiato, infatti, sembrava un
gufo su
un trespolo – sul davanzale della cucina e mi fissava nella penombra
della
stanza.
«Risparmiati
i
commenti,»
sospirai.
Non
avevo né voglia e né tempo per ricominciare a litigare con lui. Era un
esercizio stancante ormai e non mi divertiva quasi più. «Mi
servono le
chiavi di casa, non so a che ora torno,»
tagliai corto.
Simone
sfoderò un sorriso malizioso. «Hai
intenzione di fare le ore piccole, eh?»
sghignazzò divertito.
Lo
fissai seria, sperando la smettesse di fare il bambino. Aveva ventuno
anni e
finalmente aveva la possibilità di bere alcolici legalmente, quando
sarebbe
cresciuto?
«Non
tutti gli
uomini hanno quel fine ultimo nella vita, sai? Ci sono anche altri
interessi,
una bella conversazione, del vino…» sospirai infastidita.
Simone
scese dal davanzale e andò a rovistare dentro una ciotola sul
mobiletto. «Fidati,» disse,
sventolandomi il mazzo di chiavi davanti agli occhi. «Noi
abbiamo
in mente solo quello.»
Tentai
di afferrarle ma Simone le scansò, più di una volta. Sfruttava la sua
altezza,
il maledetto, e non mi permetteva di appropriarmi del mazzo di chiavi
senza
fare il deficiente.
«Hai
detto
bene,»
ridacchiai, poi mi ricordai delle sue
chiavi abbandonate vicino al cesto della frutta. Le presi e me le
rigirai tra
le mani con aria trionfante. «Voi
ragazzini pensate solo a quello, ma James è un uomo. Te lo ripeto, non
puoi
competere con uno come lui.»
E
fu in quell’istante che il suo sguardo diventò di ghiaccio e
impenetrabile. Era
in quelle occasioni che perdeva quella sua strafottenza e tutti i
lineamenti
del viso si trasformavano a plasmare un’emozione diversa.
Lo
avevo ferito nell’orgoglio e quando riuscivo a fare breccia in quella
sua
superficialità allora lui diventava un animale.
In
poche falcate mi raggiunse vicino alla porta, piazzandoci una mano
sopra e
impedendomi di uscire. Il cellulare cominciò a suonare, ma non appena
lo
afferrai tra le mani, lui me lo strappò.
«Quello
lì non
vale nemmeno la metà di me, ficcatelo bene in testa,» disse
furioso.
Era
peggio di tutte le altre volte, non lo avevo mai visto così arrabbiato.
«Non è me che
devi convincere. Ridammi il telefono e lasciami uscire,» lo
provocai.
Sapevo
di star giocando con il fuoco, che Simone era un ragazzino, ma pesava
ugualmente ottanta chili e ci avrebbe messo poco ad imporre la sua
superiorità
fisica. Eppure non riuscivo a smettere di fissarlo con aria di sfida,
come se
dovessi dimostrargli qualcosa.
Di
una cosa ero certa: doveva abbassare la cresta e smetterla di
comportarsi in
maniera così infantile.
Il
telefono vibrava e “strillava” nelle mani di Simone, ma lui non
accennava a
restituirmelo. Sarebbe stato capace di premere il tasto verde? Avrebbe
avuto il
coraggio di avventarsi contro James nonostante fosse il suo avvocato?
Erano
tutti interrogativi che rimanevano privi di risposta, soprattutto
quando avevo
quegli occhi taglienti puntati contro. In certi momenti sembravano
simili a
quelli di Sofia, dal taglio esotico, quasi appartenenti ad un altro
mondo,
mentre in altri – come in quello – apparivano quasi “bestiali”.
C’era
un mondo totalmente nuovo nascosto lì dietro, ne ero più che sicura
perché
riguardava anche me, eppure era possibile scorgerlo soltanto in momenti
come
questo.
Quando
Simone perdeva il controllo, io potevo sbirciare un piccolo pezzo del
suo vero io.
Si
accorse che lo stavo osservando, allora si nascose di nuovo dietro la
sua
maschera di imperturbabilità accennando a quel sorriso borioso. Mi
porse il
cellulare e si allontanò dalla porta, come se non fosse successo nulla.
«Pronto?»
«Spaghetti-girl!
Sei pronta? Sono proprio qui sotto, è la casa di Mr. Sogno, giusto?»
Notai
la piega di fastidio, quando James pronunciò il nome di Simone, ma non
gli
diedi peso perché non potevo impazzire proprio ora. Simone si era
seduto sul
divano e aveva acceso la televisione, nonostante fosse sabato sera.
Tecnicamente
avrei dovuto monitorarlo, ma a chiedermi di uscire era stato proprio il
mio
capo perciò non vedevo dove fosse il problema.
«Io
vado,» gli dissi,
poi chiusi la chiamata e aprii la porta.
«Torno
prima
di mezzanotte,»
continuai ma subito dopo mi morsi la lingua. Cos’era? Mio padre? Avevo
forse
bisogno di dargli delle giustificazioni?
Simone
non alzò nemmeno lo sguardo dalla tv. «Salutami
le amiche del bridge,» disse con
aria annoiata e indolente, e lo interpretai come un silenzioso invito a
dileguarmi nel minor tempo possibile.
James
mi aspettava fuori dal portone.
Lo
vidi appoggiato contro il cancelletto, che precedeva i gradini
dell’ingresso
della palazzina nel quartiere di Soho, in tutta la sua eleganza.
Indossava un
cappotto leggero di tweed, ma il modo in cui gli scendeva sulle spalle,
lo
rendeva quasi un lord di altri tempi.
Alzò
il suo sguardo acquamarina su di me e sorrise.
«Hi,
spaghetti-girl!»
Sorrisi
a mia volta, scendendo gli ultimi gradini che ci separavano e
accogliendolo con
un timido abbraccio, che lui rafforzò stringendomi energicamente al suo
petto.
Cercai di avvolgere goffamente le mani attorno alla sua vita, ma ancora
non
sapevo se quella serata sarebbe stata innocua o meno.
«Ti
va?» mi disse
Jamie, indicando la strada.
Non
avevo visto nessuna macchina parcheggiata nei dintorni e sapevo
perfettamente
che Jamie prendeva la Tube tutti i giorni per recarsi a lavoro. Come la
sottoscritta.
Come la sottoscritta prima
di
accamparsi a casa del bellimbusto, vorrai dire.
Zittii
la voce della ragione e m’incamminai al fianco di James senza ancora
riuscire a
dire una parola. Era strano per me, visto che il difficile era farmi
stare
zitta, eppure con lui mi sentivo in soggezione. Magari era perché aveva
trent’anni, era un uomo maturo, in carriera, completamente formato, e
ciò mi
rendeva ancora una ragazzina ai suoi occhi.
«Il
Torsolo di Mela è qui vicino, è
facilmente raggiungibile a piedi,» spiegò James, infilando le mani
nel cappotto di tweed. «Quando
posso, cerco sempre di utilizzare i mezzi, oppure la bicicletta, anche
per
salvaguardare questa bella città dall’inquinamento automobilistico.»
«Fai
bene. Sei
ammirevole,»
confessai imbarazzata, stringendo la pochette con entrambe le mani.
Se
avessi rivolto a Simone la sua stessa domanda, ero più che certa che mi
avrebbe
mandato a quel paese, rispondendomi che la bicicletta era da sfigati,
così come
i mezzi pubblici.
C’era
un abisso infinito tra Simone e James, qualcosa come un baratro di
dieci
chilometri di profondità che li distanziava. Erano troppo diversi per
poter
collimare in qualche modo, ma a me andava bene così. Non avrei cercato
di
cambiare Simone, era troppo tardi per farlo, ma in compenso c’era James
ed ero
intenzionata a godermi quella serata il più possibile.
«Ci
hai messo
un po’ a rispondere,»
notò il bell’avvocato, riferendosi alla chiamata di poco prima. «Ti ho
forse
sorpreso in un momentaccio? Avevi da fare questa sera?»
Subito
mi affrettai a negare. «Assolutamente!»
risposi
sicura. «Quel
deficiente di Simone mi aveva rubato il cellulare e non me lo voleva
restituire. Certe volte è proprio un moccioso,»
sospirai.
James
mi osservò di sbieco, proseguendo silenziosamente per il quartiere di
Soho,
prima di immetterci nella grande piazza di Piccadilly.
Cambiammo
subito argomento, così mi chiese cosa mi aveva portato in Inghilterra,
visto
che lui adorava l’Italia.
«Ci
sono stato
un anno,»
raccontò, mentre ci avvicinavamo sempre più allo studio, dove si
trovava anche
il ristorante-pub. «Avevo
convinto zio August a lasciarmi partire per trascorrere un periodo
sabbatico
post-laurea e così mi sono trasferito in un piccolo paesino in Umbria.
Ancora
oggi fatico a pronunciarne il nome. Monte.. Monteleo…» tentò
di
rimembrare.
Premesso
che la mia conoscenza in geografia era pari a quella di Marco Polo
quando
pensava di aver trovato una tratta per le Indie, una lampadina si
accese in
fondo alla mia testa e di punto in bianco ricordai anche di aver
visitato quel
piccolo paesino.
«Monteleone
di
Spoleto?»
tentai, sperando di non aver detto una castroneria.
A
James gli si illuminarono gli occhi e stavolta persi davvero un
battito. C’era
qualcosa di magico nelle sue espressioni, soprattutto quando erano così
genuine
e gratuite. Aveva la stessa ingenuità di un bambino, ma
contemporaneamente mi
trasmetteva una sensazione di sicurezza.
«Esatto!»
esultò. «Sono rimasto
ospite di una famiglia, dei parenti alla lontana di zio August, e ho
girato
tutte le campagne circostanti, spingendomi fino in Toscana. L’Italia è
davvero
un altro Paese, meraviglioso.»
Ci
fermammo di fronte all’insegna del Torsolo
di Mela e James, da cavaliere qual era, mi fece entrare per prima.
Al
cameriere comunicò il cognome di prenotazione – Abbott, tavolo per due
– e una
volta all’interno della sala dalle luci soffuse, rimasi imbambolata a
vedere
quanto fosse intimo quel posto.
Non cominciare a farti
strane
idee. Colleghi, nipote del tuo capo... Ti dice niente?
Scossi
energicamente la testa e mi lasciai guidare sino ad un tavolinetto
apparecchiato con una tovaglia a quadri bianca e rossa, molto simile a
quella
di Luigi’s in Lilli e il Vagabondo.
«Ecco
i menù.
Buona serata,»
ci disse il cameriere, con un forte accento italiano mascherato da un
inglese
appena cianciato.
«Credo
sia tuo
conterraneo,»
sogghignò James, accorgendosi subito della differenza.
Annuii
sorridendo. «Si
sente. Noi italiani non riusciremo mai ad avere una pronuncia perfetta
della
vostra lingua,»
ammisi, nonostante avessi frequentato le migliori scuole d’inglese sin
da
quando avevo dieci anni.
James
aprì il menù e cominciò a sbirciare le pietanze. «Non è
vero, tu hai un accento
pressoché perfetto,»
confessò, senza guardarmi in faccia.
Per
fortuna, aggiungerei, perché avevo cominciato ad assumere un colorito
aragosta.
Sentivo le guance farsi sempre più calde, ma nascosi il viso e mi
tuffai nel
menù.
«Insomma,»
proseguì poi
lui, dopo aver messo da parte la lista delle vivande. «Perché
hai
lasciato il tuo meraviglioso Paese?» mi chiese incuriosito.
Ci
sarebbe stata da fare una lunga filippica su quanto odiassi sentirmi
così
costretta in una cittadina rinomata unicamente per delle terme visitate
ogni
anno da milioni di ottantenni con le cataratte, ma tentai di
alleggerirgli la
pillola.
«Ho
sempre
desiderato andare in una grande città, allontanarmi da Tivoli e dalla
tenuta
dei miei genitori. Loro mi hanno sempre sostenuta sin dall’inizio,
anche perché
si erano aspettati che non avessi intenzione di prendere in mano
l’azienda di
famiglia, con capre, pecore, mucche e tutto il resto.»
James
ascoltava attentamente; fissava quei suoi occhi blu su di me e mi
faceva alle volte
perdere il filo del racconto. Era magnetico. Aveva uno strano potere su
di me,
un’influenza che mi contagiava a poco a poco, come un tarlo che scava
ossessivamente nel legno fino a divorarlo dall’interno.
«Quindi,
hai
deciso di andartene,»
mi fece lui.
Annuii
sospirando. «Sin
da quando frequentai la facoltà di Legge a Roma, loro capirono che
avrei
lasciato casa ben presto e si adoperarono a non farmi mancare nulla.
Mia madre
ne soffrì un po’, devo ammetterlo, perché sono comunque la loro unica
figlia, invece
mio padre tentò di spronarmi il più possibile. Infatti, subito dopo la
laurea,
cominciammo ad informarci sui corsi che offriva l’università di
Cambridge e
così feci domanda, ottenendo anche una borsa di studio.»
Mi
vergognavo un po’ ad elencare tutto il mio percorso di vita, come se
fosse
stata una delle dodici fatiche di Ercole. Era vero, i miei genitori non
avevano
mai avuto problemi di soldi, anzi, ma non mi andava di fare la parte
della
“mantenuta”.
Mio
padre si era sempre offerto di mantenermi il piccolo monolocale che
avevo
trovato in Oxford Street, ma non avevo mai accettato i suoi soldi,
rispedendoglieli indietro quando potevo. Il tirocinio mi dava le sue
soddisfazioni e questo mi bastava.
Se Franco sapesse che dividi
l’appartamento con uno dei suoi idoli…
Zittii
quella fastidiosissima voce nella mia testa e attesi la prossima
domanda.
Il
cameriere però utilizzò proprio quel momento di stallo della
conversazione per
domandarci cosa avevamo scelto per la cena. In un inglese pessimo,
spiegò cosa ci
fosse nella famosa Spaghettata ai Torsoli,
che già dal nome non prometteva bene.
«Due
piatti di
bucatini all’Amatriciana,»
disse James alla fine, dopo che avevamo deciso. «Due
bistecche ai ferri con
contorno di patate e del buon vino.»
Il
ragazzetto prese le ordinazioni e ritirò i menù, volatilizzandosi in
cucina. Mi
resi conto forse troppo tardi che quel gesto di James poteva essere
equivocato.
Aveva ordinato sia per lui che per me, come se stessimo insieme da
tempo.
Ciack, si gira! Prima scena
del
film di Ven.
Non
mi sto facendo nessuna fantasia!
Inquadrala meglio, su. Sarà
un
capolavoro!
«Quindi
sei
andata a Cambridge,»
tornò all’argomento appena interrotto.
Annuii
sbocconcellando un pezzo di pane che il cameriere aveva portato
preventivamente. «Ho
fatto la specialistica in Diritto Internazionale,»
spiegai.
Come
un fulmine a ciel sereno, in quel preciso istante ricordai della
rimpatriata
che si sarebbe tenuta nel cortile della facoltà la settimana prossima.
Sprofondai nella più completa auto-commiserazione per non aver ancora
pensato a
come invitare James a quella dannata festa.
Certo,
vedere le facce delle mie ex-compagne di corso che mi credevano una
contadinotta venuta a Londra per cercar fortuna sarebbe stato
impagabile,
soprattutto dopo aver avuto al fianco niente di meno che James Percival
Abbott,
erede dell’impero di famiglia.
«Anche
io ci
sono stato, molto tempo prima di te però,» e
sorrise.
Ovvio,
avevamo sei anni di differenza. In quel momento pensai a com’era James
quando
era al college. Uno studente modello? Sicuramente. Lo vedevo con la
divisa
dell’università, magari giocando a polo o facendo canottaggio,
corteggiato da
tutte le ragazze dell’università e invidiato dai ragazzi.
«Odio
le
università private unicamente per quelle stupide feste di classe,»
sbottai
infastidita, ricordando la lettera di partecipazione che mi pendeva
sulla
testa.
James
spalancò quei grandi occhi color cobalto. «Davvero?
Hai ricevuto un invito?» mi chiese
sorpreso.
Annuii
mogia e desiderai di incenerire il rettore unicamente per essersi
ricordato di
quella piccola studentessa straniera dalla parlantina facile e dalla
media
alta. «La
settimana prossima danno una festa per quelli del mio ex-corso.
Ovviamente è in
abito lungo e con accompagnatore,» sbuffai.
Gli
inglesi non avevano niente di meglio da fare che organizzare feste su
feste,
senza preoccuparsi della gente normale che magari non poteva
permettersi un
vestito da cinquecento sterline da indossare una sola sera e poi
buttarlo.
Con scarpe e borsa abbinate,
arriverai a settecento sterline.
In
pratica equivaleva a quasi due mesi di stipendio lì allo studio.
La
mia placida confessione non era stato certo un tentativo di invito del
bell’avvocato a quell’evento, anzi, glielo avevo confessato nella
speranza che
anche lui mi dicesse di rinunciare, che quelle feste erano fatte
solamente per
le pettegole.
«Potrei
accompagnarti io, se non hai nulla in contrario,» si
offrì. Sorrise e mi spiazzò
al tempo stesso.
Cercai
di non balbettare come quella talpa del fidanzato di Sofia, ma mi era
quasi
impossibile. Senza volerlo, ero riuscita ad ottenere un secondo
appuntamento
con l’avvocato che ormai condizionava ogni mia giornata, nel bene o nel
male.
Al male ci pensa Simone.
Concordo.
«S-Sarebbe
fantastico!»
esultai e cercai a stento la voglia di lasciarmi addosso a lui per
abbracciarlo. In poco tempo avevo risolto uno dei problemi più grossi
che mi
avrebbe afflitto quella settimana, non contando ovviamente la presenza
di
Simone.
«Magari
ricordami l’indirizzo e l’orario, così ti passo a prendere,»
sorrise. «Sarà una
delle rare volte in cui prendo l’automobile.»
Il
cameriere arrivò con il primo piatto, così ci mettemmo a mangiare e a
scherzare
sui tempi dell’università. Gli raccontai di come ero riuscita ad
ottenere il
posto come tirocinante lì allo studio, di Yuki e dei suoi continui
tentativi di
sabotaggio, gli raccontai di mia madre che mi telefonava ogni giorno,
di
Celeste e di come proseguiva la sua carriera di scrittrice.
All’arrivo
del secondo piatto, ero già piena come un uovo. Cercai di
sbocconcellare
qualcosa, ma mi sentivo davvero satolla. In compenso James mangiava con
gusto,
anche se la pasta non era stata una fra le migliori che avessi mangiato.
«Credo
di
doverti portare un giorno ad Amatrice, è proprio una bella cittadina,»
confessai,
senza rendermi conto di quanto quella frase implicasse un noi.
James
però non fece una piega, anzi, sembrò compiaciuto. «Mi
piacerebbe
prima vedere il posto in cui sei nata. Sono sicuro che è qualcosa di
meraviglioso.»
C’erano
tanti significati nascosti in quella frase, allegorie e segnali che
forse una
ragazza più esperta di me avrebbe interpretato come un flirt. Il
problema era
che non mi volevo lasciar coinvolgere.
Soprattutto
da pensieri e da insinuazioni prive di fondamento. Io e James eravamo
colleghi
prima di tutto, anche se nel corso della serata non avevamo parlato
minimamente
del caso di Miss. Cloverfield, eppure c’era qualcos’altro che ci
legava,
qualcosa di sottile che non si era ancora manifestato.
Lasciai
da parte la bistecca e ingurgitai qualche patatina, giusto per gola. Se
ci
fosse stato Simone ero sicura che mi avrebbe dato della balena.
«Come
vi siete
conosciuti?»
mi chiese James d’improvviso, mentre assaggiava il filetto.
Per
poco una patatina non mi andò di traverso. «C-Chi?»
sbottai.
James
ridacchiò di quel mio momento di panico, ma non si arrese. «Come
vi siete
conosciuti tu e Mr. Sogno? Sono proprio curioso di saperlo. Sembrate
abbastanza
affiatati,»
disse, cercando di tenere un tono distaccato.
«Affiatati
proprio no,»
mi affrettai a rispondere, storcendo il naso.
«Ogni
vostro
battibecco è come se fosse il copione di una commedia. Avete la battuta
pronta,
mi piace,»
sorrise lui.
Rimasi
di sasso quando lo disse.
Hai sempre la battuta
pronta, mi
piace. Era la stessa frase
che mi aveva detto
Simone quel pomeriggio in macchina, le stesse identiche parole. Rimasi
a
guardare l’avvocato come se fosse appena sceso dall’astronave di
Spielberg.
«Che
c’è? Ho
detto qualcosa di sbagliato?»
chiese, visto che continuavo a boccheggiare come un pesce.
«N-No,
non hai
detto nulla,»
dissi e tentai di mantenere un po’ di contegno. Ormai non avevo più
scuse,
dovevo raccontargli come io e quel moccioso di Simone c’eravamo
conosciuti.
Ormai
erano passati più di tre anni.
«Tre
anni fa
circa, sono venuta qui a Londra con la mia migliore amica, Celeste. La
scrittrice,»
incominciai, e James annuì facendomi cenno di proseguire. «Non so
se lo
sai, ma lei è fidanzata con un famoso calciatore della Roma, Leonardo.»
«Il
cugino di
Mr. Sogno? Dai, non lo sapevo!»
si sorprese James. «Non
sono bravo in materia di gossip, tranne quelli che riguardano i casi a
cui
lavoro.»
«Sì,
sono
fidanzati da quattro anni ormai. Cercano sempre di essere riservati,
anche se
stare insieme ad un calciatore famoso non dev’essere facile,»
ammisi,
cercando di non mettermi nei panni di Celeste.
Che dopo tutte quelle
patatine
che ti sei ingurgitata, ti starebbero sicuramente stretti.
«Insomma,
eravamo andate a Londra col mangia-caccole... volevo dire con un nostro
amico
comune, con l’intenzione, almeno mia, di farla rimettere con quel
troglodita
senza cervello perché, nonostante tutto, quei due si appartenevano. La
Roma era
nella capitale inglese per una partita di non so quale campionato, non
me ne
intendo, e ovviamente la squadra avversaria era l’Arfenale.»
«L’Arsenal» mi
corresse
lui.
«Sì,
quella
lì,»
tagliai corto, senza dargli troppa importanza. «Fatto
sta che era solo questione
di tempo prima che mi imbattessi nel cugino famoso di Leonardo, quello
che si
era trasferito in Inghilterra da quando era bambino e che, a detta
dell’attaccante della Roma, era solo uno sbruffone. Quella fu l’unica
volta che
diedi ragione al fidanzato della mia migliore amica,»
ammisi senza
remora.
James
sbuffò in una risata trattenuta, e anche io mi lasciai contagiare. «Diciamo
che
Mr. Sogno deve maturare,»
disse, in quel modo tipicamente inglese di non offendere mai la persona
di cui
si parla. «Però
sono convinto che ha buone possibilità, magari con il tuo aiuto. Quanti
anni
corrono tra voi due?»
Non
capivo il motivo di tutto quest’interessamento per il TermoSifone,
visto che
quella cena fino a quel momento era andata nel migliore dei modi.
«Quattro,
credo. Anno più anno meno,»
risposi indifferente.
Non
potevo certo rispondergli che avevamo esattamente tre anni e sei mesi
di
differenza, visto che utilizzavo quell’informazione per infierire su
Simone
ogni qual volta mi era possibile.
«Sei
come una
sorella maggiore per lui, quindi,» insinuò, sempre con quel tono
disturbato che gli avevo visto utilizzare più volte da quando avevamo
conosciuto Simone.
Se
gli dava fastidio che condividessi la casa con il nostro maggior
cliente, per
quale motivo continuava ad insistere sull’argomento?
«Per
fortuna
una sorella ce l’ha.»
Ricordai la piccola Sogno con i suoi occhi e le sue movenze da elfo dei
boschi.
«Miss
Sogno è
una cantante fenomenale, nonostante sia poco conosciuta all’estero,»
mormorò
orgoglioso. «Ha
uno stile musicale molto originale, diverso da quello delle artiste
“commerciali”. Insomma, mi piace.»
James
aveva un modo meraviglioso di descrivere le persone, soprattutto quelle
per cui
nutriva un certo rispetto. Riuscivo a sentire la passione per Sofia in
ogni sua
parola, quasi avesse passato tutti i pomeriggi della sua vita ad
ascoltare le
canzoni, percependone ogni minima sfumatura.
«Eh
già,
questi Sogno sono una sorpresa continua,» dissi
atona, ricordando anche
Gabriele, Mr. Marco e la bella Marianne.
«Com’è
andato
il pranzo di famiglia?»
mi domandò James a bruciapelo.
Avevo
completamente rimosso questo particolare, soprattutto non ricordavo
affatto di
averne parlato con lui. Evidentemente cominciavo a perdere colpi.
È la vecchiaia.
«Bene!»
risposi
allarmata. «Avrei
preferito rimanere a casa, ma tutto sommato è andato bene.»
«Come
mai?»
Le
iridi curiose di James mi terrorizzarono per una frazione di secondo.
Tutto
questo suo interesse per Simone era quasi morboso e non riuscivo a
capire se
volesse informarsi su come era cresciuto il suo cliente o se fosse
unicamente... geloso?
James
era un continuo enigma.
«Mi
sono
sentita di troppo, diciamo,»
confessai. Tanto valeva affrontare la verità, visto che non potevo fare
altro. «La famiglia
Sogno, almeno il ramo di Simone, è molto unita e si vede che si
vogliono bene,
tutti quanti. Anche i parenti acquisiti. Sono stati molto gentili con
me, ma
sentivo di non appartenervi.»
Era
stato uno dei pomeriggi più belli da quando mi ero trasferita a Londra.
Era
come se avessi ritrovato quel calore familiare che mi ero lasciata alle
spalle
andando via da Tivoli, ma comunque non lo avevo fatto mio. Mi ero
sentita un
ospite in terra straniera.
«Ti
capisco,
non è mai facile appartenere a qualcuno. Lasciarsi andare completamente
e
mettersi nelle mani di sconosciuti. Per quanto cordiali possano essere,»
mormorò.
Dovevo
ammettere che James era capace di leggermi dentro, anche se non mi
reputavo
molto brava a nascondere le mie emozioni. Sofia lo aveva detto. Io e
Simone ci
eravamo costruiti attorno una piccola corazza dietro cui nascondere il
nostro
vero io, lasciando che gli altri assorbissero solo quella parte
forte
del nostro carattere.
James
riusciva a grattare oltre la superficie e io gli permettevo di farlo,
di
guardare dentro.
«Già,
non è
mai facile dipendere da qualcuno, dopo che sono anni che conto
unicamente sulle
mie forze,»
confessai, sempre più sovrappensiero.
Era
come se mi stessi confidando con Celeste, quasi come se James fosse il
mio
nuovo migliore amico e mi capisse più di chiunque altro.
«Sei
una
piccola tigre,»
mi disse, sfiorandomi di proposito la mano. «Lotti
con le unghie e con i
denti per quello che vuoi, ed è una cosa ammirevole. Conti unicamente
sulle tue
forze e non ti appoggi a nessuno. Sei tutto quello che io avrei sempre
voluto
essere,»
mi disse ed io per poco non mi lasciai trasportare dalle emozioni.
Quell’idilliaco
momento fu interrotto dall’arrivo del cameriere col conto. James non ne
volle
sapere di accettare la mia parte della cena e si offrì di pagare perché
era
stato lui ad invitarmi. Uscimmo dal Torsolo
di Mela verso le undici e mezza della sera, così ci incamminammo
verso casa
di Simone.
Il
giorno dopo non ci saremmo visti, dato che era Domenica, così cercammo
di
rimanere insieme il più possibile. Non sapevo ancora quale significato
avesse
quella cena. Avevamo parlato di tutto, tranne che del caso di Miss.
Cloverfield.
Sentivo
che quella lunga chiacchierata, durata due portate e mezzo, ci aveva
maggiormente legati e non più solo come colleghi. Sicuramente da amici
e
confidenti.
James
riusciva a capirmi, ed era raro che qualcuno ci riuscisse con così poco
tempo
di frequentazione. Spesso e volentieri tendevo a lasciare che gli altri
vedessero solo il lato antipatico, irascibile e acido del mio
carattere,
soltanto pochi eletti potevano sapere come fosse fatta la vera Ven.
Invece
James l’aveva capito subito.
«Eccoci
arrivati,»
disse, una volta davanti al cancelletto in ferro battuto della
palazzina.
«Grazie,»
pronunciai,
lievemente imbarazzata. «Della
cena, della splendida serata e di avermi riaccompagnata a casa.»
Gli
dovevo sembrare una liceale goffa e impacciata. Era inevitabile, quando
qualcuno mi interessava riuscivo a passare per un’emerita imbecille.
«Grazie
a te
per aver accettato l’invito,»
sorrise, rubandomi un battito.
A
furia di lanciarmi quei colpi diretti al petto, ero sicura che avrei
finito per
essere ricoverata per attacco cardiaco.
Rimanemmo
fermi in piedi, l’uno di fronte all’altra, senza sapere né cosa dire né
cosa
fare. Forse era davvero arrivata la fine della serata, magari avrei
dovuto
girare i tacchi e salire i gradini, per poi rivederlo lunedì in ufficio.
Eppure
non me la sentivo di lasciarlo andare. C’era qualcosa in sospeso,
qualcosa che
doveva essere fatto, ma che non riuscivo a capire.
«Senti
Ven,» cominciò lui.
Si avvicinò di qualche passo e posò una mano sulla mia spalla.
Rabbrividii a
quel contatto, ricordando timidamente le sue labbra sulla mia fronte
bollente.
Averlo vicino era come sentirmi piena, finalmente completa di una metà
che
mancava da tempo. «Ti
ho invitato per questa serata utilizzando la scusa del lavoro, ma non
era così
e credo l'avrai capito anche tu. So che è sbagliato quello che sto per
dirti,
soprattutto da uno che porta lo stesso cognome del titolare dello
studio, ma
non ho davvero incontrato nessuna come te.»
Sentivo
il cuore ormai prossimo allo scoppio. Batteva talmente forte nel petto
che
temetti che James potesse udirlo.
«Sei
arrivata
come un treno, instancabile, e sei così solare e piena di energia che
schiarisci anche questo cielo uggioso di Londra. Mi ricordi quell’anno
passato
in Italia e tutti i bei momenti legati a quella terra.»
Ero
ufficialmente in trance, perché sapevo dove volesse andare a parare
quel
discorso. Lo avevo sperato sin da quando avevo ricevuto il suo invito e
proprio
nel momento in cui pensavo che il nostro rapporto si fosse logorato,
lui aveva
iniziato a dirmi quelle meravigliose parole.
«Io
e te siamo
colleghi, lavoriamo allo stesso caso e la politica dell’ufficio è
rigida. Non
per questo voglio forzarti, sei libera di decidere ciò che vuoi,» disse
tranquillamente. «Puoi
anche fermarmi, ora. Altrimenti farò quello che sto per fare.»
Deglutii
quando il volto di James, così pulito e velato da un lieve filo di
barba
incolta, si avvicinava lentamente al mio. Vidi i suoi occhi risplendere
di una
luce ombrosa, le sue pupille farsi più larghe nella fioca illuminazione
dei
lampioni nella strada di Soho.
Si
chinò lentamente e raggiunse il mio scarso metro e sessanta, in quelli
che
parvero minuti infiniti. Mi aveva detto che volendo mi sarei potuta
scansare,
per non mettere in pericolo tutto quello per cui avevamo lavorato.
Anche
se avevo messo al primo posto la carriera, a dispetto di ogni altra
cosa,
l’idea di un qualcosa di proibito, nascosto agli occhi degli altri, mi
allettava, soprattutto perché James era quel
qualcosa di nuovo che sentivo soltanto mio.
Non
mi scostai. Sentii le sue morbide labbra e quella ruvidezza del viso
solleticare la mia pelle che mi suscitò un brivido, il quale rotolò fin
giù
sulla spina dorsale. Era una fredda notte di novembre, ma il mio corpo
era
scosso dal calore di quel bacio.
Strinsi
le mie dita attorno al ruvido cappotto di tweed, ancorando il mio corpo
al suo,
insieme alla speranza di qualcosa di più. Avevo sognato quel momento da
sempre,
baciarmi sotto la fioca luce di uno di quei lampioni vittoriani di
Londra. Una
storia era l’ultima cosa che mi ero aspettata lasciando casa, eppure
eccomi lì,
stretta da un paio di forti braccia e cullata dal sapore di quelle
labbra.
James
sapeva di buono, di caldarroste in un freddo pomeriggio di Ottobre,
dell’odore
di legna del camino, quando era inverno e ci rannicchiavamo davanti al
focolare. James sapeva di casa, anche se tutto di lui non apparteneva
minimamente alla mia terra.
Ci
staccammo per riprendere fiato e ci scambiammo uno sguardo complice.
«Non
ti sei
scostata,»
sorrise e mi accarezzò i capelli.
«No,»
sorrisi io,
imbarazzata.
Rimanere
cullata nel suo abbraccio era forse una delle dieci cose da mettere
nella lista
dei preferiti, non contando il bacio di poco prima. Era stato un bacio
casto,
nulla di più, ma mi aveva scosso più di qualunque altra cosa.
«Quindi
sei
pronta a rischiare con me?»
mi domandò. «Non
hai paura di mettere a repentaglio la tua carriera?»
Certo
che avevo paura, come avrei potuto non averla? Avevo sacrificato tutto
per
diventare un giorno socio dello studio, eppure in quel momento ogni
altra cosa
mi pareva del tutto superflua. Era troppo tempo che ero rimasta da
sola,
sentivo lo stomaco attorcigliato, il cuore palpitante e tutto il mio
corpo si
protendeva verso quelle sensazioni sopite da tempo.
Per
quanto la mia mente desiderasse il contrario, il mio corpo voleva James.
«Certo
che ho
paura, ma non riesco a smettere di guardarti,»
confessai, al limite del
ridicolo.
Jamie
era l’unico che riusciva a non farmi saltare i nervi per ogni cosa, a
tirare
fuori il meglio di me, in ogni occasione. Finalmente ero felice di non
dovermi
difendere in ogni discorso e in ogni gesto che facessi, come succedeva
con
Simone.
Con
lui era una guerra continua, un’infinita battaglia.
«Nemmeno
io
riesco a smettere,»
mi confessò, sfiorandomi la guancia fredda con il pollice.
«Si
è fatto
tardi,»
gli dissi. «Meglio
che torni a casa, o la Tube chiuderà.»
«Magari
prenderò un taxi,»
scherzò. «Torna
dentro e copriti, sei un piccolo ghiacciolo. Ci vediamo lunedì, mi
raccomando.
Ah, e fammi sapere dove si svolgerà la festa a Cambridge: sarò il tuo
cavaliere, te l’ho promesso.»
Arrossii
d’istinto, senza nemmeno rendermene conto, ma ringraziai la temperatura
rigida
di Londra che confuse quei rossori con quelli del freddo.
«C-Certo!»
esclamai
sorpresa. «Mandami
un SMS quando arrivi sano e salvo a casa,» gli
chiesi, quasi come fossimo
due “fidanzatini”.
«Contaci,» mi
rispose
lui, cercando ancora una volta le mie labbra.
Lo
guardai allontanarsi e svoltare l’angolo, mentre continuavo a sorridere
come
un’ebete, così mi diressi verso la palazzina per ripararmi dal freddo
di quella
notte. Ero ancora su di giri, come se mi fossi ubriacata o altro. Mi
sembrava
di galleggiare sui miei stessi passi, ad un metro dal terreno. Ero
leggera come
una piuma, come se una brezza estiva fosse stata in grado di lasciarmi
volteggiare
nel cielo.
Sei contenta? Ora puoi anche
buttare nel cesso la tua carriera.
Ignorai
il commento pungente del mio Cervello e smanettai alla ricerca della
chiave
giusta per aprire il portone. Mi ricordai improvvisamente il modo
brusco in cui
ci eravamo lasciati io e Simone, prima che scendessi per l’appuntamento
con
James.
Mi
era sembrato più incazzato del solito e avrei giurato di ritrovarmelo
di fronte
una volta aperta la porta. Sicuramente mi avrebbe vomitato addosso i
peggio
insulti, insistendo su quanto fosse inutile James e ridicolo.
L’unico
ridicolo era lui.
Cominciai
a ripetere mentalmente una quantità svariata di insulti e di parole
poco carine
da dirgli se soltanto avesse fatto qualche commento su James, quando
spalancai
la porta d’ingresso e mi trovai avvolta dal buio.
Non
c’era nessuno.
La
casa era completamente deserta, silenziosa come quando l’avevo
lasciata. Sul
divano c’era una coperta utilizzata da Simone quando si era messo a
vedere la
televisione e giaceva lì abbandonata come uno straccio. Fui sorpresa di
non
vederlo nei paraggi, soprattutto perché mi ero aspettata di dover
lottare anche
questa volta per rispedirlo al letto, magari con una serie di insulti
che non
avrebbe capito.
Posai
le chiavi sul mobiletto e mi tolsi le scarpe, cercando di fare il
minimo
rumore.
Attraversai
il piccolo ingresso e rivolsi lo sguardo verso la porta chiusa della
stanza di
Simone. C’era un grosso “Keep Out” scritto sopra, con un cartello.
Lo
ignorai e proseguii verso la mia stanza, pensando ancora a James e al
suo dolce
bacio sotto le stelle.
Mi
spogliai, mi lavai i denti e mi stesi sotto le coperte, sospirando. Ero
troppo
euforica per riuscire a dormire, così fissai il soffitto. Di tanto in
tanto una
macchina passava in strada, e i fari filtravano dalle persiane
illuminando le
pareti.
Certo, prima ti accusa di
uscire
e di fare le ore piccole, poi nemmeno ti aspetta per urlarti contro.
Infatti,
è solo uno stupido ragazzino.
Inoltre, non può permettersi
di
giudicarti, visto che a lui non è permesso uscire con altre donne fino
alla
fine della causa, invece tu slinguazzi un tuo collega senza curartene
minimamente.
Eh…
cosa?
Hai capito bene.
Ma
da che parte stai, si può sapere?
Dalla parte della Ragione,
ovviamente.
Mandai
al diavolo anche il mio Cervello, visto che era poco collaborativo come
suo
solito. Rimasi a fissare il soffitto per interminabili minuti, volgendo
lo
sguardo di tanto in tanto al corridoio.
Di
punto in bianco sentii la porta della stanza di Simone spalancarsi e mi
irrigidii sul letto. Chiusi gli occhi e finsi di dormire, dando le
spalle alla
stanza.
Lo
sentii ciabattare sino in cucina, aprire l’acqua e afferrare un
bicchiere. Poi
nient’altro. Se ne tornò in camera e chiuse la porta.
Mi
rigirai nuovamente supina, posai un braccio sugli occhi mentre sentivo
il mio
cuore palpitare nervosamente.
Avevi sperato che ti venisse
a
trovare? Magari sdraiandosi accanto a te come ha fatto questa stessa
mattina?
Taci.
D’improvviso
sentii il telefono vibrare sul comodino, così lo afferrai e sorrisi
leggendo
l’SMS di James:
Sono tornato a
casa vivo, mylady.
Per tua
fortuna la tube non ha chiuso, ma per tutto il
tragitto ho discusso animatamente con un barbone sul prezzo del
biglietto del
circo delle pulci. è stato interessante.
Buona notte,
spaghetti-girl e grazie per la serata.
Ps: e per il
bacio.
Rimasi
a fissare lo schermo per un tempo indeterminato, toccando l’LCD per non
farlo
oscurare. Rileggevo quelle parole più volte, e in ogni occasione mi
emozionavano più di prima. Non riuscivo davvero a capire come avessi
potuto
anche solo pensare a Simone, quando ero riuscita a sfiorare le labbra
dell’avvocato più sexy ed intelligente che avessi avuto la fortuna di
conoscere.
E
mi ricambiava.
Aveva
detto che ero forte, che gli piacevo perché lottavo.
Avete sempre la battuta
pronta,
mi piace.
Hai sempre la battuta
pronta, mi
piace.
Mi
addormentai con quelle due frasi quasi del tutto identiche che si
sovrapponevano l’una con l’altra mentre, avrei giurato, che in un
preciso
momento della notte, tra il sonno e la veglia, in quel ritaglio di
tempo dove
l’onirico si fondeva con il reale, ci fosse qualcuno che mi osservava.
Uno
sguardo cupo. Pensieroso.
***
Scusate
enormemente per l'attesa di questo nuovo capitolo! *si prostra ai piedi
dei lettori*
Purtroppo tra una settimana a Marsa Alam e altre 3 settimane tra mare e
montagna, non ho potuto aggiornare né toccare il computer sotto lo
sguardo fulminante di quei genitori negrieri che mi ritrovo -.-'
Comunque sono tornata, non vi libererete così facilmente di me!
MUAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAAH *cade dalla sedia*
Detto ciò, so che molte di voi mi odieranno alla fine di questo
capitolo, ma io rispondo loro con "abbiate pazienza!" in fondo la
storia è appena agli inizi e non posso spiattellare tutto e subito,
anche se vorrei u.u
Però la mia wife mi lincia xDD
Okkey, ora vi lascio alle INNUMEREVOLI recensioni che riceverò (seh
seh, aspetta e spera LOL) e mi accingo a rispondere alle precendenti!
Devo recuperare un sacco di cose >.<
Beh, vi lascio con un po' di link, ci si vede sul gruppo bedde!
Crudelie si
nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re
Storie consigliate:
- Until
my last step (Daphne921);
- Unexpected
as you (_caline);
- In her
shoes (HappyCloud);
- Il
meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's
Blue (BlueSmoke);
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 9 (parte 1) ***
Quella
mattina mi svegliai con un forte mal di testa. Riuscii a mala pena a
mettermi
seduta, notando con disgusto che durante la notte non avevo riposto il
telefono
sul comodino e mi si era completamente incollato alla faccia.
Si
staccò con un sonoro strash, finendo
sul morbido materasso, ma lasciandomi la sensazione di avere un
rettangolo
stampato sulla guancia.
Una nottata infernale.
Non
conoscevo il motivo del mio sonno tanto inquieto, visto che avevo
limitato i
bicchieri di vino al minimo ed eravamo tornati relativamente presto.
Guardai
l’orologio e notai che erano le 8.30 di Domenica mattina. La mia prima
Domenica
nel nuovo appartamento.
Una
risata femminile mi distrasse dalla mia trance momentanea.
Dopo
nemmeno cinque secondi, la porta della camera di Simone venne
spalancata con un
sonoro schiocco di maniglia, e il calciatore ciabattò per tutta la
cucina
cominciando a trafficare per preparare la colazione.
E
così qualche volta riusciva anche a muoverlo quel culo secco, eh?
Quel bel culo secco.
Oh,
finiscila!
Mi
affrettai a scendere dal letto, districandomi dall’enorme quantità di
coperte e
piumoni disseminati in quel letto, e m’infilai le ciabatte per poi
fiondarmi in
cucina. Avevo già caricato il mio dito indice, pronto per puntarlo
contro a
quel deficiente senza cervello che giusto ventiquattr’ore prima mi
aveva fatta
diventare matta pur di fargli il caffè, ma poi mi bloccai.
Rimasi
immobile sotto l’arco a muro, quello che divideva il corridoio dalla
cucina, ad
osservare un corpo magro e flessuoso che si affaccendava tra i fornelli.
Strizzai
gli occhi, cercando di mettere a fuoco l’identità della persona, e mi
accorsi
subito che si trattava di una ragazza. Non era bionda, né riccia,
quindi la
piccola Sofia era esclusa.
Il
livello di rabbia si stava lentamente accumulando, raggiungendo
pericolosamente
il livello delle ginocchia.
Ven, cerca di ricordare il
corso
di autocontrollo.
Autocontrollo
un cazzo!
Quel
deficiente me l’aveva fatta in barba, lo sapevo! Ecco perché non si era
mosso
dalla sua stanza, non era venuto ad inveire contro la sottoscritta. Si
era
portato una giraffona in casa, quando io ero uscita con Jamie ed aveva
approfittato dell’appuntamento per godersi la seratina in santa pace.
Nonostante mi fossi così tanto raccomandata di non andare dietro alle
ragazze!
La
giraffona in questione si voltò e mi sorrise spalancando quegli enormi
occhi
nocciola da Bambi della Disney.
«Bonjour!»
trillò
quella. Un’altra parigina, complimenti. Simone era davvero originale
nelle
scelte delle sue compagne di letto. «Gradivesti
una scioccolata?» mi domandò,
indicandomi il pentolino dove stava facendo sciogliere il latte.
Scioccolata?
«No,
ti
ringrazio,»
grugnii, osservandola di sottecchi.
Quel
pezzo di deficiente aveva buttato all’aria quell’intera settimana di
astinenza
forzata, e tra qualche giorno si sarebbe svolto anche l’incontro
preliminare
con St. James. Se la notizia di questa notte fosse trapelata su qualche
tabloid, ero spacciata.
Addio
carriera, addio studio, addio futuro come brillante avvocato.
Ma
soprattutto, addio James. Mi avrebbe ripudiata, ne ero certa.
«Tu…»
smozzicò la
tipa curiosa, osservandomi da capo a piedi nel mio bellissimo pigiama
coi
maiali stampati sopra. «…sei
la sorella di Simòn?»
chiese.
Trattenni
a stento una risata, poi mi interrogai su quale delle due cose avrei
dovuto
fare per prima: precipitarmi in camera di quel cretino con l’uccello al
posto
dei neuroni, o sbattere fuori di casa la giraffona prima che le
tagliassi la
testa di netto.
Optai
per la seconda.
«No,
sono il
suo avvocato. Ed ora è il caso che tu prenda i tuoi quattro stracci
striminziti
e te ne vada immediatamente!»
le ordinai ferrea, senza scompormi.
La
tipa mi fissò come se fossi appena uscita dall’uovo di Pasqua. Mi
sorrise
titubante, come se fosse vittima di uno scherzo, ma quando non accennai
nemmeno
ad un sorrisetto, s’immobilizzò con la cioccolata ancora nel pentolino.
«Vado
a
prenderti le tue cose, e poi sloggi,»
ringhiai, fiondandomi a passo
pesante – elefantiaco, direi – verso la stanza di Simone che non si era
nemmeno
degnato di apparire in pubblico. Non mi premurai nemmeno di bussare,
prima di
spalancare la porta come se non ci fosse un domani.
Ero
furiosa. Una bomba in procinto di esplodere, e anche se lo avessi
trovato con
il Pisellino al vento, poco me ne
importava.
Che
razza di piccolo ingrato!
«Mi
hai
portato la colazione a letto, mon amour?»
brontolò da
sotto dodici – e dico dodici! – strati di coperte, da cui spuntavano
fuori
unicamente ciuffi di capelli sparati in ogni direzione. Simone aprì
pigramente
un occhio e mise a fuoco la mia figura.
Il
livello di rabbia adesso era arrivato ad altezza tette, molto vicino a
farmi
esplodere il cervello.
«Ah,
sei tu,» grugnì
infastidito. «Dov’è
Francine?»
Strinsi
le mani a pugno, sentendo le mezzelune delle unghie penetrare
debolmente nel
palmo. Se avessi avuto qualsiasi oggetto contundente a portata di
lancio,
glielo avrei tirato senza nessuna remora. Era proprio un imbecille
viziato, un
ragazzino immaturo e imprevedibile.
Cercai
di non uscire fuori dai gangheri prima del previsto.
Simone
si accorse immediatamente che avevo un diavolo per capello, e non solo
quello:
avevo l’interno inferno sopra la testa e non avrei esitato a spedirlo
contro di
lui. Non era possibile che dopo tutto quello che era successo, dopo il
guaio in
cui si era cacciato, avesse ancora il coraggio di fare lo sbruffone.
«Miss
gambe
secche sta per andare via, ha avuto un contrattempo,»
sibilai,
tentando di non far salire la rabbia a livello critico. Sondai il
terreno con
lo sguardo, cercando gli abiti succinti della giraffona, ma incappai
unicamente
in boxer usati, calzini scompagnati e magliette sparse ovunque senza
nessuno
ordine, nemmeno igienico.
Finalmente
Simone riemerse dalle coltri e si mise a sedere sul letto, grattandosi
la testa
e fissandomi con gli occhi ancora socchiusi per la troppa luce che
filtrava
dalle tende. «Cosa?
Ma se ieri mi ha detto che poteva rimanere tutta la domenica…»
bofonchiò
insonnolito.
A
quel punto lo stava facendo apposta. Era così stupido da non ricordarsi
nemmeno
l’assoluto periodo di castità che doveva trascorrere durante il
processo?
Ti stai davvero domandando
se
sia stupido? Credevo che la risposta già la sapessimo.
Già,
che sciocca.
Finalmente
individuai un micro vestitino di chiffon azzurro che pendeva da una
sedia
girevole, poi un paio di tacchi vertiginosi su cui era persino
difficile stare
in piedi, figurarsi camminare. Mi precipitai ad afferrarli entrambi,
decisa a
buttare fuori di casa l’ennesima francesina e poi fare una scenata
epocale a
quel deficiente sconsiderato.
Chissà
le porcherie che avevano fatto quando io ero addormentata.
Pensi sempre a quello, eh?
Taci!
«Cosa
stai
facendo?»
s’indispettì Simone, quando realizzò le mie intenzioni.
«A
te cosa
sembra?»
Individuai anche un piccolo montgomery
nero che doveva appartenere alla
modella. Sentivo gli occhi del calciatore sulla schiena, fissi come due
laser
che avevano l’unico scopo di incenerirmi all’istante.
«Non
ti devi
permettere!»
disse, scostando le coperte e posando un piede nudo sul pavimento.
Mi
voltai di scatto e mi trovai a sbattergli contro – contro il suo petto
nudo,
aggiungerei –, perché non indossava altro che un paio di boxer bianchi.
Alzai
lo sguardo e fui paralizzata da quegli occhi scuri, così anonimi eppure
particolari. C’era la pupilla che non si distingueva dall’iride,
nonostante
quei pochi raggi di sole gli illuminassero metà volto, e i pensieri che
di
tanto in tanto riuscivo ad indovinare soltanto leggendo lo sguardo
della gente,
con Simone diventava un’impresa titanica.
Non
sapevo mai cosa gli passasse nella testa.
«Avevamo
un
patto!»
gli ricordai infuriata, continuando a raccogliere i vestiti e
ignorandolo del
tutto. Allora Simone mi afferrò il polso e lo strinse forte,
costringendomi a incontrare
di nuovo quei suoi occhi enigmatici.
«Tu
sei solo
un ospite qui, ricordalo,»
cominciò a minacciarmi.
Non sa davvero contro chi si
è
messo.
Già
di norma perdevo le staffe per un nonnulla, dal rinnovo della Oyster
card alla
fila al supermercato, ma quando alle persone balenava l’idea di
minacciare la
sottoscritta, allora era meglio che firmassero le carte per l’espatrio.
Fissai
prima la sua mano stretta attorno al mio polso, poi lo affrontai.
Strattonai la
presa quel tanto da liberarmi e lo feci senza mai distogliere lo
sguardo dal
suo. Doveva ancora nascere chi era capace di mettermi i piedi in testa.
«Io
sono il
tuo avvocato, ficcatelo in quella testa bacata. Stai rischiando grosso
a
tenerti la tizia in casa, soprattutto quando a breve avremo un incontro
con
Miss Cloverfield,»
sibilai, veramente infuriata dalla sua negligenza. «Non ti
rendi
conto che questo caso è molto delicato vero? Che rischi di pagare il
risarcimento, perdendo sia una marea di soldi, sia la reputazione. Sei
ancora
troppo immaturo per capirlo.»
Simone
continuò a fissarmi aprendo unicamente la bocca, ma senza rispondere.
Zittisci anche i logorroici.
Giustamente
ero dalla parte della ragione, ma evidentemente quello zuccone non
voleva
darmela vinta. Era logico che i tabloid, se ne avessero avuto
occasione,
avrebbero sguazzato su quei gossip serviti su un piatto d’argento. Il
nostro
obiettivo era quello di far trapelare la notizia il meno possibile,
James era
stato chiaro.
James…
Di
colpo arrossii al pensiero di quello che era successo la sera prima. Si
era
trattato semplicemente di una cena tra colleghi, anche se eravamo
finiti col
parlare di tutto tranne che di lavoro, e alla fine c’era stato il bacio.
Non
sapevo cosa aspettarmi da tutto quello, ma James aveva fatto in modo di
farmi
capire che un suo coinvolgimento c’era.
E tu che eri quella frigida,
tutta “casa e carriera”.
«Non
abbiamo
fatto niente,»
mormorò subito Simone, giustificandosi.
«Ti
prego,
risparmiami i dettagli. Sinceramente non me ne frega nulla,»
tagliai
corto, raccogliendo le ultime cose per mandar via la francesina il più
presto
possibile.
«Dico
sul
serio!»
continuò seguendomi e parlando rigorosamente italiano, soprattutto
quando
raggiungemmo la cucina dove c’era ancora Francine. «Diciamo
che
si è limitata a parlare…» e
sghignazzò
da solo, come un povero deficiente. «È
stato un incontro... orale,»
continuò imperterrito, con
quell’umorismo pornografico da quattro soldi.
Mi
voltai per incenerirlo con uno sguardo. «Smettila,
non mi interessa,» gli risposi
nella nostra lingua, mentre la ragazza ci fissava allibita.
Quando
Simone capì che non c’era verso di farmi infuriare ancora di più, mi
rivolsi
alla modella e le porsi i vestiti, spiegandole sommariamente che il
calciatore
era impegnato e che non poteva trattenersi oltre.
Anzi, sei stata troppo
gentile.
Francine
annuì un paio di volte, poi andò in bagno per sistemarsi e uscì di casa
subito
dopo, salutando Simone con un cenno della mano. Mi lanciava degli
strani
sguardi quella ragazza, quasi fosse intimidita da me. Le arrivavo
all’incirca
sotto il seno, a livello di altezza, eppure parevo Davide contro Golia.
Non
appena la porta d’ingresso si chiuse con un tonfo, il silenzio calò
nell’appartamento e mi accorsi che il mio livello di rabbia non era
ancora
scemato. Mi sentivo quasi tradita, non sapevo bene come spiegarlo ma
avevo
davvero pensato che Simone si fosse reso conto di aver fatto una
cazzata con la
storia della dubbia paternità e che finalmente avesse messo la testa
apposto.
Invece niente. Non era minimamente cambiato e non lo sarebbe mai stato.
«Senti
Ven,
davvero. Non è successo niente,»
si giustificò ancora, portandosi una mano ai capelli e scompigliandoli
ancora
di più.
Mi
voltai soltanto per guardarlo con profonda delusione. «Dopo
tutto
quello che stiamo facendo per te,» iniziai, trattenendo a stento
la rabbia che stava per implodere. «Dopo
quello che io e Jamie
rischiamo ogni giorno, esaminando pratiche su pratiche, interrogando i
testimoni, cercando a destra e a manca articoli che potrebbero provare
la tua
innocenza, tu rischi di rendere tutti questi sforzi vani unicamente per
soddisfare la tua libido.»
«Ti
ho detto
che non è come pensi tu.»
Stavolta il tono di voce si era alzato e una punta di rabbia si
percepiva
distintamente.
Sbuffai
sonoramente, infastidita da quei suoi tentativi di darmi contro. Era
dalla
parte del torto, doveva riconoscere i suoi errori. «Non mi
importa!»
insistetti, quasi urlando. «Hai
fatto un errore, probabilmente soltanto per farmi un dispetto. Ora ne
pagherai
le conseguenze. Se qualsiasi notizia trapelerà, sarà unicamente colpa
tua.»
Non
rispose, anzi, il silenzio calò inesorabile all’interno della cucina e
lasciò
crepitare l’elettricità tra di noi. Simone era ancora in mutande, anche
se la
rabbia ormai aveva offuscato persino i miei poveri ormoni che facevano
di tutto
per ricordarmi quel piccolo/grande particolare.
Il
calciatore posò le mani sull’isola della cucina, e tese le braccia
sbuffando
nervoso. Il mio sguardo cadde immediatamente sulle vene sporgenti che
serpeggiavano lungo l’epidermide e correvano sino ai bicipiti.
«Come
ti è
andata ieri la cena con l’avvocato?» mi chiese di punto in bianco,
lasciando che le sue iridi castano scuro, incupite dalla rabbia,
scivolassero
sul mio corpo ancora coperto dal mio ridicolo pigiama coi maiali.
Di
punto in bianco avvampai, tentando di rimuovere il nitido ricordo di
quel bacio
sotto il portico dell’appartamento. Era stato davvero una cosa
inaspettata, per
nulla prevista, eppure era successa.
E ti è anche piaciuta.
«È
andata
bene,»
risposi monocorde, per non far nascere in Simone il pretesto di
schernirmi
ulteriormente.
Lui
in risposta non schiodò lo sguardo dalla sottoscritta, anzi, assunse
un’espressione sospetta e scocciata. In una frazione di secondo i
nostri ruoli
si erano invertiti ed ora era lui che mi faceva il terzo grado, anche
se non ne
aveva assolutamente il diritto.
«Secondo
me
gli piaci,»
sentenziò plateale, quasi avesse fatto la scoperta del secolo.
Da
bravo avvocato qual ero, tentai di mascherare ogni emotività che mi
legasse al
ricordo di quella sera, soprattutto alle parole di James che ancora mi
riecheggiavano nella testa.
«Non
dire scemenze,» lo
anticipai, scrollando la mano come se avessi voluto cacciar via un
pensiero
ostile. «Jamie
e io siamo solo colleghi che lavorano per salvare il tuo bel culetto.»
Fu
allora che Simone sfoderò quel sorriso sghembo che mi metteva i brividi.
«Allora
lo
ammetti che ho un bel culo…»
osservò divertito, cominciando a camminare per la cucina come se stesse
sfilando per Armani.
In
quanto ad ego, ce l’aveva talmente grande che da solo si sarebbe gasato
ad un
concerto dove cantava solamente lui.
«Sicuramente
è
meglio della faccia,»
sghignazzai, per non dargliela vinta.
Stavo
mentendo, era più che ovvio. Anche un cieco avrebbe riconosciuto la
bellezza di
Simone ad un miglio di distanza, ma il mio orgoglio valeva più di ogni
altra
ovvietà e perciò continuavo a mentirgli.
Simone
s’incupì di nuovo, dopo lo smacco che gli avevo dato, ma non demorse. «Sei
soltanto
gelosa,»
puntualizzò, cominciando a camminare verso la sua stanza.
Fino
a pochi minuti prima discutevamo della sua irresponsabilità nei
confronti miei
e di Jamie come suoi avvocati, e dieci secondi dopo litigavamo e basta.
Lo
seguii sin dentro la sua stanza con passo elefantiaco che significava
soltanto
una cosa: se avesse continuato di questo passo, lo avrei ucciso con le
mie
stesse mani. Erano un paio di notti che pensavo a dove poter nascondere
il
cadavere.
«Io?
Gelosa?
Di te?»
ridacchiai, come se potesse mai esistere una possibilità del genere.
Simone
parve offeso da quel mio scherno, ma non la smise. «Certo.
Tu
disprezzi tanto, ma se ne avessi l’occasione, ci usciresti con uno come
me. Voi
donne siete tutte uguali. Predicate tanto di trovare un uomo
intelligente e
gentile, ma se vi capita ‘sto pezzo de manzo davanti,» e si
indicò
quasi fosse l’ultimo uomo sulla terra. «Vi
sfiderei a resistere.»
Quanto
poteva essere odioso, non saprei spiegarlo. La sua vanità raggiungeva
ogni
giorno livelli inimmaginabili e più che smontargli l’ego, non sapevo
più che
pesci pigliare. Si vedeva lontano un miglio la differenza d’età tra
James, un
avvocato in carriera, gentleman, forbito ed educato, e Simone. Gli
aggettivi
per lui li avevo finiti.
«Non
fare di
tutta l’erba un fascio, bello,»
frenai immediatamente il suo entusiasmo. «Non
perché ci sono donne che si
venderebbero l’anima pur di passare una notte con Simone Sogno…»
«Una
mi ha
offerto anche la sua villa al mare,» puntualizzò lui,
interrompendomi.
Feci
finta di non aver sentito, altrimenti la tentazione di spingerlo fuori
dalla
finestra cominciava a farmi prudere le mani dalla voglia.
«Stavo
dicendo,»
ripresi. «Non
perché alcune donnette siano così
poco rispettose di loro stesse da mettere in gioco tutto pur di passare
una
notte con te, significa che tutte lo debbano desiderare. Infatti, per
me
sarebbe un incubo,»
conclusi.
«Te
credo, sei lesbica,»
osservò lui piccato.
Dopo
quella risposta, un cuscino gli arrivò dritto in faccia con tutta la
forza di
cui ero capace. Va bene sopportare due o tre offese dette alle otto del
mattino, un altro era arrivare al limite e far defluire la rabbia
direttamente
sotto forma di fumo dalle orecchie. Come una teiera che bolle.
«Ahia!»
piagnucolò
subito lui, tenendosi il naso.
Soddisfatta
della mia mira, cominciai a schernirlo. «È solo
un cuscino, non un sasso.
Anche se avrei voluto fosse il contrario.»
Simone
si sedette sul letto sempre tenendosi il naso. «Ftronfa,
m’hai prefo con la chiufura lamfo!» si
lamentò,
spostando quel tanto la mano da lasciarmi intravedere rivoletti di
sangue che
gli colavano lungo il mento.
Non
che stessi aspettando il momento più propizio, ma il mio lato di
crocerossina
provetta tentò di subentrare alla Ven cinica e distaccata,
spodestandolo
direttamente e facendomi correre nel bagno-barra-distilleria di Simone
a
cercare disperatamente qualcosa per tamponargli l’uscita di sangue.
L’odore
pungente di limoncello mi fece girare la testa per un attimo, poi mi
ripresi e
cominciai a sbattere gli sportelli come una forsennata alla ricerca
delle
garze.
«Ftai
ferfando fueste?» mi
sorprese alle spalle,
tenendosi ancora il naso e reggendo nell’altra una bustina con delle
garze.
Afferrai
le medicazioni con un gesto lampo, sorprendendomi addirittura di me
stessa, poi
afferrai Simone con forza e lo riportai nella sua stanza facendolo
sedere sul
bordo del letto per poi medicarlo.
Oddio,
adesso se uccido il mio cliente, verrò sicuramente licenziata.
Non penso che un po’ di
sangue
dal naso possa ucciderlo.
Che
ne sai? Magari è emofiliaco! Avrò tutta la squadra dei “Rossi” addosso,
compreso lo studio Abbott&Abbott.
È l’Arsenal.
E
in più la famiglia Sogno! Gabriele mi ucciderà, ne sono sicura. Sembra
tanto un
ragazzo per bene, ma sotto sotto è una specie di mafioso, vedi te.
Ora piantala di vaneggiare e
vediamo di fermare il sangue.
Okay,
hai ragione. Al massimo so già dove nascondere il cadavere.
«Non
alzare la
testa,»
gli suggerii. Simone si lasciò guidare senza opporre resistenza e
stranamente
non se ne lamentò. Mi avvicinai con cautela, mentre lui allargava le
gambe per
permettermi di sfiorargli il viso con le mani e afferrare le garze.
Cominciai
a tamponare il labbro e il mento, completamente inzuppati di sangue, e
ripulii
tutta la pelle che rimase comunque un po’ rossa. Mi feci guidare
dall’istinto,
dalle innumerevoli volte in cui Robbeo aveva fatto a cazzotti – cioè,
le
innumerevoli volte in cui il mangiacaccole le aveva prese di santa
ragione dal
tizio delle ragazze che 'stalkerava' – e tentai di fermare l’emorragia
creando
dei piccoli cilindri di garza che poi gli infilai in ognuna delle due
narici.
Mentre
gli medicavo il naso, tentai in tutti i modi di non fare caso al suo
sguardo
completamente rivolto alla sottoscritta. Non poteva essere altrimenti,
visto
che non poteva vedere nient’altro perché la testa doveva rimanere
immobile, ma
cominciai a sentirmi in soggezione.
Già
di norma quegli occhi avevano qualcosa di strano, di nascosto, qualcosa
che non
sapevo spiegarmi. Eppure erano così anonimi, senza una particolare luce
che
brillasse. Erano quasi soltanto oscurità e nient’altro.
Deglutii
continuano ad tamponare l’efflusso di sangue, ponendogli una mano alla
base del
viso e avvicinandomi ancor più al suo corpo. Percepivo distintamente la
stoffa
dei pantaloni del mio pigiama che strusciava contro le gambe nude di
Simone e
feci appello a tutto il mio autocontrollo per riuscire a non pensare al
fatto
che indossasse solo un paio di boxer.
Sotto
il palmo della mia mano, avvertivo la mascella volitiva e la pelle
liscia tanto
che dovetti trattenermi dal lasciar scivolare la mano solo per scoprire
se
avesse o meno un filo di barba. Più lo osservavo da vicino, e più
sembrava
ancor più giovane di quanto dimostrasse.
Se uscissi con lui, ti
arresterebbero per pedofilia.
Ha
più di diciotto anni, quindi stai zitto.
Allora ammetti che vorresti
uscirci insieme.
Mi
sarei volentieri lobotomizzata in quel momento, perché il mio Cervello
– sotto
il sicuro appoggio dell’Ormone che era tornato a farsi sentire dopo
cinque anni
di assenza – non aiutava di certo, come non aiutavano le mani di Simone
che di
punto in bianco si posarono strette attorno alle mie gambe.
L’aria
mi mancò tutta insieme, perché i suoi occhi adesso fissavano
direttamente i
miei senza alcun pudore. Quello sguardo mi avrebbe uccisa, ne ero più
che
certa, ormai ne ero soggetta quasi come i girasoli a mezzogiorno.
Ovunque
andavano quelle iridi, io le avrei seguite.
Mi
morsi il labbro inferiore, indecisa se caricare il colpo e ammollargli
un
sonoro schiaffo che avrebbe fatto voltare anche i passanti di Soho, ma
il
vederlo sotto di me, con gli occhi spalancati e quella garza che gli
usciva dal
naso, mi fece rammollire.
Sembrava
così indifeso, con il setto rosso e gonfio e tutto il viso ancora un
po’ sporco.
Tentai
di farmi forza e togliere la mano dalla sua mascella, reprimendo la
voglia
improvvisa che avevo di accarezzarlo. Intensi brividi mi attraversarono
la
spina dorsale, quando le mani di Simone cominciarono a viaggiare
lentamente
lungo le mie gambe ancora avvolte dalla stoffa del pigiama.
Perché
mi faceva quell’effetto? Non ero solita perdere completamente il
controllo di
me, io che ero stata sempre una persona più che razionale.
Aveva ragione lui, siete
soggette ad un bel corpo. Altro che uomini intelligenti e principi
azzurri.
Avrei
voluto urlargli che si sbagliava, che non mi interessava affatto un
uomo tutto
muscoli e niente cervello o peggio, un bambinone che aveva ancora
bisogno del
padre per radersi e che si portava a letto tutto ciò che respirava.
«Simo?
Ven?»
La
voce di Sofia mi ridestò immediatamente dai miei pensieri, e proprio
nel
momento in cui vidi la nuvola di capelli biondi come raggi di sole che
irrompeva nella stanza del fratello, feci appello a tutte le mie forze
e spinsi
via Simone quasi non ci fosse un domani.
Gli
sentii emettere un verso che era a metà fra un grugnito ed un lamento.
Alla
fine si ritrovò gambe all’aria mentre io mi spalmai sulla cassettiera,
all’angolo opposto della stanza in cui si trovava il letto di Simone.
Sofia
ci trovò entrambi arruffati e mezzi nudi – cioè, Simone era nudo-nudo,
io ero
diciamo “messa a nudo”, che è diverso – e le si stampò in viso un
sorriso
complice che mi fece rabbrividire. Altro che dolce e ingenua ragazza,
ero più
che sicura che Sofia avesse un cervello votato al Male sotto quel casco
di
folti capelli biondi.
«Ho
interrotto
qualcosa?»
ridacchiò, cristallina come acqua di sorgente.
Simone
tentò di rimettersi seduto senza sporcare il letto di sangue. «No! No!» mi affrettai
a rispondere, raggiungendola sulla soglia e facendo per andarmene in
camera,
possibilmente a sotterrarmi da sola con una pala e tanta terra.
Sofia
mi bloccò con lo sguardo. Sì, diciamo che non solo Simone era dotato di
quella
strana influenza visiva che aveva su di me. «Ma
cosa è successo?» sorrise
maliziosa, aspettando che le facessimo chissà quale confessione.
«Cofa
crefi che fia fuffeffo?!»
ringhiò
Simone arrabbiato. Si tastò con le mani le condizioni del naso, poi mi
fissò
furente. «Quefta
paffa mi ha lanfiato un cuffino adoffo e mi
ha roffo
il nafo!»
protestò.
Roteai
gli occhi al cielo e misi entrambe le mani sui fianchi. «Ti ho
appena
sfiorato, quale rotto! Tra dieci minuti avrai lo stesso naso orrendo
che avevi
prima che ti colpissi. Anzi, magari è pure migliorato!»
L’entusiasmo
di Sofia si spense non appena comprese che stavamo litigando come il
primo
giorno, così sospirò sconfitta.
«La
fenti,
Fofi? E io dofrei fifere con quefta
paffa che affenfa alla mia vifa?»
cominciò a
fare il melodrammatico. Mi passai una mano sul viso e cercai un po’ di
conforto
in Sofia. Almeno non era ritardata come il fratello.
«Spiegatemi
cosa è successo,»
disse lei confusa.
A
quel punto mi parve giusto metterla al corrente anche della scappatella
notturna di Simone con la francesina, puntualizzando immediatamente la
negligenza di Mr. Sogno.
«Non
abbiamo faffo
nulla!»
si giustificò lui.
Lo
fulminai con lo sguardo. «È
indifferente, scemo! Ad un giornale non interesseranno questi
particolari.
Riescono a montare storie assurde sul minimo sospetto, figuriamoci
quando
questo è più che fondato!»
Simone
allora cercò aiuto dalla sorella. «Ha ragione, Simo. Sei stato
superficiale.»
Soddisfatta
gli lanciai uno sguardo da “Te l’avevo detto”, ma lui non abbandonò
quell’espressione tradita che aveva
avuto fin da quella stessa mattina, anzi, dal giorno prima nella sua
cinquecento blu metallizzata.
«Questo
non
farebbe fuffeffo se tu non fossi uscita con
l’avvocafo!» mi accusò
senza alcuna remora. «Dovevi
tenermi d’occhio, è colpa fua!»
Ah!
Adesso stava letteralmente esagerando. Non era possibile che mi
accusasse della
sua notte brava solo perché io non ero rimasta a casa sua a fissarlo
mentre
dormiva.
Inconcepibile!
«Sei
solo un
bamboccio viziato! Scendi dal tuo piedistallo e cresci, Dio mio!»
Non
era una risposta da avvocato, dovevo ammetterlo, ma ero arrivata ad un
punto di
non ritorno. Adesso mi immaginavo Simone direttamente nel sacco per
cadaveri.
«Sei
uscita
davvero con James?»
mi chiese Sofia, quasi delusa.
Simone
ghignava soddisfatto, perché sicuramente un po’ di colpa era stata
anche la
mia, dovevo riconoscerlo. La mia uscita clandestina con James aveva
quasi messo
a repentaglio la riuscita del caso ed io non me lo sarei mai potuto
permettere.
«Sì,»
aggiungi,
ammettendo la mia parte di colpa.
«Ah!» urlò
Simone,
puntandomi un dito accusatore contro.
Il
suo entusiasmo però fu smorzato dal gridolino ultrasonico di Sofia che
cominciò
a saltellare per tutta la stanza come una molla impazzita. «Oddio!
Oddio!
Oddio!»
gridò in preda all’estasi, poi si fermò e mi afferrò le mani.
I
suoi occhi azzurri brillavano come due zaffiri nella notte. «E
com’è
andata? Di cosa avete parlato? Vi siete baciati?»
Lanciai
uno sguardo a Simone che era rimasto col dito a mezz’aria,
completamente
pietrificato.
«Ma
hai fentito
che mi ha lasciato folo?»
protestò, ma Sofi lo zittì con un gesto della mano.
«Sì,
sì, ti
voglio bene, Simo,»
disse lei, senza dagli peso, poi tornò a fissarmi sempre con
quell’euforia
genuina. «Allora?»
Arrossii
di colpo perché non mi ero minimamente preparata a dover fare il
resoconto
della mia serata a qualcuno. La mia “storia” con James, se mai si
potesse
definire in questo modo, doveva rimanere un segreto all’interno
dell’ufficio,
ma Sofia tecnicamente non ne faceva parte. E Celeste era così lontana.
A
chi altri avrei potuto raccontarlo?
Purtroppo
o sguardo furente di Simone m’impedì di concentrarmi.
«Possiamo
parlarne da un’altra parte?»
le chiesi, sorridendo.
Sofia
annuì complice. «Vatti
a vestire,»
mi suggerì maliziosa.
«Perché?» le
domandai
scettica. Era domenica e l’unica cosa che avrei desiderato fare sarebbe
stato
rotolarmi nel letto fino alla sera.
«Cara
la mia
Ven,»
disse Sofi misteriosa. «Oggi
si va a fare shopping! Ti serve un vestito per il ballo di Cambridge e
io so
già dove andare.»
Le
sorrisi sperando che quella giornata tra donne non si trasformasse in
un vero e
proprio interrogatorio sulla cena con James, ma non aggiunsi altro e mi
chiusi
in bagno per prepararmi.
Con
la borsa in spalla, afferrai il giubbotto e mi diressi verso la porta
d’ingresso aspettandomi Sofia nel suo bellissimo impermeabile rosso
ciliegia.
Ovviamente
mi sbagliai.
Oltre
la bella cantante, c’era un Simone dall’aria annoiata e stizzita, con
le mani
nelle tasche del cappotto e i capelli più spettinati di quando si era
svegliato. Aveva tolto le garze, ma il naso era ancora piuttosto rosso
e
gonfio. Sembrava che gli avessi dato un pugno.
È la vendetta del karma.
Grazie
karma.
«E
lui?» chiesi,
indicandolo scioccata.
Sofia
fece spallucce e continuò a guardarlo. «Ci
serve un parere maschile per
scegliere un vestito ed io non mi fido dei commessi gay di Abercrombie,»
rispose
spicciola.
Era
una scusa piuttosto traballante, soprattutto perché qualsiasi ragazzo
si
sarebbe evirato pur di accompagnare la sorella e la sua amica a fare
dello
shopping di domenica mattina. C’era qualcosa sotto, lo sentivo.
«Andiamo?»
domandò Sofi
e noi annuimmo seguendola giù per l’ascensore.
Regent
Street di domenica mattina era un fiume di gente. Era chiusa al
traffico
proprio perché conduceva ad Oxford Circus e a Piccadilly e lì si
concentrava la
maggior parte dei negozi più famosi della capitale.
Camminare
sotto il sole tiepido di metà novembre mi fece ricordare quelle
passeggiate
lungo le vie di Roma, quando ancora andavamo al liceo, ed io, Cel e il
Mangiacaccole facevamo una capatina da Giolitti [1] per
mangiare il
più buon gelato di tutta la città. Io adoravo il gelato, soprattutto
l’inverno.
Zigzagare
tra la gente era ormai uno sport che praticavo anche lì a Londra,
soprattutto
quando dovevo correre per prendere la Tube senza sgualcire uno dei
pochi cambi
che mi ero portata da casa.
Rimasi
notevolmente sorpresa dalla tranquillità con cui i passanti guardavano
fissi
Sofia e Simone, sicuramente riconoscendoli come personaggi dello
spettacolo e
del mondo del calcio, ma senza tutto quel bisogno animalesco –
tipicamente
italiano – di urlare “Ao’ me posso fa ‘na foto?” e strattonare i propri
divi
costringendoli a pose ridicole e a richieste di dediche su ogni pezzo
di carta
disponibile, dallo scontrino alla carta igienica del water.
«A
cosa pensi?» mi chiese
Sofi, da dietro i suoi Chanel marrone chiaro.
Sospirai
e mi lasciai cullare dal tepore di quell’insolita giornata soleggiata. «A come
gli
inglesi siano rispettosi dell’altrui persona,» le
spiegai tranquilla. «A Roma
sareste stati obbligati a girare con la scorta.»
Sofia
annuì capendo quello che intendevo. «Anche
se papà è italiano, io,
Simo e Gabe siamo nati in Inghilterra e questo fa di noi degli inglesi
D.O.C.,» disse, ed io
mi sorpresi perché pensavo si fossero trasferiti da piccoli. «Però
il più
delle volte rimpiango questa cosa. Io amo l’Italia e penso che non c’è
altro
paese con più storia e più calore, se
sai cosa intendo.»
«Credo
di sì.»
«Sai,
lo vedo
già quando andiamo a trovare i nonni a Roma. Anche se non ci vedono
mai, è come
se non fossimo mai andati via da casa. Invece i genitori di mia madre
sono
freddi, così come lo è il clima di questo Paese,»
sospirò.
Non
avevo mai pensato a questo particolare. Sì, ero da poco a Londra anche
se ci
avevo studiato, ma un conto erano cinque o dieci anni, un altro era
abitarci da
una vita intera.
«Simo
invece è
diverso,»
mi sussurrò di punto in bianco la biondina. Il calciatore camminava
qualche
passo dietro di noi, con le spalle curve e l’espressione da carcerato
del
braccio della morte. Non riuscivo a capire il perché fosse venuto con
noi se
non ne aveva voglia. Vederlo con quell’aria da cane bastonato mi
toglieva tutta
l’allegria.
«Cioè?»
Sofia
mi sorrise. «Non
so perché, ma è l’unico di noi tre che abbia ereditato quel calore e
quella
gioia di vivere tipici della tua penisola.»
«Non
lo so
proprio,»
risposi, meravigliandomi di quella rivelazione.
«Sarà
anche
perché ogni occasione è buona per tornarci,» mi
rivelò, senza abbandonare
quel sorriso elfico ed enigmatico.
Lasciammo
in sospeso quel discorso non appena Sofia si fermò davanti ad un grande
negozio
con le migliori marche d’abbigliamento ed entrammo senza indugi.
D’improvviso
fummo assalite – e non era una metafora – da tre commesse che avevano
l’aria di
essere amiche d’infanzia di Sofia, soprattutto dal modo in cui le
parlavano.
«Quanto
tempo,
Sofi!»
«È
da molto
che non ti fai vedere!»
«Sei
in tempo
per la nuova collezione!»
E
questi furono solamente i discorsi iniziali. Lanciai uno sguardo di
sbieco a
Simone che continuava a sbuffare con aria contrita.
«Si
può sapere
perché sei venuto?»
gli chiesi, mentre la sorella continuava a scambiare convenevoli con
quelle
tipe.
Lui
fece spallucce e non mi rispose.
Odioso.
Non
appena smisi di parlare con Simone, mi ritrovai addosso quattro paia di
occhi e
le relative teste che confabulavano guardando nella mia direzione.
Fui
pervasa da un senso di puro terrore.
«Tesoro,
puoi
venire da questa parte?»
mi disse la prima commessa, bionda e oca.
Guardai
Sofia per chiederle silenziosamente spiegazioni, ma lei si limitò ad
annuire
come se quello fosse parte di un “bene superiore” a cui non potevo
sottrarmi.
«C-Cosa?»
dissi,
rivolgendomi allora a Simone che si limitò a seguirci e a sbracarsi su
una
delle poltroncine in pelle poste davanti ai camerini.
«Allora,» disse
la seconda
commessa, rivolgendosi però a Sofia e non alla sottoscritta. «Direi
di
cominciare con qualcosa di semplice, magari sui toni dell’azzurro così
riprendono i suoi occhi, poi vedere qualcosa di più sofisticato.»
«Con
gli
accessori abbinati?»
chiese Sofi preoccupata.
«Ovviamente!» le
rispose
l’altra sorridendo.
Sofia
lasciò cadere la testa all’indietro e cominciò a ridere genuinamente. «Posso
venire
a sbirciare?»
Dopodiché tutte e quattro svanirono dal reparto camerini e mi
lasciarono sola
con gli sbuffi di vento che provenivano da un Simone sempre più
annoiato.
Mi
sedetti accanto a lui completamente esausta, e nemmeno avevamo
cominciato con
le prove.
«Si
può sapere
che hai? Se sbuffi un altro po’ lanceranno l’allarme uragano.»
Lui
però non sorrise, ma mi guardò fisso. «Non
sono affari tuoi, assassina
di nasi altrui,»
rispose offeso.
«Ancora
con
quella storia? Mi dispiace, va bene?»
sbottai infastidita.
D’accordo
che la cuscinata che gli avevo tirato gli aveva quasi rotto il setto
nasale, ma
pareva un po’ troppo esagerato questo suo comportamento.
«Mpf,
te le
puoi tenere, le tue scuse,»
disse nervoso.
«Quanto
sei
acido,»
sibilai.
«E
tu sei una
bugiarda,»
mi apostrofò lui.
Fu
allora che non ci vidi più. Okay che quel negozio non era il luogo
adatto per
una scenata, però non mi sarei mai e poi mai fatta mettere i piedi in
testa da
TermoSifone.
«Ah,
io?» ringhiai. «Non tu
che ti
sei scopato la francesina quando io dormivo nell’altra stanza, maiale!»
Lui
si voltò verso di me con lo sguardo furente. «T’ho
detto che non è successo
nulla.»
«Non
me ne
importa niente, guarda.»
Simone
però non demorse. «Almeno
io dico la verità. Tu cosa hai fatto con l’avvocato, eh?»
Sgranai
gli occhi completamente spiazzata dalla domanda. «È per
questo che sei nervoso?» chiesi. «Perché
non
sai cosa sia successo tra me e James?»
Evidentemente
era venuto solo per origliare la conversazione mia e di Sofia sulla
cena con
Jamie, ecco il motivo della sua disponibilità.
«Ma
fammi il
piacere!»
sbottò ridendo. «Non
credere di essere talmente importante da condizionare le mie giornate, Lil’Elf! Se sto così è per la partita di
questa sera e per il naso che mi hai quasi rotto con i tuoi modi da
camionista!»
A
quel punto scattai in piedi pronta a inveire platealmente contro di
lui, quando
le tre commesse più Sofi tornarono con un carrello pieno di vestiti.
«Pronta
a
chiuderti in camerino per le prossime due ore?»
sorrise una di quelle.
Oh, Dio, aiutaci tu.
Provai
dapprima un vestito nero semplice, con la gonna che scendeva sotto il
ginocchio. Aveva il taglio classico e mi piaceva parecchio, con una
scollatura
semplice che risaltava il seno. Uscii trionfante per aver trovato il
vestito
ideale al primo cambio, quando tutti mi fissarono sbalorditi.
«Che
c’è?» sbottai.
«È
un po’…» disse una
commessa.
«Diciamo…» si
aggiunse
l’altra.
«Dovrei
trovare le parole adatte…»
sospirò l’ultima.
Sofia
mi fissava ma non osava proferire parola. Possibile che nessuno sapesse
dirmi
cosa ne pensava?
«Te
fa sembra’
‘na novantenne!»
commentò acido Simone, ancora seduto sulla poltroncina. Ovviamente
soltanto
Sofia capì l’allusione detta in romano.
«Simo!» lo
rimproverò, ma io ero già rientrata nel camerino a provare il secondo
vestito.
Ti fai condizionare così dal
suo
giudizio?
In
effetti, mi stava male, non me ne frega niente di quello che dice
Simone.
Uscii
stavolta con un abito di tulle, fermato con una spilla sotto il seno a
fascia e
una gonna abbastanza ampia, ma sempre sopra il ginocchio.
Gli
sguardi erano meno severi, questa volta.
«Carino.»
«Ti
fa
sembrare un confettino!»
«Molto
elegante.»
Ormai
sapevo però quale fosse il giudizio che contasse di più lì dentro.
Anche se
Simone aveva lo stesso tatto di una pentola a pressione, ahimè era
l’unico
capace di dirmi la verità.
«Sembra
il
tendone di un circo,»
stavolta lo commentò in inglese.
Quello
non fu l’unico vestito che mi bocciò nell’intera mattinata. Ne provai
una
quindicina, nell’arco di un’ora e mezza, e cominciavo ad essere stufa
di
sentirmi dire in continuazione che avevo un sedere che era una
portaerei o che
le mie caviglie fossero gonfie come quelle di nonna Annunziata o che,
ancora,
avessi la pancia di una donna incinta.
«Preferirei
morire che uscire con una con quel vestito,» fu
l’ultimo dei suoi commenti
acidi da donna mestruata.
Okay
che aveva una partita importante quella sera, per quanto me ne fregasse
qualcosa, ma non aveva il diritto di umiliarmi in quel modo.
«Mi
arrendo,
andiamocene,»
sbuffai, sedendomi accanto a Simone e cercando di appiattire la gonna a
palloncino che si gonfiava ogni volta che mi sedevo.
«Sei
sicura
che non vuoi provare nient’altro?»
«Quello
rosa
ti stava bene.»
«A
me piaceva
quello color avorio»
Ero
sinceramente stufa e mentalmente stanca di provare abiti da cinquecento
sterline solo per andare a quella maledetta festa che odiavo. Soltanto
perché
James si era offerto di farmi da cavaliere ci sarei andata, altrimenti
avrei
volentieri rinunciato o mi sarei finta malata.
«Sicura
di non
voler provare nient’altro?»
mi chiese Sofia, un po’ triste per non essere riuscita ad aiutarmi.
Scossi
la testa sconsolata, lanciando uno sguardo a Simone che sicuramente
avrebbe
sorriso per schernirmi, visto che non mi stava mai bene niente. Invece
notai
che fissava uno dei manichini e i suoi occhi sondavano veloci il resto
del
negozio.
Per
un momento sembrava aver abbandonato quell’aria annoiata e schiva.
Pareva
interessato a ciò che lo circondava.
«Direi
di
andarcene. Mi cambio e torniamo a casa,»
dissi, alzandomi e dirigendomi
verso il camerino. Le commesse allora presero lo stand con i vestiti
scartati e
si diressero a metterli apposto, mentre Sofia uscì un secondo dal
negozio
perché le squillava il cellulare.
«Aspetta,» mi
disse
Simone, fermandomi con un braccio.
Rimasi
a fissarlo mentre si dirigeva verso la vetrina e spogliava
letteralmente il
manichino sotto lo sguardo basito di tutti i passanti.
«Che
fai? Sei
matto?»
gli urlai, sperando che le commesse non lo denunciassero.
Tornò
con un tubino nero aggricciato, di tulle trasparente foderato. In
seguito sparì
di nuovo e riapparì con una giacca color champagne dai bordini neri, un
paio di
scarpe aperte dietro a pois e una borsetta abbinata.
«Tieni,» mi
disse,
mollandomi in mano tutta quella roba e indicandomi il camerino con uno
sguardo.
Rimasi
pietrificata. Era stato per caso posseduto dal demone di
Dolce&Gabbana? Da
quando si interessava di moda?
Notando
che lo guardavo come un alieno, Simone sbuffò e si rimise le mani in
tasca. «Una tizia con
cui uscivo faceva la consulente di moda per un’attrice. Ogni volta mi
riempiva
la casa di riviste e mi faceva una testa tanta con questi abbinamenti.
Magari
sono serviti a qualcosa i minuti in cui fingevo di ascoltarla.» E
sorrise.
Un
particolare di Simone ancor più disarmante del suo sguardo, era il
sorriso. Ma
non di quelli sghembi o monelli che faceva quando mi sfidava. No,
quelli erano
di routine e ormai non mi facevano più effetto. Io parlavo di quei
sorrisi
sinceri, di quando era divertito per una cosa, oppure semplicemente era
felice.
Quei
sorrisi.
Mi
diressi nel camerino e cominciai a spogliarmi, abbandonando il vestito
rosato
che mi aveva proposto una di quelle commesse e che mi faceva sembrare
una
balena incinta. Scalciai via anche i tacchi e mi infilai le scarpe
scelte da
Simone, ammirandole allo specchio. Sicuramente mi slanciavano,
soprattutto il
colore e la forma. Finalmente qualcosa che mi facesse sembrare più alta
di due
pollici e mezzo.
Cominciai
ad indossare anche il tubino, quando mi accorsi che non riuscivo a
tirare su la
chiusura lampo. Tentai a contorcermi e a saltellare come un artista
circense,
ma non c’era verso di farla arrivare fino in cima. Scostai
delicatamente la
tenda del camerino, ma nessuna delle ragazze era ancora tornata.
C’era
solo Simone che sbuffava annoiato e picchiettava il piede per terra.
«Hai
finito?» chiese dopo
un po’.
«Qu-Quasi!» mi
lamentai,
tentando un’ultima volta di far salire quella maledetta zip.
Alla
fine dovetti arrendermi all’evidenza, e per quanto mi scocciasse
chiedere aiuto
a quel decerebrato, ero costretta.
Con
la testa spuntai fuori dal camerino e cercai il suo sguardo. «Mi
aiuti?» gli dissi e
lui sgranò gli occhi sorpreso.
Non
era l’unico ad esserlo.
Si
avvicinò constatando in cosa dovesse aiutarmi, così mi spinse
lievemente in
avanti ed entrò con me nel camerino. Le sue mani afferrarono la stoffa
del
vestito e la unirono per tirar su meglio la chiusura lampo.
Seguivo
i suoi movimenti dallo specchio, così come la sua espressione
concentrata nel
fare una cosa così semplice. Sentii il rumore della zip che saliva e le
sue
mani che si allontanavano dalla stoffa per poi lasciarmi spazio. Mi
guardai
attentamente, spostandomi anche di profilo.
«Ti
manca
questa e questa,»
mi disse lui, porgendomi la borsa e la giacca.
Le
indossai e mi osservai di nuovo con tutto il completo addosso. Mi
costava molto
ammetterlo, ma Simone c’aveva preso. Gli era bastata soltanto
un’occhiata al
manichino in vetrina e mi aveva proposto un abbinamento che quelle tre
sgallettate non si erano nemmeno sognate di partorire.
Salii
con lo sguardo sino ad incontrare la mia figura intera riflessa nello
specchio,
con Simone alle mie spalle.
Sembrate una coppia.
Taci.
«Carino,»
dissi, anche
se avrei dovuto costruirgli una statua di bronzo per avermi trovato un
vestito
decente per la festa a Cambridge.
«È
l’unico che
non ti fa sembrare un Puffo.»
«Mi
hai
salvato per la festa, grazie,»
gli dissi.
Sicuramente
non si meritava un ringraziamento da parte mia, visto che aveva quasi
mandato
all’aria tutto il caso che stavamo seguendo per suo conto. In
quell’occasione
però, se lo meritava.
Lui
fece spallucce, sempre con quell’aria nervosa.
Calò
un silenzio imbarazzante in quel camerino, soprattutto perché non c’era
più
motivo che Simone vi rimanesse. Lo spazio era poco, l’aria ancora di
meno, e
stavo cominciando a sudare.
Che vuole ancora?
Che
ne so, continua a fissarmi!
Secondo me aspetta che tu
gli
dica di toglierteli, quei vestiti.
Ma
smettila!
Ammetti che quando ti
accarezzava le gambe, ti eri sciolta come burro!
Burro?
Magari, mi ero liquefatta a tempo record.
«Ti
ci
accompagna l’avvocato, alla festa?» chiese di punto in bianco,
fissandomi attraverso il riflesso dello specchio.
Oscurità.
Quella fu l’unica parola che mi venne in mente guardando i suoi occhi.
«Sì,
me l’ha
proposto ieri,»
risposi tranquillamente, togliendomi la giacca prima che s’inzuppasse
di
sudore.
Vidi
la mascella di Simone irrigidirsi, così come tutto il suo corpo. «Quindi
non
era una cena di lavoro.»
Alzai
lo sguardo verso di lui completamente scioccata. Mi stava facendo il
terzo
grado? Chi si credeva, mio padre?
«È
stato quel
che è stato,»
tagliai corto.
Non
era a lui che dovevo spiegazioni. Simone Sogno era il mio cliente, il
mio
coinquilino ma niente di più. La mia vita privata doveva rimanere tale
e lui
non aveva alcun diritto di chiedere.
Come
un crudele scherzo del destino, in quel momento d’imbarazzo totale il
cellulare
mandò un segno. Un sms in arrivo.
Afferrai
la borsa da sotto la coltre di vestiti e lessi il testo:
Buongiorno
spaghetti-girl!
Spero non ti
abbia fatto fare troppo tardi ieri sera,
altrimenti avrò il tuo riposo sulla coscienza. Ho delle notizie da
darti in
merito all’incontro con la Cloverfield. Te ne parlerò domani a lavoro.
Bye!
Ps: non vedo
l’ora di rivederti.
Arrossii
come una povera pazza e mi sentii in colpa sapendo che Jamie mi mandava
quei
messaggi di buongiorno mentre mi trovavo in uno spazio di pochi metri
con uno
dei calciatori più forti d’Inghilterra, nonché mio cliente e
coinquilino.
Allora ammetti che te lo
faresti.
Non
sei d’aiuto. Per niente.
«È
lui, vero?» chiese, con
tono accusatorio.
Decidi
di rispondere più tardi, anche perché Simone sembrava volermi
incenerire il
cellulare.
«Non
sono
affari tuoi,»
tagliai corto. «Aprimi
la zip così compro queste cose e ce ne andiamo.»
«Ti
ha
baciata, vero?»
continuò con le domande, senza muovere un muscolo per fare ciò che gli
avevo
detto.
Mi
voltai di scatto per guardalo direttamente in viso, senza l’ausilio
dello
specchio. «Che
problemi hai con tutte queste domande? Se sei nervoso per la partita,
non
scassare le scatole a me!»
gli dissi.
Non
potevo ammettere di fronte a Simone che i suoi sospetti erano fondati,
che
James mi aveva baciata anche se la nostra relazione sarebbe stata
clandestina.
«Tsk!
Scommetto che non ha usato nemmeno la lingua!» mi
schernì, sorridendo sghembo
e abbandonando per un momento quell’aria nervosa.
Ecco
come faceva. Usava le prese in giro e mi sfotteva per dimenticarsi dei
suoi
problemi reali, per evadere dalle sue preoccupazioni.
«Non
sono
affari tuoi! E poi che ne sai, tu, che sei soltanto un poppante,» gli
rinfacciai, giocando la solita carta della differenza d’età.
Simone
incassò il colpo, ma vidi che l’espressione sul suo viso era furente.
Si
posizionò allora alle mie spalle e afferrò i lembi del vestito.
Finalmente si
era deciso a chiudere quella ciabatta e a fare il suo dovere.
Come Svestitore ufficiale?
Sentii
le sue dita armeggiare con la chiusura lampo, poi il familiare rumore
della zip
che scendeva. Qualcosa però, sul finale, andò parecchio storto. Sentii
il suo
corpo farsi sempre più vicino e quel familiare calore umano, così come
il suo
odore fresco e selvatico. Odore di lupo, quasi.
Mi
afferrò per le spalle nude, con entrambi i palmi poggiati stretti su di
esse.
Chiusi gli occhi per non guardare Simone, per non incrociare quel suo
sguardo
carico di lussuria che ogni volta mandava in tilt tutte le mie buone
intenzioni.
Perché
non me lo stavo scrollando di dosso?
Per
quale motivo non stavo urlando?
Devo seriamente risponderti?
Sentii
una mano scostarmi i corti capelli a caschetto dietro un orecchio,
mentre un
soffio leggero mi fece rabbrividire. Lo odiavo in quel momento, ma allo
stesso
tempo non riuscivo a muovermi. Aveva il vestito quasi completamente
aperto e
chiunque con un po’ di sale in zucca avrebbe capito costa stava per
succedere.
La mente è forte…
Ti
prego non finirla questa frase.
«Un
poppante
sarebbe capace di questo?»
mi sussurrò all’orecchio, lasciando che una cascata di brividi
rotolasse lungo
la mia schiena parzialmente nuda. Lentamente avvertii qualcosa di
bagnato
solcare il mio padiglione esterno e non appena realizzai che si
trattasse della
lingua di Simone, rischiai quasi di svenire.
Perché
doveva essere così impulsivo e stupido? Perché non rispettava gli spazi
altrui
e doveva fare sempre di testa sua?
Passò
la lingua lentamente su tutta la carne, soffiando subito dopo e
lasciando che
il freddo mischiato al bagnato mi facessero increspare la pelle. Dio,
volevo
morire. In quel preciso istante desiderai che un fulmine mi colpisse
perché
avrei dovuto ammettere a me stessa che quello che mi stava facendo era piacevole.
«O
questo…» continuò,
costringendomi ad inclinare il collo e cominciando l’assalto anche in
quella
zona. Ero completamente fuori di me, il mio corpo non rispondeva più ai
miei
comandi e mi sentivo svuotata.
Se
fossi andata in cerca dei miei neuroni, avrei trovato il cartello
“Torno
subito”, datato nel Febbraio 2008.
«S-Smettila…»
riuscii a
formulare in un attimo di lucidità, sperando mi ascoltasse.
Lo
sentii ridere contro la mia pelle, poi scostarsi un poco, soffiandoci
ancora. «Come se non
ti piacesse…»
Lo
odiavo, con tutta me stessa, ma odiavo ancor più me perché non riuscivo
a ribellarmi,
ad andarmene. Simone riusciva a impedirmi di pensare, era l’unico con
cui
mettevo da parte la Ven comporta e razionale e lasciavo uscire la parte
istintiva di me. Era come se riuscisse a evadere quel muro che mi ero
costruita
attorno, che sapesse come provocarmi, come lasciar uscire la vera me
stessa. E
mi faceva paura.
Tanta
paura.
Mai
nessuno prima era riuscito a farlo, soltanto Celeste.
Nell’istante
in cui sentii la sua lingua lambire la clavicola, mentre le sue mani si
spostavano dalle spalle lungo i fianchi, sfiorando accidentalmente o di
proposito – ormai non capivo nemmeno più dove fossi – il mio seno, mi
preparai
all’ormai evidente cosa che sarebbe successa di lì a poco.
Ormai
è andata.
A
quel punto però, nello stesso momento in cui avevo detto addio a tutti
i miei
neuroni, Simone si fermò e finì di tirare giù la zip del vestito.
Spalancai
gli occhi allibita, aspettando una spiegazione, ma mi trovai davanti al
solito
Simone con lo sguardo birichino e l’espressione da monello. Bastardo.
«Sarai
anche
brava a parlare, a sparare sentenze a destra e a manca, ma quello che
conta
sono i fatti,»
asserì con quel sorriso sghembo. «Ti saresti fatta fare di tutto…» mi
ricordò,
con quella voce melliflua. «Da
quello che tu chiami poppante.»
Dopo
aver detto quella frase plateale, uscì dal camerino lasciandomi senza
fiato,
con i capelli stravolti e il vestito calante.
Mi
portai entrambe le mani al viso con l’intensa voglia di piangere dalla
rabbia.
Ero furiosa, ma non con Simone. Dovevo smetterla di essere così
accondiscendente, di predicar bene ma razzolare male. Il giorno prima
James mi
aveva baciata e nemmeno ventiquattr’ore dopo ero pronta a lasciarmi
divorare
dai baci di Simone.
Non è che ti stai prendendo
una
cotta?
E
tu dov’eri finito in tutto questo tempo?
Un po’ qua, un po’ là. Ti ho
lasciato in compagnia però.
Avevo
voglia di urlare, di lanciare qualcosa e fracassarla, ma mi limitai a
cambiarmi
e a far finta di nulla. Ormai ero particolarmente brava in quello. La
prima
cosa da fare sarebbe stata dimenticarsi ciò che era successo nel
camerino.
Occhio
non vede, cuore non duole.
Sarebbe più giusto,
“Cervello
non ricorda, cuore fa finta di niente”.
Odiavo
il mio sarcastico Cervello e per di più odiavo Simone. Ma quello ormai
era un
dato di fatto.
***
Bene,
bene, bene... Chi è sopravvissuto fin qui?
U__U diciamo che se il capitolo precedente era tutto su Jamie, qui Simo
ha voluto la sua parte (ehehehehheheh)
Insomma, vi chiederete il perché di quel ''parte 1'' ma purtroppo
-o per fortuna- il capitolo era in origine di 35 pagine, tant'è che ho
dovuto tagliarlo altrimenti vi addormentevate qui sopra. Orsù, chi ha
notato la nuova immagine di copertina?
:3 Certe volte quei due mi ispirano troppo, perciò devo lavorarci su u.u
Detto questo, andrei nel mio personale camerino, con il mio
personale Simo che mi sussurra nell'orecchio... *si scioglie*
Tornando seri, qualcuno di voi sta seriamente seguendo il caso? Qua
sembra sia andato in secondo piano, ma non è così! Aahahhaah ci sono
degli indizi che nessuna di voi deve tralasciare U.U
Bene, bene, bene, detto questo, alla prossima! :D
Crudelie si
nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re
Storie consigliate:
- Until
my last step (Daphne921);
- Unexpected
as you (_caline);
- In her
shoes (HappyCloud);
- Il
meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's
Blue (BlueSmoke);
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 9 (parte 2) ***
Accompagnai
Sofia per il resto della mattinata a fare shopping. Simone se la
squagliò il
più in fretta possibile dicendo che doveva correre agli allenamenti
pre-partita, per poi partire con il pullman della squadra fino
all’Emirates
Stadium.
La
partita sarebbe iniziata alle cinque di quello stesso pomeriggio, così
Sofia se
la prese comoda. Ci fermammo a mangiare in una paninoteca molto
pittoresca,
vicino Covent Garden, ma notai subito che la sorella di Simone mi
osservava
sospettosa.
Cercai
di ignorare i suoi occhi, ma non c’era verso di mangiare in santa pace
senza
sentirsi continuamente sotto osservazione.
«Vuoi
chiedermi qualcosa?»
le dissi, stufa di sentirmi un fenomeno da baraccone.
Lei
mi sorrise e si scostò una ciocca di voluminosi capelli biondi dalla
spalla. «Che è
successo tra te e mio fratello?»
Diretta.
Schietta. Senza giri di parole.
Sofia
era la mia personale maledizione e mi fece quasi strozzare con il
panino che
stavo mangiando.
Sorseggiai
un po’ d’acqua e tossicchiai. «N-Niente,
perché me lo chiedi?»
Ci
aveva forse visti? Magari c’erano delle telecamere all’interno di
quella cabina
prova e lei aveva visto le registrazioni!
Sì
certo, fa parte della
sicurezza o è un’investigatrice privata.
Può
essere!
«Uhm, è
strano
da questa mattina,»
disse pensierosa. «Ho
provato a chiedergli cosa avesse, ma mi rispondeva sempre con “chiedilo
al mio
avvocato”.»
Avrei
voluto strozzare Simone per più di un motivo, adesso che sapevo che
continuava
ad avercela con me e a fare l’offeso per quella storia di James. Era
solamente
un ragazzino, un bamboccio che voleva avere il controllo su tutto e
tutti.
Qui
l’unica che ha perso il
controllo sei tu, Ven.
Noi.
Non dimentichiamoci che c’eri pure tu nella mia testa quando quello mi slinguazzava.
«Non so a
cosa
si riferisca,»
mentii e Sofia se ne accorse.
Quella
ragazza poteva sembrare frivola, ad un occhio inesperto, ma c’era
voluto poco
per capire che era più furba di una volpe.
«Secondo
me
c’entra qualcosa Jamie, o sbaglio?» chiese sorridendo.
Un
altro pezzo di panino mi andò di traverso. In quella mattinata avevo
rischiato
di morire tre volte: due, soffocata, e
una di crepacuore per colpa dei due fratelli.
Signore,
salvami da questa famiglia di assassini.
«Senti,
non è
colpa mia se tuo fratello ha gli stessi comportamenti stralunati di una
donna
incinta. Ieri sono uscita con James, è vero, e non me ne pento. Ci
siamo
baciati. E la mattina dopo mi ritrovo l’ennesima francesina che gira
nuda per
casa. Poi lui viene a fare la morale a me, hai capito?» dissi
demoralizzata.
Sofia
sorrise, continuando a sorseggiare la sua bibita.
«È
frustrante
dover badare a lui tutto il giorno, è così immaturo! Vuole che tutto e
tutti
siano a sua disposizione e pretendeva che io rinunciassi
all’appuntamento per
fargli da balia. Ma per favore!»
Mi
lasciai cadere sullo schienale della sedia, sbocconcellando il panino e
fissandomi i piedi con aria corrucciata.
«Posso
dirti
quello che penso?»
se ne uscì la bionda sorella di Simone.
«Spara,»
sbuffai.
Tanto
sapevo quali somme avrebbe tirato: eravamo entrambi da internare.
Rimase
a fissarmi senza parlare, sorridendo di tanto in tanto. Mi sentivo
completamente a nudo di fronte a quello sguardo, soprattutto quando era
così
intelligente e arguto. Si vedeva lontano un miglio che il cervello di
Sofia
stava elaborando le parole più adatte per esprimere quel suo pensiero.
Non
era come Simone che dava aria alla bocca e sparava tutto quello che gli
passava
per la testa.
«Secondo
me,
anche se non lo ammetterete mai, nemmeno sotto corte marziale, avete
sviluppato
una sorta di simbiosi in questi giorni,» mormorò tranquillamente.
«Cioè?
Sarei
un fungo?»
Sofia
sorrise di quella mia battuta, ma io davvero non capivo cosa volesse
intendere.
«Mi
spiego meglio. Tu e mio fratello siete molto simili, ormai questo lo so
per
certo, perciò la convivenza non ha fatto altro che unirvi ancora di più
e
adesso siete legati con un filo sottilissimo, quasi se uno di voi
dipendesse
dall’altro. Anche in maniera inconsapevole, lui ti cerca. È una cosa naturale.»
«Mi fai
sentire
come un salvavita,»
sorrisi.
«Una
specie,» disse lei,
guardando poi l’orologio. «Ti
va di accompagnarmi allo stadio?» mi chiese speranzosa.
L’idea
di incontrare Simone, anche a diecimila metri di distanza, mi faceva
inorridire. «Veramente
dovrei rivedere alcune carte, sistemare gli acquisti, vedere la
televisione,
pulire… andare a fare la missionaria in Cambogia.»
Sofia
cominciò a ridere a crepapelle, lasciando che quei capelli lunghi e
ricci
brillassero come oro alla luce del timido sole di novembre. «E dai, ci
divertiremo. Ci sarà pure Ruben!»
Detto
ciò mi afferrò per un polso e mi trascinò via dalla paninoteca senza
aver avuto
nemmeno il tempo di risponderle ‘Sì’.
***
Nel
corso di quei tre anni, nonostante Celeste mi avesse ripetuto più volte
di
accompagnarla ad una delle numerose partite del suo Leotordo,
allo stadio Olimpico di Roma, avevo sempre rifiutato,
trovando una delle più banali scuse a cui la mia amica si accontentava
di
credere.
La
verità era che non sopportavo il caos che si respirava lì dentro, nelle
tribune. Mi ero sempre rifiutata persino di partecipare a qualche gara
scolastica, magari di qualche cugina, solo per non assistere al tifo
cosiddetto
“da stadio”.
Se
ciò avveniva durante l’ora di pranzo, poi, il rischio di ricevere
addosso valanghe
di cibo pre-digerito era talmente alto che mi sarei dovuta portare
preventivamente un ombrello, anche se la temperatura sfiorava i
quaranta gradi
centigradi e il sole spiccava in alto nel cielo.
Quel
pomeriggio, però, fui presa alla sprovvista.
Avevo
saputo della famigerata partita di quella domenica unicamente perché
Simone se
ne era lamentato tutta la settimana, sia con me – pensando lo
ascoltassi...
cosa che facevo di rado –, sia con suo fratello al telefono. Se Sofia
si fosse
presa la briga di avvertirmi che sarebbe andata a vederlo giocare,
avrei potuto
elaborare una scusa più convincente di un “credo mi sia presa
un’insolazione”,
considerando che quella giornata di metà novembre era stata sì
soleggiata, ma
non sufficientemente da causare quel tipo di influenza.
«Dai, che
ti
divertirai! Ci saranno anche le Ragazze, non vedo l’ora di
presentartele!» trillò
entusiasta la biondina, trascinandomi sempre più energicamente lungo
Regent
Street.
Non
avevo idea di chi fossero queste fantomatiche tizie di cui continuava a
ripetere i nomi, ma alla notizia che anche la Talpa avrebbe presenziato
al
match mi rincuorava. Almeno avrei potuto trovare conforto nel suo
appoggio
contro un’eventuale presa di posizione di Sofia.
Raggiungemmo
a piedi un imbocco di Regent Street, poco più lontano di dove abitasse
Simone.
Non mi ero mai chiesta dove alloggiasse la più piccola dei Sogno.
Considerando
i suoi diciannove anni, presupposi che condividesse la casa con la
madre
Marianne, oppure col padre, ma non mi sembrava educato chiedere.
«Eccola
lì!»
trillò
Sofia, interrompendo il flusso dei miei pensieri. «Nel bauletto
dovrebbero esserci due caschi.»
Caschi?
Un momento…
Rimasi
di sasso osservando la sorella di TermoSifone che trotterellava con i
quintali
di buste che si era trascinata appresso tutto il giorno verso un
trabiccolo
rosso fiammante che si teneva in piedi per miracolo.
Cosa.
Essere. Quello?
Assomiglia
ad una Vespa.
La
raggiunsi mentre con foga tirava fuori le chiavi dalla sua borsetta
Prada e si
affrettava ad aprire il bauletto rivelando i due caschi. Uno era rosa
shocking,
con disegnato il gatto di Hello Kitty, l’altro era bianco con la
bandiera
dell’Italia disegnata sopra.
«Ruben ha
detto che posso prenderla quando voglio!» disse Sofia tutta eccitata.
«Con
questa
faremo in un attimo, e non c’è nemmeno il problema del parcheggio!»
Deglutii
a fatica, sperando scherzasse.
«Ma la sai
guidare?»
le chiesi perplessa.
Non
avevo mai messo piede su un mezzo a due ruote, sia perché a Tivoli non
c’era
quel traffico intenso di Roma, sia perché ne ero stata terrorizzata sin
dall’infanzia. Ora rischiavo di morire per andare a vedere una stupida
partita
di uno stupido calciatore di cui non me ne fregava un emerito fico
secco.
Sofia
mi sorrise. «Certamente!
Prima di questa avevo il motorino,» disse sicura. «L’ho dato via
quando Ruben si è trasferito qui. Diciamo che adesso sono quasi sempre
a casa
sua e lui mi permette di usare la Vespa.»
Involontariamente,
Sofia aveva risposto alla mia domanda di prima. Quei due vivevano
insieme già
da qualche mese e nonostante lei avesse solo diciannove anni, i
genitori non
avevano fatto una piega e l’avevano lasciata convivere col suo
pseudo-ragazzo.
Pseudo stava per “umano”, perché ero sempre più convinta che fosse una
talpa.
«Se lo
dici
tu…»
dissi, anche se ero sempre meno convinta di salire su quel trabiccolo
traballante.
«Non ti
fidi?» scherzò lei,
porgendomi uno dei caschi, quello dell’Italia.
D’improvviso
interpellai Cervello alla ricerca di una qualunque scusa che
m’impedisse di
accompagnarla. Volevo solo tornarmene a casa, piangere sul mio
portafoglio per
il quantitativo di sterline che avevo speso in un solo abito che non
avrei mai
più messo e magari telefonare a James per rispondergli a quel messaggio.
Bene,
bene, bene. Guarda chi è
tornato strisciando.
Su,
mi serve una scusa bella e buona per darmela a gambe ed evitare di
vedere
novanta minuti di noiosissima partita.
Uhm,
la risposta non è ovvia? Le
buste degli acquisti dove le mettete? Parcheggiate pure quelle?
Tombola!
«Dove
mettiamo
queste? Non conviene rimandare?»
provai, nel tentativo di corromperla.
Sofia
inizialmente non mi diede peso, troppo impegnata a indossare il casco e
pettinarsi contemporaneamente i boccolosi capelli biondi, infine mi
rivolse uno
sguardo.
«Non c’è
alcun
problema,»
sorrise, poi afferrò tutti i pacchettini, compresi i miei, e si diresse
verso
una Mercedes SLK rossa, parcheggiata poco più avanti. Fece scattare
l’allarme e
la macchina guaì, dopodiché aprì lo sportello e ci lasciò le buste
dentro,
tornando vittoriosa.
«Problema
risolto,»
disse trionfante.
Dannazione.
È
più furba di quanto pensassi.
«Sicura
che
non pioverà?»
tentai di nuovo, guardando il cielo che si stava annuvolando. Bagnarsi
sotto la
pioggia col motorino non era l’ideale per la mia salute ancora
cagionevole.
Sofia
roteò gli occhi al cielo, sbuffando. «Tieni, guasta feste. Ho guardato
le previsioni e non piove, perciò smettila di trovare scuse!» disse
tassativa.
Mi
rigirai il casco tra le mani, non sapendo cos’altro provare. «E Ruben?»
le chiesi,
visto che aveva detto che ci sarebbe stato alla partita.
Lei
fece spallucce. «È
già lì, lo ha accompagnato Gabe.»
Sofia
montò in sella alla Vespa e fece girare la chiave nel cruscotto,
azionando il
freno e pigiando sul tasto di accensione.
«E come fa
a
tornare?»
insistetti, sperando di trovare qualsiasi appiglio che mi consentisse
di
rimanere a casa quel pomeriggio.
Ricevetti
un’occhiata di traverso da parte della piccola Sogno. «Monta. Non
c’è scusa che tenga, verrai alla partita. Ora allacciati il casco.»
Feci
come mi disse, perché ormai avevo anche esaurito le cose da dire. Se
avessi
insistito, sarei risultata persino scontrosa e l'avrei anche offesa.
Ciò non
era giusto, dopo che aveva convinto Simone a dividere l’appartamento
con me e a
farmi risparmiare un po’ di soldi dell’affitto.
«Okay,»
bofonchiai
contro voglia. Montai sul posto dietro il sellino e mi strinsi forte
alla vita
sottile della sorella di Simone.
Lei
mi sorrise da sopra la spalla, con quella solita espressione che solo
un Sogno
poteva confezionare. «Tieniti
forte, si vola!»
disse sgasando e immettendosi nel traffico.
Rimasi
sconvolta dall’impatto e mi pentii sempre di più man mano che quel
trabiccolo
acquistava velocità.
Arriveremo
a destinazione?
Se
fossimo sopravvissuti anche a questo, ben poco sarebbe stato in grado
di
ucciderci d’ora in poi.
Zigzagammo
nel traffico cittadino delle quattro e mezza del pomeriggio, con un
cielo
sempre più coperto sopra la testa. Mi reggevo il casco con una mano,
troppo
lento per riuscire a stare dritto da solo, e con l’altra avevo una
presa salda
sulla vita di Sofia.
Dovevo
ammettere che la ragazza sapeva manovrare bene quel coso, ero saltata
alle
conclusioni troppo presto. Evidentemente era una delle poche donne a
saper
gestire bene una due ruote, peccato non si potesse dire lo stesso per
tutto il genere femminile.
Ci
immettemmo subito in Regent Street, evitando i semafori e il traffico
interno,
prendendo poi delle vie più nascoste e adibite solo al traffico
pedonale e,
appunto, ai ciclomotori. L’aria fresca di metà novembre mi solleticò le
guance
e mi pentii di non essermi portata un giacchetto più pesante.
Certo,
se l’avessimo saputo.
A
quel punto mi sarei portata direttamente il piumone, rubandolo dal
letto a due
piazze.
L’idea
di passare l’intero pomeriggio allo stadio tornò a fare capolino nella
mia
testa e mentre Sofia continuava imperterrita ad evitare le macchine e
trovare
scorciatoie sempre più brevi, mi ritrovai a pensare a quanto potesse
essere
inutile andarci. Ero stata costretta, questo era vero. Alla fine mi
convinsi
che non avevo avuto scelta.
Passare
l’intero pomeriggio seduta su uno di quegli scomodi sgabelli, guardando
uno
sport che non mi era mai minimamente interessato – eccezion fatta per
la
pallavolo, di cui andavo letteralmente pazza –, risultava al mio
cervello
allenato una vera e propria perdita di tempo. In quelle due ore, avrei
potuto
sistemare il bagno dell’appartamento, magari svuotando la vasca dai
litri di
limoncello che quel decerebrato di Simone ci aveva messo dentro, oppure
pulire la
cucina, rivedere le carte del processo.
Chiamare
James.
Già,
quella era la prima cosa che avrei fatto una volta scesa da lì.
Nonostante
il giorno prima ci fossimo baciati, la domenica successiva non mi era
passato
nemmeno per l’anticamera del cervello di cercarlo. Almeno avevo
ricevuto un suo
SMS sincero, a cui non avevo risposto.
Mi
sentii davvero una merda.
Hai
avuto il tuo bel da fare.
Certo,
ero stata completamente distratta da Simone e dal suo frenetico tenore
di vita
che mi teneva impegnata come una balia con un infante. Pappette, sonno,
pannolino, ruttini... io invece avevo giraffone da buttar fuori di
casa,
litigate a non finire, discussioni su James, e infine ci si metteva
anche la
partita.
Inoltre,
una qualsiasi balia non sarebbe incappata nell’intera famiglia del
neonato di
cui si prendeva cura. Lei non avrebbe avuto a che fare con quel tornado
dai
capelli biondi che era Sofia.
«Siamo
quasi
arrivati!»
mi annunciò, sbirciando la mia espressione oltre la sua spalla.
Voleva
vedere come mi sentissi, se fossi volata via due semafori fa oppure
stessi
ancora sul sedile posteriore della Vespa. Anche se l’idea di darmela a
gambe
ogni volta che si fermava mi aveva allettato in più di un’occasione,
preferii
prenderla con maturità.
Ormai
avevo dato la mia parola. Mi sarei sorbita quei novanta minuti di noia
mortale,
conditi con gli starnazzi della gente e le urla scimmiesche dei tifosi
più
accaniti, e finalmente sarei tornata a casa. In fondo, si trattava di
un solo
match, poi non avrei mai più visto lo stadio nemmeno in cartolina.
«B-Bene!»
le risposi,
rischiando quasi di ingoiare un insetto.
La
Vespa borbottò quando Sofia rallentò la marcia, dopodiché si immise in
un ampio
parcheggio alberato su cui erano parcheggiati un fiume, anzi no, un
mare
immenso di scooter. La bella Sogno poggiò un piede fasciato da un paio
di
ballerine color beige sull’asfalto e cominciò a guardarsi intorno
cercando un
parcheggio adatto.
«Guarda se
trovi un buco!»
alzò la voce al di sopra del rombo del motore.
Mi
adoperai allora a trovare un posto adatto per la Vespa di Ruben, quando
notai
in lontananza un luogo che faceva proprio al caso nostro.
«Lì!» le
indicai,
sperando si sbrigasse.
Nel
frattempo vedevo altri scooter che gironzolavano attorno al parcheggio
in cerca
di un posto adatto dove lasciare il proprio mezzo. Sofia sgasò subito e
si
diresse verso il posteggio che occupò con maestria in appena due
manovre. Scesi
subito cominciando a slacciarmi il casco, mentre Sofia alzava il
sellino della
Vespa e ne prese la catena da passare attorno alla ruota.
Infine
si tolse il casco, come feci anch’io, e li appoggiammo all’interno del
bauletto.
«Sta per
iniziare, andiamo,»
mi fece lei, ravvivandosi i lunghi capelli ricci e biondi e
incamminandosi
verso quello stadio che da fuori sembrava davvero immenso.
La
seguii senza fiatare, vedendo un fiume di gente dagli sgargianti colori
bianchi
e rossi che si riversava nella stradina che li avrebbe condotti fino ai
tornelli. Sofia si mescolò tra i tifosi senza dare nell’occhio, come se
fosse
abituata a tutto quello.
E
forse lo è, tu che ne dici? È
pur sempre la sorella di Simone, andrà allo stadio da quando aveva
cinque anni.
Era
andata sicuramente così. Avevo notato come Sofia e Simone fossero
legati, anche
con Gabe ovviamente. Era come se tutti e tre i figli di Mr. Sogno
avessero
siglato un patto segreto che li obbligasse a sostenersi a vicenda,
anche senza
ricavarne alcunché di vantaggioso.
«Ven,
sbirgati!»
trillò Sofia, vedendomi sovrappensiero e afferrandomi una mano per
incitarmi ad
affrettare il passo. Non avevo mai visto tanta gente in tutta la mia
vita,
forse solamente ad un concerto di qualche famosa star internazionale.
C’erano
persone di tutte le età, da anziani con le sciarpe che strillavano Go Gunners! a bambini sui cinque anni
accompagnati dai entrambi i genitori vestiti in bianco e rosso. Rimasi
sinceramente colpita da tutta la passione che il popolo inglese nutriva
nei
confronti di quello sport, e per un attimo pensai di essere stata
troppo
precipitosa nel giudicarlo.
Anche
se Simone incarnava tutto ciò che odiavo, non era detto che il calcio
fosse
stata una sua sola prerogativa. Magari avrei anche potuto cominciare a
simpatizzare per quello sport, ma ciò non mi avrebbe impedito di fare i
bagagli
lontano di Mr. Sogno una volta che il caso giudiziario fosse stato
archiviato.
«Arrivo!»
risposi,
sentendomi letteralmente trascinata dall’impeto della giovane Sogno.
Cominciai
a vedere la fine di quell’enorme strada che conduceva agli ingressi
dell’Emirates Stadium, ma subito Sofia deviò e si allontanò dai
tornelli.
«Dove
stiamo
andando?»
le chiesi stupita.
Dopo
tutta la strada che avevamo fatto per giungere alle entrate, lei se ne
allontanava sempre di più.
Sofia
si voltò lievemente e mi sorrise. Aveva quell’espressione da elfo che
non
prometteva nulla di buono. «Noi
abbiamo l’entrata VIP,»
mi rispose trionfante.
Raggiungemmo
un ingresso posteriore, dove vi erano parcheggiati i pullman che
avevano
condotto le squadre fino all’ingresso dello stadio. Gli stuart che
montavano la
guardia erano numerosi, ma non appena Sofia li salutò, ognuno di essi
sembrò
conoscerla da una vita.
«Ehi, come
va?»
«Quando
uscirà
il nuovo album?»
«Tuo
fratello
lo vedo in forma!»
«Gabriele
è
già entrato.»
Proseguimmo
senza fermarci troppo a parlare con la polizia privata dello stadio e
Sofia
imboccò uno degli infiniti corridoi di quella struttura. Ammisi che se
fossi
stata da sola, mi sarei persa dopo nemmeno due minuti buoni, ma la
giovane
Sogno si muoveva tra quell’intricato dedalo di corridoi quasi come se
avesse
una mappa dell’intero stadio stampata nel cervello.
«Dove
stiamo
andando?»
le chiesi, sempre più confusa da quel continuo sovrapporsi di pareti
bianche
tutte identiche per gli occhi inesperti della sottoscritta.
«Nello
spogliatoio,»
mi rispose sorridente. «Non
vuoi augurare buona fortuna a Simo?»
Inchiodai
letteralmente la marcia nel bel mezzo della corsia.
«Che c’è?»
mi domandò
lei, vedendo che non mi muovevo.
«Avevi
detto
che avremmo visto la partita. Non c’era nulla riguardo allo
spogliatoio,»
mormorai
sincera.
C’era
un limite a tutto, in particolar modo a quello. Strinsi i pugni al
ricordo di
ciò che Simone mi aveva fatto poco prima nel camerino di quel negozio e
l’idea
di rivederlo prima del tempo era lungi da me. Non potevo certo spiegare
a Sofia
il motivo del mio essere restia, ma dovevo impormi.
«Perché
non
vuoi vederlo?»
mi chiese lei nella più completa ingenuità.
Certe
volte quel suo comportamento era disarmante. Cinque minuti prima il suo
sguardo
poteva convincerti a dirle anche la password della tua carta di credito
e del
tuo conto in banca, due secondi dopo si comportava come se fosse appena
caduta
dalle nuvole.
«Preferirei
evitare,»
sospirai annoiata.
Sofia
sembrò capire il mio disagio e stranamente non insistette. «Va bene,
però
passiamo un attimo lì davanti perché Ruben mi aspetta lì,» mi disse
tranquilla.
Okay,
avrei aspettato fuori. Avevo una probabilità su ventidue di beccare
Simone in
quei cinque minuti necessari a incontrare la talpa fuori dagli
spogliatoi.
Proseguimmo
diritte verso un bivio. Trovammo immediatamente alcune porte con
riportato
sopra la scritta “staff” e andammo avanti. Finalmente dopo pochi passi
riuscimmo a individuare, fermo di fronte ad una porta rosso Borgogna,
la figura
mingherlina di Ruben che si sistemava di tanto in tanto gli occhiali
sul naso
con fare nervoso.
Vicino
a lui c’era quel gran pezzo di gnocco di Gabriele.
«Eccoli!»
trillò Sofia
euforica, cominciando a correre in direzione del suo fidanzato.
Ruben
si accorse all’ultimo dell’arrivo del ciclone biondo e fece appena in
tempo ad
allargare le braccia che lei gli si buttò al collo riempiendolo di baci
ben
poco casti.
Rimasi
esterrefatta che una bella ragazza, famosa e ricca come Sofia, con un
fratello
calciatore e un altro manager potesse frequentare quella specie di
rifiuto
della società. Celeste mi aveva spiegato che Ruben e Leonardo erano
amici sin
dall’infanzia e che magari Sofia e la talpa erano cresciuti
praticamente
insieme.
Comunque
ci voleva coraggio. E tanto.
«Siamo
venute
con la Vespa!»
disse Sofia trionfante, staccandosi da Ruben ma senza lasciargli la
mano.
«Davvero?»
sorrise lui,
sempre imbarazzato.
Era
davvero curioso il modo in cui quel ragazzo, balbuziente cronico a
detta di
Celeste, riuscisse a smettere di tartagliare solo in compagnia della
ragazza.
Se la balbuzie era sintomo di nervosismo, era come se Ruben in
compagnia di
Sofia riuscisse a calmarsi.
«Sì! Come
l’ho
guidata, Ven?»
mi chiese, tutta eccitata.
Mi
spostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorrisi. «Benissimo.»
Ed era la
pura verità.
«Tuo
fratello
è nervoso oggi, non so cosa cazzo gli sia preso,» ringhiò Gabriele,
raggiungendoci e imprecando mentre smanettava con il suo Galaxy.
Sofia
spalancò quei grandi occhi celesti sorpresa. «Davvero?»
Gabe
annuì, poi alzò lo sguardo. «Prima
sono entrato un secondo per parlargli, a momenti mi prende a pugni. Ha
un
diavolo per capello.»
La
piccola Sogno annuì. «Anche
stamattina era sovrappensiero,»
ammise.
«Ep-Eppu-Eppure
n-non è una p-partita imp-impe-impegnativa!» commentò Ruben,
balbettando
solo quando si rivolgeva a Gabriele.
Lui
gli restituì uno sguardo di superiorità. Era evidente che Ruben non
andasse a
genio al più grande dei fratelli Sogno. «Infatti,» commentò. «Ma il suo
problema è di testa. Penso c’entri anche il caso di dubbia paternità.
Ho saputo
che questa settimana incontrerete Miss Cloverfield,» aggiunse
abbassando la voce.
Annuii.
«Un
incontro preliminare col suo avvocato. Non so se anche lei sarà
presente.»
Sofia
mi restituì uno sguardo molto preoccupato. Era come se quella causa in
corso
pendesse come la spada di Damocle sull’intera famiglia, non soltanto su
Simone.
«Speriamo
bene. Anche se il New Castle non è una squadra da Champions League, ciò
non
vuol dire che possono permettersi di perdere questa partita,
soprattutto con
Simo titolare. Mr. Venger conta molto su di lui.»
Ricordai
perfettamente la figura alta e allampanata dell’allenatore dell’Arsenal.
Oh,
stavolta l’hai detto bene.
Grazie.
D’improvviso
mi sentii afferrare per le spalle e un soffio leggero di fiato mi
solleticò
l’orecchio. Sgranai gli occhi terrorizzata, pensando si trattasse
ancora di
Simone e fui pronta a scrollarmelo di dosso prima che i suoi fratelli
pensassero male.
Però
una voce familiare mi fermò.
«Sei
venuta a
vedermi giocare, lil’Miss?»
Sebastian
mi si affiancò come un’ombra che sbucava fuori dal nulla e mi fissò con
quegli
occhi azzurri vispi e quel sorriso strafottente. «Se lo avessi saputo,
avrei
ordinato dello champagne…»
e lasciò la frase volutamente in sospeso.
Rabbrividii
e tentai di scrollarmelo di dosso, riuscendoci solamente perché
l’affascinante
calciatore lasciò volutamente la presa sul mio corpo. Sia Gabriele che
Sofia mi
rivolsero uno sguardo che chiedeva spiegazioni, anzi, quello della
piccola
Sogno era una vera e propria occhiata accusatoria.
«Sebastian,
cosa vuoi?»
gli disse lei, come se lo conoscesse da una vita.
Il
ragazzo alzò pigramente gli occhi verso Sofia, senza smettere quel
sorriso
arrogante. «Nulla
che possa interessarti, Sofi,»
rispose pacato. «Stavo
solo facendo due chiacchiere con la fidanzatina del futuro capitano.»
Sgranai
gli occhi totalmente colta alla sprovvista. «Io non…» tentai di
correggerlo, anche se non sapevo a chi si riferisse con quel “futuro
capitano”.
«Tieniti
alla
larga da Venera,»
lo minacciò lei, ed io rimasi completamente di sasso scoprendo quel
nuovo lato
da leonessa di Sofia. Mi era sempre parsa una ragazza dolce, ingenua,
all’occasione furba come una faina, ma non l’avevo mai vista così
gelosa.
«V-Ve-Vedi
di
f-fa-fare c-co-come di-dice!»
si aggiunse Ruben, venendo in soccorso della propria ragazza.
Sebastian,
trovatosi in netta minoranza rispetto a tutti i Sogno che c’erano in
quel
piccolo corridoio, decise di battere in ritirata, almeno per il momento.
Mi
passò una mano sulla testa, accarezzandomi distrattamente i capelli.
«Ci
vediamo
alla fine del primo tempo, piccola Miss,» sghignazzò, sparendo poi
all’interno degli spogliatoi.
Soltanto
in quel momento mi resi conto che non stavo affatto respirando, e solo
quando
Sebastian sparì dalla mia vista, ricominciai a far circolare l’aria nei
polmoni.
Sofia
subito mi fu addosso. «Quando
lo hai conosciuto? Perché? Cosa vuole, eh, Ven?» sparò a raffica, senza
darmi
nemmeno il tempo di rispondere.
Ruben
per fortuna capì la mia difficoltà a star dietro alla piccola Sogno
versione
belva inferocita. «A-Andiamo
a pr-prendere po-posto,»
mi suggerì, poi si rivolse a lei. «Non è successo nulla, stai
tranquilla.»
E le passò un braccio attorno alle spalle.
Gabriele
ci fece cenno di proseguire, perché lui doveva ancora sistemare alcune
cose,
così cominciammo a salire i gradini che ci avrebbero condotti agli
spalti.
Davanti a me, Ruben e Sofia si tenevano reciprocamente stretti l’uno
all’altra,
con la testa di lei poggiata sulla spalla del giovane manager. Sembrava
quasi
incredibile che una ragazza dalla bellezza delicata e ricercata di
Sofia avesse
scelto, tra mille spasimanti (o forse di più), un tipo strano come
Ruben.
I
misteri della vita.
Già,
proprio misteri, perché nemmeno un equipe di scienziati esperti
saprebbe
spiegare una cosa del genere.
Salii
l’ultimo gradino, coprendomi il viso a causa dei fari che erano già
stati accesi
perché di lì a pochi minuti sarebbe sceso il crepuscolo, e poi
l’oscurità.
C’era troppa luce da quell’angolazione, così proseguii di qualche
passo,
cercando di non perdermi di vista Sofia e Ruben, ma non appena tolsi la
mano
riacquistando parzialmente la capacità di vedere, rimasi pietrificata
di fronte
alla maestosità di quella struttura.
Tutto
intorno a me, gente vestita di colori bianco e rossi riempiva ogni
spazio
disponibile sugli spalti e i cori s’innalzavano già per tutto lo
stadio,
nonostante mancasse ancora un po’ all’inizio della partita. C’erano
striscioni,
bandiere, grida di gioia, per non parlare delle coreografie che le
curve
s’inventavano prima di ogni match.
Mi
sentii la bocca asciutta, quasi del tutto priva di saliva e non
riuscivo ad articolare
la benché minima parola. Un conto era vedere quello spettacolo in
televisione,
quelle poche volte che Robbeo il Mangiacaccole monopolizzava
l’apparecchio con
quegli stupidi match inglesi, un altro era vivere
tutto ciò che stavo vedendo.
E
pensare che questa è la vita
di Simone.
Lo
cancellai immediatamente dalla testa, ricordandomi solo in quel momento
che
avrei dovuto cercare Sofia con lo sguardo. Provai ad alzare gli occhi
tra la
folla che riempiva il piccolo ingresso e la trovai che si sbracciava
poco più
in alto da dove mi ero bloccata.
«Ven,
qui!»
mi urlò,
facendomi cenno di avvicinarmi.
Provai
a passare lateralmente quel fiume di gente che cercava di occupare i
posti
scritti sul biglietto, e salii qualche gradino, raggiungendo i miei
amici quasi
del tutto incolume. Mi lasciai andare sulla poltroncina delle tribune
con un
sospiro esausto. Quella giornata era stata davvero stancante ed il
pensiero che
l’indomani sarei dovuta andare nuovamente a lavoro mi terrorizzava.
James.
«Allora,
come
ti sembra?»
mi chiese Sofia, distraendomi da quel pensiero.
Avrei
dovuto ammettere che era una delle poche cose che mi avevano tolto il
fiato
dopo essere atterrata a Londra e che forse c’era del vero nelle parole
dei
tifosi che intervistavano di tanto in tanto ai telegiornali. Avrei
dovuto
ammettere tutto quello, eppure non volli. Sarebbe stato come dichiarare
la mia
sconfitta in materia di calcio e calciatori.
«Carino…» spettacolare, indecente, da mozzare il
fiato.
Sofia
sembrò un po’ delusa da quel mio commento, ma non le diedi motivo di
sospettare
ancora. Avrei dovuto mantenere la faccia, ormai mi rimaneva solo quella.
Dopo
alcuni minuti, vidi la gente cominciare a sedersi e i cori crescere
ancor più
d’intensità.
«Stanno
entrando!»
gridò Sofia eccitata. «Guarda,
guarda, c’è Simone. Lo vedi, Ven?» mi disse lei, indicando
furiosamente un puntino vestito di rosso che camminava in mezzo al
campo.
Per
me poteva essere Simone, come qualsiasi altro essere umano.
«L-Lo
s-stan-stanno ri-rip-riprendendo su-sul maxi-scher-schermo!» mi venne
in
aiuto Ruben, indicando il grande monitor sopra lo stadio.
Alzai
lo sguardo e vidi Simone ripreso di spalle, con il cognome “Sogno”
stampato a
grandi lettere bianche sulla maglia numero nove. Non lo avevo camminare
così
impettito, quasi nervoso. Di solito camminava con aria spavalda da
prima donna,
invece in quel momento mi parve quasi diverso…
…un
guerriero.
Ma
non diciamo sciocchezze. C’è una bella differenza tra il giocare una
stupida
partita rincorrendo un pallone come cani scodinzolanti e rischiare la
propria
vita in una guerra. Evitiamo questo genere di metafore.
Vidi
che la squadra si disponeva in fila, seguita da quella avversaria in
maglia
bianco-nera. Il maxi-schermo riprendeva ancora Simone, ora voltato di
fronte.
Aveva uno sguardo serio, tesissimo, e stentai quasi a riconoscerlo
senza quel
solito sorriso strafottente stampato in volto.
«Ora parte
l’inno,»
mi spiegò Sofia.
Lo
stadio calò nel più religioso silenzio, mentre il suono di una musica
orecchiabile
riempiva gli spalti dell’Emirates Stadium. Dopo qualche secondo, le
voci di più
di diecimila persone si sovrapposero alle note musicali, creando
un’unica voce
in sincrono.
Rabbrividii
da tanta passione e rimasi sconcertata da me stessa. Solitamente non me
ne
sarebbe fregato nulla, ancor meno sapendo che sarei andata a vedere
Simone
giocare uno stupido match, ma tutto quel trasporto, quella passione che
si
respirava solamente nello stadio – ben diversa da quella in TV – aveva
stravolto le mie prospettive.
Rivolsi
lo sguardo al maxi-schermo e vidi Simone cantare a squarciagola.
Fu
in quell’istante che capii quanto mi fossi sbagliata. Avevo dato per
scontato
che al giovane Sogno non interessasse altro che la fama e il successo,
con
gonnelle e giraffone annesse, invece c’era ben altro dietro. Amava
quello sport
ed era tutta la sua vita, mentre io ero stata troppo superficiale per
capirlo.
D’improvviso
sentii il cellulare squillare, così mi affaccendai a cercarlo nella
borsa e a
rispondere, proprio nell’istante in cui la musica cessò e si diede
inizio al
match.
«Pronto?»
«Spaghetti-girl!»
La
voce di James per poco non mi fece cadere il cellulare dalle mani. Ero
rimasta
totalmente sconvolta da quella chiamata, soprattutto ricordando di non
avergli
ancora risposto all’SMS di questa mattina.
Sei
una pessima
pseudo-fidanzata.
Lo
ammetto.
«C-Ciao
James…» dissi,
sperando di non risultare falsa.
Avevo
gli occhi di Sofia addosso, quasi come quelli di un falco. Quelle sue
iridi
azzurrine mi mettevano in soggezione, soprattutto sapendo quanto fosse
enigmatico il suo viso. Non sapevo mai se approvava la mia relazione
con Jamie,
oppure lo detestava.
Sicuramente
Sebastian non le stava simpatico.
«Come va?
Pensavo avessi perso il cellulare,» ridacchiò, per nulla nervoso. «Sai
com’è,
non ho ricevuto tue risposte dopo ieri sera. Pensavo…» e lasciò
pericolosamente la frase in sospeso.
«NO!» mi
affrettai
a rispondere, sovrastando il caos dei tifosi che avevano ricominciato
ad urlare
e ad intonare cori come ossessi.
Sentii
Jamie ridere dall’altro capo del telefono. «Sono andata a fare shopping
stamattina e tra una prova e l’altra non ho potuto chiamarti. Mi
dispiace,» gli dissi,
sinceramente mortificata.
Per
quanto Simone avesse potuto mettermi i bastoni tra le ruote, James non
si
meritava quel trattamento da parte mia, soprattutto dopo quel
meraviglioso
sabato sera passato insieme.
«Ho
capito,»
rispose lui
tranquillo. «Volevo
solo sentire come stavi.»
Adorabile.
Era l’unica parola che mi sovvenne in quel momento per descrivere
accuratamente
il mio James.
Mio?
Beh,
ormai non poteva essere che di nessun altro.
«Dove sei?
Riesco a mala pena a sentire la tua voce!» chiese, urlando un po’ più
forte quando le grida per l’inizio della partita divennero
insopportabilmente
acute.
Mi
tappai l’altro orecchio con un dito, cercando di sentire le parole di
James.
«Sono allo
stadio,»
dissi, quasi senza pensare.
Certo,
non avevo alcun motivo per mentirgli, soprattutto quando la nostra non
era
nemmeno una relazione con la “R” maiuscola, però mi pentii quasi subito
di
quella risposta. L’avevo data con troppa ovvietà, come se fosse logico
che
stessi guardando una partita di calcio allo stadio, in compagnia della
sorella
del mio cliente e del suo fidanzato.
Il
silenzio di James dall’altro capo del telefono non fu rassicurante.
«Capisco,»
si limitò a
dire infine ed io sentii un certo morso alla bocca dello stomaco.
«Sofia mi
ha
praticamente costretta ed io mi sto annoiando a morte!» mi sentii in
dovere di aggiungere, anche se parte di quelle parole erano solo
un’emerita
bugia. La noia era l’ultima sensazione che avevo provato da quando
avevo messo
piede all’Emirates.
Sentii
Jamie ridere dall’altro capo del telefono. «Bene, bene. Io sono tifoso
del
Manchester, quindi sarei stato solamente un abile gufatore se ti avessi
accompagnato,»
disse dolcemente.
«Non ti
preoccupare. Penso che sia la prima e l’ultima volta che varco la porta
di uno stadio,» gli
assicurai. «Preferisco
starmene comoda sul divano del salotto.»
«Magari
abbracciata ad un certo avvocato…» aggiunse lui maliziosamente.
Un
lungo brivido rotolò per tutta la colonna vertebrale, lasciandomi una
scia di
pelle d’oca. D’improvviso mi si seccò la gola e rimasi a corto di
parole. Era
disarmante il modo in cui James era capace di zittirmi.
Un
po’ come Simone nel camerino.
Scossi
violentemente la testa cercando di scacciare quell’immagine dalla mia
mente.
Era ben diverso. Simone aveva approfittato di un mio momento di
debolezza, di
confusione, e utilizzava contro di me quel suo fascino magnetico da
“cattivo
ragazzo”. Per quanto potessi predicare bene, e dire che non avrei mai e
poi mai
avuto nulla a che fare con un poco di buono come Mr. Sogno, dovevo
solamente
sventolare bandiera bianca davanti a quel suo sorriso mozza fiato.
James,
invece, non mi spiazzava certo con uno sguardo, ma sapeva quali tasti
pigiare.
«Magari…»
gli diedi
corda, arrossendo.
Sofia
seguiva ogni mia espressione del viso con uno sguardo da falco. Se
Ruben di
tanto in tanto non l’avesse distratta con qualche particolare azione
degna di
merito, ero sicura che si sarebbe appollaiata sulla poltroncina e
sarebbe
calata in picchiata sulla mia testa.
«Passi da
me,
dopo?»
mi domandò James a bruciapelo.
Rimasi
interdetta da quella richiesta, soprattutto perché non avevo mai visto
l’appartamento del giovane avvocato. Non sapevo nemmeno dove abitasse,
per la
verità.
«Perché?»
chiesi, ma
mi morsi repentinamente la lingua. Ero stata troppo precipitosa.
Domanda
stupida e inopportuna.
James
però la prese bene e ridacchiò. «Ho voglia di vederti. Mi sei
mancata oggi,»
disse dolcemente ed io mi sciolsi.
Il
problema però era che sarei dovuta tornare in sella alla Vespa di Sofia
e a
giudicare dagli sguardi poco gentili che mi stava lanciando, avevo i
miei dubbi
che sarebbe stata contenta di accompagnarmi nella “tana del lupo”.
Decisi
di provarci. O la va o la spacca, anche io avevo troppa voglia di
rivedere
James. Aspettare sino all’indomani era una tortura, soprattutto perché
allo
studio saremmo dovuti essere discreti. «Dammi l’indirizzo,» gli
proposi,
e la voce mi uscì più maliziosa di quanto avessi previsto all’inizio.
«Ti mando
un
SMS, non vedo l’ora di vederti,»
disse ed io arrossii di nuovo. «Ti
aspetto.»
«Okay,»
risposi, poi
chiusi la comunicazione e sospirai stringendo il cellulare tra le mani.
Ero
ancora totalmente in trance, come se il mio cervello galleggiasse in
una coltre
di nuvole rosa a forma di cuoricini. Non ero mai stata un tipo
romantico, di
quelle che guardano il cielo e sospirano lanciando languide preghiere
alla
luna. Ero sempre stata realistica, una donna coi piedi per terra,
eppure mi
ritrovai a sognare come una scolaretta in piena tempesta ormonale.
Hai
sopito per troppo tempo
questa parte di te. Ora torna alla carica raddoppiata.
Forse
Cervello non aveva poi così torto.
«Chi era?»
mi domandò
Sofia, con un’espressione mista tra il “lo incenerisco” e “stai
tranquilla,
saremo best friend forever, quindi puoi dirmi tutto”.
«James.»
Non
aveva
senso mentire. Era evidente che la piccola Sogno già era a conoscenza
della
risposta. Il suo viso si rilassò.
«Ti ha
chiesto
di raggiungerlo?»
mi domandò, stavolta con un sorriso sincero.
Era
in quei momenti che mi chiedevo se Sofia tifasse per me e James oppure
mi
remasse contro. Era ambigua la ragazza.
Annuii
distrattamente, sentendo il cellulare vibrare e aprendo l’SMS.
16,
Craven Terrace, London.
Interno 2B.
Il
cuore perse un battito e mi sentii completamente svuotata da ogni forza
fisica.
Avevo una gran voglia di alzarmi da quelle poltroncine e correre
all’impazzata
fuori dallo stadio, pur di raggiungerlo, ma sembrò fortemente esagerato.
Ero
una persona intelligente, un’avvocatessa, non una sciocca ragazzina da
romanzi
rosa.
Ci
voleva ben altro per mandare il mio cervello in orbita.
«Voglio
passare
da lui, dopo la partita,»
le dissi, senza tanti giri di parole.
Ero
libera di prendere le mie decisioni e di passare la notte fuori, anche
se
Simone sarebbe rimasto solo un’altra volta. Sarei venuta meno al mio
dovere,
ancora, ma James ormai era diventato il mio complice in tutta questa
storia e
mi pareva giusto comportarmi così, in un certo senso.
Sofia
sospirò e tornò a rivolgere lo sguardo verso il campo. «Sta giocando
male,»
disse solamente e non ci sarebbe voluto il binocolo per capire che i
suoi occhi
blu erano rivolti tutti a Simone.
Per
un attimo tornai coi piedi per terra, nell’Emirates Stadium.
Vidi
attorno a me un numero indefinito di personaggi famosi, tra cui
politici, giornalisti,
figure dello spettacolo e numerose donne che avevano riempito i
rotocalchi
londinesi. Alcune le associai al mondo del calcio, come
mogli/fidanzate/amanti
dei giocatori, altre non seppi collocarle di preciso.
Potevano
essere benissimo cugine o sorelle, proprio come lo era Sofia, cantante
di
successo e sorella minore di una delle punte dell’Arsenal.
Mi
complimento, è la seconda
volta in ventiquattr’ore che ti sei ricordata la squadra.
Ho
il fosforo, io.
«Perché?»
le domandai.
In fondo era strano pensare che uno spavaldo pallone gonfiato come
Simone
potesse avere una giornata storta.
Lei
fece spallucce e si rannicchiò meglio contro Ruben, il quale le passò
un
braccio attorno alle spalle. Tutto sommato, erano una coppia carina.
«C-Cre-Credo
c-che il p-pro-proces-processo c’entri qu-qual-qualcosa,» intervenne
appunto Ruben, completando i pensieri della fidanzata. «Ga-Gab-Gabriele
me n-ne ha p-pa-parlato. S-se-sembra c-che la so-soci-società
sos-sospetti
qu-qual-qualcosa.»
Dannazione,
non ci voleva. Eppure eravamo stati così attenti a tenere tutto
segreto, per
quanto la voglia di Simone di rincorrere gonnelle fosse forte. Ero
sicura che
per il calcioscommesse, alcuni giocatori erano stato sospesi a tempo
determinato dai campi di calcio, però ciò succedeva in Italia. Lì a
Londra la
giurisdizione era diversa, James mi aveva spiegato qualcosa in merito.
Simone
rischiava di dover abbandonare il calcio per tutta la durata del
processo che
lo vedeva invischiato in un caso di dubbia paternità.
Tutto
per colpa del suo Pisellino
iperattivo.
La
prossima volta imparerà a tenerlo nelle mutande.
«E
quindi?»
chiesi io,
piuttosto ignorante in materia.
Stavolta
fu Sofia a rispondere. «Il
mister ha messo Simone titolare da poco tempo dopo l’infortunio, è una
sorta di
fiducia che gli sta dando. Purtroppo, se vede che non è al meglio delle
sue
capacità –soprattutto mentalmente – alla fine del primo tempo, o subito
dopo,
lo sostituirà.»
«S-Sim-Simone
non po-potrà sopportarlo,»
aggiunse Ruben, estremamente serio.
Di
punto in bianco, sentii la presenza di un’altra persona. Gabriele ci
aveva
finalmente raggiunti, così si sedette al mio fianco e afferrò il suo
tablet
cominciando a scrivere come un forsennato.
«È
nervoso,
dannazione,»
imprecò, senza staccare gli occhi dallo schermo, ma era evidente che si
rivolgesse a noi.
«Possibile
che
non si sia calmato da stamattina?» gli domandò Sofia. «Eppure l’ho
portato con noi per farlo distrarre.»
Ecco
spiegato il motivo per cui Simone ci aveva accompagnate a fare shopping.
«Ha la
testa altrove,
Sofi,»
disse Gabe, alzando lo sguardo e incrociando quello della sorella.
«Credo
che non
sia soltanto per la Cloverfield,» aggiunse poi.
Tutto
quel mistero attorno al comportamento di Simone mi mise un po’ di
curiosità
addosso. Non sapevo davvero come comportarmi in merito, ma avevo
soltanto
stampato in mente il ricordo di quello che era quasi-successo nel
camerino del
negozio.
Forse
lo aveva fatto per vendicarsi, per trovare in me una distrazione da ciò
che lo
circondava.
Era
stato un cretino, punto.
Prima
mi aveva fatto una testa tanta con la sua bravura, col suo talento, con
il
fatto che lo mettessero in panchina soltanto perché erano gelosi del
suo dono
innato e poi gli bastava una distrazione per permettergli di giocare
così male.
Alzai
lo sguardo sul campo proprio mentre perdeva un pallone e permetteva
agli
avversari di andare in contropiede. Era così immaturo, un bambino
proprio.
«Penso
chiederà il cambio lui stesso, alla fine del secondo tempo,» disse
Gabriele con tono teatrale.
«Credo
anche
io,»
si aggiunse Sofi.
«Quanto
manca?» chiesi
d’improvviso, come folgorata da un’illuminazione.
«A cosa?»
domandò la
biondissima Sogno.
«Alla fine
del
primo tempo,»
chiesi, sempre più convinta di ciò che stavo facendo.
Ruben
guardò il suo orologio da polso. «T-Tre m-minuti, ci-ci-circa,»
balbettò, ma
non diedi agli altri due il tempo di farmi ulteriori domande che mi ero
già
alzata per dirigermi verso gli spogliatoi.
Simone
aveva il cervello bacato se pensava di chiedere una sostituzione in
quel
momento così delicato. Non poteva, doveva concentrarsi.
Al
caso di dubbia paternità ci avremmo pensato io e James, lui doveva
giocare.
Punto.
Punto.
Da
quando sei diventata la
paladina delle cause calcistiche?
Da
ora.
Diciamo
dalla mattinata nel
camerino.
Taci.
Prima finisce questa partita, prima posso andare a casa di James.
Rimasi
impalata di fronte alla porta degli spogliatoi, aspettando
pazientemente che i
tre minuti scadessero e che potessi incontrare Simone senza rischiare
di
incappare in un Sebastian nudo.
Immagino
sia il tuo incubo più
grande.
Uno
dei tanti.
I
bodyguard mi fissavano male, soprattutto perché pensavano che fossi una
qualche
fan impazzita che aspettava di fare la posta al suo idolo. Non sapevano
che in
realtà avevo in mente soltanto una lavata di capo per una certa persona
troppo
immatura per pensare razionalmente con quel suo cervellino menomato.
Sentii
un duplice fischio, poi il mormorio della gente che si rilassava dopo
una
partita in pieno zero a zero. Dal tunnel in fondo al corridoio,
cominciai ad
intravedere figure maschili avvicinarsi agli spogliatoi, con i
tacchetti degli
scarpini che rumoreggiavano sul linoleum.
Mi
feci da parte per lasciarli passare, soprattutto perché sembravano
avere l’aria
piuttosto stanca.
Finalmente,
dopo una lunga processione di maglie bianche e nere, arrivò qualche
giocatore
rosso e bianco. Visi sconosciuti si susseguivano davanti ai miei occhi,
mentre
alcuni nomi registrati dietro le loro maglie mi riportarono qualche
ricordo
vago alla memoria.
Più
che altro interventi alla CNN oppure articoli di giornale che finivano
sempre
in secondo piano nella mia scala di attenzione.
«Stavi
aspettando me, Miss?»
mi chiese una voce fastidiosa.
«No,
Sebastian. È evidente che non sto aspettando te,» risposi acida.
Quel
ragazzo mi faceva saltare ai nervi peggio di Simone. Che tutti i
giocatori di
quella squadra li facessero con lo stampino?
Sebastian
fece il suo solito sorrisetto, nonostante non sortì lo stesso effetto
perché il
suo viso era sudato e accaldato dalla partita. «Sei in attesa di Sogno,
vero?
Non capisco cosa ci troviate di così speciale in lui. Tutte a morirgli
dietro.»
Quella
insinuazione mi diede molto più che semplice fastidio.
«Punto
primo,
togliti dalla testa quest’idea che tra me e TermoSifone ci sia
qualcosa. Punto
secondo, lo sto aspettando per dargli una strigliata, non per un
autografo o
cazzate simili. Punto terzo, se fossi un po’ meno borioso, forse le
ragazze ti
degnerebbero di considerazione,»
commentai con sarcasmo.
Sebastian
mi osservò con quei suoi placidi occhi azzurri, senza proferire parola.
Era
come se non mi avesse mai vista veramente, ma si limitasse a scoprirmi
per la
prima volta. Strano, davvero.
«Ora
capisco
perché Simone è così preso da te, Miss,» commentò solamente, avanzando
di qualche passo ed entrando nello spogliatoio.
Mi
voltai di scatto per chiedergli spiegazioni, ma lui era già sparito.
Volatilizzato.
Preso?
Sì,
hai capito bene.
S’è
fumato un po’ d’erba del
campo, il ragazzo.
Decisamente.
«Che cazzo
ci
fai qui?»
disse una voce alle mie spalle.
Girai
il viso per vedermi specchiata negli occhi scuri, furenti, iniettati di
sangue
di Simone, il quale aveva un’espressione stravolta e i capelli ancora
più
incasinati del solito. Ansimava, stanco e provato dal primo tempo, con
la
maglietta zuppa di sudore, i pantaloncini sporchi d’erba e terra. Aveva
anche
uno sbaffo di sporco su una guancia.
Gli
dona l’aria trasandata.
«Innanzitutto,
bel modo di accogliermi dopo che tua sorella mi ha quasi rapita per
portarmi a
vederti giocare,»
dissi, offesa.
«Nessuno
te
l’ha chiesto,»
disse nervoso.
Gli
vidi passarsi una mano tra i capelli e scuotere ossessivamente gli
scarpini sul
pavimento, facendo cadere piccole zolle di terriccio. Non lo avevo mai
visto
così. Era teso come una corda di violino.
«Lo sto
facendo
per Sofia e per quelli che vedono come ti stai rovinando da solo con le
tue
mani,»
gli feci osservare.
«Non
capisco
cosa vuoi dire,»
sbuffò, tornando a guardarmi con quegli occhi che sembravano
appartenere ad una
galassia a parte.
Rabbrividii
al pensiero di quale effetto potesse farmi il corpo possente e immenso
di
Simone lì fermo davanti al mio, piccolo e indifeso. La differenza
d’altezza, il
fatto che lui avesse un’espressione stravolta, il puzzo di sudore e
testosterone che avvolgeva l’aria, impedendomi di ragionare lucidamente.
Poi
l’immagine di noi nel camerino.
«Devi
smetterla di fare il deficiente e pensare a giocare,» dissi
coincisa, sperando di spicciarmi e tornarmene sugli spalti a respirare
ossigeno
non saturo di ormoni maschili.
«Non ho
alcuna
intenzione di fare qualcosa che mi ordina una nanetta,» sorrise
spavaldo, tirando fuori ancora una volta quel suo comportamento
arrogante.
Stava
sulla difensiva.
Vidi
gli sguardi degli altri giocatori e di alcuni giornalisti che ci
fissavano
incuriositi, così lo afferrai per una mano, trascinandolo il più
lontano da lì.
Ci mancava solo che qualche tabloid udisse casualmente del caso in cui
era
coinvolto Simone.
«Devo
preoccuparmi?»
ironizzò lui, quando vide la stanzetta dove ci eravamo rinchiusi.
Era
la prima disponibile e l’unica che non fosse sorvegliata da dei
bistecconi in
giacca e cravatta, con auricolare all’orecchio.
«Piantala
di
fare il cretino,»
lo ammonii, con le mani sui fianchi. «Devi smetterla di preoccuparti
del caso, della squadra e di ciò che potranno farti se lo scoprono.
James mi ha
assicurato che hai la completa immunità, per quanto gli riguarda:
riusciremo a
farti giocare. Non ti terranno in panchina, fidati,» lo
rassicurai.
Avrei
fatto in modo di rispolverarmi tutti i libri di Diritto Internazionale
alla
ricerca di un cavillo che mi avrebbe permesso di farlo tornare in
campo. La
società non aveva alcun diritto di intromettersi in un caso che non
aveva nulla
a che fare con il calcio.
Le
scommesse sulle partite erano un conto, un caso di dubbia paternità era
tutt’altro paio di maniche.
«Non me ne
frega niente delle accuse,»
mentì Simone, abbandonandosi sulla prima sedia libera.
Si
asciugò il sudore dalla fronte con il bordo della maglia, lasciando –
volutamente o non – la porzione dell’addome scoperta, libera di essere
assaltata dal mio sguardo ormai in balia dell’Ormone.
Smettila,
dannazione!
Ma
è così bello…
Tentai
di tornare seria, almeno per non dare parvenza di essere completamente
pazza. «Lo vedi come
fai? Menti, eviti, non ammetti mai il tuo stato d’animo. Preferisci
fare
battutine da quattro soldi invece che affrontare le tue paure. È
normale che tu
sia spaventato da questo caso,»
gli dissi comprensiva.
E
chi non lo sarebbe stato?
Non
era una quisquilia di tutti i giorni quella contro cui stavamo
combattendo io e
Jamie per suo conto. Se non fosse andato tutto come speravamo, una
bella
macchia nera sarebbe rimasta a imbrattare il suo impeccabile curriculum
da
stella inglese.
«E tu cosa
ne
vuoi sapere di me? Sei una contraddizione vivente e vieni a farmi la
morale?» mi accusò,
come sua unica arma di difesa.
Sospirai
amaramente. «Non
voglio litigare, perché tanto già so dove vuoi andare a parare. Ti dico
solo di
giocare, di non pensare a nient’altro, perché a pararti il culo ci
saremo io e
James. Fidati. Anche se fosse l’ultima cosa che faccio, vinceremo
questa causa,» gli
assicurai.
Simone
ridusse gli occhi a fessure e mi guardò.
Con
una sola occhiata riuscì a gelarmi il sangue nelle vene. Ero troppo
soggetta
alle sue reazioni, me ne resi conto troppo tardi. Non sapevo
spiegarmene il
motivo, eppure era come se lui esercitasse uno strano effetto su di me.
Io
che non avevo mai permesso a nessuno di comandarmi.
Si
alzò e mise di nuovo tra noi quel divario di altezza che mi faceva
sentire ancor
più in soggezione. Si avvicinò poco dopo ed io non sentii più nulla.
C’erano
momenti in cui il cervello di un essere umano era come se si riducesse
ad un
aggeggio superfluo, utile unicamente come contrappeso per tener dritta
la
testa. Ecco, quello era il mio caso.
«Va bene,»
disse lui,
stranamente sicuro.
«Va bene
cosa?» domandai,
completamente rincretinita dalla sua presenza.
Simone
sghignazzò, soddisfatto che avessi perso il filo del discorso.
Possibile che mi
bastasse rendermi conto della sua prestanza fisica per disconnettere i
neuroni?
Ti
devo anche dare una risposta?
Oppure preferiresti che mentissi?
Sei
spietatamente sincero.
«Giocherò
come
si deve,»
annunciò lui tranquillamente e pericolosamente vicino.
Camerinocamerinocamerinocamerino.
Quell’unica
parola si ripeté in continuazione nella mia mente come una
fastidiosissima
litania insopportabile. Dovevo smetterla di ricorrere a
quell’increscioso
ricordo. Non era successo nulla, punto. Solo una stupida presa in giro.
«Perfetto,
ora
andiamocene prima che Sebastian dica in giro che ti ho rapito per
stuprarti.
Non si sa mai cosa gli passi per la testa,» sibilai acida.
Simone
sembrò piuttosto divertito. «Sono
queste le voci che circolano su noi due?» sghignazzò.
Lo
fulminai con lo sguardo, dirigendomi verso la porta. «No, è solo il
cervello malato di Sebastian che le può elaborare. Io e te siamo
incompatibili,
ricordalo. È solo per quieto vivere che ancora non ci siamo ammazzati a
vicenda.»
Simone
mi bloccò la mano sul pomello della porta.
Deglutii
a fatica, sentendo il suo corpo accaldato e ansante a pochi centimetri
dal mio.
C’era troppa tensione, si percepiva nell’aria ed io non riuscivo a
contenermi.
Dovevo darmi una svegliata, altrimenti sarei passata per idiota.
Già
nel camerino avevo fatto la figura della demente.
«Puzzi
come
una capra,»
gli dissi, scrollandomelo di dosso.
Simone
spense tutto l’entusiasmo con cui aveva provato a burlarsi di me per
l’ennesima
volta, e tornò in posizione d’attacco. «Parli di me o di te, lil’Elf?»
sghignazzò.
«Sei tu
quello
sudaticcio,»
osservai ovviamente.
Mi
rivolse un ghigno compiaciuto. «Peccato
che soltanto uno di noi due abbia quel tanfo di spocchiosa superiorità
avvocatesca, che non si lava di dosso nemmeno con l’acido.»
«Spocchiosa
superiorità?»
ridacchiai ironica. «Ma
bene! Abbiamo studiato il vocabolario nel tempo libero?» lo schernii.
Simone
s’adombrò, evidentemente offeso. Non mi rispose ma fece pressione sul
pomello e
aprì la porta. Prima di uscire mi rivolse un ultimo sguardo. «Vincerò
questa partita,»
annunciò quasi profetico. «E
tu dovrai liberarmi da Elizabeth.» Poi se ne andò ed io rimasi a
fissare il pavimento udendo ancora il rimbombo dei tacchetti dei suoi
scarpini
sul linoleum.
Ritornai
in pieno possesso delle mie facoltà mentali dopo dieci minuti buoni,
così
decisi di tornare in tribuna, dove Sofia mi aspettava in attesa di
spiegazioni.
Mi
sedetti di peso, tra Gabe che continuava a picchiettare le dita sul
tablet, e
Sofia che non la smetteva di fissarmi, con un sorrisetto che le
increspava le
labbra.
«Dove sei
stata?»
mi chiese con furbizia.
«A
prendere da
bere,»
mentii.
«E com’è
non
hai né acqua, né aranciata in mano?» osservò sarcastica.
Imprecai
mentalmente per quella svista. «Avevo
sete e l’ho tracannata tutta.»
Un’ottima
scusa, complimenti.
Grazie,
il merito è anche tuo.
Quando
si tratta di salvare il
nostro compare laggiù, fasciato nelle mutande di pizzo che indossi.
Non
indosso mutande di pizzo.
Sicura?
Sofia
continuava a fissarmi con la coda dell’occhio, dando colpetti col
gomito a
Ruben che annuiva soddisfatto. Sembrava che quei due manovrassero i
miei fili
quasi fossi diventata Pinocchio senza accorgermene.
Fu
Gabriele però ad interrompere quel silenzio, senza mai abbandonare gli
occhi
dall’aggeggio che aveva in mano. «Sai, vero, che sotto quella
gradinata non c’è alcun bar?»
mi disse con ovvietà ed io diventai bianca come un lenzuolo.
Appunto
mentale per il futuro: studiare la planimetria dell’Emirates Stadium
prima di
mentire a qualsiasi membro della famiglia Sogno.
Il
risultato finale fu di tre a zero per l’Arsenal, di cui una doppietta
di
Simone. Cominciai a scendere i gradini della scalinata con un po’ di
soddisfazione, quasi avessi contribuito io stessa a giocare quella
partita.
Magari
l’allenatore avrebbe potuto assumermi come Mental-Coach.
Ed
eccoci alla fine di questa seconda parte del non capitolo!
Okay, quante mani alzate da parte degli haters perché l'ho diviso?
(*coro* IO!IO!IO!) U.U era troppo lungo, ammettiamolo.
Detto ciò, finalmente una bella partita dell'Arsenal ** ci voleva
proprio! Adesso che è re-iniziato il campionato e che mi sento proprio
nel vivo della questione, direi che ci sta a pennello!
E insomma, insomma. Sembra che la nostra Venuccia sia sempre più presa
dal bell'avvocato dagli occhi di ghiaccio ma anche Simone sta
guadagnando terreno, devo ammettere. Certo, c'è la complicità di tutto
il resto della famiglia Sogno, ma vabbé xD
Bene, ora mi rimetto ai vostri giudizi e ci ribecchiamo al prossimo
capitolo!
Nel frattempo posso rassicurarvi sul destino di Come in un
Sogno,
che trovate nell'account di _Shantel. Lei non so che fine abbia
fatto, però ho deciso di continuarla a mie spese, e concluderla. Non so
quali potrebbero essere i risultati, ma almeno ci proviamo!
Baci a tutti!
Crudelie si
nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re
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- Secret's
Blue (BlueSmoke);
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Capitolo 12 *** Capitolo 10 ***
CAPITOLO 10
Quella
notte non riuscii a dormire bene, anzi, non lo feci affatto.
Ogni
due secondi mi svegliavo e controllavo il cellulare, in attesa di un
SMS di
risposta da parte di James, ma la casella rimaneva sempre vuota.
Mi
odia.
D’altronde te la sei
cercata, o
no?
Mettici
pure il carico da undici, tu.
Sto solo facendo una
constatazione.
Passai
l’intera nottata all’incirca in questo modo, arrovellandomi il cervello
sui
motivi che mi avevano spinta a rinunciare ad una serata in compagnia
del mio
bell’avvocato. Ovviamente non ne trovai di validi.
In
compenso, il russare sonoro di Simone riusciva a penetrarmi nelle
orecchie
anche a due camere di distanza. Una cosa insopportabile. Riusciva ad
infastidirmi anche senza volerlo. E pensare che soltanto per fargli
compagnia
avevo dato buca a James. Ancora adesso mi sarei morsa i gomiti a
ripensarci.
Quel
pallone gonfiato non si meritava niente. Tanto meno la mia compagnia.
Sbuffai
fissando il soffitto e rigirandomi per l’ennesima volta sul grande
materasso a
due piazze. Di questo passo, l’indomani avrei avuto due occhiaie
talmente scure
da assomigliare ad uno zombie. Perché dovevo rendermi così ridicola
senza
alcuno sforzo?
Nessuno
ci riusciva meglio della sottoscritta, dannazione.
Scostai
le coperte e le feci aggrovigliare ai piedi del letto. Il pigiama coi
porcellini mi faceva sudare, anche se il clima rigido di Novembre
diceva il
contrario.
Ronf Ronf
Dio,
quanto rumore faceva! Com’era possibile che non lo avessi mai notato
nelle
notti precedenti? Certo, magari non avevo mai passato un’insonnia
colossale
come quella, eppure era estremamente seccante tentare di
riaddormentarsi a
forza con quel chiasso di sottofondo.
Dannato
moccioso.
Vallo a svegliare.
Certo,
così mi stacca la testa a morsi.
Allora trovati un
passatempo.
Non ho proprio voglia di dormire stanotte.
Anche
il mio caro Cervello mi remava contro, ma d’altronde come potevo
biasimarlo? Ci
era voluta un’immensa dose di stupidità per rinunciare a quella nottata
in
compagnia di Jamie, dopo che avevo desiderato tanto uscire di nuovo con
lui.
Non
lo vedevo dalla sera della cena. E del bacio.
Arrossii
e sentii ancora più caldo.
Ma
aveva i riscaldamenti a quaranta gradi centigradi? Sembrava di stare
nel
Sahara!
Mi
alzai definitivamente, rinunciando anche ad indossare le pantofole.
Raggiunsi
il timer del riscaldamento automatizzato e cercai di guardare la
temperatura.
Segnava 77.0°
Fahrenheit. Nulla più che venticinque
normalissimi gradi.
Eppure stavo
morendo.
Sbuffai infastidita
anche da quell’inutile
particolare, così decisi di recarmi in salone e accendere il
televisore, tanto
avrei passato la notte completamente in bianco. Mi rannicchiai sul
divano di
pelle bianca, immacolato stranamente – soprattutto conoscendo quel
bambino di
Simone – e afferrai il telecomando.
Alle 3.05 del
mattino non c’era assolutamente
niente.
Vidi la fine di un
tg della CNN, cercai di
sopportare i primi minuti di un vecchio film in bianco e nero datato
1950 ma
cambiai quasi subito canale, infine optai per una specie di partita in
differita. Calcio, ovviamente.
Anch’essa era molto
vecchia, infatti, i colori erano
sbiaditi e i calzoncini molto più corti di quanto ricordassi. Pensai
che quella
visione avrebbe funzionato meglio della valeriana o del sonnifero.
Posai la testa sul
cuscino e segui ciò che diceva il
telecronista.
Non mi ero accorta
che il fastidioso ronfare s’era
acquietato.
«Che
cavolo fai?» disse una voce cupa e
assonnata alle mie spalle.
Mi voltai scorgendo
un Simone insonnolito che si
grattava la testa, con gli occhi ridotti a fessure.
«Non
riesco a dormire,» ammisi.
In fondo era la
verità.
Lui grugnì
infastidito, sedendosi sul bracciolo e
stropicciandosi un occhio. «Allora hai deciso di non
far dormire
nemmeno me, eh?»
Lo fissai di
sbieco. «Se
fosse stata quella l’intenzione,» gli dissi sbadigliando.
«Saresti
sveglio da molto più tempo.»
Sì, era suonata
proprio come una minaccia, ma non
m’importava. Lui aveva contribuito alla mia insonnia col suo ronfare ed
io
avrei contribuito alla sua. Ben gli stava.
«Tsk,»
soffiò. «Fammi spazio,
rompicoglioni.»
Stava contribuendo
a farmi incazzare, davvero. Alle
tre del mattino non poteva – non era umanamente
possibile – comportarsi da coglione come faceva lui.
«Fottiti,»
gli risposi, rimanendo dov’ero.
Lui mi fissò
dall’alto del bracciolo del divano (e
ovviamente del suo metro e novanta). Aveva ancora gli occhi socchiusi,
ma il
suo aspetto stravolto mi fece un effetto davvero strano.
«Non
abbassi mai la guardia, eh? Manco a st’ora?» ridacchiò, alzandosi e
facendo il giro del tavolinetto per sedersi dalla parte opposta.
Rannicchiò sul
divano quelle sue chilometriche gambe, invadendo, come suo solito,
anche il mio
spazio.
«Se
lo facessi, tu vinceresti. E non posso permetterlo,»
lo avvertii.
Il telecronista
continuava a raccontare ciò che
succedeva in campo, mentre una delle due squadre che giocavano avanzò
verso
l’area di rigore. Sentii Simone sghignazzare.
«Com’è
che ti vedi la finale di Coppa d’Inghilterra del ’72?»
chiese, sbadigliando di nuovo, come un gatto.
Scrollai le spalle
e posai di nuovo la testa contro
il bracciolo. Cercai in tutti i modi di non sfiorarlo con la punta dei
calzini,
ma mi era quasi impossibile. Le gambe di Simone erano talmente lunghe
che
inevitabilmente s’intrecciavano alle mie, tozze e piccole.
«Non
c’era nient’altro,» bofonchiai.
Simone allora
allargò le braccia e le dispose lungo
tutto lo schienale del divano, spaparanzandosi alla bell'e meglio. «’Sta
partita me l’ha sempre raccontata zio. È stata una delle più memorabili
dell’Arsenal.»
Ipotizzai che lo
zio a cui si riferiva fosse il
padre di Leotordo, visto che a Mr. Sogno senior non andava molto a
genio che
Simone giocasse. Chissà perché, poi.
«Mh,
interessante,» sbadigliai.
«Non
te ne frega niente, immagino.»
«Ma
no! Cosa dici? Il calcio è il mio mondo, non vivo senza di lui,»
esclamai sarcastica.
Simone mi fissò di
traverso. «Sei
davvero stronza.»
«E
tu sei un bambino,» gli risposi.
Nessuno dei due
parlò per il successivo quarto
d’ora. Soltanto il rumore della televisione riempiva il salotto.
Lentamente
sentii le palpebre farsi più pesanti, come se quel brusio del
telecronista in
sottofondo riusciva a conciliarmi il sonno.
Cercai di rimanere
sveglia, almeno per non
addormentarmi sul divano. Ero a pochi centimetri da Simone, così alzai
lentamente la testa per sbirciare cosa facesse.
Soffocai una risata
quando gli vidi il capo
completamente abbandonato sullo schienale del divano, con la bocca
aperta, il
rivolo di bava che gli colava ad un angolo e un russo lievemente
accennato.
Aveva posato le
lunghe gambe sul tavolinetto di
fronte al divano e se la dormiva della grossa.
Forse quando
dormiva era uno dei rari momenti in cui
sembrava tenero, per non dire
normale. Inoltre, in quella strana posa pareva ancora più piccolo di
quanto
sembrasse.
Cercai di
allungarmi per prendere il telecomando e
spegnere il televisore, ma mi arresi quando constatai che era troppo
lontano.
Ormai avevo i piedi incastrati sotto il sedere di Simone ed erano
piacevolmente
caldi.
Ti
rendi conto di cosa hai
appena pensato?
Misi a tacere il
mio cervello con un sonoro
sbadiglio. Grazie a quella partita riuscii a prendere finalmente sonno
e perciò
decisi di non pormi troppi problemi.
Almeno l’indomani
mi sarei risparmiata delle
tremende e nerissime occhiaie.
Una lama di luce
filtrò dalle tende mal tirate,
colpendo in pieno il mio viso. Cercai di girarmi da un’altra parte,
riprendendo
sonno, ma non c’era verso di far scomparire quel raggio di sole
fastidiosissimo.
Avevo ancora la
testa pesante, come se avessi preso
la più colossale sbornia – e in vita mia era successo solo una volta, a
Cambridge, durante il master. Ero una ragazza seria, io.
Poi sentivo un
forte peso sullo stomaco, quasi come
quella volta in cui il gatto scemo di Robbeo, Scorreggia,
mi si era acciambellato sulla pancia e ronfava beato.
Ero stata una settimana con la respirazione corta, perché nel sonno non
mi ero
accorta del felino.
Presi una lunga
boccata d’ossigeno e spalancai gli
occhi, focalizzando bene dove fossi.
Ricordavo vagamente
cos’era successo la sera prima,
ma fui disturbata subito dal rumore del televisore. C’era una
televendita di
coltelli, una cosa che nessuno si sarebbe mai comprato a meno che non
fosse un
appassionato di cucina. E quello non era il mio caso.
Mi ero addormentata
in soggiorno, sul divano, e il
forte mal di schiena provava quanto fosse scomodo quel luogo per
addormentarsi.
Cercai di alzarmi
per spegnere l’apparecchio, quando
riuscii ad issarmi sui gomiti e scoprii cosa fosse la fonte di quel
peso che
sentivo alla bocca dello stomaco.
Sbattei le palpebre
un paio di volte, giusto per
essere sicura prima di urlare.
Mi ritrovai davanti
agli occhi un ciuffo folto di capelli
scuri, castano scuro per la precisione, completamente arruffati. Trovai
conferme dei miei sospetti, quando mi sporsi lievemente più di lato,
vedendo
Simone completamente assorto in una dormita di quelle da neonato di due
settimane.
Okay,
calma. Non ti
agitare, Ven, o ti parte un embolo.
Non sapevo come, ma
durante la notte, tra uno
spostamento e l’altro, io ero finita a pancia all’aria, con la testa
sul
bracciolo del divano e un principio di scoliosi, mentre Simone a pancia
sotto,
con il suo testone sul mio povero stomaco e le braccia ciondolanti.
Fra tre centesimi
di secondo, urlo.
Così
chiameranno la
polizia, genio.
In tutto quel mio
trambusto mentale, Simone
continuava a dormire ignaro e beato, strofinando sempre di più quel suo
capoccione sui miei poveri addominali (scesi, perché non avevo
addominali).
Alzò una di quelle
pale che aveva al posto delle
mani e la infilò, senza nessuna remora, sotto la mia maglietta del
pigiama.
Quella fu la goccia
che fece traboccare il vaso.
Afferrai il cuscino
che avevo sotto la testa, mi
assicurai di prenderlo per la zip, in modo da non rompergli di nuovo il
naso, e
cominciai a colpirlo con forza, urlando maniacopervertitobastardo!
senza mai fermarmi.
Simone si svegliò
di soprassalto, sotto una valanga
di cuscinate. «Fe... ma che... porca
putt...!»
disse, cercando di parare i colpi.
Continuai ad
infierirglieli senza ritegno. «Ferma!»
urlò, tentando di bloccare la mia furia omicida. «Li
mortacci tua…»
Alla fine riuscì ad
afferrarmi entrambi i polsi e a
stringerli in una presa ferrea. Tentai più volte di strattonarli ma non
ci
riuscii.
Mi teneva bloccata,
in ginocchio sul divano, con i
polsi sopra la testa. Sottostavo al suo sguardo a metà tra l’irato e
l’assonnato. Con la mano libera si stropicciò un occhio.
«Ora
mi spieghi che cazzo ti è preso!» ringhiò infastidito.
Ridussi gli occhi a
fessure, intenzionata a
fargliela pagare. «Lasciami,» gli intimai.
Simone sbuffò in
una risata. «Se,
così riprendi a picchiarmi. Non sono così stupido.»
«Sicuro?»
lo schernii.
Ora fu il suo turno
di linciarmi. Se ne stava
immobile, tenendomi ferma soltanto con una mano. La sua presa era di
ferro. Non
mi ero mai resa conto di quanto fosse alto e... grosso. Se
riusciva a
bloccare ogni mio movimento soltanto con una mano, chissà di cos’altro
sarebbe
stato capace.
«Ti
sei
svegliata con il pepe ar culo?»
ringhiò frustrato. «Cazzo,
sei proprio svitata!»
Eh
no! Adesso esagerava!
«Io?
Ma se mi
stavi molestando?»
gli urlai addosso.
Lui
fece una faccia piuttosto perplessa, poi sgranò quegli enormi occhi
scuri. «Ma se mi sono
soltanto addormentato!»
si giustificò ridendo.
Alla
fine mi lasciò andare e si alzò, raggiungendo la cucina. «Sei
proprio
una frustrata, fattelo di'. Avresti proprio bisogno di una sana, lenta,
appagante scopata.»
Infastidita
da tutta quella sua leggerezza nel trattare la questione, lo seguii
puntellando
i piedi sul pavimento. «Ripeterlo
non ti darà ragione!»
gli urlai addosso. «E
poi sei proprio fissato col sesso. Ci sono altre cose al mondo, sai?»
«Tipo
l’avvocato?»
mi schernì.
Senza
pensare gli diedi corda. «Tipo
l’avvocat… ehi!»
protestai subito dopo, capendo che stava parlando di Jamie.
Lo
vidi cominciare a sghignazzare mentre afferrava i suoi cereali. Odiavo
quando
riusciva a spuntarla, soprattutto perché non c’era mai riuscito nessuno
con la
sottoscritta. Nei dibattiti ero infallibile.
«Ti
ha dato
buca ieri sera, eh? Ed ora ti scaldi tanto perché ti sei svegliata con
un uomo tra le gambe. Dovresti esserne
contenta,»
asserì, associandosi al famoso uomo della frase.
Lo
avrei fucilato. Se non era oggi, sarebbe stato domani. Era solo
questione di
tempo.
«Ma
ti senti?
Sei proprio un marmocchio con l’ego ingigantito. Non ti passa nemmeno
per il
cervello che io non sia minimamente attratta da te? Che magari qualcuna
possa
respingerti? Che finalmente tu prenda la batosta che ti meriti?»
Bugia.
«No,»
rispose.
«E
allora come
spieghi il fatto che non mi fai alcun effetto?» gli
chiesi beffarda. Avevo
ragione, punto.
Simone
si versò i cereali nella tazza e vi aggiunse del latte. «Sei
lesbica,
ecco perché. Ho visto con guardi mia sorella!» e mi
puntò il cucchiaio contro.
Idiota.
Strinsi
le mani a pugno e cercai di non strozzarlo con le mie stesse mani. Lì,
seduta
stante. Lo avrei ammazzato di botte un giorno o l’altro. Mi faceva
prudere le
mani.
Mi
avrebbe mandata al manicomio.
«Ti
odio,» mormorai,
fissandolo seria. «Giuro
che quando tutto questo finirà non vedo l’ora di andarmene e
allontanarmi il
più possibile da te. Aria.»
«Nessuno
ti
costringe a stare qui,»
insistette lui.
Puntellai
le mani sui fianchi. «Ah,
sì? Così saresti libero di trombarti tutto quello che si muove, eh?»
Simone
trangugiò una cucchiaiata di cereali. «Non
proprio tutto quello che si
muove. Gli elettrodomestici non li ho ancora ingravidati.»
Scossi
la testa sconsolata. «Quanto
sei stupido.»
«Acida.»
Mi
allontanai per dirigermi in bagno e prepararmi per andare in ufficio. «Moccioso.»
«Gnappa.»
«Scemo.»
«Vecchia.»
«Dio,
quanto
ti odio!»
sbottai.
Simone
mi guardò sghignazzando, affacciato alla porta del bagno con la tazza
di
cereali in mano e le pantofole a forma di ippopotamo. «Sei
sexy
quando imprechi.»
Implosione
di Venera tra due secondi.
«Sì?
E sono sexy
quando ti lancio questo?»
gli ringhiai, afferrando la saponetta e centrandolo in fronte.
Dopodiché
il resto fu solo una guerra.
In
ufficio ci arrivai con un diavolo per capello, e non in senso
metaforico. Avevo
il caschetto stravolto. Più tentavo di pettinarlo da una parte e più
l’altra
schizzava verso il cielo quasi fossi passata in un campo di elettricità
statica.
Tutta
colpa di Simone che aveva cominciato a schizzarmi l’acqua del lavello
addosso,
inumidendoli. Non che il tempo di quel lunedì mattina aiutasse.
Oltre
quel flebile raggio di sole che mi aveva svegliata, non c’era stato più
nulla.
Né sole, né cielo, ma solo una densa, impenetrabile coltre di nubi
grigie e
minacciose. Novembre stava dando il peggio di sé in quella stagione e
non osavo
pensare cosa sarebbe successo a Natale.
«Sono
ritornati gli anni ’80 forse? La disco-music?»
ironizzò Yuki, non appena mi
vide.
Mi
limitai a ringhiarle contro mentre mi toglievo il mio cappotto a doppio
petto.
Cercai con lo sguardo la presenza di James e mi sentii parecchio
nervosa.
Di
cosa, poi?
Era
lui che non mi aveva più risposto dopo il messaggio della sera prima. Dopo che gli avevo dato buca per fare da
babysitter a quel moccioso. Eppure era come se mi sentissi
profondamente in
colpa.
Non sei completamente
innocente,
agnellino.
Mi
ricordò il mio Cervello. In effetti, col senno di poi, mi sentivo
davvero una
stupida ad aver rischiato di mandare all’aria quella pseudo-storia che
sarebbe
potuta nascere tra me e Mr. Abbott nella freddezza di quella città e di
quell’ufficio.
Se
fossi stata in James, mi sarei lasciata da sola. Anzi, avrei chiesto il
trasferimento.
Intravidi
Mark, un giovane tirocinante come me, nei corridoi. «Hai
visto Mr.
Abbott?»
gli domandai, col cuore in gola.
È emigrato in Antartide pur
di
non vedere la tua brutta faccia.
Lui
scrollò le spalle. «È
andato ad una riunione stamattina,» rispose, indicandomi l’ufficio
di Abbott senior, però.
Sorrisi
imbarazzata. «Non
lui,»
sospirai. «L’altro
Abbott.»
Cercai
di non far cogliere a Mark la punta d’imbarazzo nella mia voce, anche
perché
nessuno in ufficio doveva sapere nulla di ciò che era successo tra noi
due. Di
certo, se avessi continuato a comportarmi in quel modo e a dargli buca,
non ci
sarebbe stato niente da nascondere.
«È
arrivato
stamattina presto. Sta in ufficio da allora, non è ancora uscito.»
Brutto
segno. Bruttissimo.
«G-Grazie,»
risposi e lo
lasciai proseguire.
Ora
avrei avuto davanti a me due possibilità: rimanermene in disparte,
senza far
nulla, e sperare che prima o poi sarebbe stato lui a cercarmi – se
veramente gli
importasse qualcosa di me –, oppure prendere il toro per le corna e
affrontare
la situazione.
Venera
Donati prendeva di petto ogni avversità.
Mi
incamminai verso l’ufficio di James, indugiando di fronte alla porta di
legno
scuro e posando una mano sul pomello. Ripensavo ancora a quanto fossi
stata
stupida a rinunciare a quella serata con lui e mi diedi mentalmente
dell’idiota.
Ero
fatta per stroncare le storie sul nascere. Avrei potuto vincere un
premio per
quello, se mai fosse esistito.
Campionessa mondiale di
storie
mandate a puttane!
Alla
fine mi feci coraggio, in fondo non mi ero mai tirata indietro da
nulla. Se
James avesse troncato tutto, tanto meglio, avrei potuto concentrarmi
unicamente
sul lavoro e nient’altro. La pseudo-storia con lui era stata unicamente
una
gratifica.
Mi
preparai a bussare alla porta, quando sentii l’anta dell’ufficio di
Abbott
Senior spalancarsi. Il capo canuto del mio boss fece capolino,
inquadrandomi
subito.
«Miss
Donati?»
«Si?»
Mark
aveva detto che Abbott era in riunione, cosa mai voleva dalla
sottoscritta?
Avrà saputo di me e James? Chi mai avrebbe potuto dirglielo? Che razza
di spie
c’erano in ufficio? Eravamo forse stati pedinati?
Sarò
licenziata, me lo sento.
«Vorrei
vedere
te e James nel mio ufficio, tra poco. Va bene?» mi
disse ed io annuii quasi
meccanicamente. «Potresti
chiamarlo?»
«C-Certo
Mr.
Abbott,»
dissi.
Almeno
avrei avuto una scusa plausibile per entrare nell’ufficio di James.
Sarei
voluta sprofondare.
Il
mio capo mi sorrise e si chiuse la porta alle spalle, tornando alla sua
riunione. Il pericolo non era ancora passato. Sentivo come la strana
sensazione
che August Abbott sapesse qualcosa. Non potevo rischiare di perdere il
lavoro
quand’ero così vicina all’incontro preliminare con quel bastardo di St.
James.
«Che
ti ha
detto August?»
mi chiese Yuki con quella sua irritante vocetta.
Scrollai
le spalle. «Non
ti riguarda.»
Già
dovevo litigare in privato, a casa, con quel marmocchio di Simone. Ci
mancava
anche la sua copia malvagia e al femminile. Yuki era una zecca, una
pulce che
continuava a succhiarti il sangue fino a lasciarti priva di sensi.
«Aria
di guai
in vista, eh?»
insinuò, infastidendomi più del dovuto.
Mi
voltai verso di lei e la fissai come si guarda un tacchino pronto per
lo
spiedo. «Dove
vuoi arrivare?»
Lei
scrollò le spalle e si tolse dalla spalla i lunghi capelli corvini. «Nulla…» e
lasciò la
frase volutamente in sospeso.
A
quel punto avrebbe dovuto vuotare il sacco. «No,
spiegati.»
Sentii
dei passi dall’altra parte della porta, nell’ufficio di James. Non ci
badai.
Dovevo sapere se quella piccola strega giapponese sapesse troppo.
Lei
ridacchiò e mi fissò assottigliando lo sguardo. «Sai
cosa si dice in giro…» mormorò,
senza aggiungere altro.
Ecco,
lo sapevo! Come avevano fatto a capire tutto? Come facevano a sapere di
me e
James quando eravamo stati così attenti!
Ci
eravamo visti solamente sabato sera, in un luogo abbastanza poco
frequentato da
quelli dell’ufficio. Eppure eravamo stati smascherati. Se quella voce
di
corridoio avesse preso piede, sarei stata messa alla porta alla
velocità della
luce.
«Parla
chiaro,
Yuki,»
la minacciai.
Lei
mi si avvicinò sbatacchiando sul parquet quel suo vertiginoso tacco
dodici.
Indietreggiai con il busto, ma lei riuscì comunque a raggiungere il mio
orecchio.
«Sappiamo
di
te e il calciatore. Non appena avrò qualche notizia in più, sarai
fregata. Non
si possono intrattenere rapporti coi clienti. Articolo 18, paragrafo 3
della
circolare passata in ufficio,»
mi sussurrò, andandosene successivamente e lasciandomi impalata e
interdetta
davanti alla porta di James.
E tu che pensavi…
…che
scema che sono stata.
Cominciai
a sghignazzare senza rendermene conto. Quella cretina di Yuki, insieme
agli
altri tirocinanti deficienti e figli di papà avevano creduto sin
dall’inizio
che io me la intendessi con Simone. Che scemi.
Quei
polli avevano preso un granchio enorme ed io avrei potuto tirare
finalmente un
sospiro di sollievo.
D’improvviso
sentii la maniglia della porta scattare e mi voltai di riflesso.
Ovviamente
andai a sbattere contro James che sussultò sorpreso.
Era da un po’ che non facevi
figure di merda, giusto?
Indietreggiai
mortificata. «Scusami,» dissi,
riprendendomi quasi subito. «Stavo
per venire a chiamarti.»
Cercai
di incrociare lo sguardo di Jamie, almeno per leggere attraverso il suo
sguardo
se fosse o meno infuriato con la sottoscritta. Aveva tutte le buone
ragioni per
esserlo.
Non
vi lessi nulla. Era imperturbabile.
Cominciai
davvero a temere di aver compromesso anche il nostro rapporto
lavorativo, non
solo quello sentimentale.
«Stavi
origliando per caso?»
chiese serio.
Deglutii
a fatica e mi affrettai a dissentire. «No!
Stavo parlando con Yuki qui
fuori. Tuo zio ha detto che vuole vederci nel suo ufficio più tardi,
stavo
venendo a dirtelo.»
…e a dirti che mi dispiace
averti dato buca ieri sera.
James
si limitò ad annuire. «Sicuramente
vorrà metterci in guardia per l’incontro preliminare di giovedì.»
Avevo
completamente rimosso che quella stessa settimana avremmo riunito le
due parti.
Finalmente avrei visto questa famigerata Miss Cloverfield e il viscido
St.
James.
L’avvocato
continuò a rimuginare. Sembrava scortese interrompere i suoi pensieri,
ma
presto o tardi avrei dovuto sapere il motivo per cui non mi aveva
richiamata.
Era
stata tutta colpa mia. Anzi, tutta colpa di quel deficiente di Simone.
«Senti
James…» tentai di
dirgli, anche se momentaneamente il mio Cervello era in sciopero. Non
riuscivo
a trovare le parole esatte per non sentirmi in colpa e cadere
inevitabilmente
dalla parte del torto.
Sei in torto.
Lui
mi bloccò con un cenno della mano. Si guardò intorno con sospetto. «Vieni
dentro,
così parliamo meglio.»
Lo
seguii con un groppo in gola, grande quanto una noce. Era una di quelle
rare
volte in cui Venera Donati rimaneva a corto di parole. Stavolta nemmeno
tutto
il codice civile sarebbe riuscito a darmi una mano ad uscirne.
Gesù,
perché non ero andata a casa sua Domenica?
James
si chiuse la porta alle spalle e tirò le tendine. Un po’ di privacy
sicuramente
avrebbe giovato a quello che di lì a poco mi avrebbe detto.
Venera, davvero. Sono
rimasto
molto deluso dal tuo comportamento, così poco adulto. Ho sbagliato, sei
ancora
troppo immatura per me.
Immatura.
Ragazzina. Nessuno mi aveva mai additato quel soprannome.
Lo
guardai. Quegli occhi azzurri erano così limpidi che dimenticai per un
momento
il motivo per cui c’eravamo chiusi nel suo ufficio.
«Ven,
io…» cercò di
iniziare lui, notevolmente imbarazzato.
Eccolo
il momento. Adesso mi avrebbe detto che non c’era futuro per noi, che
quel
bacio dato sotto casa di Simone era stato solo uno sbaglio. Un castello
di
carte.
«Lo
so cosa
vuoi dirmi. Non ti biasimo. Sono stata proprio superficiale a
rinunciare alla
serata di ieri sera. Sono stata una sciocca. Se vuoi troncare, sono
d’accordo,» sputai tutto
d’un fiato.
Non
c’era bisogno che cominciasse a dire “la colpa è solo mia, ma noi due
non
funzioniamo. Rimaniamo amici”. Ero fino troppo stufa di quelle scuse.
Rialzai
lo sguardo e vidi Jamie fissarmi stupito. Dopo cinque secondi netti
cominciò a
ridere di cuore, tenendosi lo stomaco.
Mi
stava forse prendendo in giro?
«Sappi
che non
è divertente…»
commentai acida. Oltre il danno, anche la beffa?
Lui
allora mi fermò, prima che potessi cominciare ad insultarlo. Che fosse
il mio
capo oppure no, poco m’importava. «Davvero pensi che voglia
troncare tutto?»
mi chiese stupito.
Annuii
sempre più sospettosa. Cosa stava cercando di dirmi?
Si
avvicinò lentamente, facendomi sussultare. Avrei dovuto fidarmi, oppure
era
tutto un pretesto per umiliarmi fino alla fine? In fondo, se si fosse
vendicato, non lo avrei nemmeno biasimato.
Ero
una persona infima.
Mi
posò una mano sul capo, cominciando ad accarezzarmi i capelli. Il suo
sguardo
si addolcì di colpo ed io smisi di respirare.
Riusciva
sempre a sorprendermi, a farmi uno strano effetto. Chiunque al suo
posto mi
avrebbe mandato letteralmente a quel paese dopo quel mio comportamento
sconsiderato,
ma James si dimostrava sempre più maturo e diligente.
Lui
riusciva a prendersi le sue responsabilità, lui non s’infervorava per
un
nonnulla, non perdeva mai le staffe senza un motivo valido. Lui era
maturo.
«Figurati
se
avrei rinunciato a te così presto, spaghetti-girl,» mi
disse
sorridendo e chinandosi sempre di più. Pericolosamente.
D’istinto
chiusi gli occhi e cominciai a sentire caldo, avvolta nel mio
maglioncino di
cachemire color prugna. Non riuscivo più a fermare il cuore che sentivo
correre,
sempre più velocemente. La verità è che mi era mancata la compagnia di
James,
anzi, mi era mancato lui. Era come ritornare finalmente a casa, dopo
esser
stata catapultata in un altro mondo.
Come
Dorothy dopo essere tornata nella sua casa nel Kansas, dal mondo di Oz.
Le
sue labbra cercarono le mie, timidamente, senza alcuna invadenza. Il
suo tocco
era gentile, dolce, ma ben presto acquistò trasporto perché sentii
dentro un
forte bisogno di approfondire. Il suo profumo m’inebriava la mente, me
l’annebbiava,
così mi aggrappai con tutte le forze alla sua giacca firmata per non
cadere.
Il
mondo vorticava veloce attorno a me e mi sentivo parecchio strana. Era
da tanto
che non mi sentivo così a mio agio con qualcuno. Al college avevo avuto
i miei
flirt – rari, ma li avevo avuti – eppure era sempre venuta prima la mia
carriera nei rispetti di tutto il resto.
Ora
quella mia convinzione cominciava a vacillare.
Sentii
la sua lingua farsi spazio, timida e tentatrice, tra le mie labbra
dischiuse.
La accolsi senza timore e mi lasciai finalmente andare senza pensare
alle
conseguenze. Ci sarebbe stato tempo per quelle.
Ci
staccammo quando il fiato venne meno, ma James premette la fronte
contro la mia
e rimanemmo a fissarci negli occhi. Ritornai con la memoria a quand’era
stata
l’ultima volta che eravamo stati così vicini, e mi venne in mente quel
pomeriggio nel mio appartamento, con la febbre alta.
Sorrisi
senza quasi accorgermene.
«Che
c’è?» mi domandò
lui, curioso. «Bacio
talmente male che ti vien da ridere?»
Scossi
la testa. «No,
scemo,»
ridacchiai. «Ripensavo
a quel pomeriggio nel mio appartamento, quando per colpa di Simone e
del suo
stupido allenamento mi ero beccata l’influenza.»
Tirare
in ballo il calciatore in quel momento non fu una mossa abbastanza
furba.
Lo
sguardo di James deviò dal mio. Si andò a sedere su una delle due
poltroncine
per gli ospiti, di fronte alla sua scrivania.
Si
picchiettò sulla gamba e m’invitò a sedermi. Era una cosa che
m’imbarazzò
subito, perché introduceva un livello d’intimità che ancora non avevamo
raggiunto.
Decisi
che in quella sarebbe stata la giornata del chissenefrega.
Mi sedetti sulla gamba sinistra di James e tornai a guardare i suoi
occhi. Ero
stata proprio stupida a tirare in ballo Simone. Volente o nolente, quel
moccioso riusciva sempre a rovinarmi i piani.
«È
stato in
quel momento che ho capito che provavo qualcosa nei tuoi confronti, Ven,» disse
lui
all’improvviso.
Rimasi
a corto di parole, di sensazioni, di tutto. Mi sentii completamente
vuota. Era
sbagliato farsi strane idee, era inconcepibile che cominciassi già
adesso a
pensare il meglio di lui, ma tutto sembrava così perfetto.
«Quindi
non
sei arrabbiato per l’altra sera?» gli chiesi.
James
mi sorrise. «Certo
che no,»
mormorò tranquillo. «Sono
sicuro che hai avuto i tuoi problemi.»
Veramente
era un solo problema, unico. E aveva anche un nome: Simone.
«E
perché non
hai risposto ai miei SMS?»
gli domandai di getto.
Ci
ripensai quasi subito, anche per il tono di voce preoccupato che avevo
assunto.
Parevo già una fidanzata gelosa sull’orlo di una crisi isterica.
L’avvocato,
però, parve gongolare.
Mai farsi vedere così
coinvolte
di fronte ad un uomo. Devono sempre rimanere sulle spine.
Errore
da principiante, davvero. Forse l’aver lasciato perdere le relazioni
sociali in
favore del master in Diritto Internazionale non era stata una così
brillante
idea.
«Si
era
scaricato e non so per quale motivo il carica batterie non voleva
funzionare.
Ho dovuto usare quello in ufficio stamattina,» e mi
indicò il suo Blackberry
in carica sulla scrivania.
Avrei
voluto cominciare a ridere istericamente, ma preferii rinunciare. Mi
ero
proprio comportata da fidanzata gelosa e avevo fatto la figura della
ragazzina
immatura, visto e considerato che era stata la sottoscritta a dargli
buca.
Mi
spostai nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Già.
Devo
proprio esserti sembrata una stupida in questo momento,» gli
confessai.
Alzai
lo sguardo solo per incrociare i suoi occhi turchesi. «Non
sono mai
stata così.»
James
sorrise teneramente. «Sono
contento di essere il primo.»
In
quel magico ed idilliaco momento, il cellulare che avevo nella tasca
comincio a
vibrare e la suoneria dei Queen riempì il piccolo studio di James.
«Scusami,» gli
dissi,
afferrandolo al volo dalla tasca dei pantaloni eleganti e leggendo il
nome sul
display.
Moccioso. Era
la parola che continuava a lampeggiare ininterrottamente. Spinsi il
pulsante
rosso e lo ignorai bellamente. Poteva sopravvivere anche senza la
sottoscritta,
inoltre noi avremmo dovuto incontrare Mr. Abbott di lì a pochi minuti.
Jamse
scosse la testa. «Potevi
rispondere,»
mormorò.
Gli
sorrisi di rimando e cercai nuovamente le sue labbra. «Non
era
importante.»
Ci
unimmo in un bacio casto. Avevamo soltanto bisogno di contatto fisico,
di
colmare quella distanza che c’era stata tra noi in quei giorni.
Sentire
il calore di un corpo con l’altro.
Di
un respiro caldo.
La
carezza di capelli morbidi e setosi. Scuri come l’ebano.
Come quelli di Simone.
Mi
staccai di colpo sentendo il pomello della porta scattare, così mi
alzai in
piedi più veloce di un fulmine e cercai di spiaccicarmi contro la
parete alla
velocità della luce.
Dalla
porta dell’ufficio di James fece capolino la segretaria di Mr. Abbott,
Lucy.
«Il
signor
August vi sta aspettando,»
ci disse sorridendo, rivolgendo uno sguardo sin troppo languido al
giovane
avvocato.
«Arriviamo
subito,»
rispose lui, diplomatico.
La
porta si richiuse alle sue spalle ed io tirai un sonoro sospiro di
sollievo. «C’è mancato
poco,»
soffiai, con il cuore che mi batteva a mille.
James
sorrise. «Quella
telefonata ci ha salvati,»
ridacchiò.
Per
una volta concordai con lui e dovetti ricredermi su Simone. Il suo
essere
fastidioso a volte ci tornava utile.
Mi
premurai di ringraziarlo quando sarebbe venuto il momento.
James
si alzò e mi fece cenno di seguirlo. «Pronta
ad affrontare la carica
di zio August? È sicuro che vorrà metterci in guardia su St. James,» mi
assicurò
sorridendo e sfiorandomi la mano.
«Sono
pronta,» dissi, sicura
di me.
L’ufficio
di Mr. Abbott profumava di pino. Notai che in un angolo della stanza
c’era uno
di quei profumini per l’ambiente automatici ed ebbi la risposta.
Ci
fece accomodare sulle solite poltroncine antistanti la scrivania,
mentre
fissava lo sguardo fuori la finestra sorseggiando del the. Lanciai uno
sguardo
a James di sfuggita, lo feci di riflesso, senza pensare, e lo trovai ad
osservarmi.
Ormai
veniva naturale cercarci l’uno con l’altra.
Mr.
Abbott si voltò improvvisamente, così tornai immediatamente nelle vesti
di
Venera Donati, avvocato senza macchia e senza paura.
Non era un cavaliere?
È
uguale.
«Ragazzi,»
mormorò,
prendendo un altro assaggio di quella bevanda fumante e profumata. «Volevo
sapere
come vanno le ricerche in merito al caso di dubbia paternità di Mr.
Sogno,
siccome sono stato informato dell’incontro preliminare con St. James…» e
lasciò
volutamente la frase in sospeso.
Deglutii
nervosa. Possibile che quell’avvocatuncolo da strapazzo riusciva a
mettere
pressione anche ad un grande uomo come uno dei fratelli Abbott?
James
parlò per primo. «Abbiamo
fatto un’indagine iniziale, interrogando i testimoni che quella sera
erano
presenti al bar e cercando conferme su orari e date,»
disse,
tirando fuori dalla cartellina un foglio con degli appunti. «Per
ora segue
la deposizione di Mr. Sogno, alla perfezione. Contiamo di proseguire da
questo
punto di vista ma ne sapremo di più solamente quando incontreremo
l’accusa.
Inoltre siamo intenzionati a richiedere il Test di paternità... Non
abbiamo
nulla da temere da St. James.»
Mr.
Abbott annuì pensieroso. Prese un lento sospiro, poi si sedette alla
scrivania
e rivolse quei grandi occhi azzurri verso di me. Un lungo brivido mi
corse
lungo la spina dorsale.
«E
lei cosa
dice, Miss Donati? Ha ragione di credere di dover temere qualcosa da
questo
famigerato e giovane avvocato? Secondo lei cosa vuole Miss Cloverfield
dal suo
assistito?»
mi chiese.
Premettendo
che in quel lungo e angosciante week-end non avevo minimamente dato uno
sguardo
agli appunti e non mi ero occupata per nulla del caso, troppo impegnata
a star
dietro a James e a Simone contemporaneamente, cercai di fare mente
locale.
In
fondo, ero pur sempre una ragazza dalle doti brillanti.
E dalla bellezza nascosta.
Smettila!
Mi
schiarii la voce, giusto per riordinare un po’ le idee. «Mi
trovo
completamente d’accordo col mio collega James,»
iniziai, indecisa se appellarlo
col nome di battesimo oppure col cognome. Sorvolai. «A
parer mio
non possiamo fare più di così per ora, dobbiamo necessariamente
aspettare
questo incontro preliminare e registrare cosa vogliono le parti.
Sicuramente
Miss Cloverfield ha le idee ben chiare, ecco perché si è avvalsa di Mr.
St.
James, ma le assicuro che non ha nulla da temere. James Abbott è
egualmente
valido.»
Suonava
più come un elogio che come una vera e propria risposta alla domanda di
Mr.
Abbott, ma me la feci andare bene. Non ero ancora in grado di mandare
indietro
il tempo.
Per ora.
Mr.
Abbott continuò a fissarmi con un’espressione riflessiva in volto.
Chissà a
cosa stava pensando.
Forse
al modo per licenziarmi. Magari ero stata fin troppo gentile nei
confronti di
James e il vecchio sospettava qualcosa.
L’hai appena chiamato
vecchio.
È
vecchio. Ho detto solo la verità.
Infine
sorrise. «Ho
fatto proprio bene ad accoppiarvi. Sembrate molto affiatati e sicuri di
voi. Lo
studio ha proprio bisogno di una coppia così affiatata e non vedo l’ora
che mi
diate il resoconto dettagliato dell’incontro con St. James.»
Cercai
di nascondere il rossore per quell’affermazione abbastanza ambigua. Se
Mr.
Abbott avesse saputo che il nostro non era solo un rapporto lavorativo,
ero più
che sicura che non sarebbe stato dello stesso avviso.
«Venera
è un
avvocato straordinario,»
disse d’improvviso James, guardandomi e sorridendo.
C’era
qualcosa di profondo dentro i suoi occhi, qualcosa che mi fece
d’improvviso
battere forte il cuore. Non era semplice attrazione fisica quella che
sentivo,
o almeno non la stessa che percepivo all’inizio. Era come se quel
nostro strano
rapporto evolvesse man mano che il caso di Simone prendeva piede.
Ad
interrompere quel momento idilliaco ci pensò la mia suoneria dei Queen
che
riempì il silenzio di quell’ufficio profumato. Avvampai per
l’imbarazzo, per
essere stata talmente sciocca da non spegnere il telefono o almeno
mettere la
vibrazione, così mi affrettai a prenderlo per poi tentare di
disattivarlo.
Mi
bloccai quando lessi di nuovo il nome di Simone sul display.
Ma
cos’era, una persecuzione per caso?
«Lo
spengo
subito!»
dissi in preda al panico, rivolta a Mr. Abbott.
Pregai
che James non avesse avuto la vista talmente lunga da capire chi era
l’autore
di tutte quelle telefonate. Maledetto marmocchio.
«No,
prego.
Faccia pure. Sarà sicuramente importante,» e mi
sorrise bonario.
Nei
suoi occhi azzurri rividi per un attimo quelli di James. Alla fine il
“vecchio”
era una persona davvero speciale e ne tenni conto.
«Avanti,
rispondi,»
aggiunse invece il giovane avvocato, lapidario.
Okay,
aveva letto il nome sul display. Dannata vista di falco.
«Si
tratta di
Mr. Sogno. Ormai ha un rapporto davvero unico con la nostra Venera,»
confessò in
un attimo di follia.
Se
prima mi aveva dato modo di pensare bene di lui, che fosse un ragazzo
maturo e
in pieno possesso delle proprie facoltà mentali, mi sbagliavo di
grosso. Avrei
dovuto aspettarmelo, in fondo era pur sempre un uomo.
Mr.
Abbott fece una faccia sorpresa. «Allora risponda, presto!» mi
incitò
compiaciuto.
Alzai
gli occhi al cielo, pregando che quel decerebrato di TermoSifone non
avesse
l’accortezza di gridare come un Gibbone durante la stagione degli
amori. La
stanza era talmente silenziosa che qualsiasi conversazione si sarebbe
udita
perfettamente.
Mi
voltai verso la porta, tanto per avere l’impressione di tenermi un po’
di
privacy.
Effimera
illusione.
«Che
vuoi?» chiesi.
Avrei voluto aggiungere l’appellativo “cazzo” a quella domanda appena
ringhiata, ma non mi pareva il caso di fronte al mio capo e al mio
collega/ragazzo geloso.
Dall’altro
capo del telefono sentii uno sbuffo annoiato. «Era
ora che rispondessi, cazzo.» Il “cazzo”
lo aveva aggiunto lui alla fine. Bene. «Sono
tre ore che provo a
chiamarti, manco fossi Obama.»
Feci
appello a tutto il karma del mondo, anche a quello del Dalailama in
persona pur
di non frullare il telefono fuori dalla finestra. Perché? Cosa avevo
fatto di
male per meritarmi un deficiente come Simone?
«Senti,
come
devo ripetertelo che io lavoro? Non lo capisci che sto in ufficio, che
non
posso rispondere sempre al cellulare e starti dietro? Non. Sono. La.
Tua.
Schiava. Ficcatelo in testa!»
ringhiai, poi sentii un tossicchiare alle mie spalle.
Forse
l’ultima frase mi era uscita un po’ come una minaccia. C’era Mr. Abbott
che
fissava allibito il nipote chiedendo spiegazioni.
Dannazione.
Sicuramente
stava pensando che ero una pazza maniaca, una decerebrata con una
doppia
personalità e che trattavo i nostri clienti a pesci in faccia!
«Certo
che sei
sempre così acida? Non ti stanchi mai? Sai che ti verranno le rughe tra
qualche
anno. Così sembrerai ancora più vecchia di quanto tu non lo sia già.»
Stupido
moccioso. Avrei volentieri chiuso la comunicazione già da tempo, ma
avevo gli
occhi del mio capo e quelli di James incollati addosso.
«Senta,
Mr.
Sogno, cosa desidera di così importante da me per chiamarmi a
quest’ora? Sono
in riunion,»
dissi, per quanto cordiale potessi sembrare.
Mr.
Abbott sicuramente pensava che soffrissi di doppia personalità.
«Ma
te sei
bevuta il cervello?»
sghignazzò Simone dall’altro capo del telefono.
«Insisto.
La
prego di dirmi cosa desidera,»
sibilai.
Intanto
le risate non finivano più. «Ma
ti senti?»
e rideva come un pazzo. «“La
prego di dirmi cosa desidera”,»
mi fece il verso. «Nemmeno
fossi una di quelle promozioni telefoniche. Ah! Ah! Ah! Oddio, Ven, se
fai
così, ti chiamo tutti i giorni!»
La
mia pazienza era arrivata ad un limite irragionevole. Un conto era
sottostare
alle sue angherie, ai suoi capricci da moccioso di cinque anni,
un’altra era
farsi deridere in quel modo. Non mi sarei mai fatta mettere i piedi in
testa da
nessuno, che fosse un uomo adulto o un ragazzino. Poco importava.
Mi
rivolsi a Mr. Abbott e a James, cercando di mantenere la calma. «Credo
che
andrò qui fuori, è una questione piuttosto importante,»
sussurrai e
i due annuirono.
L’importanza
era solo il come farla pagare a quel deficiente di Simone.
Aprii
la porta dell’ufficio di Mr. Abbott e mi precipitai fuori, tenendo il
cellulare
stretto tra le mani, pronta a disintegrarlo. Non completamente a mio
agio per
riprendere la conversazione in corridoio, decisi di uscire proprio
dall’edificio e riprendere la chiamata in strada.
Almeno
mi avrebbero preso per una povera pazza sbraitante, ma avrei salvato la
mia
dignità all’interno dell’ufficio.
Così
credevo.
«Senti,»
ringhiai,
stavolta libera da ogni costrizione morale. Lo avrei umiliato. «Credo
proprio
che siamo arrivati ad un punto di non ritorno. Non ti sopporto più,
davvero.
Hai la maturità di uno scimpanzé con l’handicap e non so più cosa fare
con te.
Ti ho detto diecimila volte di non chiamarmi a lavoro, visto che ti sto
salvando il cosiddetto culo, eppure a
te non te ne frega niente. Continui a fare come ti pare e mi umili. Sei
soltanto un moccioso e non vedo l’ora che tutto questo finisca, così
posso
liberarmi di te.»
Okay,
ce l’avevo fatta. Finalmente avevo tirato fuori tutta la rabbia e mi
sentivo
più sollevata.
Attesi
una risposta da Simone. Lo avevo lasciato senza parole.
Nessuno può fronteggiarti,
Ven.
Fronteggiarci, caro
Cervello.
Improvvisamente
avvertii un rumore forte, quasi come se fosse un ciancicare sommesso,
anzi, uno
sgranocchiare. Aspettai con impazienza, anche se quel rumore non la
smetteva di
spaccarmi un timpano. Che diavolo stava facendo?
Dopo
poco lo sentii parlare. O almeno, grugnire. «Fcufa,
cofa hai deffo?» s’informo,
ingurgitando quelle che soltanto dopo capii fossero patatine.
Mi
portai una mano al viso e tentai di non andare in escandescenze. Anche
se era
fermamente impossibile visto il soggetto che avevo di fronte. Avrebbe
mandato
al manicomio anche un santo, ormai era solo questione di tempo.
«Cresci,
per
Dio!»
sbottai, poi gli attaccai il telefono in faccia, esausta.
Cercai
di fare pace col cervello e di darmi una regolata prima di rientrare in
ufficio
e prendere a morsi tutto ciò che si muoveva. Mi voltai e notai che alla
finestra dell’ufficio era affacciata Yuki che mi fissava con un
sorrisetto
sornione.
Ci
mancava solo la strega.
«Problemi
in
Paradiso?»
ridacchiò. «Il
tuo bel calciatore ti chiama molto spesso. Questi uomini sono così
gelosi…» sospirò,
sistemandosi una ciocca di lunghi capelli corvini dietro l’orecchio.
La
fulminai con uno sguardo. «Non
sai niente di me, ed è meglio che continui ad essere così.»
Era
suonata molto come una minaccia, ma lasciai correre. Yuki s’indispettì
subito
di quella mia risposta, ma sorvolai.
Ormai
quell’ufficio era diventato la mia casa, anche perché il luogo in cui
vivevo
ora non si poteva definire tale. Simone lo aveva trasformato nel suo
territorio
ed io ero soltanto la gazzella che attendeva inerme che il leone
piombasse su
di lei, con ferocia.
Salii
i gradini che conducevano all’ingresso della Abbott&Abbott, poi
spostai la
porta a vetri. Ad attendermi, nell’androne, c’era James.
Mi
si gelò il cuore a vederlo così serio. Non disse niente. Si limitò a
fissarmi
con quei suoi scurissimi occhi blu e a sospirare. Poi si voltò su sé
stesso e
si chiuse nel suo ufficio.
Le
parole non dette, a volte, erano più dolorose di un grido levato verso
il
cielo.
Simone,
ti odio. Me la pagherai.
Era
un giuramento.
***
Mi scuso per l'enorme ritardo
nell'aggiornamento, ma se siete nel gruppo delle Crudelie, saprete che
questa settimana c'è la Klaine week e ho aderito scrivendo 7 One Shot
per l'iniziativa :3
Sono molto fiera perché è la prima volta che mi butto in un fandom che
non sia Originale/Supernatural [praticamente una rarità]
Poi c'è stato l'inconveniente del pc di wife, che ha dovuto portare a
riparare, ma alla fine ce l'ho fatta! Sono riuscita a pubblicare alle
23.00 ma ce l'ho fatta! Visto che domani EFP svalvolerà un po', avete
tutto il tempo di leggere xD
Non mi dilungo troppo sui saluti, anche perché ho da recuperare il
sonno perduto, ergo vi do la buonanotte con Ven e Simo :3
Rassicuro anche chi segue CIUS, il capitolo è in fase di scrittura, a
betarlo ci si mette pochissimo. Provvederò a sbrigarmi anche lì!
Scriverò di notte se necessario >.<
Besos!
|
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Capitolo 13 *** Capitolo 11 ***
Carl
St. James era un quarantenne di bell’aspetto e di bella presenza. Aveva
un po’
di barba incolta, di quella che nel duemiladodici andava di moda come
le zeppe
negli anni Novanta. Il particolare che lo contraddistingueva di più,
però, era
lo sguardo intelligente... anzi, furbo.
Le
sue iridi, di un grigio plumbeo come il cielo di Londra d’inverno,
nascondevano
una luce che spesso e volentieri faceva venire il sospetto che sapesse
più di
quanto volesse far intendere.
James
lo squadrò da capo a piedi senza dire nulla ed io mi limitai ad
osservarlo.
Erano
passati quattro giorni dall’incontro con Mr. Abbott e finalmente era
arrivata
la fatidica data del meeting preliminare con l’accusa. Quella mattina
mi ero
svegliata con la luna storta – come ogni volta in cui avevo qualcosa di
davvero
importante da fare – e Simone aveva contribuito a rendermi la giornata
ancora
più pesante.
Quella
convivenza forzata stava diventando davvero insopportabile. Inoltre, l’
“allegra rimpatriata” con la mia vecchia classe di Cambridge si
avvicinava
inesorabile e James non ne aveva fatto più parola. Era come se avesse
alzato
una sorta di barriera protettiva tra noi due, anche se non mancava di
sfiorarmi
e di cercare ogni volta un contatto con me. Eppure lo sentivo più
distante.
Magari
ha capito che non può
competere contro il calciatore.
Ma
smettila! Non c’è proprio competizione tra lui e Simone. Quel
marmocchio
dovrebbe lustrargli le scarpe!
Non
avrei mai cambiato opinione su questo, non c’erano dubbi. Simone Sogno,
per
quanto potesse essere affascinante, bello, magnetico, dal corpo
statuario,
famoso, ricco, pieno di talento…
Stai
facendo la lista della
spesa?
Lasciai
perdere quei pensieri nel momento esatto in cui una donna alta,
chilometrica!,
fece il suo ingresso nella sala che ci era stata riservata per il
meeting.
Tutti i presenti si voltarono a fissarla, soltanto perché la sua figura
rapiva
lo sguardo.
Era
bella, e molto. Questo dovetti ammetterlo. Anche se veniva classificata
nella
categoria “giraffone dalle gambe chilometriche” non potevo negare
l’evidenza.
Indossava un paio di occhiali da sole scuri e il soprabito color panna
le
fasciava armoniosamente i fianchi esili come se fosse stato disegnato
apposta
per lei.
Che
fosse una modella, si vedeva lontano un miglio.
«Finalmente
possiamo
incominciare,»
se ne uscì St. James, accogliendo Miss Cloverfield a braccia aperte,
come se
fossero amici di vecchia data.
Se
soltanto avessero visto come la sottoscritta accoglieva TermoSifone...
Da quel
punto di vista ero poco professionale.
La
giraffona mi si parò davanti, abbassando di poco quei televisori che le
coprivano interamente la faccia incavata. Mostrò un bel paio di occhi
verdi,
maliziosi, poi sfoderò un sorrisetto da gatta morta e si rivolse a
James, con
voce melliflua.
«Piacere,
Elizabeth
Cloverfield,»
cinguettò, mangiandosi il mio avvocato letteralmente con lo sguardo.
Era
bastata una veloce occhiata per capire di che pasta era fatta quella
sottospecie di faina. Una mangiauomini, ecco
cos’era.
Non
c’era da stupirsi che fosse rimasta incinta, o almeno così dava a
credere.
Quella aveva le gambe da quando era nata.
James
le strinse la mano cordialmente. «Piacere
mio, Miss Cloverfield. Io
mi chiamo James Abbott e sono l’avvocato di Mr. Sogno,»
poi mi
indicò. «Lei
è la mia assistente, Venera Donati.»
Sorrisi
falsamente in direzione della giraffona e lei mi restituì uno sguardo
di
sufficienza.
Nel
frattempo anche St. James si avvicinò. «Noi
già ci conosciamo,»
disse rivolto
a James, ma tra quei due scaturì subito un lampo di astio. Lo sguardo
plumbeo
dell’altro avvocato si posò sulla sottoscritta. Conoscevo il suo nome
per fama,
a Cambridge era sulla bocca di tutti e così le chiacchiere avevano
costruito la
sua reputazione.
Carl
St. James era stato uno degli avvocati più brillanti della
Abbott&Abbot,
prima di fare il doppio gioco e voltare le spalle allo studio,
diventando socio
onorario della George, Vicarot and Hewit.
Un colpo basso che nessuno dei due fratelli Abbott aveva digerito.
«Molto
piacere,
signorina,»
sorrise mellifluo, porgendomi la mano. Feci per stringergliela quando
lui me
l’afferrò e ne baciò il dorso, nemmeno fossi la regina d’Inghilterra.
Con
la coda dell’occhio vidi James storcere il naso. «Vogliamo
iniziare?»
chiese,
interrompendo quel gesto.
Fu
allora che ci accomodammo attorno al tavolo in radica di noce, liscio e
lucido
come appena lavorato. La signorina Cloverfield si accomodò con
eleganza, dopo
essersi disfatta del cappotto color neve ed averlo gentilmente porto a
Carl che
lo posò sull’appendiabiti.
Qualsiasi
cosa quella giraffona facesse, sembrava studiata a tavolino e ripetuta
un’infinità di volte quasi come un saggio di danza.
«Posso
chiedervi perché il vostro assistito non è presente a questo incontro
preliminare?»
domandò mirato St. James, sogghignando con lo sguardo. Sapevo che
avrebbero
subito puntato su quello, ma avevo tentato in tutti i modi di
convincere quel
testone di Simone a venire, senza alcun risultato.
“Non
voglio rivedere
quell’arpia!”
si era impuntato il pomeriggio prima,
quando gli avevo gentilmente chiesto il motivo per cui ci dovevamo
recare al
meeting senza di lui. Avrebbe anche potuto saltare gli allenamenti per
una
volta.
«Mr.
Sogno è
momentaneamente indisposto,»
tagliò corto James, aprendo il plico con tutti i documenti relativi al
caso e
spiegandolo sul grande tavolo.
Vidi
Miss Cloverfield sorridere melliflua. «Peccato
che io
non possa utilizzare la sua stessa scusa, ormai,»
e si accarezzò distrattamente
l’addome ancora piatto.
Era
forse una frecciatina? Quella tizia mi stava già sui cosiddetti e non
era
nemmeno passata mezz’ora da quando ci eravamo conosciuti. Mi chiesi
immediatamente cosa quel caprone di Simone ci aveva trovato in quella
sgallettata sui tacchi a spillo per costringerlo a passarci una notte
insieme.
Alla
fine pensai che si trattava pur sempre di TermoSifone e mi ripromisi di
non
farmi più domande di quel genere.
St.
James sorrise alla sua assistita. «Bene,
direi di cominciare,»
sospirò,
imitando anche lui i movimenti di James e tirando fuori una cartellina
contenente i documenti. «Vi
dispiace se registro?»
ci chiese, mostrandoci l’avanzato cellulare iper-tecnologico che aveva
in mano.
Jamie
lo squadrò sospettoso. «No.
Fa' pure,»
tagliò corto.
Nei
numerosi casi che avevo studiato a Cambridge, come quello di Garrett
contro
Hamilton, non avevo mai sentito di conversazioni registrate durante
incontri
preliminari. In fondo ero lì per imparare, quindi non misi bocca.
«Oggi
18
Novembre 2012, ore 9.15 del mattino, ci troviamo nell’Hotel Hilton di
Tooley
St. per discutere del caso Cloverfield contro Sogno con gli avvocati
della
difesa,»
pronunciò con voce solenne.
Forse
mi ero persa qualche passaggio. La tattica di St. James era quella
dell’apparenza, questa era una cosa risaputa ormai nel mondo
dell’avvocatura.
Aveva vinto molte delle sue cause perché puntava ad impressionare la
giuria,
così come gli avvocati della controparte. Mirava a neutralizzare
mentalmente
l’avversario prima ancora di andare in giudizio.
«Bene,»
disse James,
rivolgendo uno sguardo nervoso al telefono/registratore. «Lo
scopo di
questo incontro è raggiungere un accordo e nel caso evitare di andare
in
Tribunale, risolvendo le discordie prima ancora di coinvolgere un
giudice. Il
mio studio rappresenta Mr. Sogno e anche se lui oggi non è potuto
essere qui,
mi ha chiesto di domandare il motivo per cui lei, Miss Cloverfield, ha
indotto
questa causa contro il mio cliente.»
Breve,
coinciso, esauriente. James Abbott era nato per fare l’avvocato, ormai
era più
che un dato di fatto. Anche semplicemente nei modi in cui si poneva,
nelle
parole più adatte che sceglieva per esporre i fatti senza lasciare che
l’accusa
desse troppo peso a vocaboli sbagliati e alludenti. Lui era legato a
questo
mondo ed io da lui potevo imparare molto.
Carl
St. James si limitò a trascrivere qualcosa su un blocco di appunti. In
seguito
si schiarì la voce e puntò i suoi occhi grigi verso di noi.
«Come
ben
sapete dalla citazione in giudizio della mia cliente, Elizabeth ha
ritenuto
opportuno intentare una causa nei confronti di Mr. Sogno per la sua
negligenza,»
iniziò,
utilizzando quel tono fastidiosamente plateale che ogni avvocato
dovrebbe
risparmiarsi unicamente per l’arringa. «La
mia cliente ha avuto un
incontro speciale con il vostro
assistito, da cui, secondo appurati referti medici, la signorina è
rimasta
piacevolmente in attesa di una benedizione del Cielo.»
Ovviamente
Carl St. James non mancò di accompagnare quelle parole finte-religiose
con
gesti che nemmeno il pastore più accanito sarebbe stato in grado di
partorire.
L’aula
di tribunale, con lui, si sarebbe trasformata in una specie di palco il
cui
ospite principale sarebbe stato proprio lui stesso. Un circo i cui
spettatori
non erano altro che una giuria sottomessa alla sua parlantina e ai suoi
modi insulsi.
«Ergo,
la mia
cliente chiede che Mr. Sogno riconosca legalmente il bambino, si assuma
tutte
le responsabilità e si obblighi a provvedere ai bisogni della madre del
bambino
per il periodo della gravidanza.»
E
dopo quelle parole rimasi completamente pietrificata.
Voleva
proprio incastrarlo per bene, eh?
James
sospirò. «Io
credo che sia più conveniente, da ambo le parti, che si giunga ad un
accordo a
metà strada. Da quanto ho capito, le intenzioni di Mr. Sogno non sono
così
chiare ed onorevoli come dite voi, inoltre, mi pare corretto e saggio
procedere
per gradi,»
disse con calma.
«Ammesso
che
questo bambino sia del mio cliente. Per cui, se avete intenzione di
procedere
contro il nostro cliente, chiederemo al Tribunale che sia eseguito il
test di
paternità,»
aggiunse poi.
Fu
in quel momento che Elizabeth, dal nulla, scoppiò in un pianto misto
tra
l’isterico e il disperato. Rimasi a fissarla con la bocca spalancata e
lo
sguardo stralunato.
«I-Io…
I-Io…»
singhiozzò,
aspettando che St. James le porgesse prontamente un fazzoletto per
asciugarsi
le lacrime. «S-Simone
mi ama… n-ne so-sono più che si-sicura…»
continuò a frignare. «Me
lo di-disse
quella no-notte, mentre facevamo l’a-amore!»
Quella
tizia era di sicuro un’invasata, c’era poco da fare.
Per
prima cosa, trovai davvero incredibile – se non impossibile – che tale
Simone
Sogno avesse mai detto le due più famose paroline del mondo ad una
tizia
semi-sconosciuta rimorchiata in un bar una sera. Secondo, poi, davvero
credeva
che il maschio italiano medio, mettendoci pure il fatto che fosse un
calciatore
senza cervello se non ai piani bassi, potesse davvero prendersi una
responsabilità del genere?
Questa
deve ancora capire come va
la vita.
Se
deve da’ una svegliata.
«Bene,
devo
dire che la mia cliente ha espresso chiaramente le sue intenzioni. La
poverina
è scossa dal rifiuto e dall’indifferenza che Mr. Sogno sta mostrando
nei suoi
confronti, ma crediamo sia più che accettabile portare a termine questo
test
del DNA,»
acconsentì St. James.
James
e io avevamo messo in conto qualche perplessità da parte dell’accusa
nell’accettare quella soluzione che avrebbe altrimenti tolto qualsiasi
dubbio
sulla paternità del bambino, eppure né St. James né Miss Cloverfield
fecero una
piega alla nostra richiesta.
Nel
frattempo, il frignare della modella stava cominciando a darmi sui
nervi.
«La
mia cliente
chiede a Mr. Sogno di prendersi le sue responsabilità e provvedere in
qualche
modo a lei e al bambino. Questa è la nostra richiesta e non torneremo
indietro,
a costo di portare questa faccenda in Tribunale.»
James
sapeva che quello voleva dire soltanto più pubblicità. I tabloid e i
giornali
ci si sarebbero attaccati come cozze ad uno scoglio e allora tenere la
faccenda
segreta sarebbe stato quasi impossibile.
Forse
era proprio questo a cui puntava Mr. Avvocato e la rinsecchita frignona
lì
accanto. Sicuramente tutta quella pubblicità avrebbe mandato la
popolarità
della biondina alle stelle, così come quella dell’impavido avvocato
difensore.
Fu
allora che mi alzai in piedi, proprio quando sembrava che l’incontro
dovesse
avere termine. Il registratore era già stato spento, così mi dissi “o
la va, o
la spacca”.
St.
James mi sorrise mellifluo, fissandomi intensamente. «Sì?»
Mi
schiarii la voce e torturai un lembo del blocco che avevo sotto mano.
Ero
nervosa, ma dovevo farmi valere soprattutto perché da quella causa ne
valeva il
mio futuro.
«Credo
che sia
prematuro parlare di richieste, quando nessuno sa ancora se il bambino
è
effettivamente del nostro assistito,»
sibilai, innervosita dallo
sguardo di Miss Cloverfield che aveva cominciato a lanciarmi saette.
Carl
St. James sembrò annaspare. «Stia
attenta,
signorina,»
mi avvertì, senza mai smettere di sorridere. «Un
conto sono le prove, un altro
sono le congetture.»
James
mi afferrò per un braccio, come a dirmi di non parlare troppo.
Purtroppo tenere
a freno la mia lingua d’avvocato era quasi impossibile.
«Dovrebbe
stare
attento lei,»
stavolta mi era uscita proprio come una minaccia. «Sa
quanti casi
di dubbia paternità si sono risolti con un semplice test del DNA? Posso
citarle
Ferguson contro Gibbott, Lawrence contro Mc.Hardy, se vuole posso
continuare
all’infinito…»
e lasciai volutamente la frase in sospeso.
Le
mie supposizioni non avevano alcun fondamento, anche perché non sapevo
se
Simone fosse o no effettivamente il padre di quel bambino. Eppure non
riuscivo
a fidarmi del tutto. Era troppo ben architettato per essere un caso
fortuito
questa gravidanza.
Mi
ripromisi di fare alcune indagini una volta tornati a casa.
St.
James ghignò. «Si
tenga le sue supposizioni, signorina,»
disse con sicurezza. «Saranno
i
fatti a parlare.»
Poi si rivolse a James porgendogli la mano. «Ci
vedremo in Tribunale Mr.
Abbott.»
Si
voltò a fissarmi negli occhi. Sentii un brivido rotolarmi lungo la
spina
dorsale. «Devo
ammettere che la Abbott&Abbott riesce sempre a sfornare i
migliori
avvocati,»
e mi strinse la mano.
Era
forse una specie di complimento?
Miss
Cloverfield si alzò con eleganza e mi rivolse uno sguardo pieno di
astio, da
dietro quelle folte ciglia e quegli occhi arrossati. Era pur vero che
ormai
avevo sviluppato una specie di sesto senso verso le giraffone, ma
sentivo che
lei nascondeva qualcosa.
«Arrivederci,»
disse,
asciugandosi ancora le lacrime.
Rimanemmo
soltanto io e James a sistemare le carte, per poi tornare verso lo
studio.
Scendemmo le scale dell’Hilton Hotel e poi ci riversammo in strada,
vedendo in
lontananza il Tower Bridge che tagliava come la lama di una spada il
cielo
limpido di quella mattina novembrina.
Ci
ritrovammo a camminare fianco a fianco, mentre si udiva solamente il
rumore del
traffico e i nostri passi cadenzati.
Pensai
così alla strana tensione che si percepiva tra noi due. Non c’era più
la
spensieratezza di due colleghi, come all’inizio di tutta quella storia.
Come al
solito, l’amore aveva complicato le cose ed io mi maledii mentalmente
per
essere stata così sciocca da cedervi.
James
e io avremmo formato una coppia di avvocati esplosiva se soltanto le
cose tra
di noi non fossero state così tese. E la colpa era solo di Simone e
delle sue
stupide telefonate.
Ci
fermammo in prossimità della fermata di London Bridge della Tube.
Faceva
piuttosto freddo quella mattina, anche se la giornata si preannunciava
limpida.
«Senti
Ven,»
cominciò lui,
stringendo nervosamente il manico di pelle della sua ventriquattr’ore.
Era
arrivato finalmente il fatidico momento. Mi avrebbe lasciata, avrebbe
chiesto
di cambiare partner per quel caso, soprattutto dopo il mio indelicato
intervento di poco prima.
Brava,
Ven. Te lo sei meritato.
Così impari a non mettere il lavoro al primo posto.
«Lo
so,»
lo bloccai
sul nascere. Ero a conoscenza di cosa avevo fatto, della situazione in
cui
eravamo. Non ero proprio dell’umore adatto per sentirmi dire “è
finita”. «Non
avevo alcun
diritto di intervenire prima, ne sono consapevole. Il mio compito è
soltanto
assisterti, visto che non sono nemmeno un avvocato a tutti gli effetti,
perciò
non ti biasimo se vuoi sostituirmi.»
Vidi
un sorriso affiorare sul volto di James. «Non
si tratta di questo, anzi,»
disse
compiaciuto. «Volevo
farti i complimenti per l’intervento perché hai spiazzato St. James.
Anche io
sono dello stesso avviso, è troppo per essere tutto una mera
coincidenza.
Quello di cui volevo parlarti, però, riguarda noi due.»
OramilasciaOramilasciaOramiliascia.
«Dimmi,»
sospirai,
preparandomi al peggio.
James
si accarezzò nervosamente la nuca, dove i corti capelli castano chiaro
cominciavano a crescergli più folti. «Venera,
io ci tengo moltissimo a
te. Non so come altro spiegartelo, ma non ho mai conosciuto una
ragazza, una
donna come te. Sei forte, intelligente, piena di risorse – come hai
dimostrato
oggi stesso – e credo che questa relazione piena di sotterfugi non ci
faccia
bene,»
mormorò serio.
OramilasciaOramilasciaOramiliascia.
«Quindi
volevo
chiederti se puoi aspettarmi,»
sorrise.
Aspettarlo?
Cosa intendeva con quelle parole?
«Aspettarti?»
infatti gli
chiesi.
James
mi sorrise ancora, più bello del sole d’Agosto. «Sì.
Non dico che sto troncando con
te, perché sarebbe solo una bugia. Mi piaci, e tanto, ma non posso
mettere a
rischio la tua carriera intraprendendo questa relazione clandestina con
te.
Voglio che gli altri ci guardino, ci invidino, voglio che siamo liberi
di
camminare per strada mano nella mano. Non voglio nascondermi con te.
Perciò ti
chiedo di aspettare. Dopo che questa causa sarà finita, mi farò
trasferire ad
un altro ufficio e potremmo frequentarci senza alcun problema,»
spiegò, più
sereno. «Ce
la farai ad attendere?»
In
un certo senso mi stava lasciando, ma lo stava facendo in previsione di
qualcosa di più grande. In effetti, James aveva affrontato la questione
con
maturità. Uno come Simone avrebbe continuato la tresca senza porsi
minimamente
il problema.
Questa
era la differenza che più contava per me.
Sorrisi
e gli afferrai la mano, senza imbarazzo stavolta. «Sì,
ti aspetterò,»
gli promisi.
L’idea
di poter finalmente costruire qualcosa di serio e di solido con una
persona
matura e intelligente come James valeva l’attesa.
«Ah,
questo non
cambierà la mia promessa,»
aggiunse lui. «Ti
accompagnerò comunque a Cambridge e magari per quella sera potremmo
anche far
finta che la causa sia finita da un pezzo.»
Quello
era forse un sorriso malizioso?
Arrossii
di riflesso e mi sentii davvero sciocca, quasi come il giorno della mia
prima
cotta. James Abbott era capace di conquistarmi in diversi modi, che si
trattasse della sua maturità, intelletto e semplicemente con uno di
quei
sorrisi disarmanti.
Mentre
scendevamo le scale che ci conducevano alla Tube, mi accorsi che il
sentimento
che nutrivo per il bell’avvocato stava lentamente consolidandosi. Anche
se non
stavamo tecnicamente più insieme, ero sicura che nessuno avrebbe mai
sostituito
quello che nutrivo nei suoi confronti.
«Mbè?»
Quelle
furono le uniche tre lettere con cui Simone mi accolse in casa una
volta che
fui rientrata dall’incontro preliminare. Sedeva sul bordo del bancone
della
cucina, con le pantofole a forma di ippopotamo che ciondolavano
attaccate ai
suoi piedi e un paio di pantaloni striminziti che gli coprivano a mala
pena le
nudità.
Era
sudato.
«Cosa?»
sospirai,
stanca per tutto il viaggio e per l’incontro stressante che avevo
appena fatto.
Simone
scese dal bancone e mi raggiunse, ciucciando un
succo di frutta dal
cartone di tetrapak.
«Che
ti hanno
detto?»
chiese ancora.
Solo
allora mi accorsi che la sua acconciatura era più disordinata del
solito e che
anche il suo petto era decisamente sudato.
«Ma
che ti è
successo?»
domandai, posando il cappotto.
Il
calciatore scrollò le spalle e continuò a succhiare la bevanda più
rumorosamente. «Ero
nervoso, così mi sono messo ad ammazzarmi di addominali.»
E
il mio sguardo non poté evitare di piazzarsi proprio in quella zona al
confine
con l’elastico dei pantaloncini bianchi e rossi della divisa.
Dio.
Santissimo.
Tentai
di essere il più indifferente possibile, ma sentii chiaramente le mie
ovaie
cominciare a ballare la conga, mentre il Cervello aveva abbandonato la
nave da
tempo.
Dannato
Simone che girava mezzo nudo per casa!
«Allora
niente,
ho conosciuto la mamma del tuo pargolo…»
commentai sarcastica.
Simone
s’indispettì subito. «Non
è mio, te l’ho detto! Mica sono così scemo da ingravidare tutte quelle
che me
la danno. A quest’ora sarei pieno di marmocchi.»
«C’è
sempre una
prima volta,»
gli feci osservare.
Mi
diressi verso la mia stanza, decisa a liberarmi di quel tailleur
fastidioso e a
mettermi un paio di comode pantofole. Il calciatore mi si mise alle
calcagna
come un segugio.
«E
lei come ti
sembra? È gnocca, eh?»
sghignazzò.
Lo
fulminai con un’occhiataccia. «Ci
manca solo che te la scopi un’altra volta. Così facciamo filotto,»
ringhiai
infastidita. «Sappi
solo che non siamo riusciti a raggiungere un patteggiamento, perciò si
va in
Tribunale e i giornali ci andranno a nozze con questa storia.»
Vidi
Simone impallidire. «Maledetta
zoccola,»
sibilò.
Mi
tolsi la giacca e cominciai a sbottonarmi la camicetta. «Non
è lei la
zoccola, decerebrato. È il tuo Pisellino
che non vede l’ora di ficcarsi in qualsiasi essere dotato di un buco. E
per qualsiasi, intendo anche gli
oggetti
inanimati,»
commentai acida.
Simone
scandagliò il mio corpo con quegli occhi improvvisamente diventati più
scuri. «Non
sono così
materialista,»
si giustificò.
«Ah
no?»
chiesi
sarcastica, liberandomi anche della camicia.
Avevo
ancora indosso la canottiera bianca e la gonna, mentre Simone non aveva
alcuna
intenzione di andarsene. Almeno ero riuscita a mettermi le pantofole.
«Ti
dispiace?»
gli dissi,
alludendo alla sua presenza di troppo.
«No,»
commentò,
rimanendo impalato contro lo stipite della porta.
Era
proprio un bamboccio. «Senti,
ho avuto una mattinata pesante. Vorrei liberarmi di questi vestiti,
stendermi
sul letto e chiudere gli occhi per qualche secondo.»
Il
calciatore allora mosse qualche passo all’interno della stanza e si
sdraiò sul
mio letto, picchiettando la porzione di materasso accanto a lui. «Ecco.»
Mi
stava forse pigliando per il culo?
«Intendevo
da
sola,»
ringhiai.
Simone
allora si puntellò sui gomiti e mi sorrise. Stava facendo quello sguardo, quella tipica occhiata
che aveva il brevetto della
famiglia Sogno al completo e che avevo visto fare a Leotordo un
miliardo e
mezzo di volte.
«Senti,
non
volevo arrivare a questo,»
sghignazzò. «Non
è la prima volta che ti vedo svestita, sai. Diciamo che non sempre
chiudi bene
la porta del bagno. Ormai non mi scandalizzo più, in fondo c’è di
peggio in
giro…»
Okay,
stavo per ammazzarlo. «Tu,
cosa?»
ringhiai. Ci mancava solo che mi uscisse il fumo dalle narici.
«Sei
messa
bene, nonostante dimostri trentacinque anni invece di ventiquattro. Hai
un bel
culo.»
ridacchiò con maliziosità.
Avevo
gli occhi larghi come due piattini da caffè. Il mio corpo era
completamente
pietrificato e l’unico ordine che mi arrivava dal cervello era: uccidere calciatore, uccidere calciatore,
sotterrare il cadavere, uccidere Simone.
«Dovrebbe
essere una specie di complimento?»
domandai, ad un passo
dall’esplodere.
Simone
si ributtò sul letto, con entrambe le braccia sotto la testa. «Voglio
solo
sapere cosa ti hanno detto quei due, tutto qui. Se ti va di dirmelo,
sennò
telefono all’avvocato con la scopa nel culo.»
Che
ovviamente era James.
Stranamente
sentii la rabbia scemare, così rapidamente com’era venuta. Sicuramente
da
quando ero andata a vivere con Simone, avevo acquistato più
self-control. Prima
perdevo il senno per qualsiasi nonnulla, ora tentavo di controllarmi.
Ormai
Simone non mi scandalizzava più di tanto.
Mi
tolsi la gonna e indossai distrattamente la vestaglia di raso che avevo
portato
dall’Italia. Mi stesi sul letto di fianco al calciatore e sospirai.
Finalmente
un po’ di riposo.
Lui
si voltò verso di me, attendendo una risposta, ma non ebbi il coraggio
di
guardarlo. Era da un po’ di tempo che mi faceva uno strano effetto
averlo così
vicino. Era come se sentissi l’influsso di quello sguardo, come se
condizionasse il mio umore.
Forse
era solamente a causa del suo bell’aspetto, magari si trattava di pura
attrazione
fisica. In fondo, Vanity Fair l’aveva classificato con uno dei dieci
calciatori
più sexy del mondo. Chiunque avrebbe pagato per trovarsi al mio posto
in quel
letto.
Però
la sottoscritta non lo trovava minimamente attraente. Non mi faceva
alcun effetto.
Fino
ad ora.
«’Sto
St. Jared
com’è?»
mi domandò.
Fu
allora che dovetti obbligatoriamente incrociare i suoi occhi. «Si
chiama St.
James,»
gli dissi. «È
bravo comunque, per tua sfortuna.»
«Più
bravo di
Mr. Ho-una-scopa-nel-culo?»
Roteai
gli occhi e tentai di non inveire contro di lui. «James
è bravo, fidati. Magari ce
ne fossero di più di persone come lui.»
Simone
scrollò le spalle. «Non
è niente di speciale. Troppo perfettino, alle donne piace il ragazzo
indomabile.»
Spostò
lo sguardo verso di me, utilizzando uno di quei sorrisi brevettati da
rivista
di moda. Purtroppo per lui incontrò uno dei miei migliori sguardi
scettici. «Hai
finito di
dire minchiate?»
«Con
te non ho
mai alcuna soddisfazione. Sei frigida,»
sbuffò, ritornando a sdraiarsi
sul materasso. «Tutte
le mie tecniche di seduzione vanno a farsi benedire.»
Gongolai
di me stessa. Finalmente aveva afferrato che non avrebbe mai avuto
effetto
alcuno su di me. Ci voleva ben altro per conquistarmi.
«Diciamo
che mi
ritengo una donna dai gusti difficili,»
mormorai con sicurezza. «Non
basta
certo un bel fisico e un faccino grazioso per farmi strisciare ai tuoi
piedi,»
commentai
sprezzante.
Simone
cercò di nuovo i miei occhi. «Però
l’avvocatuncolo ti piace,»
insinuò serio.
Scrollai
le spalle ricordando il discorso che avevamo affrontato poco prima. «Sì,
ma per ora
non basta. Ci sono troppe cose che ci remano contro, perciò abbiamo
deciso di
rallentare la cosa.»
Da
quando parlavo con Simone dei miei problemi sentimentali?
Da
quando Celeste è dall’altra
parte d’Europa?
Il
calciatore si spostò su un fianco, mettendosi una mano sotto la testa. «Vi
siete
lasciati?»
disse con enfasi, senza evitare di fare il cretino.
Mi
spostai anche io, assumendo la sua stessa posizione. «Diciamo
che
non siamo mai stati insieme. Ti è più chiaro?»
«Ma
non hai più
l’età per una tresca, Ven! Sei vecchietta ormai…»
«Ci
metto due
secondi a darti un calcio e farti cadere dal letto, capito?»
sibilai.
Simone
cominciò a ridere di cuore. «Okay,
okay, scherzavo.»
Poi riaprì quei grandi occhi marroni. «Mi
piace farti arrabbiare.
Soprattutto perché mi sai rispondere, e non stai mai zitta.»
Primo
battito perso.
Dai
Ven concentrati, caccia via quelle farfalle nel tuo stomaco!
«Ti
credo, sono
un avvocato. Se stessi zitta non vedrei il becco di un quattrino!»
dissi con
ovvietà.
Lui
rise ancora e mi resi conto soltanto in quel momento quanto fosse bella
la sua
risata. Oddio, cosa diavolo mi stava succedendo?
«Ecco,
intendevo proprio questo. Sei mai capace di dare agli altri l’ultima
parola?»
mi provocò.
Feci
finta di pensarci su. «No.
Non se la meritano. Soprattutto se sparano stronzate come te.»
Becca
in carta e porta a casa!
Simone
si fece improvvisamente serio, tanto che temetti si fosse arrabbiato od
offeso.
Per un momento l’aria mi mancò tutta assieme, soprattutto quando fece
per
avvicinarsi. Cosa diavolo voleva? Picchiarmi? Ero pur sempre il suo
avvocato e
non capii davvero cosa ci fosse di tanto offensivo in quello che avevo
appena
detto. In fondo, ci punzecchiavamo a vicenda da quasi un mese, ormai.
Anzi,
da quando ci eravamo conosciuti la prima volta.
«Forse
ho
trovato il modo per avere l’ultima parola…»
sospirò, avvicinandosi sempre di
più.
Dischiusi
le labbra senza accorgermene, avvertendo la secchezza del palato.
Compresi
troppo tardi cosa voleva fare e davvero non potevo permetterglielo. Ero
più che
sicura che mi stesse prendendo in giro, che lo facesse unicamente per
poi
rinfacciarmelo a vita. Eppure non riuscii a muovermi.
Avrei
dovuto scostarmi, rifilargli un bel ceffone in pieno viso, invece
rimasi
immobile, ipnotizzata da quello sguardo scuro ed enigmatico.
Da
quando Simone riusciva a farmi un tale effetto?
Io
che l’avevo sempre etichettato come un marmocchio, come un bambino mai
cresciuto, il Peter Pan moderno.
Ed
io ero la Wendy che ci stava cascando con tutte le scarpe.
Oramai
mancava poco affinché le nostre labbra si toccassero, potevo avvertire
il
profumo della sua pelle ancora umida di sudore, quell’aroma pungente
che
soltanto un uomo poteva avere.
Ti
prego non farlo…
Non
potevo permettermi di rimanere invischiata in qualcos’altro, ora che la
mia
vita sembrava aver riacquistato il precedente equilibrio. Non che si
trattasse
di un tradimento nei confronti di James, ma non potevo, non dovevo.
Venera
Donati non era la protagonista di un libro per adolescenti, dove si
sviluppava
il classico triangolo amoroso tra la bella/sfigata della situazione e i
due
gnocchi personaggi coprotagonisti. Non c’era spazio per quello, avevo
cose
troppo importanti sul fuoco per desistere.
Eppure
una parte di me desiderava lasciarsi andare.
Soltanto
un bacio.
E
fu il rumore insistente del citofono che mi salvò, che interruppe
quell’incantesimo di cui ero diventata schiava e da cui non riuscivo
più a
sottrarmi. Scattai immediatamente in piedi, ignorando Simone e il suo
sguardo
corrucciato.
«Vado
ad
aprire,»
dissi monocorde.
Camminai
come se fossi diventata improvvisamente un automa, mentre sentivo
ancora i
brividi che mi percorrevano lentamente le membra. Davvero stavo per
baciare
Simone Sogno? Ero completamente fuori di testa?
Col
senno di poi mi diedi mentalmente della cretina, visto e considerato
che non
solo era il mio cliente e il mio peggior nemico. Lui aveva in ballo una
causa
di dubbia paternità ed io ero la responsabile della sua “castità” fino
alla
data definitiva del processo.
Come
potevo fare la parte della sua amante?
Ven,
hai rischiato grosso
stavolta.
Andai
sino al citofono e lo osannai mentalmente, perché se non avesse suonato
a
quest’ora potevo dire addio al mio lavoro.
«Chi
è?»
chiesi, senza
prendermi il disturbo di dire che non ero Simone.
Dall’altro
capo del citofono si sentì qualcuno sospirare. «Sei
la bella avvocatessa?»
per un attimo
sbiancai, poi sentii un uomo ridere. «Suvvia,
tranquilla! Sono Marco,
il papà di Simone. Mi apri?»
Mr.
Sogno senior in persona!
«C-Certamente…»
annaspai, poi
spinsi il pulsante.
Se
lo avessi ripetuto ad alta voce non ci avrei mai creduto. Per la mia
salvezza e
quella del mio lavoro avrei dovuto ringraziare il padre della persona
che aveva
rischiato di mandare tutto a puttane.
Sentii
una presenza avanzare alle mie spalle, così mi voltai.
«Chi
era?»
«Tuo
padre,»
risposi
tranquillamente.
Simone
s’incupì ancora di più. «E
gli hai aperto?»
Che
cosa voleva dire? «No
guarda, lo lasciavo fuori sul marciapiede.»
«Merda,»
sibilò. «Digli
che non
ci sono, io mi vado a chiudere in camera,»
tagliò corto.
«Perché
dovrei
mentirgli, scusa?»
domandai scettica.
Aveva
qualcosa da nascondere al padre? Cos’è che voleva evitare?
Simone
si avvicinò serio e mi sovrastò con il suo 1.90 di altezza. «Tu
fallo e
basta,»
tagliò corto, dirigendosi verso la sua stanza. «Non
ho voglia di vederlo, tutto
qui.»
Sbatté
la porta con forza, tanto che sentii i muri tremare. C’era qualcosa di
strano
nel rapporto padre figlio, come se ci fossero degli asti di vecchia
data che
ancora portavano le cicatrici su Simone.
Non
ebbi tanto tempo per rimuginare, perché sentii suonare il campanello
dopo
alcuni minuti. Mi accorsi di essere ancora semi-svestita e in
vestaglia. Così
corsi a rimettermi quantomeno la camicetta per non sembrare
completamente una
sciattona.
Mi
precipitai alla porta d’ingresso sperando che il signor Marco non
mettesse le
radici fuori dalla porta.
Aprii
e mi ritrovai un sorriso seducente che mi colpì dritta al cuore.
Quell’uomo era
fascino puro, niente da dire in merito.
«Ci
rivediamo,
avvocato,»
sussurrò sensuale.
Se
il figlio non era riuscito a sciogliermi del tutto, ci avrebbe pensato
il dolce
papà. Ma perché quella famiglia era così… così!
«S-Salve,
Mr.
Sogno,»
dissi, sempre più nel panico. Non sapevo il perché quell’uomo dovesse
farmi uno
strano effetto. Forse perché era così tremendamente simile a Simone.
«Chiamami
pure
Marco. Mio figlio è in casa?»
mi domandò, entrando e guardandosi intorno mentre si toglieva i guanti
di pelle
nera.
E
quello era il momento di mentire. Non avevo mai detto le bugie per
conto di
nessuno, anche se ero un avvocato. La mia professione mi obbligava la
maggior
parte delle volte a traviare un po’ la verità, ma mai mi ero ritrovata
sul
punto di mentire per conto di qualcuno.
Soprattutto
di Simone.
«È
uscito. Non
so a che ora torna,»
risposi, apparendo sicura di me stessa.
La
prima regola era mai impappinarsi. Bisognava seguire l’improvvisazione
e mai
contraddirsi, altrimenti la bugia perdeva la propria validità.
Il
signor Marco si spogliò del suo montgomery nero, e mi fissò con quelle
iridi
altrettanto scure. Lo stesso sguardo del figlio, era impressionante.
«Come
al solito
mi evita,»
sospirò, dirigendosi verso il divano. «Non
so più che devo fare per
farmi accettare da quel ragazzo.»
Sapevo
che non erano affari miei, ma arrivati a quel punto potevo soltanto dar
corda
alla conversazione per non far vertere la questione su altri argomenti.
Tipo il
processo.
Mi
accomodai di fronte a lui, sostenendo il suo sguardo. «Deve
dare
tempo al tempo, con Simone funziona sempre. Anche se non conosco il
motivo del
vostro allontanamento,»
commentai, cercando di non risultare troppo invasiva.
Apparentemente
funzionò, perché Mr. Sogno mi sorrise benevolo. «Lo
conosci molto bene mio figlio.
Sono contento che finalmente abbia trovato qualcuna che non sia
semplicemente
un corpo e nient’altro.»
Arrossii
senza nemmeno accorgermene. «Ehm.
Le ripeto che io e suo figlio dividiamo unicamente questo appartamento,
non c’è
niente tra di noi,»
puntualizzai.
Era
come se ormai il mondo intero avesse dato per scontato che io e Simone
stessimo
insieme. Ma che ce l’avevo scritto in fronte?
Mr.
Sogno sorrise. «Anche
sua madre all’inizio era così, come te. Mi detestava,»
mormorò, entrando
nel viale dei ricordi.
Sembrava
come se quel divano e quel salotto fosse una specie di confessionale
dove la
gente raccontava il meglio di sé. «Diciamo
che noi Sogno abbiamo il
fascino un po’ tardivo. Le donne si innamorano dopo un po’. Quindi
direi che
posso riutilizzare il tuo stesso consiglio e dirti di dare
tempo al tempo,»
e ammiccò.
Cosa
diavolo c’era da ammiccare?
«Ehm…»
tentai di
fermare sul nascere quelle insinuazioni, ma lo sguardo del signor Marco
era
irremovibile. Che forse sospettasse qualcosa?
Ma
poi cosa c’era da sospettare, dico io?
Nulla.
Infatti.
Fuorché
un quasi-bacio.
«Insomma,
Gabriele mi ha detto che hai studiato a Cambridge. Davvero prestigioso,
devo
ammetterlo. Sei così giovane, poi…»
alluse.
Ebbi
come la strana sensazione che ci stesse provando, ma mi augurai
fermamente di
no. Ci mancavano solo le avance di un altro Sogno per completare il
quadretto
perfetto della mia splendida vita che avrebbe fatto invidia alla soap
di
Beautiful.
«Ho
frequentato
Cambridge solo per un master,»
lo bloccai subito. «Diciamo
che ho dedicato la maggior parte della mia vita allo studio, perché
vorrei
diventare socio della Abbott&Abbott più di ogni altra cosa,»
ammisi,
determinata.
Mr.
Sogno sorrise compiaciuto. «Mi
piace questa tua fermezza. In una donna è una qualità apprezzabile,
soprattutto
quando e se si ha un rapporto con un’altra persona.»
Ancora
quelle frecciatine… ma lo faceva apposta?
«Immagino
tu
riesca a tenere a bada mio figlio. Gli dai del filo da torcere, eh?»
ridacchiò.
Sorrisi
falsamente, tesa come una corda di violino. Dove voleva andare a parare?
«Diciamo
che
non mi faccio mettere i piedi in testa,»
dissi coincisa.
Mi
piace farti arrabbiare.
Soprattutto perché mi sai rispondere, e non stai mai zitta.
Dio
quella voce che continuava a rimbombare nella mia testa. Tacere! Doveva
assolutamente tacere prima di farmi impazzire del tutto.
«Interessante,»
commentò
l’uomo seduto di fronte a me. «E
Simone come la prende? Ha smesso di correre dietro alle modelle? Oppure
continua a fare tutto ciò che la testa gli dice?»
Con
quelle domande, Mr. Sogno mi parve un po’ prevenuto nei confronti del
figlio e
mi piacque ben poco. Certo, ero la prima a dire che Simone fosse una
testa
calda, un ragazzino con il moccio al naso, ma sentirlo dire dal padre
aveva
tutt’altro effetto.
«Diciamo
che
sta mettendo la testa apposto,»
dissi sincera.
Evitai
di aggiungere “per merito mio” altrimenti mi sarei scavata la fossa da
sola
senza alcun bisogno nemmeno di una vanga.
«Ne
sono
felice,»
disse il padre. «Anche
se so che Simone non riprenderà mai gli studi come avrei voluto, sono
contento
che finalmente abbia smesso di bighellonare. Anche se ha solo ventuno
anni,
dovrebbe pensare con la sua testa e non…»
poi si guardò i piani bassi per
non essere troppo scortese nei miei confronti.
Tale
padre…
«Già,
è quello
che gli ripeto sempre,»
commentai, tentando di far volar via quella tensione indesiderata.
Avrei
dovuto inventarmi qualcosa per mandarlo via, anche perché Simone non
poteva
rimanere chiuso in camera per quattro ore.
«Vuole
qualcosa
da bere?»
chiesi gentilmente, anche per non sembrare scortese.
In
fondo, si trattava pur sempre di un ospite. Per quanto fosse
indesiderato.
Mr.
Sogno scosse la testa, alzandosi. «No,
grazie. Devo andare. Ero
passato solo per salutare Simone, ma visto che non c’è. Direi di
togliere il
disturbo.»
Per
fortuna non avevo dovuto insistere tanto per sbarazzarmi di lui. «Ma
non si
preoccupi.»
Afferrò
cappotto e guanti, poi si incamminò verso la porta. Si infilò il
montgomery poi
mi sorrise.
«Sei
davvero
una donna in gamba, avvocato,»
mi sorrise sincero. «Credo
che mio figlio capirà presto cosa ha sotto gli occhi, prima di quanto
tu te ne
accorga. Anzi, scommetterei la mia vigna che già lo sa, ma sta trovando
il modo
per non farsi odiare da te.»
Quelle
insinuazioni non fecero altro che confondermi ancora di più. Nella mia
testa
ormai albergavano dei sentimenti contrastanti, delle sensazioni che mai
mi ero
aspettata di provare. Inoltre, questo continuo ripetermi dagli altri
che Simone
era più di quanto appariva mi faceva vacillare. Ricercavo le loro
parole dietro
quei suoi occhi scuri e a mano a mano mi ci perdevo.
«Arrivederci,
Mr. Sogno,»
dissi, sperando di chiudere lì quella conversazione.
Lui
mi sorrise, poi uscì dalla porta cominciando ad indossare i guanti
mentre si
avviava giù per le scale del palazzo.
Rimasi
sulla soglia a vederlo scomparire nell’atrio, domandandomi se per caso
fossi io
quella cieca in tutta questa storia. Stavo obbligando me stessa a non
vedere,
oppure erano gli altri che ricamavano troppo?
Cercai
di non pensare a quelle congetture, non adesso che dovevo assolutamente
concentrarmi sul caso. Una volta archiviato, niente più Simone e
bentornato
James. Così doveva andare.
«Finalmente…»
bofonchiò una
voce alle mie spalle che mi fece sussultare.
Mi
voltai sbattendo la porta per chiuderla, stizzita da quel suo
comportamento
infantile. «Sei
proprio un codardo.»
sibilai.
Simone
si passò una mano tra i capelli sempre più spettinati e mi guardò
sorpreso. «Perché?»
Lo
fulminai. «Ah,
me lo chiedi pure? Ho dovuto intrattenere TUO padre mentre tu ti
nascondevi in
camera come un bambino di cinque anni. Questa, a casa mia, si chiama
“fifa”»
A
quel punto lo vidi assottigliare lo sguardo e stare sulla difensiva. «Tu
non sai un
bel niente e continui ad atteggiarti a sapientona dei miei stivali.
Come se
fossi una donna di mondo. Non hai
vissuto né provato nulla, quindi non farmi la predica.»
«Sono
nata
prima di te, io!»
«Non
c’è
bisogno di dirlo,»
sorrise, fissandomi dall’alto in basso. «Si
vede.»
Strinsi
le mani a pugno col chiaro intento di cominciare a picchiarlo. Se non
fosse
stato così alto mi sarei appesa ai suoi capelli come uno scimpanzé.
«Sei
proprio
uno stronzo,»
ringhiai. «E
immaturo. Invece di affrontare tuo padre e i vostri problemi, ti
nascondi.
Questo è un chiaro segno di maturità. Bravo.»
Simone
si diresse verso il frigo e tirò fuori il cartone del latte. Se ne
versò un
bicchiere. «E
tu sei una sputasentenze che parla senza sapere.»
«Se
magari mi
parlassi, allora potrei consigliarti senza sentirmi insultare ogni
volta,»
specificai
con ovvietà.
Lui
sorseggiò il latte fissandomi con quello
sguardo.
Era
capace di smuovere le montagne soltanto con una semplice occhiata.
Ma
quale montagne, semmai ti
smuoveva quelle ovaie impigrite che ti ritrovi!
«Magari
un
giorno,»
mormorò, con i baffi bianchi del latte sulla parte superiore delle
labbra.
Le
stesse labbra che hai quasi
baciato.
Ecco,
fermiamoci sul quasi.
«Allora
aspetterò quel giorno. Per adesso posso straparlare finché voglio,»
m’impuntai.
Lo
sentii ridere, mentre se ne tornava nella sua stanza a fare Dio sa che
cosa. Da
una parte mi aveva messo un po’ di curiosità con tutta quella storia,
soprattutto perché era evidente che c’erano ben altri problemi sotto la
superficie.
Magari
se avessi avuto pazienza, costanza, avrei scavato. Centimetro dopo
centimetro
sarei riuscita a scalfire quella corazza e a scoprire dove si celasse
il vero
Simone.
***
Crudelie del mio corazòn!
No, non sono morta ma tra università, palestra (sì, vado anche in
palestra ò_ò) e il resto, diciamo che la real life mi risucchia. In
più, iella ha voluto che alla mia wifuccia le si rompesse il piccì e
abbiamo dovuto attendere ù_ù
Bene. Eccoci tornati con l'undicesimo capitolozzo! *Q*
Abbiamo conosciuto Carl St. James e quella pruttona di Elizabeth, che
per me ha questo volto qui.
Comunque, mi metterò a lavoro con la stesura del capitolo 17, per poi
riprendere Come in un Sogno :3
Lo so, sono lenta come una lumachina çç ma voi appettatemi!
>.<
Un beso, Marty
|| Crudelie
si nasce - Le originali ||
Si accede tramite MP ad una delle amministratrici del gruppo
IoNarrante Efp | Nessie Efp | Annamaria Caline Raneli | Rosita Capizzi
Il messaggio è
obbligatorio, dovete scriverci il motivo per cui volete entrare
ed essere partecipativi :3
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Capitolo 14 *** Capitolo 12 ***
Quel
Sabato mattina mi ero svegliata con la luna storta, come ogni giorno da
quando
mi ero trasferita al 126B di Soho St. Stavolta, però, il mio
coinquilino nonché
padrone di casa, Mr. Simone Sogno, non c’entrava nulla col mio malumore.
Era
tutta colpa di quell'invito alla maledetta riunione di classe che avevo
ricevuto qualche tempo prima. Come una vera sciocca, mi ero lasciata
convincere
da Sofia – anzi, da Volpia – ad
andare nonostante non avessi un cavaliere. Per fortuna che poi il
problema si
era risolto con l’arrivo di James che mi aveva proposto la sua
compagnia, la
sera del nostro primo bacio.
La
classe del 2013 la invita
cordialmente ad una riunione scolastica per il 02 di Dicembre nei
locali
dell’Università. È obbligatorio l’abito scuro, così come un
accompagnatore per
il party che si terrà nei giardini coperti e nella Sala del Consiglio.
Cordiali
saluti,
Il
Rettore.
Ora
mi ritrovavo a fissare intensamente quell’invito, incastrato tra la
cornice
dello specchio, e a pensare a quanto fossi stata stupida ad accettare
tutto
quello. Io che ero fermamente contraria a feste e balli, a ridicole
riunioni di
classe che servivano unicamente a vantarsi di ciò che si era, oppure a
mortificarsi per quello che avevi potuto raggiungere.
Venera
Donati aveva addirittura mollato il ballo scolastico dell’ultimo anno,
per
cui...
Ma
chi me l’ha fatto fare?
Magari
pensala come una serata
di svago, in cui non farai altro che bearti del tuo bel cavaliere.
Il
mio Cervello, alle volte, funzionava alla perfezione e quando si
pronunciava in
questa maniera c’era quasi da lodarlo. In effetti, mi stavo
preoccupando
troppo. Era pur vero che io e James avevamo in qualche modo “rotto”,
anche se
non eravamo mai stati insieme, eppure lui non aveva disdetto questa
serata,
segno che voleva ancora passarla con la sottoscritta.
Mi
aveva chiesto di aspettarlo, di attendere la fine del processo in cui
eravamo
coinvolti per poter chiedere il trasferimento ad un altro studio e
poter
finalmente stare insieme come una coppia normale. Ed io avevo accettato.
In
fondo, come non avrei potuto? James era forse la persona che più si
avvicinava
al mio ipotetico ragazzo perfetto, sia nei suoi modi eleganti ed
educati, sia
nell’essere così maturo ed intelligente. Due o tre mesi non avrebbero
fatto la
differenza, ne ero più che sicura. Sapevo che una volta messa la parola
'fine'
a tutta quella storia, finalmente anche io avrei potuto godermi la vita.
Giovane
socio della Abbott&Abbott e fidanzata di uno dei nipoti, erede
dell’intero
impero legale della famiglia.
Da
quando sei così materialista?
Non
si trattava di essere materialisti o altro. Avrei scelto James anche se
fosse
stato un anonimo impiegato della nettezza urbana. I suoi occhi mi
avevano
affascinato, così come la sua presenza e il suo bell’aspetto.
Sospirai,
slacciando lo sguardo da quell’invito che ormai mi aveva imbambolata in
pensieri futili. Avevo già indosso i collant, così come la biancheria
intima e
quel poco di canottierina che potevo indossare per evitare di sentire
l’effetto
della temperatura rigida di quella notte col vestito che Simone aveva
scelto
per me.
Detta
così suona malissimo.
Sgranai
gli occhi.
Okay,
tecnicamente lui mi aveva aiutata a scegliere quel vestito, visto che
l’accoppiata commesse del negozio più Sofia non avevano partorito altro
che
abiti dal dubbio gusto. In fondo, me l’ero pagato a mie spese, se me lo
avesse
regalato Simone era un altro conto.
Me
lo figurai con un pacco in mano, come in uno di quegli smielati film
romantici,
che mi faceva recapitare il vestito per il ballo sul letto della mia
stanza,
con un biglietto sdolcinato.
Simone
e romantico non potevano esistere nella stessa frase.
Mi
alzai dalla sedia, rendendomi finalmente conto che dovevo darmi una
mossa o
sarei arrivata in ritardo a Cambridge. Ci volevano una ventina di
minuti in
auto, e presentarsi in ritardo ad una riunione di classe con il tuo
ex-rettore
non era il massimo dell’educazione.
Afferrai
il vestito che stava sulla stampella, lo presi e cominciai ad
indossarlo,
saltellando su una gamba e poi sull’altra. Mi avvicinai al lungo
specchio a
parete, rimirando quel pezzo di stoffa nero che mi era costato quasi
l’intero
affitto del mio ex-monolocale.
E
la gente spendeva davvero cifre assurde per abiti che sicuramente
indossavano
una sola volta nella vita. Un vero spreco.
Perfetto.
Il riflesso che l’oggetto appeso al muro mi restituì fu quello di una
ventiquattrenne con i capelli a caschetto, lo sguardo azzurro spento e
stressato ed un paio di borse sotto gli occhi che avrei dovuto coprire
con
quintali di fondotinta. Ora dovevo solo allacciarmi la zip e poi sarei
stata
ufficialmente pronta ad aspettare James.
A
quel nome il mio cuore rispose con la perdita di un piccolo battito,
quasi a
confermare che quel qualcosa di cui parlavo prima c’era ancora, che
sicuramente
sarei riuscita ad aspettare la fine del processo. Ormai mi ero
invaghita di
lui, c’era ben poco da fare.
Cominciai
a far salire la zip dal basso, rispolverando le mie tecniche da
contorsionista
brevettate. Il vestito si chiuse sino a metà schiena, ora sarebbe
arrivata la
parte più difficile. Far salire la chiusura alle spalle era forse il tour
de
force di ogni ragazza che contava soltanto su sé stessa e
che non aveva un
uomo disposto a chiudere la zip, finendo poi col posarle un bacio sulla
spalla.
Fantasia
portami via.
L’immagine
di James che si materializzava alle mie spalle mormorando un “Aspetta,
ti aiuto
io” sensuale e roco mi fece rabbrividire. L’astinenza mi giocava
davvero dei
brutti scherzi, ed era forse la prima volta che riuscivo a dare ragione
a
Simone. Non era stata una grande idea quella di mettere da parte la
vita
sentimentale e il divertimento per concentrarmi unicamente sulla
carriera.
Avevo finito con l’avere le allucinazioni, perfetto.
Tentai
di afferrare la zip con la mano posta oltre la spalla, spingendola
indietro
anche con l’altro braccio, ma ero troppo poco allenata per riuscire a
farcelo
arrivare. Inoltre, nemmeno dal fianco riuscivo ad afferrarla.
Ora
non potevo tirare su la zip, ma nemmeno riabbassarla. Era rimasta in
quella
metà della mia schiena dove mi era completamente impossibile
liberarmene.
Sarò
costretta ad andare in giro col vestito aperto. Gesù.
Potresti
sempre farti aiutare da
James.
Certo,
così si renderà conto di quanto io sia imbranata nella vita di tutti i
giorni.
Lui si aspetta che io sia una sorta di superdonna, una a cui niente e
nessuno
riuscirebbe a mettere i piedi in testa, invece ero anche io un essere
umano.
Okay,
fa niente. Guardai la giacca color champagne adagiata sul copriletto e
pensai
che per una volta un semplice accessorio come quello mi avrebbe salvata
dall’imbarazzo fin quando non fossimo arrivati al guardaroba. Lì avrei
dovuto
chiedere a James di tirarmi su la zip del vestito.
E
magari ci sarebbe stato il
tempo di girare un ciack erotico negli spogliatoi dell’università.
Taci.
Decisi
che nel frattempo sarei andata a darmi una sistematina a quelle
occhiaie, per
farle sparire definitivamente. Indossai le decolleté col vertiginoso
tacco
dodici e credetti davvero di poter morire. Da quell’altezza riuscivo a
vedere
le cose da un’altra prospettiva, tipo la quantità di polvere che c’era
sopra la
cassettiera.
«Che schifo…» commentai,
passando un dito sul mobile.
«Hai detto
qualcosa?»
Simone passò davanti alla mia stanza in quell’esatto momento, con un
asciugamano stretto in vita ed uno a mo’ di turbante in testa.
Sembrava
Alibabà.
Riuscii
a stento a trattenermi dal ridere. Nemmeno io e Celeste riuscivamo a
raggiungere quel livello di ridicolaggine con soli due asciugamani.
«N-No...» sghignazzai.
Il
calciatore s’indispettì subito, nemmeno gli avessi già messo la pulce
nell’orecchio. «Mi
trovi ridicolo? Che hai tanto da ridere, eh?»
E
allora rilasciai tutta la tensione accumulata per quella serata,
cominciando a
guaire come un cane.
«Il
tu-turbante… ah ah ah!»
e continuai a ridere come se non ci fosse un domani.
Simone
incrociò le braccia al petto, trasformando per un attimo quella pelle
lattea in
due pagnotte gonfie e muscolose. Smisi di ridere quando fissai lo
sguardo su
una gocciolina d’acqua che serpeggiò lungo tutto il suo petto glabro,
finendogli al di sotto dell’asciugamano stretto in vita.
Maledetta
goccia.
«Mr. Avvocato
non è ancora arrivato?»
mi chiese, sciogliendo il turbante e cominciando a strofinarsi i
capelli con la
spugna.
Scossi
la testa e andai a controllare il cellulare, mostrandogli la schiena.
Effettivamente era strano che non mi avesse ancora chiamata, né mi
avesse
comunicato l’orario in cui mi sarebbe passato a prendere. Forse avevo
dato
troppo per scontata la sua presenza, ma cercai di non farmi venire le
paranoie.
Afferrai
il blackberry e sbloccai lo schermo, accorgendomi solo in quel momento
che
c’era un messaggio nella segreteria che lampeggiava. Spinsi il pulsante
per
ascoltarlo e avvicinai l’apparecchio.
Ciao
spaghetti-girl!
Ti
lascio un messaggio per
scusarmi e per dirti che mi dispiace, ma stasera sono stato trattenuto
ad una
riunione con zio August e non posso accompagnarti a Cambridge. Ti mando
un’auto
a prenderti, potrei raggiungerti verso le undici, poi ti faccio sapere.
Divertiti e soprattutto non vedo l’ora di vedere il vestito che
indosserai.
Aspettami.
Rimasi
di sasso a guardare una macchia d’umidità sul muro bianco della mia
stanza. Era
troppo bello per essere vero, sarebbe stato un sogno ad occhi aperti se
davvero
James avesse trovato il tempo e la voglia di accompagnarmi a quella
stupida
festa.
Ora
avevo preso l’impegno e ci sarei dovuta andare da sola. Come una
sfigata.
Meglio
soli che male accompagnati.
I
miei ex-compagni ci sarebbero andati a nozze, capirai.
Ero
sovrappensiero e non mi accorsi di un paio di mani umide e grandi che
si
posarono sulle mie spalle. Rabbrividii. Alzai lo sguardo sullo specchio
e mi
trovai Simone alle spalle, intento a chiudermi la zip del vestito senza
che gli
avessi chiesto nulla.
Come
quella volta nel camerino.
Sussultai
e cominciai a sentire davvero caldo, perché solo al ricordo del
quasi-bacio di
qualche giorno prima, su quello stesso letto dove io stessa dormivo, mi
sentivo
svenire. Mi feci forza per rimanere impassibile sotto quel tocco
delicato.
Non
potevo, non dovevo pensare cose del
genere, soprattutto di Simone. Sapevo com’era fatto, conoscevo ogni suo
lato
del carattere e ogni suo vizio. Era un donnaiolo, immaturo, sciocco,
uno a cui
piaceva unicamente giocare con le donne.
Ormai
era inevitabile che quella convivenza forzata aveva contribuito ad
avvicinarci,
in un senso che io non avevo programmato, ma per me si trattava
unicamente di
attrazione fisica. Evidentemente ero solo un’altra delle prede che si
era
prefissato, semmai gli interessassi davvero.
Magari
si era limitato solo a scommettere con quell’altro scemo di Sebastian
che
sarebbe riuscito a portarmi a letto prima di Natale. Quante volte avevo
sentito
quella storia?
Troppe.
Quando
sentii la zip chiudersi e le mani di Simone abbottonare l’ultimo lembo
del
vestito, scattai il più lontano possibile da lui e mormorai un
frettoloso Grazie.
«Scusami, ma
devo andare,»
tagliai corto, cominciando a prendere le cose e a riempire la piccola
pochette
che avevo comprato insieme al vestito.
Simone
mi guardò sorpreso. «E
il tuo cavaliere? È andato a sostituire la scopa nel culo?» e sghignazzò
come uno scemo.
Lo
fulminai con lo sguardo. «Ha
un impegno, mi raggiungerà dopo,» dissi, fingendo che non fosse
un problema.
Invece
lo era eccome. Sapevo alla perfezione chi o cosa
avrei incontrato a quella maledetta riunione di classe. Sophie McAvy
era
soltanto uno dei venti nomi di una lista nera che avevo redatto lungo
tutta la
durata del master.
«Ti ha dato
buca, eh?»
constatò il calciatore, senza smettere quell’odioso sorriso da
te-l’avevo-detto.
Sentivo
gli occhi bruciarmi, così come una lacrima che premeva per uscire
all’angolo
dell’occhio destro. Era frustrante dover dar ragione al marmocchio, ma
ero
rimasta profondamente delusa dal comportamento di James. Era pur vero
che
l’avvocato era stato trattenuto da un impegno, ma io ci tenevo così
tanto al
suo supporto, soprattutto per quella riunione che odiavo.
«Ti prego, non
adesso.»
La voce che uscì dalle mie labbra era incrinata da un pianto imminente.
Mi
feci forza per non piangere. Non dovevo dare a nessuno dei due quella
soddisfazione, perché Venera Donati era una persona forte, una ragazza
intaccabile, niente e nessuno era capace di ferirmi.
Ma
a chi vuoi darla a bere?
«Scusami, vado
ad aspettare la macchina giù,»
gli dissi, indossando la giacca e dirigendomi verso la porta
dell’ingresso.
Chiusi
l’uscio alle mie spalle, lasciando che l’eco si diffondesse per tutto
il pianerottolo.
Cercai di non lasciarmi andare mentre entravo nell’ascensore e spingevo
il
pulsante T. C’erano troppe cose che erano andate storte nella mia vita,
ed io
non mi ero mai persa d’animo. Quella cosa della riunione di classe era
una
sciocchezza, non dovevo prendermela tanto.
E
poi mi aveva detto che mi avrebbe raggiunto.
Aspettami.
Così mi aveva suggerito, di nuovo.
«Buonasera,
signorina,»
mi salutò il portiere del palazzo, aprendomi la porta.
Scesi
i gradini antistanti la palazzina e mi riversai in strada, col freddo
pungente
che rischiava di farmi venire una polmonite. Il 2 di Dicembre non era
adatto
per indossare un vestitino striminzito e una giacchetta leggera.
Forse
ero uscita troppo frettolosamente di casa. Non avevo alcuna intenzione
di
tornare lì dentro, però. Non volevo. Affrontare di nuovo lo sguardo di
Simone
che mi ricordava quanto fossi stata stupida a credere davvero di poter
far
affidamento su qualcuno era troppo da sopportare.
Ero
davvero stufa di dover fare i conti con lui e con James. Con uno che mi
ammoniva sull’immaturità dell’altro e viceversa.
Niente
più consigli. Per ora avrei dovuto contare unicamente sulle mie sole
forze.
La
macchina tardava ad arrivare ed io mi stavo letteralmente congelando.
Non
sapevo quanto avrei resistito, se l’indomani mi sarei buscata una nuova
influenza coi fiocchi. Il tempo di Londra non era clemente come quello
della
penisola che avevo lasciato per inseguire i miei sogni d’avvocato.
Poi
la vidi. Una limousine nera che percorreva Soho St. e metteva la
freccia per
accostare direttamente sotto il palazzo.
Ti
tratta bene l’avvocato.
D’improvviso
mi sentii più sollevata, anche perché cominciai a riacquistare un po’
di
sicurezza. Sarei andata da sola alla riunione, ma poco m’importava. In
fondo,
avevo sempre contato soltanto sulle mie sole forze, e non era la prima
volta
che qualcuno mi deludeva.
Ci
sarebbe stato tempo per riprendersi.
L’autista
scese e mi aprì la portiera, salutandomi con un cordiale buonasera.
Feci
per salire sull’auto, dotata di tutti i comfort e lusso sfrenato,
quando sentii
una voce che diceva all’autista di attendere.
Cercai
di capire chi fosse, con lo strano sospetto di dovermi aspettare
qualcosa di
davvero indesiderato. Dieci secondi dopo, a due centimetri dalla
sottoscritta,
c’era seduto Simone vestito in smoking e con i capelli stranamente, e
ripeto stranamente, pettinati.
«E tu cosa ci
fai qui?»
sbottai incredula.
Il
calciatore mi sorrise, poi diede l’ordine all’autista di partire. Si
lasciò
andare sullo schienale della macchina e sbuffò. «Sono il tuo accompagnatore, non
è ovvio?»
Quella
sì che si sarebbe preannunciata una serata molto strana.
Imboccammo
l’autostrada che ci avrebbe condotti a Cambridge verso le 8.10 della
sera, in
perfetto orario per l’inizio della festa. Avevo lo sguardo fisso fuori
dal
finestrino da quando la limousine era partita da Soho. Sentivo la
presenza di
Simone accanto a me come se ardesse, allo stesso modo della brace che
si
consumava lentamente in una stufa.
Quel
marmocchio doveva fare sempre di testa sua, chissà cosa gli aveva detto
il
cervello per convincerlo ad accompagnarmi. Che avesse in mente di
ridicolizzarmi pubblicamente?
Non
penso, in fondo sei sempre
il suo avvocato.
Infatti.
Sarebbe troppo stupido per lui umiliarmi e poi presentarsi in un aula
di
tribunale sapendo che avrei potuto trascinarlo con me nella fossa.
Eravamo
legati l’uno all’altra da un filo sottilissimo e sperai sul serio che
avesse
sufficiente sale in zucca da non mandare tutto all’aria.
Lo
guardai con la coda dell’occhio, tentando di non farmi scoprire.
Si
stava trastullando con il cellulare, sghignazzando mentre digitava
qualcosa che
pensai fosse un SMS oppure un tweet. Era ovvio che un personaggio dello
spettacolo come lui avesse in qualche modo una pagina fan, o milioni di
ragazzine
infoiate che gli mandavano messaggini adoranti.
Patetico.
«Potresti
essere arrestato per pedofilia,»
commentai acida, senza riuscire a trattenermi da tutto quel
picchiettare le
unghie sullo schermo.
Simone
alzò lo sguardo dal telefono con ancora in volto quel sorriso scemo.
Capì che
mi riferivo alle sue fan solo quando notò il mio sguardo inceneritore
rivolto
alla pagina di twitter aperta sul suo iPhone.
«Si tratta
soltanto di post innocenti,»
sorrise angelico. «Finché
si parla, è permesso tutto no?»
Scrollai
le spalle innervosita. «Fai
come ti pare. Una causa, due, ormai chi le conta più!» esagerai.
Simone
si mise a ridacchiare di gusto, continuando imperterrito con quei
fastidiosissimi tweet.
«Non sto
facendo nulla di male,»
continuò a giustificarsi.
«Sai che ti
dico? Chissenefrega.»
sibilai.
Avevo
ben altre cose a cui pensare, come ad esempio la vista di Cambridge da
lontano,
tutta illuminata. Stavamo per arrivare ed io avevo addosso una rabbia e
un
nervoso che mi avrebbe fatto esplodere di lì a qualche minuto.
«Sei gelosa,
per caso?»
insinuò lui, mettendo da parte il telefono e sporgendosi verso di me.
Lo
fissai con uno sguardo di sufficienza. «Se ciò dovrà mai accadere,
sparami,»
commentai.
Simone
continuò imperterrito a sfoggiare quel sorrisetto fastidioso e a
guardarmi in quel modo. Lo odiavo
quando faceva così,
mi sentivo strana e turbata. Ciò mi sconvolgeva perché il 90% delle
volte avevo
il pieno controllo di me stessa.
«Comunque il
discorso della pedofilia è valido anche per te, mia cara vecchietta.»
E
no, ora era troppo!
«Guarda che
James ha trent’anni, bello. Non cinque come te!» gli feci presente,
sottolineando quell’importante disparità tra i due.
Il
calciatore non si sconvolse più di tanto. Cominciò a fissarsi le unghie
e a
lucidarle distrattamente sulla giacca nera. «Peccato che alla festa non ti
accompagni James.»
Colpita
e affondata.
Non
ebbi altro da aggiungere e non gli diedi nemmeno soddisfazione di
vedermi
turbata in qualche modo da quello che aveva detto. Accidenti a lui,
riusciva
sempre a mettermi in difficoltà. Avevo sempre pensato che i calciatori
fossero
rinoceronti decerebrati senza il minimo accenno di materia grigia, come
diceva
sempre Celeste, ma Simone era diverso.
Furbo
e svelto come una faina.
La
limousine si fermò al cancello principale della struttura, dopo aver
attraversato l’immenso viale che conduceva all’ingresso
dell’università. Anche
da lì si poteva ammirare lo stile gotico in cui era costruito quasi
ogni
edificio e i ricordi cominciarono a sopraggiungermi alla mente.
Ricordai come
mi ero sentita smarrita il primo giorno, ma fermamente determinata a
proseguire.
Volevo
a tutti i costi prendere quel master e provare il tirocinio alla
Abbott&Abbott. C’ero quasi riuscita, il mio percorso sarebbe
stato ben
presto completo.
«Signori, da
questa parte,»
ci disse una ragazza in abito lungo che reggeva una lista.
«Bel
posticino...»
commentò sarcastico, abbassandosi quel tanto che gli permise di
arrivare al mio
orecchio.
Con
quei dodici centimetri di tacco gli arrivavo alla spalla. Magra
consolazione.
«Venera
Donati,»
dissi alla signorina, mostrandole l’invito. Lei controllò la lista, poi
mi
sorrise.
«Prego. Lei e
il suo accompagnatore siete i benvenuti alla riunione di classe. Più
avanti c’è
il guardaroba, poi la sala con gli altri ospiti. Buon divertimento.»
Le
sorrisi e proseguii, con Simone che mi ciondolava al fianco.
«Certo che era
gnocca, l’inglesina,»
commentò, con lo stesso tatto di un tostapane.
Gli
rifilai un’occhiataccia. «Smettila
o giuro che ti rimando a casa con la limousine.»
Simone
mi rispose tirando fuori la lingua.
Cretino.
Posai
la giacca nel guardaroba e Simone gli diede il suo cappotto. Seguimmo
il resto
degli invitati in una sala enorme, che ricordai come l’aula magna. Era
stata
adibita a sala da ballo con, a ridosso delle pareti, grandi tavolate
piene di
cibo.
C’era
anche un quartetto d’archi che suonava dal vivo.
Gli
inglesi avevano un modo tutto loro di organizzare le feste, ed io
davvero
rimanevo sorpresa ogni volta. Se si fosse trattato di una riunione di
classe in
Italia, ero più che sicura che non avrebbe avuto la stessa classe.
«Certo che qui
non badano a spese,»
continuò Simone, guardandosi attorno. «Sembra di stare ad uno di quei
gala a cui mi invitano solamente per piazzarmi con qualche rampolla di
buona
famiglia.»
«Donne di poco
cervello,»
aggiunsi, meritandomi un’occhiata dal calciatore.
Si
mise le mani in tasca e cominciò ad adocchiare il buffet. «Insomma…
sarebbe questa la festa? Annamo a magna'?» disse di punto in bianco, in un
dialetto che era impossibile evitare di riconoscere.
Altro
brivido.
Perché
mi faceva questo dannato effetto? Eppure non avevo mai sopportato
quelle
persone che da noi venivano etichettate come “coatte”. Certo, Simone
non si
poteva proprio definire tale.
Lo
osservai ancora.
Dovevo
ammettere che lo smoking gli donava molto. Gli conferiva un’eleganza
che pochi
uomini potevano vantarsi di avere. In fondo era sì un calciatore, ma
non di
quelli con il corpo massiccio e muscoloso. Diciamo che Simone era fine,
elegante, quasi delicato.
Di
quella bellezza femminea che apparteneva propriamente ad un tipo
letterario
come Dorian Grey.
«Ma chi si
vede!»
trillò una voce alle mie spalle.
Una
cascata di brividi mi fece trasalire, soprattutto perché sapevo a chi
apparteneva quella voce.
Sophia
McAvy. Laureata a soli ventidue anni, con ben due semestri d’anticipo,
aveva
frequentato il mio stesso master con l’intento di lavorare
all’ambasciata
statunitense. Era figlia del giudice McAvy, perciò aveva la strada
lavorativa
davanti a sé completamente spianata.
Soltanto
io avevo dovuto lottare con le unghie e con i denti per quel maledetto
tirocinio.
«Sophia!» esclamai,
fingendo di essere felice di rivedere quella antipatica. «Come stai?»
Notai
che il suo sguardo smeraldino si era posato sul mio vestito e sulle
scarpe
abbinate. Era alquanto sorpresa dal mio aspetto.
«Io benissimo,
ma vedo che anche tu ti sei data una bella restaurata!»
Restaurata?
Ma anvedi questa!
«Eh si,
diciamo che per questa sera mi sono vestita elegante e un po’ fuori dai
miei
soliti schemi,»
le risposi, trattenendo a stento la voglia di mandarla a quel paese.
«Sì, infatti!
Ricordo perfettamente che venivi a lezione con quei ridicoli pantaloni
con le
pences e quei dolcevita da mercatino dell’usato!»
Premettendo
che quei maglioncini ancora li avevo, strinsi con forza la mia pochette
e mi
imposi fermamente di non tirargliela in testa, almeno fino a quando la
festa
non fosse finita.
Dio
quanto la odiavo.
Ad
interrompere quello sciorinare di insulti, arrivo un uomo sulla
trentina. Lo
riconobbi perché era stato uno dei nostri supplenti al corso. Mr.
Antony Brown
era stato il sogno proibito di ogni singola studentessa nel corso di
quelle due
lunghe ed intense settimane come rimpiazzo.
«Come va,
tesoro?»
disse rivolto a Sophia, posandole una mano sul fianco
La
rossa mi sorrise malignamente, fissandomi dritta negli occhi. «Ti ricordi di
Venera? Quella ragazza italiana che veniva da un piccolo paese sperduto
chissà
dove?»
chiese, rivolgendosi al compagno.
Il
professor Brown mi fissò attentamente, poi sorrise. «Ne ho visti
tanti di studenti, amore. Ricordo solo il tuo di volto.» E la baciò.
Ora
potevo ufficialmente dare di stomaco. L’idea di partecipare a quella
ridicola
riunione di classe stava diventando ancora più imbarazzante di quanto
mi fossi
immaginata.
«Sai, io e
Antony abbiamo iniziato ad uscire una volta conseguito il master.
Diciamo che
si è trattato di amore a prima vista,» trillò lei estasiata.
Lui
annuì sorridente.
Che
quadretto disgustosamente stucchevole. Dov’era il bagno per poter
vomitare?
«Tu sei venuta
da sola, invece? Mi dispiace, ma vedrai che l’uomo giusto ti aspetta
all’angolo, magari vicino al buffet!» e mi strizzò l’occhiolino,
alludendo ad un uomo piuttosto obeso che continuava ad ingurgitare
bignè di San
Giuseppe come se fossero patatine.
«Già,» sospirai.
«Vuoi
qualcosa?»
mi disse una voce, mentre un piatto strabordante di rustici apparve
davanti al
mio viso.
Simone
continuava a masticare senza curarsi della presenza di Sophia e del
professor
Brown. E subito dopo era piuttosto concentrato se prendere un rustico
ripieno
di prosciutto cotto oppure di zucchine. Scelta ardua, davvero.
«No grazie,
mangiali tu,»
gli dissi, spostando il piatto da davanti il mio viso.
Lui
fece spallucce e continuò a mangiare, accorgendosi solo allora della
presenza
degli altri due interlocutori. Si pulì distrattamente la mano su un
tovagliolo
e la porse al professore.
«Piacere, Simone,» disse
impeccabile.
Afferrai
al volo un flute di champagne da uno dei camerieri che passavano,
magari
cominciare a bere mi avrebbe aiutato a dimenticare quella serata già
cominciata
male.
Simone
però me lo strappò di mano e ne bevve il contenuto rimasto.
«Grazie!» sospirò
infine, poi si rivolse a Sophia, sfoderando uno dei suoi sorrisi sexy
brevettati.
«Piacere
mademoiselle, je suis Simon…»
aggiunse, prendendole la mano e baciandone il dorso. «Enchanté.»
Lo
fissai allibita, con la bocca semi-aperta e lo sguardo da triglia
lessa.
Possibile che fosse impossessato? Mi sarei dovuta preoccupare?
Sophia
era sconvolta tanto quanto la sottoscritta. «Piacere. Ma tu non sei quel
giocatore famoso? Quello che si vede a tutti i notiziari?» domandò lei
sorridente.
Era
come se improvvisamente il professor Antony fosse sparito dalla faccia
della
terra. Ovviamente Simone stava sguazzando nella sua popolarità, era
quello che
gli riusciva meglio.
Ed
io che avevo pensato di passare inosservata.
«Sì sono
proprio io e sì, anche un calciatore di fama mondiale che ogni tanto si
reca in
una delle università più prestigiose al mondo,» cominciò ad auto-compiacersi.
Cercai
di rifilargli una gomitata per far sì che evitasse di rendersi
ridicolo, ma
poco dopo mi bloccai perché attorno a noi si era creata una sorta di
piccola
folla di fans.
Possibile
che insieme a Simone fosse tutto così imprevedibile?
«Con chi sei
venuto?»
«Anche tu hai
frequentato qualche corso?»
«Hai portato
qualche top model con te?»
«Domenica hai
giocato divinamente!»
Queste
furono più o meno le domande che si accavallarono l’un l’altra nei
successivi
venti minuti, e per fortuna Sophia fu allontanata dalla sottoscritta.
Alla
fine è stata una fortuna
che si sia offerto di accompagnarti.
La
prossima volta che ci sarà una riunione di classe – a cui ovviamente
NON
parteciperò – terrò presente le doti nascoste di Simone.
«Ho
frequentato anche io Cambridge,»
disse lui sorridente e quella notizia mi giunse nuova. Stava forse
scherzando? «Ho dovuto
mollare per inseguire il mio sogno più grande, che si è realizzato tre
anni fa,
quando sono diventato titolare dell’Arsenal. Ora sono qui in veste di
accompagnatore della mia Venera.»
C’erano
un paio di cosucce che non quadravano affatto in quella frase. Numero
uno,
davvero uno come lui era riuscito ad entrare a Cambridge? Numero due,
aveva
davvero detto “mia Venera”, senza aggiungere qualche altro nome
dispregiativo?
La
piccola folla di fans mi fissò come se fossi appena diventata la
Madonna di
Fatima, con tanto di miracolo in corso. Si trattava di Simone Sogno,
non Johnny
Depp!
Scostai
poco delicatamente le mani che il calciatore mi aveva poggiato sulle
spalle
nude. «Okay,
gente. È stato davvero un piacere rivedervi, ora ho bisogno di bere,» dissi
plateale, cercando di raggiungere il buffet.
Intercettai
Sophia qualche fila di persone più in là, che sorrideva compiaciuta e
continuava imperterrita a spettegolare con altre quattro comari. Ero
sicura al
cento per cento che stessero lanciando malignità contro la sottoscritta
e mi
ripromisi mentalmente di non andare mai più ad una di queste buffonate.
Passare
il sabato sera a guardarsi l’intera seconda stagione di
Law&Order, quello
sì che era un passatempo costruttivo!
Raggiunsi
il tavolo con le bevande prima di quanto avessi sperato, così mi
fiondai su del
poche che aveva vagamente l’aspetto alcolico. Non che volessi
ubriacarmi, anche
se ci avessi provato non ci sarei riuscita. Avevo passato l’intero
periodo
universitario sui libri, perciò avevo tentato di tutto pur di
guadagnare quelle
tre ore di sonno che mi permettessero di ricaricarmi.
La
sbronza era stata una delle soluzioni.
Perciò
ero diventata quasi del tutto immune all’alcool, ma di tanto in tanto
ne
sentivo il bisogno. Soprattutto quando la scena ti veniva completamente
rubata
da un calciatore che non avevi nemmeno programmato di incontrare, e che
ora era
il tuo cliente nonché accompagnatore.
Scandagliai
la sala in cerca di un posto tranquillo dove nascondermi per le
prossime due
ore, almeno fino all’arrivo di James che ero sicura mi avrebbe salvata.
Vidi
la finestra che dava sul cortile leggermente aperta e decisi di sfidare
il
freddo. Di sicuro non avrei trovato nessuno che mi importunasse lì.
Potevo
stare lontana dal chiacchiericcio e dalla vita mondana per un po’.
Mi
assottigliai quel tanto da poter riuscire a passare al di là della
finestra
semi dischiusa e mi ritrovai davanti il paesaggio dell’intero campus
universitario. La prima neve della stagione non era ancora scesa, ma ne
percepii l’odore nell’aria. Ormai mancava poco e anche se non ero una
londinese
doc, avevo sviluppato una sorta di sesto senso.
Rabbrividii.
Il freddo era pungente in quella stagione, ma quello vero doveva ancora
arrivare. A me sarebbe bastato sfuggire a quella serata e magari
affrontare l’indomani
senza ulteriori intoppi.
Uno
di questi sarebbe stato il processo.
Mi
appoggiai con le mani alla balaustra di pietra, fissando lo sguardo
oltre
l’orizzonte ammantato di buio. C’erano i lampioni vittoriani che
illuminavano
gli edifici principali della città universitaria e ricordai vagamente
come
fosse vivere lì.
Soltanto
una cosa mi tornò alla mente, ed era la nostalgia di casa.
«Sapevo che ti
avrei trovata qui,»
disse Simone, apparendo alle mie spalle. Doveva sempre fare il
guastafeste,
anche quando non ne aveva l’intenzione. C’era un motivo se le persone
cercavano
di starsene un po’ sole con i propri pensieri.
«Già stanco
della folla?»
lo schernii, voltandomi per incontrare il suo sorriso beffardo.
Non
c’era, o perlomeno non era uno di quei sorrisi.
Mi
porse un cappotto di pelliccia bianco, con un paio di guanti ed una
morbida
sciarpa. Lui già indossava il suo, quello che aveva depositato nel
guardaroba.
«E questo dove
l’hai preso?»
domandai, assumendo immediatamente quel cipiglio ammonitore.
Simone
fece spallucce e mi fissò con l’aria di un bambino che ne aveva appena
combinata una delle sue. «Diciamo
che è per gentil concessione di una certa Sophia. Per ora non le serve,
visto
che sta “discutendo” con Antony e con il suo essere solo un misero
professore
di Diritto.»
Cercai
di trattenere un sorriso di trionfo, ma non ci riuscii.
«Eccolo lì!» indicò
Simone, riferendosi al mio gesto divertito. «Allora anche gli avvocati sanno
ridere! Pensavo foste tutti d’un pezzo, che vi forgiassero con lo
stampino.»
«Non sei
divertente,»
mormorai, senza smettere di sorridere. Il buonumore di Simone era
maledettamente contagioso. «E
anche se il tuo gesto è stato stranamente
galante, non posso rubare il cappotto di Sophia.»
«Non lo stai
rubando, è un prestito,»
si giustificò lui.
Gli
rifilai uno sguardo serio, da avvocato. «È meglio riportarlo dentro,» dissi,
facendo per entrare.
Simone
però mi sbarrò la strada posando un braccio sulla portafinestra. I suoi
occhi
erano più scuri di quel cielo dicembrino ed io rabbrividii, ma non per
il
freddo. Mi sentivo di nuovo strana, come ormai succedeva fin molto
spesso.
«Andiamo,» disse lui,
serio.
Era
una delle rare volte in cui non faceva lo scemo o il ragazzino. Rimasi
spiazzata da tutta quella sua sicurezza.
«Dove?» chiesi ingenuamente.
Mi ero ripromessa di non cadere nel suo stupido gioco, ma mi era quasi
impossibile non dargli corda.
Simone
allora sorrise e non uscì più fiato dalle mie labbra congelate. «Fammi vedere
dov’è che ti nascondevi dal mondo,» pronunciò solamente, lasciando
la portafinestra e dirigendosi giù per dei gradini che conducevano al
grande
giardino antistante il rettorato.
A
quel punto avevo due scelte di fronte a me: indossare quella
eco-pelliccia
rubata ad una stronza di cui non mi importava nulla e seguirlo, oppure
tornare
dentro, restituire il cappotto e svuotare l’angolo dei liquori.
Decisi
che per quella sera sarei rimasta sobria.
Con
le mani affondate nelle tasche e la sciarpa che faceva tre giri
completi
attorno al mio collo, mi incamminai verso il grande lago dove si teneva
l’annuale gara di canottaggio tra gli atenei rivali di Oxford e
Cambridge.
Simone
mi camminava al fianco, stranamente silenzioso.
Avvolto
nel suo cappotto nero, dal taglio classico, assomigliava ad uno di quei
modelli
da atelier newyorkese. Ce lo avrei proprio visto a sfilare in
passerella.
«E così anche
tu hai studiato qui.»
Ecco, lo avevo detto.
Sicuramente
mi avrebbe liquidata con un “fatti i cazzi tuoi, nanerottola” ma la mia
curiosità genetica, aumentata a dismisura a causa della professione di
avvocato, non mi impedì di tacere.
Simone
la prese bene, e sbuffò in una risata. «Non ce la fai proprio a
resistere, eh?»
mi chiese divertito.
Lo
fissai imbronciata. «Se
non vuoi dirmelo, pazienza. Sopravvivrò.»
«Sì certo,
come no. Comincerai a farti tremila strane idee su di me e sul motivo
per cui
ho lasciato questa università, compresa qualche gravidanza
straordinaria.»
«Perché? Ho
forse torto? Ti ricordo il motivo per cui mi hai assunta,» gli
rinfacciai.
Adesso
s’incupì. C’erano modi e modi per affrontare una conversazione così
delicata,
ma io e Simone affrontavamo i problemi sempre nel peggiore di tutti i
modi
possibili.
Calò
di nuovo il silenzio mentre continuavamo a camminare sulla passerella
fatta di
ciottoli che conduceva sino alla sponda del lago. C’era un po’ di bruma
quella
sera. Una densa foschia si era appoggiata sulla superficie e dava un
aspetto
lugubre a quel luogo. Con le guglie in stile gotico che spuntavano
all’orizzonte, era il paesaggio perfetto in cui ambientare un film
horror.
«Mio padre mi
ha iscritto, ha pagato la retta per un anno intero. Io non ho mai
frequentato,» disse lui di
punto in bianco, sorprendendomi.
Incrociai
il suo sguardo per puro caso, ma lo distolsi subito. Non volevo che
cambiasse
argomento. Non ora.
«E perché?» chiesi,
cercando di non risultare troppo invasiva.
Simone
si riscaldò le mani con uno sbuffo di fiato. «Era il suo sogno, non il mio. Io
volevo soltanto giocare a pallone. Ancora adesso mi rinfaccia i tempi
di Cambridge.»
Era
strano come si fosse aperto con me, senza che io gli chiedessi nulla.
Da una
parte avevo intuito che non scorresse buon sangue tra di loro, anche
quando il
signor Marco era venuto a trovarlo e lui si era nascosto in camera. Ero
più che
sicura che ci fosse dell’altro, ma forse questo per ora bastava.
«Invece la tua
vita qui era perfetta, immagino,» commentò subito dopo,
sarcastico. «Miss
trenta e lode. I professori facevano a cazzotti per averti nei loro
corsi.»
La
verità sulla mia vita, detta così, poteva suonare davvero idilliaca, ma
lui non
aveva idea di che calvario era stato mantenere una media decente per
arrivare
sin dove ero ora.
«Non credere
che la mia vita sia stata rosa e fiori. Di certo mio padre non aveva
soldi da
buttare per iscrivermi ad una università che poi non avrei frequentato.»
Forse
ero stata troppo dura, ma anche lui mi aveva attaccata.
Infatti,
ci scambiammo uno sguardo che avrebbe congelato anche il Sahara.
Poi
lui sdrammatizzò. «Hai
sempre la battuta pronta, Lil’Elf.»
«Non capisco
perché continui ad affibbiarmi quel ridicolo soprannome. È stupido, e
soprattutto mancano ancora venti giorni a Natale.»
Ci
avvicinammo ad un piccolo gazebo rialzato, a cui si accedeva tramite la
piattaforma di ciottoli che conduceva al grande lago.
«Così,
assomigli ad uno di quei piccoli e paffuti elfi di Babbo Natale. Quelli
che si
mettono nei giardini delle case di periferia durante le feste.»
Affondai
il viso nella sciarpa e lo fissai di sbieco. «Guarda che non sono io ad essere
bassa, ma sei tu ad essere spropositatamente alto.»
Simone
scoppiò in una fragorosa risata che mi scaldò il petto. Possibile che
un suo
semplice gesto così spontaneo riuscisse ad influenzarmi tanto?
«Questa è la
giustificazione più scema che abbia mai sentito,» commentò.
«Perché non
ascolti le tue,»
sibilai, offesa.
Le
mie scuse erano valide, anzi, potevo anche prendere il diploma da scusologa se solo fosse esistita tale
scuola.
Arrivammo
al gazebo e puntammo lo sguardo verso il lago avvolto dalla bruma.
L’Inghilterra
mi piaceva, dovevo ammetterlo, aveva dei paesaggi stupendi e delle
atmosfere
davvero sensazionali. Ma non era casa.
«Com’è che
siamo qui?»
mi chiese lui, nascondendo il naso rosso nel bavero del cappotto.
Vidi
filari di edera completamente spogli, perché il freddo dell’inverno
incombeva
su tutta la vegetazione ormai. «Volevi
vedere il posto dove mi nascondevo dal mondo?»
Non
ci furono più bisogno di parole, gli occhi del calciatore parlarono per
lui. La
mia vita non era stata che un tour de force passato sui libri, per
rincorrere
quella media che mi avrebbe permesso di partecipare al programma di
tirocinio
alla Abbott&Abbott.
Era
in quel gazebo che passavo i miei pomeriggi, sottolineando e
trascrivendo
appunti, facendo schemi, riascoltando le lezioni mentre tutto il resto
del
mondo mi scorreva intorno.
Simone
passò un dito sul legno rovinato della struttura. Una volta doveva
essere
bianco, ora c’era solo le croste rialzate di vernice e il legno
inumidito dal
tempo.
«Ti manca casa
tua?»
mi domandò di punto in bianco, guardandomi fisso.
C’erano
persone che riuscivo a leggere dentro e fuori, che riuscivo a decifrare
prima
ancora di conoscerle. Faceva parte della mia persona, del mio
carattere, e mi
era sempre tornato utile nel mio lavoro.
Simone
non era una di quelle. Era come un punto interrogativo, un cerchio
sfocato che
cambiava da qualunque angolazione lo si vedesse.
Un
enigma insolvibile.
«Che domande
fai?»
sorrisi, nervosa.
Il
calciatore si avvicinò, senza mai smettere di guardarmi. «Tu non sei
nata qui, come me. Ti ho chiesto se ti manca l’Italia.»
Come
ci riusciva? Com’era in grado di percepire il mio disagio così
facilmente, dopo
tutta la fatica che avevo fatto per costruirmi questo muro attorno.
Fissai
un pesce che saltò al centro del lago, spruzzando l’acqua tutta
attorno. «Mi piace
stare qui e amo il mio lavoro,»
dissi sincera. «Ho
sempre sognato di vivere a Londra, di andarmene dal mio paese perché
era troppo
piccolo e opprimente, troppo tradizionale. Sapevo che rimanere in
Italia mi
avrebbe limitata.»
Perché
lo stavo facendo? Per quale motivo mi stavo aprendo con lui? Non lo
sopportavo.
Non c’era giorno che desiderassi farlo fuori per il suo disordine e la
sua
immaturità. Eppure non riuscivo a fermarmi.
«Però…?» incalzò lui.
«Già, però,» ripetei,
alzando lo sguardo e incontrando i suoi occhi. «Immagino che nemmeno per te
sarebbe facile vivere lontano dalla tua famiglia. Siete così uniti.»
E
per chi sarebbe stato facile?
Simone
infatti annuì e tornò a fissare le acque del lago. Cercai il mio
telefono nella
pochette e vidi che si erano già fatte le 21.40 di sera. Alla fine
sarebbe
mancata qualche ora e finalmente saremmo potuti tornare a casa. In
fondo,
avevamo fatto presenza e questo era quello che contava.
Vidi
un messaggio lampeggiare sul display. Sapevo già di chi fosse prima
ancora di
aprirlo e qualcosa tradì il mio sguardo perché Simone se ne accorse.
«Non viene,
eh?»
mormorò tranquillo.
Lessi
le poche parole dell’SMS, poi rimisi a posto il telefono. Non doveva
darmi
alcuna giustificazione, non stavamo insieme.
Improvvisamente
il telefono mi fu strappato dalle mani. Tentai di protestare, ma il
metro e
novanta di Simone mise una bella distanza tra me e l’apparecchio.
«Questo lo
sequestro io, così per una volta la smetti di sbavargli dietro,» disse
irremovibile.
«Io non sbavo
dietro a nessuno!»
m’impuntai ma lui si avvicinò talmente tanto da fermarsi a pochi
centimetri dal
mio viso.
Sentii
le guance andare in auto-combustione. «Seh, come no,» ridacchiò.
Lo
spinsi via senza fare troppi complimenti, anche perché quella
confidenza che
stava pian piano prendendo nei miei confronti non mi piaceva per
niente.
«Smettila di
fare il bambino. È come se prendessi la vita come un gioco,» lo
rimproverai.
Lui
si stiracchiò le braccia e si mise il mio telefono in tasca. «Forse sarebbe
più semplice se si riducesse il tutto ad una partita di calcio, non
trovi?»
Cos’era?
Il momento filosofico di Simone Sogno?
«Pensa un po’,
pensa se tutto si potesse risolvere con un goal, con un’azione da un
punto. Se
ogni problema durasse solo novanta minuti.»
Posò
entrambe le mani sul corrimano scorticato.
«Sarebbe
bello, certo,»
lo appoggiai. «Ma
quel lasso di tempo riguarderebbe sia le gioie che i dolori. Saresti
disposto a
barattare la tua felicità?»
Bisognava
affrontare la realtà di petto, non attaccarsi a quelle misere
quisquilie.
Soltanto un ragazzo immaturo come Simone si sarebbe potuto attaccare ad
un
discorso del genere. Come se sfuggire ai propri problemi fosse così
semplice.
Mi
cercò con la coda dell’occhio. Sorrise.
«Ci sono molti
piaceri che possono durare anche meno di novanta minuti,» mormorò
malizioso, cambiando discorso.
Roteai
gli occhi al cielo. Sempre il solito marpione, non c’era nulla da
aggiungere.
Non si potevano fare discorsi seri con lui, non se finiva sempre col
ridurre il
tutto ad uno scherzo.
«Sei sempre il
solito. Non esiste soltanto il sesso al mondo, ci sono molte piccole
gioie che
durano nel tempo – come veder crescere i propri figli, vederli imparare
a
conoscere il mondo – che non possono durare novanta miseri minuti!»
Simone
ci pensò su, o almeno fece finta. Era come se per lui la vita stessa
fosse un
luna park, che prendesse ogni cosa sotto gamba, che affrontasse la vita
come se
ruotasse sul tabellone di un gioco da tavolo.
Tira
i dadi, ora tocca a te.
«Sì, ma per
mettere al mondo dei figli, devi fare quello che dicevo io, giusto Miss
trenta-e-lode?»
osservò.
Lo
odiavo. Era vero quello che diceva, ma c’era bisogno di ribadirlo con
quel tono
da saputello dei miei stivali?
«Ehi, voi due!» una voce in
lontananza ci sorprese.
Era
un uomo anziano con una torcia che si dimenava e sbraitava nella nostra
direzione. «Cosa
ci fate lì? È pericolante! Andatevene o chiamo la vigilanza!»
«Chi è?» domandò Simone,
afferrandomi d’istinto una mano.
«Non lo so,
sarà un custode!»
gli risposi, non capendo il perché di tutto quell’allarmismo. Okay, il
gazebo
era pericolante, ma sarebbe bastato scendere.
«Al mio tre,
inizia a correre,»
mi sussurrò lui, incredibilmente vicino.
Intanto
il signore anziano continuava a sbraitare di allontanarci da quella
costruzione
pericolante.
Fissai
Simone allibita. «Con
dodici centimetri di tacco?»
Era
completamente fuori di senno. Uno, non c’era assolutamente bisogno di
correre,
visto che quel vecchio non era né Bolt né un killer pronto ad
assassinarci;
Secondo, soltanto un uomo poteva dirti di metterti a correre con un
paio di
scarpe come quelle.
«Toglile,» mi suggerì
lui, sbrigativo.
«Stai
scherzando.»
«Dai toglile.
Sbrigati, sta arrivando.»
Simone
si era drogato, ormai non c’era altra spiegazione. «Scordatelo.»
«Eddai, Ven.
possibile che tu debba sempre essere così fastidiosamente
perfezionista? Non
hai mai fatto una cosa scema tanto per fare?»
E
feci l’errore di incontrare i suoi occhi. C’era una strana luce, come
quella di
uno sguardo che prometteva avventure, magari qualche pazzia. Il mio
cuore
cominciò a battere frenetico, mentre tentavo in tutti i modi di dare un
senso a
quello che fino ad ora avevo fatto.
Avevo
mai avuto il coraggio di osare? Effettivamente, mi ero mai lasciata
andare?
C’era
poco tempo per decidere, così seguii l’istinto e mi sfilai le scarpe
velocemente, precedendo Simone nella corsa. Certo, lui era un
calciatore
allenato, perciò mi raggiunse in poco tempo.
Mi
voltai per vedere a che punto fosse il vecchio custode e nonostante
l’età notai
che ci stava alle calcagna.
«Corri Ven,
corri più forte che puoi,»
mi disse Simone sorridendo.
E
così feci. Strinsi con forza le scarpe che mi erano costate l’ammontare
di duecentocinquanta
sterline e corsi, sporcandomi le calze nel fango e nell’umido.
Chissà
cosa avrebbe detto Sophia vedendomi rientrare sporca e sudata, col suo
cappotto
di eco-pelliccia per giunta. In quel momento m’importava soltanto del
vento che
mi sferzava forte sulle guance e l’aria fredda che sentivo scendere giù
per la
gola, bruciandola.
Simone
teneva il mio stesso passo, anche se sapevo che avrebbe potuto fare
molto di
più. Lo avevo visto giocare, era veramente bravo.
«Da questa
parte!»
mi disse, afferrandomi il polso e trascinandomi dietro le gradinate
divelte del
campo di lacrosse.
Ci
nascondemmo in uno spazio strettissimo, a mala pena riuscivamo a
respirare.
Simone si addentrò ancora di più, per sfuggire alla luce di un lampione
che
altrimenti ci avrebbe fatti scoprire. Non sapevo perché stavamo facendo
tutto
quello, in fondo eravamo ospiti mica infiltrati.
Eppure
questa volta non avevo voglia di contraddire.
Il
custode arrancò poco tempo dopo, puntando la torcia elettrica lungo
tutto il
campo di erba verde. Aveva il fiatone ed era parecchio stanco, ma
scandagliò
minuziosamente tutto il prato.
«Dannati
ragazzacci!»
grugnì poco dopo, tenendosi il petto per il fiato corto e cominciando a
fare
dietro front.
Sentivo
il cuore di Simone battere contro il mio orecchio, anche con tutti gli
strati
di stoffa che ci dividevano. Avevo riottenuto il mio metro e
sessantadue
scarso, perciò non gli arrivavo più alle spalle, ma quella posizione
striminzita mi fece comunque ascoltare il suo battito.
Era
lento, regolare, come se la corsa non gli avesse fatto il minimo
effetto. Io
invece stavo per morire infartuata.
D’altronde
che pretendi, corre
dietro ad una palla dall’età di cinque anni.
Touché.
«Credo che se
ne sia andato,»
disse lui, sporgendosi oltre la balaustra.
Potevo
chiaramente percepire l’odore dell’acqua di colonia che di tanto in
tanto
avvertivo nel bagno. Rimaneva di quel profumo per giorni interi dopo
che se
l’era messa. La indossava soltanto quando usciva con le giraffone.
Ti
sei auto-promossa giraffona?
Simone
tornò a guardarmi e solo allora mi accorsi di quanto fossimo vicini,
praticamente appiccicati. Quegli occhi neri erano tutt’uno con
l’oscurità che
ci avvolgeva e soltanto una piccola lama di luce gli illuminava poco
meno di
metà del volto.
Quella
serata non doveva finire così, non avevo minimamente programmato che si
concludesse in quel modo. Innanzitutto, Simone non ci sarebbe dovuto
essere.
Simone era stato il tassello del domino che aveva fatto crollare
l’intero
ingranaggio.
Mi
guardava. Stava adottando quell’espressione che ormai gli avevo visto
fare
milioni di volte e che non sopportavo. Non riuscivo a sfuggire a quello
sguardo, era troppo intenso.
«Smettila,» dissi,
slacciando lo sguardo dal suo.
Non
potevo, non ancora. Mi ero appena districata da una semi-relazione con
un mio
collega, nonché superiore, per il bene della mia carriera e della causa
di cui
mi stavo occupando. Non dovevo caderci di nuovo.
Intrattenere
rapporti con un proprio cliente era doppiamente sbagliato!
«Di fare cosa?» ridacchiò
Simone, notevolmente divertito da tutta quella situazione imbarazzante.
«Di guardarmi
così.»
risposi, ritornando in trappola.
Erano
come una calamita per me quegli occhi, come sabbie mobili. Più tentavo
di
sfuggire, e più affondavo, lentamente, verso una morte lenta e
soffocante.
Il
calciatore continuò a sorridere. «Perché? Com’è che ti guardo?»
Ora
stava diventando davvero imbarazzante, anche quella posizione scomoda.
Tentai
di liberarmi e vi riuscii, camminando imperterrita per raggiungere di
nuovo il
rettorato.
Con
i piedi sporchi o meno, poco m’importava.
«Ehi!» disse lui.
Gli fu sufficiente un passo per raggiungermi, poi mi afferrò per un
polso e mi
costrinse a girarmi. «Vuoi
dirmi cosa diavolo ti prende ora? Perché mi dici di smetterla di
guardarti?»
Possibile
che fosse così ottuso? Come faceva a conquistare quelle giraffone se
nemmeno si
rendeva conto di esercitare quello strano magnetismo su di loro.
«Oh! Come se
non lo sapessi, eh? Sguardo magnetico, ti dice niente?» lo
rimbeccai.
Ero
sporca di terra, infreddolita, ma non fessa.
Simone
sembrò davvero adottare una faccia piuttosto perplessa. «Ora stai
cominciando a spaventarmi,»
asserì.
Non
voleva proprio capire, faceva il finto tonto!
«Senti, non mi
interessa minimamente quale tecnica adotti con le tue belle modelle
senza
cervello, ma io non soccomberò a quel tuo fascino da calciatore
consumato che
ti ritrovi!»
esclamai, facendo una scenata plateale.
Allora
il calciatore scoppiò a ridere. Rimasi allibita nel vederlo contorcersi
e
divertirsi alle mie spalle. Decisi di riprendere da dove avevo
cominciato e dirigermi
verso il rettorato. Non era stata affatto una buona idea seguirlo.
Nossignore!
«Ferma, dove
vai?»
disse lui, ricomponendosi. «Pensi
davvero che ci stessi provando prima?»
Lo
guardai scettica. «Sai,
non sono nata ieri. Me lo rinfacci ogni santo giorno, per cui...»
Simone
colmò la distanza che ci divideva con due lunghi passi e mi sovrastò
con la sua
altezza. Ora i lampioni di tutto il giardino gli illuminavano
pienamente il
viso, facendo brillare di bianco quella sua pelle chiara e delicata.
«Se avessi
voluto provarci…»
soffiò, alzando una mano e cominciando ad accarezzarmi i capelli. «…ti avrei
sfiorato la guancia accaldata e ti avrei sussurrato parole smielate.»
Poco
dopo si abbassò e avvicinò le sue labbra al mio orecchio. Rabbrividii
sentendo
di nuovo il suo respiro sulla mia pelle, come quella volta nel camerino
del
negozio. Non potevo permettergli di manovrarmi come un burattino, non
lo avevo
mai lasciato fare a nessuno.
Io
sono padrona della mia vita.
Schiuse
le labbra e soffiò lentamente. «Tu
non sei come le altre,»
disse, poi si allontanò leggermente, liberando anche l’altro orecchio
dall’ingombro dei capelli a caschetto. «Non ho mai conosciuto nessuna
con la tua stessa forza, con la tua determinazione. Sei capace di
zittirmi.»
Si
scostò ancora, stavolta guardandomi negli occhi. Ormai sentivo
distintamente i
battiti del mio cuore che rimbombavano nella gabbia toracica, un
cavallo
impazzito che galoppava veloce.
Avrei
dovuto fermarlo. O adesso, oppure mai più.
«Ti prego non
farlo…»
smozzicai con la voce appena udibile. Avvertii di nuovo le lacrime di
quella
sera che continuavano a spingere agli angoli degli occhi, ed io che mi
obbligavo a ricacciarle indietro. Dovevo essere forte.
Simone
si stupì di quella mia richiesta, ma non l’ascoltò. Posò entrambe le
sue grandi
mani dietro la mia nuca e mi guardò. «Non posso più fermarmi,» mormorò
solamente, prima di chinarsi e annullare completamente la nostra
distanza.
Fu
strano, diverso da come me l’ero aspettato. Baciare Simone fu come
un’esplosione d’energia all’interno del mio corpo, sentii distintamente
tutta
la tensione e la rabbia che provavo nei suoi confronti fluire via dal
mio
corpo.
Il
suo profumo, la sua pelle, tutto mi stava entrando lentamente dentro.
Mi
aggrappai con forza al risvolto del suo cappotto, come se fosse l’unico
appiglio per non sprofondare ancora più in basso, verso l’ignoto,
dritta in un
punto di non ritorno.
L’avevo
fatto. Avevo ceduto.
Non
ci sarebbero stati sufficienti gironi dell’Inferno dantesco per
giustificare
quello che avevo fatto, io che mi ritenevo una ragazza ligia al dovere.
Prima
James, adesso Simone.
Ma
lui sta scavando dentro la
tua anima.
Ci
staccammo quel tanto per riprendere fiato. Occhi negli occhi. Lo
afferrai forte
per paura che mi sfuggisse, che si trasformasse in fumo e mi
abbandonasse.
Affondai le mani nei suoi capelli, quelli che avevo sempre immaginato
avere la
stessa consistenza della seta.
Ed
erano morbidi allo stesso modo.
Ebbi
più volte l’opportunità d’interrompere, di smetterla con quella farsa,
di troncare
il tutto sul nascere. Anche perché non c’era e non ci sarebbe stato
nessun
“tutto”. Era un bacio, fine della storia.
Eppure
non mi scostai, non lo fermai neppure una volta. Non negai nemmeno il
suo
invito ad andarcene prima dalla festa, ad abbandonare tutto, compreso
il
cappotto di Sophia, e tornare a Soho. Quella notte sarebbe stata una
parentesi
aperta e poi subito richiusa, ne ero più che certa. Avevamo aperto una
finestra
sul mondo che nessuno dei due poteva permettersi, perciò andava
richiusa al più
presto.
«Ven…» soffiò lui,
sulle mie labbra. Non ci eravamo quasi mai staccati da quando avevamo
lasciato
Cambridge con direzione Londra.
«Si?» chiesi
imbarazzata.
Ora
mi avrebbe detto che non ci sarebbe mai stato nulla tra noi, che
dovevamo troncarla
qui ed io avrei annuito. Era solo attrazione fisica, tutto qui. Venera
Donati e
l’Astinenza non andavano molto d’accordo.
Lo
sguardo di Simone era sempre più scuro, ombrato dalla passione e
dall’impeto
con cui avevamo dato sfogo a tutto quello.
«Smettila di
pensare.»
Poi si riappropriò delle mie labbra e persi il conto dei minuti e delle
ore.
Beh.. non so quanto possa essere
lunga la nota a fine capitolo, perché penso che questo - e lo
confermeranno anche le mie due fanghérl d'eccezione - rimane uno dei
capitoli più belli che abbia scritto. Il primo bacio non si scorda mai,
e penso che nemmeno Ven e la sua acidità riusciranno ad obliare quanto
dolce sia stato Simone oggi.
Dopo aver appreso l'ahimé triste notizia della gravidanza di Jessian
(aka Cessian) aka fidanzata di Chico, la mia amata wife spera soltanto
nella trama di questa storia, perché vada diversamente da com'è la
realtà #sob
Detto ciò, non mi prolungo in note inutili che tanto nessuno legge. Ci
becchiamo sul gruppo: Crudelie
- Le originali (diffidate dalle imitazioni)ricordandovi di mandarmi un MP
tramite facebook, altrimenti non possiamo farvi entrare (su fb sono
IoNarrante Efp - non potete sbagliarvi).
Bacioni e alla prossima :3
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Capitolo 15 *** Capitolo 13 ***
CAPITOLO 13
Avevo fatto uno strano
sogno
quella notte, davvero bizzarro. Ricordavo vagamente di essere andata
alla
famosa riunione di classe a Cambridge, di aver preso una lussuosissima
limousine, mandatami da James, ma che di lui non ve n’era stata
traccia.
Inoltre, come se non bastasse, mi parve distintamente di aver sporcato
le calze
di nylon che avevo acquistato di recente e di averle completamente
rovinate.
Mi sfuggiva il motivo però.
Ricordavo unicamente una grande corsa, a rotta di collo, per sfuggire a
qualcuno che ci inseguiva sbraitando, con una torcia elettrica tra le
mani
nodose.
Ci
inseguiva.
Me e Simone.
Di punto in bianco ricordai
le
sue labbra premute sulle mie, quella timida carezza che avevo avvertito
dietro
la nuca e i suoi polpastrelli che mi solleticavano i capelli.
Spalancai gli occhi e mi
rizzai a
sedere con uno scatto di addominali che mi avrebbe invidiato persino
Yuri
Chechi. Cercai di migliorare la mia vista ancora appannata dal sonno,
stropicciandomi gli occhi e mi ritrovai nella mia solita stanza da
letto.
O meglio, in una delle
stanze
dell’enorme appartamento di Mr. Sogno.
Calmati Ven, è stato solo
un
sogno. Non è successo niente, si è trattato di una fantasia come quando
l’hai
sognato completamente ricoperto di cioccolato.
Ebbi il terrore di spostare
lo
sguardo sul posto di fianco al mio, nel grande letto a due piazze. Se
avessi
visto il volto di Simone o un ciuffo dei suoi capelli castani spuntare
fuori
dalla trapunta, mi sarei messa ad urlare.
Fortunatamente non c’era
nessuno.
Il letto era intatto ed io tirai un profondo sospiro di sollievo, fin
quando
non sentii un intenso profumo di caffè provenire dalla cucina. Mi
accorsi solo
in quel momento di essere affamata, anche perché la sera prima non
avevo
toccato quasi nulla a quella festa.
Ora la domanda era una
sola: era
stato un sogno oppure la realtà?
Devi
smetterla di rifugiarti dietro le tue fantasie.
Scostai le coperte e cercai
di
indossare le mie pantofole, con gli occhi che ancora mi si chiudevano
dal
sonno. Che ora avevamo fatto ieri sera? Possibile che fossi così stanca?
Scendendo dal letto, notai
di
avere ancora indosso il vestito elegante della sera prima, ma per
fortuna avevo
avuto l’accortezza di sfilarmi le calze sporche, almeno per preservare
le
lenzuola.
Sicura
di essere stata tu a spogliarti?
Quel pensiero si insinuò
nel mio
cervello come un tarlo che cominciò a scavare sempre più profondamente,
e con
più forza. Lo sentivo grattare sulla scatola cranica, intaccarne la
superficie
e annidarsi al di sotto.
Scossi violentemente la
testa e
mi accorsi che erano già le nove di domenica mattina. Avevo dormito
troppo.
Mi diressi a passo veloce
seguendo il profumo di caffè che inondava la casa intera, e lì per lì
mi
domandai chi potesse aver messo su la macchinetta senza bruciarsi.
Simone non
riusciva nemmeno ad allacciarsi le scarpe, era impossibile che si fosse
svegliato di punto in bianco.
Superai il lungo corridoio
e
notai che la sua stanza aveva la porta socchiusa. Forse stava ancora
dormendo,
magari Sofia aveva avuto la magnifica idea di presentarsi presto quella
mattina
e sondare il terreno. In fondo era da un po’ che avevo il sospetto che
la dolce
sorellina di Simone mi spingesse, in qualche modo, tra le braccia del
fratello
più grande.
Come la stessa Susanna.
Come Gabriele.
E magari anche come Mr.
Marco.
Possibile che tutti
volevano me e
Simone felici e contenti?
Assurdo. Eravamo troppo
distanti
per stare insieme, non ci sarebbe mai stato un punto d’incontro tra noi
due.
Vivevamo su due lunghezze d’onda differenti, su due mondi distanti anni
luce.
E con immensa sorpresa lo
vidi
davanti la macchina del gas, con le spalle perennemente nude e i
muscoli che
guizzavano ad ogni suo movimento.
Stava preparando davvero la
colazione.
Fissai fuori dalla finestra
e
vidi un timido sole spuntare dalle tende color arancio spento. Era
davvero un
evento raro, quasi come vedere una bella giornata nel mese di Dicembre.
«Sei
un miraggio?»
gli chiesi, ridacchiando.
Simone si accorse della mia
presenza e si voltò, sorridendo. «Non ti ci abituare.» disse,
versando poi il caffè nelle due tazze che aveva precedentemente
preparato.
Mi avvicinai all’isola
della
cucina e mi sedetti –o meglio, mi arrampicai–
su uno degli sgabelli aspettando che il cameriere mi servisse la
colazione.
«Credevo
non fossi capace nemmeno a cuocerti un uovo al tegamino,» commentai,
avvicinando la tazza alle labbra e soffiandoci sopra.
Simone sogghignò. «Sono molte le
mie doti nascoste.»
Ridussi gli occhi a
fessure,
alzando un sopracciglio per la sorpresa. «E allora perché mi rompevi sempre
per prepararti la colazione, visto che sei capace?» gli feci
notare con ovvietà.
Il calciatore prese a
stiracchiarsi come un gatto, sbadigliando sonoramente e permettendomi
di fargli
una visita di ortodonzia. Infine, fece spallucce. «Perché mi
diverto a punzecchiarti.»
rispose tranquillo, cominciando a ingurgitare una serie infinita di
biscotti al
cioccolato.
Lo fissai senza trovare le
parole
per replicare. Era un bambino, punto. Un ragazzino intrappolato nel
corpo di un
ventenne, non c’era altra spiegazione.
«Contento
te.»
smozzicai, fingendo indifferenza.
In realtà ero tesa come una
corda
di violino, perché più guardavo i suoi occhi scuri, più ero convinta
che quello
che era successo l’altra notte alla festa non era stato affatto un
sogno. Eh
no. Le immagini si inseguivano nitide nella mia testa, quasi come se la
bobina
di un film si stesse srotolando nel mio cervello.
Il gazebo pericolante sul
lago,
la corsa fino al campo di lacrosse, il nascondiglio dietro gli spalti
di ferro
e l’attesa che il guardiano se ne andasse via. Era come se stessi
rivivendo
tutto una seconda volta, mentre stringevo con forza le mani sulla
tazza. Sotto
i polpastrelli percepivo ancora il battito accelerato del cuore di
Simone.
«Se
lo guardi intensamente non si raffredda di certo.» mi disse lui con ovvietà. «Se vuoi c’è
del latte in frigo.»
Mi riscossi da quei
pensieri come
se qualcosa mi avesse punto il posteriore e mi ritrovai a fissare gli
occhi
intensi di Simone, quasi li vedessi per la prima volta. Di punto in
bianco
arrossii senza nemmeno accorgermene, così afferrai la scatola dei
biscotti per
tenermi occupata in qualche modo.
Possibile che lui non
ricordasse
niente? Che non ne facesse parola?
Era quasi come se la sua
mente
fosse stata assente, oppure riusciva a fingere molto bene. Di sicuro
non sarei
stata la prima ad ammettere quello che avevamo fatto la sera prima.
Nossignore!
Anche perché per me non
aveva
significato un bel niente.
Come
non ti importa di James, giusto? A te interessa solo il tuo lavoro.
Esatto.
Ora come ora, però, quelle
parole
mi sembravano prive di senso. Io e Jamie ci eravamo allontanati
affinché la
nostra storia potesse avere un futuro migliore, senza sotterfugi né
bugie, ma
alla prima occasione mi ero gettata tra le braccia di un altro.
Anche se tecnicamente era
stato
lui a baciarmi. Almeno da quanto ricordassi.
Forse
hai davvero sognato.
Dall’indifferenza con cui
Simone
continuava a mangiare e a fissare la scatola dei biscotti, sembrava che
non
fosse accaduto nulla. Eravamo tornati a due giorni prima, dei completi
sconosciuti che condividevano l’appartamento, nulla più.
«Oggi
ho la partita.»
disse infine, sorseggiando il caffelatte. Alzò i suoi occhi scuri su di
me ed
io avvertii di nuovo quel brivido
rotolarmi giù per la schiena. Deglutii a fatica, senza riuscire a
parlare.
Sentivo le frasi appiccicate al palato, ma non riuscivo a staccarle da
lì.
«Verrai
a vedermi giocare?»
mi domandò, tranquillo.
Okay, ora quella storia
stava
suonando davvero ridicola. Ormai era più che sicuro che quello che era
successo
a Cambridge non era stato un sogno, bensì la nuda e cruda realtà, ma
l’indifferenza di Simone mi feriva, dovevo ammetterlo. Era pur vero che
se
avessimo affrontato quel discorso, avrei cominciato a sbraitare come
una pazza inferocita,
però mi faceva ancora più male quel silenzio.
Poi lui se ne usciva con
una
richiesta del genere, ed io mi ritrovavo senza respiro.
Perché era sempre così
dannatamente impulsivo?
James, bene o male,
riusciva ad
essere sempre prevedibile per la sottoscritta, quasi come un libro
aperto,
perché in fondo eravamo uguali. Simone invece era indecifrabile.
Cercai di ricacciare in
avanti la
vecchia e cara Venera. «Perché
dovrei, scusa? L’altra volta tua sorella mi ha incastrato. Ho di meglio
da fare
che vederti rincorrere una palla.» sibilai acida.
Non avevo alcun motivo di
prendermela con lui, non mi aveva fatto nulla di male ma quel silenzio
mi
distruggeva nell’anima. Era evidente che non gliene fregava niente né
di me, né
della festa.
Simone abbassò lo sguardo.
Per un
attimo mi parve deluso, poi però sfoderò quel suo solito ghignetto da
bastardo.
«Devi
scodinzolare appresso a quel fallito, vero?» sorrise malizioso.
C’era una luce diversa nei
suoi
occhi. Era evidente che diceva quelle malignità unicamente per ferirmi,
ma era
come se non ne fosse veramente intenzionato.
Lasciai da parte quei miei
sospetti e diedi retta unicamente alle frasi velenose che sputava la
sua bocca.
«Lascia
James fuori da tutta questa storia.» ringhiai, infastidita.
Possibile che qualsiasi
cosa gli
rispondessi, tirava sempre fuori l’argomento James? Era come se la sua
stessa
esistenza gli desse fastidio.
«Dì
la verità, ti piace essere sottomessa da quel pinguino con la lingua
lunga. Da
quel vecchio.» sibilò,
sempre più arrabbiato.
D’improvviso non capii
perché si
fosse alterato tanto, eppure quella stessa mattina mi era sembrato
stranamente
servizievole. I cambiamenti d’umore di Simone stavano cominciando a
darmi sui
nervi, soprattutto quando inveiva contro il mio collega senza alcuna
ragione
valida. Noi stavamo lavorando per lui, per aiutarlo e tirarlo fuori da
quella
scomoda situazione, eppure era come se lui non fosse riconoscente.
«Non
sono affari tuoi.»
tagliai corto. «Se
vuoi, chiama l’ufficio e fatti assegnare un altro avvocato.»
Ecco, lo avevo detto.
Finalmente
avevo tirato fuori quello che era il mio più profondo pensiero, ormai
stufa di
tutte quelle angherie nei confronti di James. Lui non gli aveva fatto
niente,
Simone lo odiava senza alcun motivo.
Il calciatore mi fissò
assottigliando gli occhi. «Bene.
Voglio che sia tu il mio avvocato, senza quel cretino al seguito.
Soltanto te.» insistette.
Roteai gli occhi al cielo,
cercando di nascondere il fatto di sentirmi stranamente lusingata da
quella
richiesta. «Sono
solo una tirocinante, non mi affideranno mai il tuo caso. Testone! Lo
vuoi
capire o no che non tutti hanno le tue fortune?» dissi sprezzante.
Simone allora strinse forte
i
pugni. «Non
voglio averlo tra i piedi. Odio che gironzoli attorno alle mie cose.» sibilò.
Alle sue cose? Intendeva
forse il
suo appartamento? Gli dava fastidio che di tanto in tanto gli era
piombato in
casa? Ormai non succedeva da tempo.
«Gli
dirò di tenersi lontano da casa tua, se ti da fastidio.» risposi
calma.
Era geloso del suo
appartamento?
Del suo spazio personale? Perfetto, bastava che James si tenesse alla
larga da
Soho e il gioco era fatto.
Il calciatore però scosse
la
testa irritato. Si alzò e svuotò il resto della colazione nel lavello,
facendola colare giù per lo scarico. Infine riempì la tazza di acqua e
posò le
mani sul bordo del lavandino.
«Per
quanto tu possa essere intelligente,» disse serio. «Alle volte le
cose più ovvie ti sfuggono da davanti il naso.» poi si allontanò verso la sua
stanza.
Quali cose ovvie?
«Che
vuoi dire?»
gli urlai dietro, ma lui si chiuse la porta alle spalle.
Mi alzai di scatto e
raggiunsi la
sua stanza. Irritata, cominciai a bussare forte. «Dimmelo! Non puoi sempre
uscirtene con queste frasi e poi nasconderti come un coniglio! Che vuoi
dire?»
Ovviamente non ottenni
risposta,
anzi, Simone accese lo stereo e piazzò una canzone a tutto volume, in
modo che
coprisse i miei schiamazzi.
Quanto era stupido e
infantile.
Possibile che mi irritasse in quel modo? Prima faceva lo gnorri
riguardo il
bacio della sera prima, come se non fosse accaduto nulla, e poi si
permetteva
anche di fare l’offeso?
L’unica parte lesa di tutta
quella storia era la sottoscritta. Punto.
Mi recai nella mia stanza
con
passo pesante e infuriato. Altro che partita di calcio, avrei rivisto
Simone
unicamente se l’avessi incrociato nel corridoio, nient’altro. Questa
volta non
l’avrebbe passata liscia.
Con rabbia, mi gettai sul
letto e
fissai il soffitto. Ripensai più volte alle parole di Simone, ma non ne
venni a
capo. Ero sicura che mi stava sfuggendo qualcosa di relativamente
importante,
ma il nesso tra le sue cose e James
non riuscivo a trovarlo.
Che fosse una cosa tra
uomini?
Magari io che avevo le ovaie non riuscivo a coglierla.
Uomini. L’idea di associare
quella parola a Simone mi faceva sorridere, soprattutto vedendo il modo
infantile in cui si comportava. Avrebbe dato filo da torcere persino a
Peter
Pan.
Non
voglio averlo tra i piedi. Odio che gironzoli attorno alle mie cose.
Mah, chissà cosa aveva
voluto
dire.
Quello stesso pomeriggio,
con
casa finalmente libera dalla presenza di Simone, decisi di dare una
ripulita.
Cominciai dal bagno e dalla vasca che ancora profumava di limoncello,
imbottigliato
qualche giorno prima. Mi stupii di come un ragazzo come Simone Sogno
riuscisse
davvero ad impegnarsi in una cosa tanto sciocca come distillarsi da
solo quella
bevanda.
Il freezer ora era
stracolmo di
fiaschette gialle.
Mi armai di prodotti per la
casa,
quelli che riuscii a trovare in cucina e nello sgabuzzino, poi
cominciai a
strigliare la vasca e i sanitari. Tutto sommato non era tanto sporco il
bagno,
ma per una perfezionista come me, anche un capello arrotolato sul
pavimento
consisteva in un possibile focolaio di batteri.
Dopo aver dato una
sistemata in
bagno e dopo essermi appuntata il numero dell’idraulico su un post-it,
per
l’altra doccia, mi fermai di fronte alla stanza di Simone.
«A
noi due!»
pronunciai con enfasi.
Non ero sicura di cosa
avrei
trovato al di là di quella porta bianca, visto e considerato che ero
entrata
una volta sola nella sua stanza, per raccattare i vestiti succinti
dell’ennesima giraffona che si era portato a letto. Mi feci forza e
posai una
mano sulla maniglia, pigiando verso il basso ed entrando nella tana del mostro.
Innanzitutto notai che
aveva
lasciato le tende tirate, perciò quella poca luce che illuminava il
cielo
grigio di dicembre riusciva a filtrare a mala pena dalle pesanti tende
che
coprivano i vetri delle finestre. Mi diressi subito verso di esse,
tirandole e
spalancando gli infissi.
Almeno quel puzzo di chiuso
sarebbe andato via, così come l’odore pungente di maschio.
Per
non dire di sudore.
Già.
Vidi il letto ancora sfatto
e
storsi il naso. Passai lo sguardo sul resto della stanza, cercando di
non
indugiare troppo sulle riviste di calcio sparse qua e là sul pavimento
e dei
libri ammassati sul comodino. Curiosa mi avvicinai, scorgendo titoli
interessanti quali “Il Miglio Verde” oppure “Il nome della Rosa” tra i
titoli
più quotati.
Rimasi stranamente sorpresa
e
compiaciuta da quella scoperta. In fondo pensavo che Simone fosse uno
di quegli
sportivi tutto muscoli e niente cervello, così fui felice di essermi
sbagliata.
Magari
sono di Sofia.
Poteva anche essere, ma
dentro di
me rimasi convinta che fosse stato lui a divorarli, in quelle poche
notti in
cui non era occupato a mettere incinta qualche sgallettata da
passerella.
Cominciai a rassettare la
sua
stanza, cercando di buttare solo ciò che non gli era davvero
necessario. Notai
un vecchio pallone bucato, quasi del tutto sgonfio. La pelle che lo
ricopriva
era quasi completamente scrostata, così come il colore. Un tempo
sarebbe stato
rosso, oppure magenta, ma adesso non rimaneva altro che uno sbiadito
rosa
pallido.
Lo presi e me lo rigirai
tra le
mani. Notai che sul retro c’era una scritta altrettanto sbiadita. Non
si
riusciva a leggere nulla e mi domandai perché non si fosse ancora
disfatto di
quel cumulo di sporcizia. Posai il pallone vicino alla busta con le
cose da
buttare, poi passai a rassettagli il letto.
Una volta finito di
sistemare tutto,
mi gettai esausta sul divano.
Sentii la chiave girare
nella
toppa, giusto il tempo necessario a togliermi una specie di bandana che
mi ero
messa in testa. La gettai scompostamente sul tavolino prima di vedere
il viso
elfico di Sofia fare capolino dalla porta d’ingresso.
«Ciao!» mi sorrise
lei, guardandosi intorno. «Pulizie
di primavera?»
mi chiese radiosa.
Scossi la testa, percependo
la
stanchezza addosso. «Rassettamento
d’inverno.»
ridacchiai, indicando l’enorme busta colma di spazzatura e cose del
tutto
inutili.
Sofia fissò la mondezza, ma
il
suo sguardo cristallino si soffermò sul vecchio pallone da calcio
sdrucito.
Rimase a contemplarlo per un po’, poi si chinò a raccoglierlo.
«Se
glielo avessi buttato, ti avrebbe cacciata fuori di casa.» disse
semplicemente, avanzando nel salotto con gli stivali che ticchettavano
sul
pavimento. Si diresse verso la camera del fratello, ne aprì la porta e
poi vi
gettò dentro il pallone.
Lo sentii rimbalzare e poi
sbattere da qualche parte, probabilmente contro l’anta dell’armadio.
Sofia tornò in salone e si
sedette sul tavolino di fronte al divano, fissandomi intensamente.
C’era
qualcosa di enigmatico dietro il suo sguardo, nascosto oltre quel
sorriso fino
che ostentava perennemente.
Mi domandai cosa avesse di
così
importante quell’oggetto muffito e mezzo rotto. In fondo si trattava
soltanto
di un pallone. Non qualcosa di estremamente prezioso.
«Ieri
com’è andata?»
mi domandò Sofia a bruciapelo.
Incespicai subito nella
risposta,
mordendomi più volte la lingua. Non sapevo da dove iniziare, né cosa
dire.
Sarebbe stato corretto parlarle di quello che era realmente
successo? Oppure dovevo fingere come faceva Simone?
«Bene.» smozzicai,
guardando ovunque tranne che negli occhi azzurri di Sofia.
Lei ovviamente non si
accontentò
di quella mia mezza risposta, così mi afferrò le mani con trasporto e
mi
costrinse a guardarla. «James
alla fine è arrivato?»
chiese ingenuamente.
Quella sua naturalezza nel
fare domande,
secondo me nascondeva un’attenta premeditazione. Anche se poteva parere
innocente, Sofia Sogno nascondeva più di quanto volesse far vedere agli
altri.
Scossi la testa, incapace
di
scollare una risposta dal palato.
Sofia fissò ancor più
intensamente
il suo sguardo nel mio ed allora notai la profonda somiglianza tra lei
e
Marianne. Erano quasi come due gocce d’acqua. «Simone mi ha detto che ti ha
accompagnata.»
parlò infine, sorridendo.
Questa volta la sua
innocenza
parve stranamente reale, come se dietro non vi fosse alcuna
macchinazione o
doppio fine. Era semplicemente felice per Simone.
Finalmente riuscii ad
articolare
qualche parola di senso compiuto. «Sì,» pigolai, quasi per paura di
ammetterlo ad alta voce. «Si
è offerto all’ultimo minuto.»
Era la prima volta, da ieri
sera,
che parlavo di Cambridge. Fino ad allora erano state solo elucubrazioni
mentali
e lotte con il mio Cervello, nient’altro. Mi sentivo profondamente
esposta e
sondata dallo sguardo della sorella di Simone.
Lei si limitò a sorridere.
«Che
c’è?»
le chiesi, curiosa di quella sua reazione. Avrei giurato che mi avrebbe
tempestata di domande una volta ammessa la presenza del fratello alla
festa.
Sofia scosse il capo, con
quella
cascata di capelli biondi e ricci che brillavano alla luce fioca del
sole. «Niente,» smozzicò,
alzandosi e dirigendosi verso una foto sul comodino. L’avevo vista
appena
arrivata, ritraeva lei, Simone e Gabriele quando erano piccoli. La
sfiorò con
la punta delle dita, come se fosse persa nei ricordi. In seguito cercò
di nuovo
il mio sguardo. «È
solo che…»
si prese tempo per utilizzare le parole giuste. «Non me lo sarei mai aspettato da
Simo.»
sospirò alla fine.
Okay, ora ero davvero
sconcertata. Mi alzai, stiracchiandomi le membra. «Sarà stato
spinto da un gesto di pietà,»
spiegai, giustificandolo.
Prima ci saremmo
allontanate da
quell’argomento spinoso, prima sarei potuta tornare alla mia vita.
Quella senza
il ricordo delle labbra di Simone sulle mie.
La biondina scosse la
testa,
ridacchiando. «Se
fosse stato per pietà, non me l’avrebbe detto. Mi ha mandato un SMS
ieri sera
sul tardi. Ha detto che ti eri addormentata come un sasso subito dopo
rincasati.»
Fu lì che persi un battito.
Nel
momento in cui le parole di Sofia colpirono dritto per dritto il mio
cuore già
seviziato da quella serata. Per quale motivo aveva informato la sorella
di
quella notizia? Che bisogno c’era di farle sapere che mi aveva
accompagnata?
Sentii la mano di Sofia
stringersi attorno alla mia spalla. «Prova a parlargli di questo
quando ritornerà dalla partita. Fidati. Se cambierà argomento, allora
non l’ha
fatto per pietà.»
Rimasi a fissare il muro
per il
resto del pomeriggio, riflettendo sulle parole di Sofia. Da una parte
il mio
inconscio le dava ragione, ma l’altra parte mi teneva sempre in
guardia. Mi
ripetevo in continuazione di non farmi illusioni, che Simone sarebbe
rimasto
sempre un dongiovanni immaturo, che sarebbe corso dietro alle giraffone
non
appena fosse stato libero dal processo che lo costringeva ad una vita
casta.
Non
farti illusioni.
Aspettai il suo ritorno, ma
non
glielo chiesi. Lo vidi rientrare dalla porta d’ingresso, con il solito
borsone
a tracolla e l’aria soddisfatta di sé ma le parole non mi uscirono
dalle
labbra. Era forse uno di quei rari casi in cui ne rimanevo a corto, per
un
avvocato come me sarebbe stata una tragedia se fosse successo in
un’aula di
tribunale.
Decisi di far passare i
giorni,
poi le settimane, senza mai tornare più su quell’argomento. Simone
pareva
averlo completamente rimosso, ed io mi adeguai di conseguenza. Magari
anche lui
aveva capito che quel bacio avrebbe solamente compromesso il nostro
rapporto
avvocato-cliente, oppure, molto più semplicemente, non gliene importava
un fico
secco.
Magari
vuole che tu faccia il primo passo.
O magari no.
Me ne ritornai in ufficio e
mi
buttai a capofitto nel lavoro, tentando di dimenticare quello che era
successo
a Cambridge. James, dal canto suo, mi aiutava perché dopo l’incontro
preliminare con St. James e Miss Cloverfield, il signor Abbott ci aveva
messo
ai ferri pur di trovare dei punti deboli nel caso. Apparentemente non
ce
n’erano, ma noi non ci arrendevamo.
Così, spesso e volentieri,
finivo
col fare le nove di sera in ufficio, sommersa dalle scartoffie e dai
libri di
testo dell’università, mentre James andava fino allo Starbucks più
vicino per
prendere due caffè.
«Non
mi hai più detto com’è andata la festa a Cambridge.» se ne uscì di
punto in bianco una di quelle sere, quando la luce fioca della lampada
da
scrivania stava rischiando di rendermi cieca come una talpa.
Sobbalzai dallo spavento,
soprattutto perché non mi ero minimamente aspettata una domanda del
genere ad
una settimana e più dall’evento. Me n’ero quasi dimenticata, grazie
anche
all’indifferenza totale di Simone.
«Uhm...» temporeggiai,
trovando le parole adatte. «Bene.»
Cos’altro avrei dovuto
dirgli?
Certo, lui stesso mi aveva promesso che ci sarebbe stato, poi mi aveva
dato
buca per ben due volte nel corso della serata, ma non sembrava
mortificato.
D’altronde mi ero trovata un sostituto, in un modo o nell’altro.
Ti
sei consolata per bene.
Scacciai via ancora una
volta
l’immagine di Simone che mi stringeva forte in quel campo di lacrosse,
prima
che il rossore s’impadronisse completamente delle mie guance e
lasciasse
intendere all’avvocato più del dovuto.
James si passò una mano
sugli
occhi stanchi. «Senti,
non te l’ho mai detto perché non trovavo le parole adatte. Mi è
dispiaciuto
molto non averti potuta accompagnare, mi sono sentito un verme.» smozzicò,
fissandomi con quegli occhi blu che alla luce gialla della notte
divennero
color oro.
«Non
fa niente, davvero. Me la sono cavata comunque.» dissi, sperando non insistesse.
Nel frattempo mi rigiravo
tra le
mani un plico di fogli che contenevano alcuni casi simili a quello di
Simone
che avremmo potuto citare in tribunale. Ne avevo letti solo alcuni, il
lavoro
era ancora lungo.
James però allungò una mano
e la
posò sulla mia. «Se
mi fossi potuto liberare da mio zio, ci sarei stato. Sai quanto tengo a
te.» mormorò,
fissandomi serio.
Deglutii a fatica perché
non
poteva comportarsi in questo modo, dopo che ci eravamo messi d’accordo
di non
complicare le cose fino alla fine del processo.
Quel suo viso pulito, quegli occhi grandi e limpidi che mi
fissavano e quelle labbra che erano come un faro nella notte per il mio
cuore
ancora confuso.
Ti
sei andata ad impelagare in un bel triangolo. Eppure sei sempre stata
brava in
geometria.
Non è un triangolo, anche
perché
Simone non m’interessa. E a quanto pare nemmeno io gli interesso.
«Lo
so.»
dissi, scostando delicatamente la mano dal suo tocco per evitare
ulteriori
fraintendimenti. «Diciamo
che me la sono cavata comunque. Grazie per la macchina, a proposito.» gli dissi.
Jamie sorrise, anche se non
potei
fare a meno di notare che rimase deluso dal mancato contatto. «Era il minimo
che potessi fare, dopo che sei andata senza accompagnatore.» mormorò.
Beh, tecnicamente non era
vero.
Forse avrei dovuto dirglielo, quello era il momento adatto per farlo,
ma poi mi
ripetei che non v’era alcuna ragione. Per prima cosa, io e James non
stavamo
più insieme, almeno fino alla fine del processo, seconda cosa, non gli
sarebbe
cambiato nulla sapere del calciatore o meno. Quello che era accaduto a
Cambridge sarebbe morto lì, perché io non avevo alcuna intenzione di
ricacciarlo fuori.
Dopo alcuni momenti di
silenzio,
James si decise a mettere tutto in ordine e si preparò per tornare a
casa. «Per oggi può
bastare,»
mormorò, afferrando il cappotto e avvolgendosi la sciarpa di Burberry
attorno
al collo.
Io gli sorrisi, ma avevo
ancora
una cosa da finire. «Trascrivo
questi poi vado,»
gli dissi, cominciando a ricopiare gli ultimi appunti che avevo
distrattamente
segnato su un foglio volante. Non avrei perso di nuovo una deposizione
o altro.
Un passo falso equivaleva ad un invito diretto per la porta ed io non
potevo
permetterlo, non dopo tutti quei sacrifici.
James mi guardò dubbioso. «Chiudi tu?» mi disse,
indicando le chiavi dell’ufficio sulla scrivania.
Annuii sorridente e
continuai a
lavorare senza interrompermi. Non vedevo l’ora di tornare a casa e di
stendermi
finalmente sul letto, visto e considerato che tra una settimana o poco
più
sarebbe stato Natale.
Il tempo volava davvero in
quel
periodo, soprattutto da quando era caduta la prima neve.
«Buonanotte,
allora.»
mi disse James, chinandosi e posando le sue labbra sulla mia fronte.
Poi se ne
andò.
Rimasi a fissarlo uscire,
con il
cuore che mi batteva forte nella gabbia toracica e l’impressione che la
nostra
“finta indifferenza” sarebbe durata ben poco, a quei ritmi. Tra me e
James c’era
attrazione, forse anche più di quanta ce ne fosse con Simone.
Anzi, lui era meglio
cancellarlo
totalmente dalla testa. Tanto si era trattato di un episodio isolato.
In un’ora scarsa riuscii a
trascrivere tutto il materiale, così riordinai l’ufficio e mi vestii
per uscire
in strada.
Una brezza fredda mi fece
rabbrividire nel mio cappotto e accucciare la testa affondandola nella
sciarpa.
La neve scrocchiò subito sotto la suola dei miei stivali, così mi
apprestai a
chiudere in fretta per poi tornarmene a casa.
Di notte, Regent Street era
deserta. Il venti di Dicembre, nonostante le luci natalizie e i finti
“Santa
Claus” fuori dai negozi che intonavano Jingle
Bells, faceva troppo freddo perché si vedesse tanta gente
oltre le nove di
sera. Quel giorno, poi, non aveva smesso un attimo di nevicare e ancora
dei
piccoli fiocchi continuavano a cadere dal cielo ricoperto completamente
di
nubi.
Mi tirai su il cappuccio,
poi
m’incamminai verso il quartiere di Soho. Non appena notai la completa
assenza
di persone lungo la strada principale dello shopping londinese, mi
pentii quasi
subito di non essere uscita con James.
Di solito non ero una
fifona ma
quella strada di notte mi metteva ansia. Un taxi passò nelle vicinanze,
con le
catene che schioccavano sulla neve fresca. Sembrava non ci fosse
nessuno nei
paraggi, così aumentai il passo per raggiungere il più in fretta
possibile
l’appartamento Sogno.
Okay,
calmati. In fondo non c’è nessuno che vuole stuprarti.
Per ora.
Infilai le mani in tasca e
strinsi forte la borsa, continuando a camminare. Superai un vicoletto
dove
c’erano dei secchioni dell’immondizia, poi proseguii senza guardarmi
troppo
intorno. Era come se vedessi delle ombre muoversi a destra e a
sinistra, quando
poi si trattava unicamente della mia immaginazione.
Quando svoltai su
Piccadilly
Circus, avvertii dei passi dietro di me. Cercai di sbirciare con la
coda
dell’occhio, ma notai soltanto un’ombra incappucciata. Anzi, mi parve
fossero
due.
Accelerai il passo, mentre
il
silenzio di quella notte era intervallato solamente dalle note di un White Christmas in lontananza,
sicuramente qualche carillon natalizio appeso ad un negozio. Deglutii a
fatica
sentendo il cuore che mi pompava veloce nel petto, quasi del tutto
impazzito.
A Tivoli non mi era mai
capitato
di sentirmi così piccola e sperduta. Lì si conoscevano tutti ed io mi
ero
sempre potuta muovere in completa libertà, senza la paura di dover
essere
derubata o peggio.
Se
vedi le brutte, inizia a correre.
Il mio Cervello mi suggerì
bene,
ma constatai che la neve avrebbe rallentato il mio passo di molto. Li
sentivo
ancora alle mie spalle, i loro stivali che scricchiolavano sulla neve e
il
respiro pesante. Immaginai i loro volti, contratti dalla cattiveria e
dai pensieri
di quello che mi avrebbero fatto.
Dovevo stare calma. Ero pur
sempre un avvocato.
La situazione andava
gestita nel
migliore dei modi. Frugai all’interno del cappotto alla ricerca del
cellulare,
poi, senza vedere, sbloccai la tastiera e digitai il 999. Il servizio
d’emergenza.
Alzai lo sguardo e divenni
bianca
come un lenzuolo.
In fondo alla strada,
proprio
vicino all’imboccatura con il quartiere di Soho, c’era una figura
sempre
ammantata di nero, con il cappuccio tirato, che avanzava verso di me.
Cazzo, ero circondata.
Mi guardai intorno alla
disperata
ricerca di una via di fuga. Avrei potuto attraversare, correre in mezzo
alla
strada. Non passava nemmeno una macchina a quell’ora, soprattutto con
tutta la
neve che cadeva giù. Avrei corso fino all’appartamento.
La figura di fronte a me
sembrò
fissarmi per un momento, poi avanzò con passo più sostenuto. Era
altissimo. Si
stagliava nell’oscurità come un’ombra ed io cominciai davvero a pensare
di
essere spacciata. In due falcate, o anche meno, mi avrebbe raggiunta.
Sentii i passi dietro di me
accelerare, così feci lo stesso, andando incontro alla figura di fronte
a me.
Avrei deviato all’ultimo momento, così sarebbe rimasto disorientato per
qualche
secondo e io avrei approfittato di quella sua indecisione per correre.
Piano
perfetto.
Mancavano pochi passi, così
accelerai. Ormai era questione di secondi, mentre sentivo il cuore
battere
insistentemente nella gabbia toracica. Per un momento pensai a James e
mi
pentii di non essere uscita con lui. Mi avrebbe riaccompagnata a casa,
ne ero
più che certa, ma il mio bisogno di essere indipendente aveva avuto la
meglio.
Fu proprio quando alzai lo
sguardo, decisa ad evitare quella figura incappucciata, che vidi il suo
volto.
Ormai il mio corpo aveva
preso il
comando, così cercai di deviare, ma la mano di Simone mi agguantò un
polso,
bloccandomi la fuga.
Mi voltai per vedere le
figure
dei due uomini dietro di me che si bloccavano, poi attraversarono la
strada
sparendo per uno dei vicoli di Piccadilly.
Allora
mi stavano seguendo per davvero.
«Si
può sapere che fine avevi fatto?» ringhiò Simone, senza mai
distogliere lo sguardo da quegli uomini. Lo vidi fissarli con gli occhi
ridotti
a fessure, quei due pozzi scuri che inghiottivano perfino le luci dei
lampioni
vittoriani.
«Ho
lavorato.»
mi giustificai, senza che pensasse che me ne fossi andata a zonzo.
Ora il suo sguardo era su
di me. «A quest’ora
non te ne devi andare in giro da sola, quei tipi ti stavano seguendo.
Non te ne
sei accorta?»
Suonava molto come un
rimprovero
quella sua domanda, ma ero troppo sollevata di vederlo per prendermela
del suo
tono accusatorio. Non ero più da sola su quella strada enorme e
ricoperta di
neve, la notte sembrava meno paurosa ora che Simone era con me.
«Sì
che me ne sono accorta, stavo chiamando il numero d’emergenza!» mi
giustificai, tirando fuori il cellulare e mostrandogli il “999” sul
display.
Simone roteò gli occhi al
cielo. «Perché quei
tizi ti avrebbero lasciata telefonare, certo.» sbuffò. «Qui non siamo
in Italia, non sei nel tuo piccolo paesino innocente. Qui la gente
viene
derubata, o peggio…»
E lasciò volutamente la
frase in
sospeso, mettendomi addosso una strana ansia. Solo allora mi accorsi
che stavo
tremando. Non sapevo se fosse per la paura o per il freddo, fatto sta
che
Simone se ne accorse.
Si sbottonò il cappotto e
mi fece
cenno di stringermi a lui. «Forza
che stai tremando. Vuoi buscarti di nuovo la febbre?» mi ammonì.
Lo fissai come se fosse una
qualche specie di alieno venuto per rapirmi. «Com’è tutta questa galanteria?» sorrisi,
sentendomi lievemente meglio dopo quello spiacevole accaduto.
Ero ancora titubante,
soprattutto
perché erano passate settimane dalla serata a Cambridge ed io e Simone
non
avevamo ancora affrontato l’argomento “bacio”. Per lui era come se non
fosse
mai accaduto, ed io mi ero adeguata, ma era in qualche modo inevitabile
per me
non pensarci. Ricordavo ancora le sue carezze, la consistenza dei suoi
capelli
sotto le mie dita. Sentii improvvisamente la gola secca.
«Ti
muovi? Oppure vuoi far congelare anche me?» sbottò.
Decisi che avrei avuto
tempo per
farmi le pippe mentali, perciò allargai le braccia e circondai la vita
sottile
del calciatore, mentre lui avvolgeva il suo pack intorno ad entrambi.
Subito un
senso di sicurezza mi pervase le membra, così come il calore del suo
corpo.
Poco dopo smisi di tremare,
mentre ci stavamo avvicinando all’appartamento di Soho. Solo allora mi
resi
conto che Simone era sceso appositamente per cercarmi.
Alzai lo sguardo verso di
lui,
con il cappuccio calcato sulla testa, ma non ebbi il coraggio di
chiederglielo.
Mi sentivo insolitamente bene avvolta in quell’abbraccio, come un
bozzolo
sicuro dove potermi rifugiare.
La neve continuava a
cadere, ma
era come se non mi sfiorasse.
Salimmo i gradini del
pianerottolo, poi Simone tirò fuori dalla tasca le chiavi del portone
ed aprì.
Entrammo nella hall, dove
il
portiere sonnecchiava beato nel box, e ci dirigemmo verso l’ascensore.
Avvertivo ancora il suo calore addosso, nonostante ci fossimo separati
e non
riuscii a fare a meno di arrossire.
Simone era capace di farmi
qualcosa senza che io me ne accorgessi, utilizzando solamente
l’istinto. Mentre
James era un tipo da sfioramenti, da carezze studiate, da sguardi
premeditati,
Simone no. Lui agiva, senza pensare, faceva quello che gli diceva la
testa e
non si preoccupava minimamente delle conseguenze.
Era il mio opposto.
L’ascensore saliva troppo
lento
per i miei gusti e il silenzio che si era creato all’interno
dell’abitacolo era
imbarazzante.
«Cerca
di lavorare ad un orario più decente la prossima volta,» borbottò lui,
rigirandosi le chiavi tra le mani.
Subito m’indispettii. «Come se
potessi scegliermeli gli orari! Io e James abbiamo dovuto sistemare le
scartoffie
del tuo caso, visto che hai
combinato
un pasticcio con quella lì.»
Al sentire il nome
dell’avvocato,
lo sguardo di Simone si adombrò. Non era colpa mia se lavoravamo
insieme e se
lui aveva sviluppato una qualche antipatia nel suoi confronti. Ancora
non avevo
risolto il mistero delle “sue cose”, come aveva detto qualche tempo
prima.
D’improvviso ricordai le
parole
di Sofia.
«Ma…» iniziai,
proprio quando le porte dell’ascensore si spalancarono davanti la porta
dell’attico. Simone si diresse ad aprire ed io gli fui immediatamente
dietro. «Hai chiamato
tua sorella la sera che siamo tornati da Cambridge?»
Ecco, lo avevo detto. Sofia
mi
aveva messo addosso una strana curiosità, insistendo su quanto quella
serata
fosse stata importante per entrambi, a dispetto dell’indifferenza che
il
calciatore dimostrava.
Lui spalancò la porta ed
entrò,
posando le chiavi nella ciotola. «No.» mentì. «Perché avrei
dovuto?»
Prova
a parlargli di questo quando ritornerà dalla partita. Fidati. Se
cambierà
argomento, allora non l’ha fatto per pietà.
Avevo aspettato più tempo
del
dovuto, ma il risultato era sempre lo stesso.
«Senti,
sono stanco. Vado a dormire.»
tagliò corto lui, cambiando argomento. Anzi, evitandolo del tutto.
«Aspetta.» dissi, senza
nemmeno accorgermi di aver aperto bocca.
Simone si voltò sorpreso.
Non
avevamo nemmeno acceso le luci del salotto. C’era solo la pallida luce
dei
lampioni in strada che illuminavano pacatamente il suo viso. Quel volto
così
dannatamente giovane per essere quello di un padre.
Mi feci coraggio, giusto
perché
ero una persona che non si tirava mai indietro. «Grazie,» mormorai. «Per prima.» aggiunsi un
po’ imbarazzata.
Di solito ero abituata a
prenderlo a parolacce, ad insultarlo, a prendermi gioco di lui. Non ero
pronta
a ringraziarlo.
Simone sgranò quei grandi
occhi
scuri, poi sorrise. Oh sì, sorrise veramente.
«Diciamo
che l’ho fatto perché altrimenti sarei rimasto senza avvocato, visto
che
l’altro mi sta parecchio antipatico.» scherzò. Non si poteva essere
seri con Simone, per lui era tutto un gioco.
Sorrisi a mia volta. «A parte gli
scherzi, sono in debito con te. Due volte.» ammisi.
C’era anche la festa, non
dovevo
dimenticarlo.
«Per
cosa?»
chiese lui stupito.
«Stasera,
la festa di Cambridge… diciamo che mi hai salvato il culo in più
occasioni.» smozzicai.
Era dura ammettere di essere in debito con un tipo immaturo come
Simone, ma ero
una donna di parola.
Il calciatore mi sorrise,
avvicinandosi. «Siamo
pari. Ti ricordo che mi hai fatto la lavata di testa per la partita
quella
domenica. E chi se lo scorda. Mi hai preso e mi hai trascinato nello
sgabuzzino
alla fine del primo tempo. Pensavo davvero che volessi stuprarmi!» e ridacchiò
come un’imbecille.
Alla fine fui contagiata
dalla
sua risata. «Fidati,
non sei proprio il mio tipo.»
dissi senza pensare.
Mi morsi la lingua due
secondi
dopo, quando i suoi occhi si spalancarono.
C’era qualcosa dietro quel
suo
comportamento enigmatico, un particolare che mi sfuggiva. Alle volte
sembrava
non importargli nulla di nulla, soprattutto di Cambridge e del bacio,
ma quando
la mia boccaccia sparava velenosità a raffica, senza che ne avessi
davvero
l’intenzione, pareva proprio che lo colpissi con una freccia
avvelenata. Dritto
al cuore.
Magari
tiene a te più di quanto voglia far sembrare agli altri.
«Cioè…
non intendevo…»
tentai di riprendermi, ma ormai sembrava troppo tardi.
Simone avanzò con passo
sicuro,
facendomi indietreggiare e costringendomi a posare le spalle contro il
muro del
salotto. Era ancora buio. Di tanto in tanto una macchina passava in
strada e i
fari riflettevano la loro luce sulla finestre, illuminando
l’espressione seria
sul volto del calciatore.
I suoi occhi erano scuri,
molto
più del solito. Sembravano quasi affamati.
«Senti…
io credevo che non ti importasse,» iniziai, sperando di fermarlo.
Non sapevo cosa volesse farmi, se aveva un piano per vendicarsi di
quello che
gli avevo detto. «Abbiamo
fatto finta di niente, no? Si è trattato solo di uno stupido errore.»
Sparavo parole a raffica,
ovviamente riferendomi a Cambridge, ma lui sembrava assorbirle senza
che gli
facessero il minimo effetto.
«Anche
questo diventerà un errore?»
ringhiò, afferrandomi il viso e premendo con forza le labbra sulle mie.
Erano
passate settimane da quella sera, ma il profumo che mi assalì alle
narici fu
come se non mi avesse mai abbandonata.
Le sue labbra erano così
morbide
sulle mie, mentre tenevo gli occhi serrati. Ero immobile, ancora dovevo
capacitarmi di cosa stava succedendo. Nel frattempo le mani di Simone
mi
stringevano forte il viso. Era come se avesse paura di lasciarmi andare.
«E
questo?»
mi soffiò poi sulle labbra, più calmo. Schiuse la bocca e tirò fuori la
lingua
che lentamente andò a sfiorare il mio labbro inferiore.
Ero totalmente in balia del
suo
sguardo e di quello che stava accadendo. Non riuscivo a sottrarmi, non
adesso
che era forte il bisogno che avevo di lui. Alzai le mani titubante e
gli
spostai un ciuffo di capelli castani dalla fronte. Mi presi del tempo
per
carezzargli gli zigomi, le guance, sfiorando quei tratti così femminili
e
delicati.
Lui si limitò a fissarmi,
attendendo. Non aveva fretta, il tempo era dalla nostra parte. O almeno
era
quello che credetti fino a quando non sentii il campanello della porta
suonare.
Sobbalzammo entrambi dallo
spavento, poi ci scostammo imbarazzati.
Chi cavolo era a quell’ora
di
notte?
«Apri
tu o apro io?»
chiese lui, mentre riacquistava quel suo solito cipiglio da “figo”
della
situazione.
Non dissi nulla, ma mi
limitai ad
aprire il portone.
Di fronte a me vidi le
ultime due
persone che mi sarei mai aspettata di incontrare, soprattutto dopo lo
sconvolgimento che stava subendo la mia vita.
«Sorpresa!» trillò la
voce di una ragazza bionda, che sprizzava energia da tutti i pori.
Vidi le valigie, vidi i
cappotti
e due paia di occhi: Celeste e Leonardo sorridevano sul pianerottolo di
casa
Sogno.
Mi prendo uno
spazietto per scusarmi per
il ritardo e per il mancato aggiornamento di CIUS, ma è l'ultimo
capitolo e ci devo lavorare su bene, e soprattutto per augurarvi buone
feste, perché mi siete state/i sempre molto vicini - sia qui che nel
gruppo - e vi ringrazio.
Ve ne meritereste due di capitoli, magari per il 27 potrei betare il
14, chissà :3
Comunque, ma quanto sono dolci Ven e Simo? Di solito non rileggo mai i
capitoli, ma Nessa è partita ed io non potevo lasciarvi senza
aggionramento, così me lo sono self-betato (se ci sono errori, od
ORRORI, è solo colpa mia xD).
E l'arrivo di Cel e Leo? Uahahahahaahah! Non potevo resistere, davvero,
dovevo farli arrivare almeno per le vacanze di Natale, che poi, io
suggerirei a Simone di staccare il campanello, perché tra Mr. Marco e
Leonardo, cercano proprio il momento adatto per interromperli
poveretti! è.é
Vabbuò, mi rimetto nelle vostre mani, nel frattempo cerco di rispondere
alle recensioni. (forse xD)
Intanto BUON NATALE, e spero davvero di riuscire a preparare il
capitolo 14 per potervelo dare prima di Capodanno, anche se quello di
Capodanno-Capodanno è skvnslkvndkjvnfdkjnvdfkjvndkjvndfkvjndfvk e
quando lo leggerete, penso che imploderete like me :3
Vi lascio, un bacione!
Marty
|
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Capitolo 16 *** Capitolo 14 ***
CAPITOLO
14
betato da quella figaH
di nes_sie
Rimasi
a fissare il volto sorridente della mia migliore amica nella penombra
del
salotto. Da quando ero tornata, accompagnata da Simone vista l’ora
tarda, non
avevo minimamente pensato di accendere la luce.
Anche perché eri impegnata a fare
qualcos’altro.
Persi
un battito al ricordo di ciò che io e Simone avevamo fatto poco prima e
di cosa
sarei stata capace di fare, se Celeste e Leotordo non fossero
intervenuti. Come
quella volta con Mr. Sogno. Prima che iniziasse tutto, insomma.
«Allora?»
domandò
Celeste, un po’ irritata. «Ci
fai rimanere sulla porta?»
sorrise.
Lanciai
uno sguardo di traverso al mio coinquilino visto che, fino a prova
contraria,
l’appartamento era il suo. TermoSifone aveva un’espressione ombrosa in
volto e
non la smetteva di fissare Leonardo con circospezione.
«Vuoi
lasciare
quel campione di tuo cugino a dormire sul marciapiede con questo
tempo?»
sorrise
l’altro calciatore. A differenza di Simone, Leonardo non metteva
malizia in
queste prese in giro.
Il
giovane Sogno si limitò a spostarsi da un lato e a lasciar passare il
cugino
con Celeste. I due entrarono al caldo dell’appartamento, con una grande
valigia
che racchiudeva lo stretto necessario per i giorni che sarebbero
rimasti qui da
noi.
«Allora,
come
mai questa visita?»
chiesi, tentando di rimanere sul vago.
Nel
frattempo aiutai Celeste a districarsi da sciarpe, guanti e cappello.
Era
imbacuccata sino alla punta dei capelli, così mi lasciai andare ad un
piccolo
sorriso e finalmente sentii quel calore e quella gioia nel riavere
finalmente
al fianco la mia migliore amica.
«Ti
avevo
accennato che venivamo per Natale,» bofonchiò, liberandosi dello
sciarpone di lana. Leonardo si stava spogliando davanti allo sguardo
attento di
Simone. Lo fissava come un leone guarda un altro maschio che è entrato
nel suo
territorio.
Ricordai
vagamente un messaggio lasciato in segreteria dalla mia migliore amica,
ma con
estrema sincerità mi ero quasi dimenticata.
«Giusto,
così
avete deciso di imbarcarvi sul primo volo?» domandai, sperando di non
risultare
troppo polemica. In fondo, sarebbe bastata un’altra telefonata prima di
partire, giusto il tempo per organizzarci.
Leonardo
si liberò di un enorme cappello di lana con le orecchie. «Appena il
Mister ci ha dato il via libera, siamo saliti sul primo aereo. Cel non
vedeva
l’ora di riabbracciarti ed io sentivo la mancanza del resto del
parentado,» sghignazzò,
lanciando un’occhiata a Simone che se ne stava stranamente in silenzio.
Era
strano che ancora non avessi visto all’opera quei due, che Simone non
avesse
una delle sue battute pronte. Molto sospetto, soprattutto dopo che il
cugino
gli era piombato in casa senza avvertirlo minimamente. Persino io
provavo un
certo fastidio, e la casa non era nemmeno mia.
«Sofia
sarà
felicissima di vederti,»
mugugnò. Prima parola da quando erano arrivati.
«E
quella peste
di Susy?»
domandò Leonardo. Notai come gli brillarono gli occhi quando iniziò a
parlare
della nipotina. Quei grandi occhi verdi, così diversi dal marrone scuro
e
ombroso di Simone.
Fece
spallucce e si diresse verso le camere da letto. Anche se lo conoscevo
da poco
tempo, sapevo che era arrabbiato per qualcosa, ma non riuscivo a capire
cosa.
Se ti spremi, magari ci arrivi.
Cosa stavate facendo?
Scossi
violentemente la testa e mi forzai di non arrossire davanti alla mia
migliore
amica. C’ero cascata due volte, la prima alla serata a Cambridge, la
seconda
poco tempo fa. Se la prima volta era stato solamente un caso, per la
seconda
non potevo utilizzare la medesima spiegazione.
Mi
stava succedendo qualcosa ed io dovevo darci un taglio prima che il
tutto mi
sfuggisse di mano. Un conto era la storia con James, in fondo era pur
sempre un
collega di lavoro e una volta concluso il caso non ci sarebbero stati
ostacoli
alla nostra frequentazione, ma Simone… fino a qualche ora prima lo
avrei
volentieri preso a badilate.
«Ma…»
se ne uscì
Leonardo, rivolgendosi alla sottoscritta. «Tu cosa ci fai a casa di
Simo?
Noi avevamo pensato di venire qui perché casa sua è completamente
vuota. Non
stavi in un buco di appartamento vicino Regent Street?»
A
quel punto si sentì lo schiocco di un ceffone da parte di Celeste.
«Possibile
che
hai lo stesso tatto di una pentola a pressione?» Poi si rivolse a me.
«Scusalo,
ma ha
la stessa sfera emotiva di un sasso. Comunque, ti sei trasferita qui da
Simone?» chiese,
ammiccando.
Soltanto
io che la conoscevo da anni potevo capire che anche se aveva sgridato
Leonardo,
in segreto anche lei moriva dalla voglia di sapere il motivo per cui mi
avevano
trovata a casa del piccolo Sogno.
Non
sapevo se avrei dovuto parlar loro del caso giudiziario in cui era
coinvolto
Simone, visto e considerato che nemmeno Mr. Marco ne era a conoscenza,
perciò
tentai di risolvere la questione in modo diplomatico. «L’affitto era
troppo alto, così Simone si è offerto di ospitarmi ed io mi sdebito
facendogli
qualche lavoretto per casa,»
tagliai corto.
Celeste
rimase notevolmente sorpresa da quella mia giustificazione, perché lei
sapeva
che il mio orgoglio non mi avrebbe mai permesso di abbassarmi a fare la
massaia
di un bamboccio come Simone, ma si sarebbe dovuta accontentare, almeno
per ora.
Non potevo mettere a rischio la causa nemmeno con la mia migliore amica.
Il
giovane Sogno fece la sua comparsa proprio al momento giusto. «La
camera da
letto è occupata dalla nanetta, perciò è rimasto il divano del
salotto,»
lo indicò con
il dito indice. «Oppure
la sala hobby che ha un comodo tappeto persiano e il camino.»
Sorvolai
sull’ennesimo soprannome e mi sentii in dovere di intervenire. «Non
preoccupatevi, vi cederò la mia stanza ed io dormirò sul divano. Voi
siete in
due e di là c’è un comodo letto a due piazze, non voglio che dormiate
rannicchiati,»
dissi decisa.
«Ma
cosa dici!
Siamo noi che ci siamo presentati senza avvisare, è giusto che dormiamo
sul
divano,»
intervenne Celeste.
Leonardo
le diede dei colpetti sul fianco. «Ma sei scema? Così mi sveglio con
la schiena incriccata. Visto che la tua amica è così gentile…» mi
sorrise
ammaliante.
Simone
si sentì subito in dovere di intervenire. «Oppure Celeste e Lil’Elf potrebbero dormire nel letto a
due piazze e tu sul divano… oppure sullo zerbino di fronte alla porta,
eh?» ghignò.
Era
tornato quello di sempre.
Leonardo
si accigliò dopo pochissimo. «Perché
invece tu non cedi la tua stanza e da bravo padrone di casa non vai a
farti
fottere?»
Simone
si limitò a sfoderare quel sorriso malandrino che rifilava anche alla
sottoscritta i primi giorni lì a Londra. Oramai avevo capito che era
soltanto
uno schermo dietro cui si riparava.
«Ti
piacerebbe,» rispose. «Prova a
telefonare all’Hilton, magari hanno una camera libera per uno dei
calciatori
più famosi d’Italia,»
ridacchiò.
«Il
ventidue di
Dicembre non c’è posto nemmeno alla Caritas,» gli feci osservare.
Simone
spense quel sorriso amaro. «Perché
lui non è nessuno, ecco perché.»
«Sentite!»
intervenni
io, prima che Leonardo potesse mettere mano all’enorme valigia,
tirandola in
testa a Simone che se lo sarebbe meritato appieno. «Voi due
dormite nella mia stanza, io dormo sul divano. Per stanotte ci
arrangiamo così,
domani si vedrà,»
dissi decisa.
Ero
un avvocato e queste baruffe familiari erano pane per i miei denti. In
fondo,
gli ospiti andavano trattati con riguardo e non potevo permettere che
la mia
migliore amica dormisse scomoda e stretta con quel colosso di Leonardo
che
l’avrebbe schiacciata contro il divano.
«Sei
sicura?» mi chiese
Cel, preoccupata.
Le
sorrisi e annuii. «In
fondo, non è peggio che dormire nel mio vecchio monolocale! Fidati, ci
sono
abituata. Alle volte dormivo pure sui sedili della Tube.»
La
mia migliore amica si sentì più sollevata, così li accompagnai entrambi
verso
la mia stanza, mostrando loro dove fossero le lenzuola pulite. Presi
solamente
le cose che mi servivano per la notte, una coperta, un cuscino e poi mi
preparai per andare a dormire.
Mentre
mi dirigevo in salotto, sbirciai verso la stanza di Simone, trovando la
porta
già sigillata. Era andato a dormire senza degnarsi di nessuno.
Un’egoista, ecco
cos’era.
Decisi
che l’indomani avrei fatto di tutto per obbligarlo a dormire sul
tappeto della
sala hobby, visto che quello che si meritava era solo un intenso mal di
schiena, ma la stanchezza di quella giornata di lavoro mi aveva
talmente
sfibrata che mi lanciai di peso sul divano, chiudendo gli occhi
all’istante.
Non
avevo minimamente considerato che senza il piumone del grande letto a
due
piazze, alle tre del mattino mi sarei svegliata scossa dai brividi.
Aprii
gli occhi di colpo per il rumore dei miei stessi denti che battevano.
Mi tirai
su la coperta ma era comunque troppo leggera e mi sentivo davvero
congelare.
Guardai l’orologio e pensai di entrare nella mia vecchia stanza per
prendermi
almeno una felpa, poi realizzai che magari avrei svegliato Celeste, a
causa del
suo sonno leggero, e che lei si sarebbe ancor più sentita in colpa
sapendo che
mi aveva fatto passare una notte al gelo.
Avvicinai
le mani e ci soffiai sopra un po’ di fiato caldo, sentendo di nuovo la
sensibilità alle dita. Nonostante ci fosse il riscaldamento, la
nevicata di
quella notte aveva fatto abbassare la temperatura di almeno dieci gradi
ed io
adesso stavo letteralmente congelando.
Forza Ven, ricordati che ne hai
passate di peggiori. Come al campeggio.
Ricordavo
perfettamente quella famosa estate in cui i miei genitori mi avevano
spedito ad
una specie di campeggio estivo in non so quale paese sperduto tra i
monti.
Grazie alla mia fortuna sfacciata, beccai l’unica settimana di diluvio
universale a Luglio. Non mi ero portata quasi nulla di pesante, tranne
una
felpa. Fu l’unica volta in tutta la mia vita che misi lo stesso
indumento per sette
giorni e notti consecutive a causa del freddo che faceva.
Un’esperienza
irripetibile.
Decisi
di rigirarmi più volte, in modo che un po’ di movimento mi avrebbe
scaldata, ma
servì a ben poco. Non appena mi fermavo, sentivo proprio la morsa del
gelo che
mi si attanagliava addosso. Di questo passo avrei passato la nottata in
bianco
e il giorno dopo, a lavoro, prima delle vacanze natalizie, sarei
assomigliata
ad uno zombie.
Ero
sul punto di alzarmi e prepararmi qualcosa di caldo, come un the,
quando avvertii
la porta di una delle stanze aprirsi e un rumore di pantofole sul
pavimento.
Socchiusi gli occhi, fingendo di dormire, ma tra le ciglia tentai di
sbirciare
di chi si trattasse.
Non
fu difficile capirlo. Il metro e novanta di Simone Sogno era
inconfondibile
anche al buio, così mi sentii libera di aprire gli occhi. Se si fosse
sentito
in colpa per la mia notte quasi insonne, tanto meglio.
Si
avvicinò al bancone della cucina e ne tirò fuori una bottiglia d’acqua,
stappandola e bevendo direttamente da essa. Il solito cafone, non c’era
altro
modo per descriverlo. Quattro persone in quell’appartamento e tre di
esse
dovevano bere la sua saliva.
«Non
lo sai
usare il bicchiere?»
gli domandai, con la voce roca.
Sentivo
un certo pizzicare alla gola e attribuii quel fastidio al freddo che
avevo
sentito dormendo senza quasi accorgermene.
Simone
sussultò, poi si voltò verso di me. «Mi stavi spiando?» chiese.
A
quel punto mi alzai a sedere, avvolgendomi la coperta tutta intorno al
corpo
come fosse un bozzolo caldo. «Ho
di meglio da fare che passare il mio tempo a fissarti,» bofonchiai
insonnolita.
Simone
prese un altro sorso d’acqua direttamente dalla bottiglia. «Conti le
pecore?»
Non
persi nemmeno tempo ad elaborare una risposta, tanto sarebbe stato
inutile.
Inoltre, avevo troppo sonno ed ero infreddolita. Il mio Cervello era
andato un
attimino in pausa.
Rimanemmo
a scrutarci nella notte, mentre si sentivano alcuni passi in strada che
scricchiolavano sulla neve fresca. L’indomani mattina sarebbe stato
quasi
impossibile raggiungere lo studio con un mezzo, perciò mi ritenevo
abbastanza
fortunata a percorrere la strada a piedi.
«Non
riesci a
dormire?»
mi chiese lui dopo poco, posando la bottiglia d’acqua.
Scossi
la testa sbadigliando. «Fa
troppo freddo stanotte,»
dissi.
Simone
parve sorpreso, anzi, direi quasi preoccupato. «Vado ad alzare il
riscaldamento,» mormorò,
sparendo dietro il corridoio.
Pensai
che in fondo non era stato poi uno spiacevole incontro quello di quella
notte,
visto che Simone era sembrato più servizievole del solito.
Tornò
dopo qualche minuto. «È
al massimo,»
disse mortificato. «Evidentemente
siamo andati molto sotto lo zero stanotte,» constatò.
«Già,»
bofonchiai
delusa, preparandomi a dover fare esercizi tutta la notte pur di non
congelarmi. Ero un tipo piuttosto freddoloso, dovevo ammetterlo.
«Ti
porto
un’altra coperta?»
mi chiese, ed io lo fissai come se fosse appena sceso da un’astronave.
Possibile che fosse lo stesso Simone di due minuti fa?
Sorrisi.
«Alle
tre del mattino sei stranamente gentile, lo sai?» gli dissi compiaciuta.
Lui
si indispettì subito, tornando sulla difensiva. «Sei tu che mi prendi a
parolacce
e mi offendi dalla mattina alla sera. Io mi difendo soltanto.»
«Sì,
certo,» ridacchiai.
Rimanemmo
in silenzio per qualche minuto, nel frattempo ricominciai a sentire
freddo. Era
l’immobilità che mi fregava, ma non potevo certo mettermi a fare gli
addominali
alle tre del mattino!
«Comunque…»
se ne uscì
Simone, staccandosi dal mobile della cucina su cui era appoggiato. «In
camera mia c’è
la trapunta con le piume d’oca.»
Rimasi
a fissarlo nell’oscurità col cuore che mi batteva all’impazzata. Avrei
dovuto
tirargli immediatamente qualcosa addosso oppure urlargli contro male
parole, ma
non ci riuscii. Era come se dentro di me, nella parte più remota del
mio
essere, io mi aspettavo quella domanda. Dopo quello che Celeste e
Leonardo
avevano interrotto, era più che lecito che il passo successivo sarebbe
stato
quello.
Ricorda il motivo per cui sei
andata via di casa.
L’indipendenza,
il lavoro dei miei sogni, diventare una donna in carriera e non una
casalinga
come mia madre.
«Preferisco
affittare il cartone di un barbone, grazie,» gli risposi piccata, ma
lui se
lo aspettava così si limitò a sorridermi e a portami una coperta in
più. Non ci
poteva essere alcuna storia d’amore tra noi due, anzi, i nomi Simone e
Venera
non potevano sostare più di cinque minuti nella stessa frase. Due
persone in
antitesi, due opposti. I nostri caratteri erano troppo forti per stare
insieme,
prima o poi saremmo esplosi.
Celeste
e Leonardo invece si completavano. Lei era una donna di carattere,
forte,
intelligente, mentre lui era buono, comprensivo, un po’ egocentrico ma
in fondo
si trattava pur sempre di un calciatore.
Lo
ringraziai e gli diedi la buonanotte, rimettendomi a dormire.
Ovviamente ci
riuscii ben poco. Prendevo sonno ma dopo due minuti mi risvegliavo, un
po’ meno
per il freddo ma più che altro per i pensieri che mi vorticavano in
testa.
Celeste era la mia migliore amica e per come la conoscevo, mai mi sarei
immaginata che sarebbe finita con un ragazzo come Leonardo.
Eppure
avevo fatto male i conti con entrambi.
Il
loro rapporto, anche se iniziato sulla base di una grossa menzogna, e
dopo aver
attraversato degli alti e dei bassi dovuti anche al carattere
intrattabile
della mia migliore amica, ora sembrava andare per il meglio. A quanto
mi
raccontava, Celeste si era quasi abituata alla vita della ribalta.
Certo,
all’inizio era stato difficile fare i conti coi paparazzi, con i
giornalisti
che ti seguivano un po’ ovunque, ma io stessa le avevo spiegato che se
un
rapporto era nato per durare, avrebbe superato tutto, anche quelle
piccole
difficoltà.
E
così era stato.
Rigirandomi
da una parte all’altra del divano, cominciai a fare strani pensieri.
Tra i
brividi di freddo di quella notte, paragonai la mia vita a quella della
mia
migliore amica, riflettendo se io stessa sarei riuscita a vivere quel
genere di
vita.
Con Simone sarebbe lo stesso.
Rabbrividii
quando il suo viso e quei suoi occhi scuri mi perforarono la veglia,
facendomi
spalancare gli occhi. Per quanto mi sforzassi di non pensarci, di non
pensare a
lui, era come un boomerang e lui tornava sempre indietro.
Con
James non era mai successo, lui non era riuscito a penetrare tanto a
fondo
soltanto con un’occhiata. Magari era perché ormai eravamo conviventi,
era più
di un mese che stavamo a contatto ogni giorno e anche il più piccolo
angolo di
quell’appartamento mi ricordava Simone.
Non
volevo ammetterlo, era più forte di me ma ancora non riuscivo a farlo.
Sarebbe
stato da ipocrita predicare bene e poi razzolare male, dire di lui
peste e
corna ma poi soccombere al suo fascino come una di quelle giraffone
qualsiasi.
O forse lui ha davvero fascino. È
riuscito perfino ad ammaliare una col cuore di ghiaccio come il tuo.
Scossi
la testa e guardai il soffitto. Decisi di alzarmi, tanto non avrei
chiuso
occhio per il resto della notte continuando a fare quei pensieri.
Mi
diressi in bagno, l’unico funzionante, e passai di fronte alla mia
vecchia
stanza. La porta era lievemente socchiusa, così la curiosità ebbe il
sopravvento e nonostante la mia coscienza mi dicesse di proseguire e
farmi gli
affari miei, mi avvicinai all’infisso e lo spostai con delicatezza.
Lentamente
la porta si aprì, senza cigolare, e sbirciai nella penombra della
stanza.
Riconobbi le sagome del cassettone dove avevo riposto i miei pochi
vestiti, i
comodini e il grande letto a baldacchino. Coperti dalla pesante
trapunta che
avevo rimpianto quella notte c’erano Leonardo e Celeste, l’uno
abbracciato all’altra.
Dormivano
profondamente e nel loro abbraccio era come se i due corpi si
fondessero in uno
solo, donandosi calore e sicurezza. Sorrisi a quella scena perché
ricordai la
prima volta che lei mi parlò del calciatore. All’inizio Celeste lo
aveva
disprezzato, quasi odiato, pur non sapendo quale professione
esercitasse, come
la sottoscritta.
L’unica
differenza è che io sapevo bene chi fosse Simone Sogno.
All’improvviso
un lungo brivido di freddo mi rotolò lungo la spina dorsale, facendomi
correre
la pelle d’oca. Sentivo il respiro farsi più pesante e un forte disagio
proprio
al centro del petto. Pensai subito che mi stesse venendo una specie di
infarto,
ma poi mi diedi immediatamente della sciocca.
Prima
di partire avevo fatto tutte le analisi possibili immaginabili, nel
giro di un
solo mese non era cambiato nulla.
Richiusi
la porta e andai in bagno, poi mi diressi di nuovo verso il mio freddo
cantuccio. Mi bloccai però davanti alla stanza di Simone, quasi come se
i miei
piedi mi avessero condotto lì senza il mio volere.
Forse
ero sonnambula ma il mio Cervello era fin troppo vigile per essere
assopito.
Cosa
diavolo stavo facendo?
Dovevo
resistere, farmi forza, non cedere alla tentazione della carne come
avevano
fatto tutte le ragazze che quel cretino immaturo di Simone si era
portato a
letto. Io ero Venera Donati, quasi socio della Abbott&Abbott di
Londra,
avvocato in erba e giovane donna in cerca di un uomo maturo che le
desse una
certa stabilità emotiva.
Non
un bamboccio a cui avrei dovuto cambiare il pannolino.
Ma
tutti questi pensieri non bastarono a fermare la mia mano che si posò
quasi
automaticamente sulla maniglia della porta. Rimasi un po’ di tempo
ferma a
pensare, in attesa che succedesse qualcosa, che anche il più piccolo
rumore
potesse distrarmi e farmi rinsavire.
Poi
feci un po’ di pressione e la porta si aprì lentamente.
La
stanza era avvolta nel buio, tranne che per la luce flebile di un
lampione in
strada che filtrava attraverso le tende tirate male. Il disordine
regnava
sovrano in quella stanza, nonostante più volte lo avessi rimproverato
di dare
una sistemata, ma in quel momento stranamente non mi diede troppo
fastidio. Il
mio sguardo era totalmente rapito dalla figura assopita di Simone,
rigirato su
un fianco, che occupava metà del letto e dormiva profondamente.
Nel
silenzio della stanza cominciai ad udire distintamente qualcosa
tamburellarmi
al centro del petto e solo quando mi resi conto che non stavo
respirando, mi
accorsi che si trattava del mio cuore. Mi strinsi le braccia al petto
mentre un
brivido di freddo mi colpiva a tradimento, così non indugiai troppo e
mi
avvicinai al grande letto a due piazze.
Non
mi feci troppe domande e il mio Cervello era evidentemente fin troppo
intorpidito dalla notte quasi insonne, così non ricevetti alcun
ammonimento in
ciò che stavo per fare. Avrei dovuto riflettere meglio sulle
conseguenze,
prevedere che quel gesto avrebbe mescolato per bene le carte in tavola.
Finalmente avevo messo in chiaro le cose con James, di comune accordo
avevamo
deciso di smetterla di mentire agli altri, di fare le cose di nascosto
per via
di questo lavoro che era diventata la mia stessa vita, ed ora, dopo
nemmeno una
settimana, ecco che mi infilavo di nascosto nel letto della stessa
persona che
avrei dovuto difendere in tribunale.
Mi
fermai davanti al letto e indugiai. Simone dormiva profondamente. Aveva
le
labbra dischiuse e il respiro pesante, con quei capelli perennemente
spettinati
e sparsi su tutto il cuscino. Dovetti ammettere a me stessa che per
quanto
fosse superficiale, immaturo e stronzo, nulla toglieva alla sua
bellezza,
soprattutto quando lo vedevo così innocente.
Finché
la sua bocca non tirava fuori qualche offesa o stupido soprannome,
avrebbe
battuto James su tutti i fronti. Mi costò molto ammetterlo, anche
perché fino a
poco tempo fa mai avrei immaginato di poter dire certe cose, eppure
eccomi lì,
al bordo del suo letto, elemosinando un posto caldo e accogliente.
Scostai
delicatamente la trapunta di piume d’oca, mi tolsi le pantofole col
pelo e
posai lentamente un ginocchio sul materasso, facendolo inclinare di
poco. Avevo
paura di svegliarlo, di trovarmi davanti agli occhi quelle iridi scure,
quasi
come quella stessa stanza che permetteva a mala pena di scorgere i
contorni
degli oggetti da arredo.
Posai
lentamente la testa sul cuscino, tirandomi su la trapunta fin quasi a
coprire
le orecchie, poi mi rannicchiai guardando verso Simone. Si era limitato
solo a
chiudere le labbra mentre il suo tranquillo respirare riempiva il
silenzio di
quella strana notte. Finalmente la temperatura del mio corpo si stava
stabilizzando così cominciai a chiudere lentamente le palpebre
preparandomi ad
una lunga notte di sonno.
«Ti
stavo
aspettando,»
disse all’improvviso una voce ed io spalancai gli occhi quasi
allarmata,
trovandomi a guardare Simone dritto in faccia.
Tentai
di non arrossire, ma fu quasi del tutto inutile. Col beneficio del buio
però,
sperai che il calciatore non se ne accorgesse.
Simone
mi sorrise e dal suo sguardo stranamente vigile pensai che non si fosse
addormentato per nulla dalla nostra chiacchierata in cucina di poco
tempo
prima. Aveva capito che sarei venuta da lui e mi stava aspettando
sveglio.
Rabbrividii
al pensiero di quanto fossi stata sciocca e prevedibile. Però non me ne
dispiacque.
«Ce
ne hai
messo di tempo per decidere,»
sussurrò, distendendo le lunghe gambe sul grande materasso.
Senza
smettere di fissarlo dritto negli occhi, per quanto il suo sguardo mi
stesse
mettendo in soggezione, sbuffai infastidita. Ovviamente si trattava
solo di una
scenata, nulla di più.
Solo per non dargliela vinta.
«Ho
creduto
opportuno non ammalarmi ancora, visto che domani è il mio ultimo giorno
di
lavoro prima del ponte natalizio,» spiegai diplomatica.
Sbirciai
la reazione di Simone da sotto le mie ciglia, abbassando un po’ lo
sguardo e
fingendo sonnolenza, ma lui non fece una piega, anzi, sorrise. Aveva
forse
capito che il mio era soltanto un bluff? Che alla fine, come tutte
quelle
giraffone che mi stavano tanto sul cavolo, anche io avevo ceduto al suo
strano
fascino?
«Sono
felice
che tu sia così responsabile.»
Allungò una mano e scostandomi un ciuffo di capelli davanti al viso.
«Buonanotte,
avvocato.»
Si voltò dall’altra parte del letto, dandomi le spalle.
Rimasi
a fissare la sua schiena per i successivi dieci minuti, col cuore che
batteva
all’impazzata all’interno della gabbia toracica e una strana sensazione
di
calore in tutto il corpo. Non seppi se si era trattato della trapunta
di piume
d’oca o di qualcos’altro.
Magari
la nuova sensazione di avere qualcuno accanto, di essere importante, di
poter
condividere qualcosa non solo per interesse.
Buonanotte, Simo.
Mi
addormentai col pensiero che per quanto quel ragazzino fosse
insopportabile,
immaturo, incosciente e tutti gli annessi e connessi, ormai era
difficile
continuare a dire che non mi fossi inspiegabilmente legata a lui.
C’era
qualcosa che mi aveva colpito, dalla sera della festa a Cambridge, ed
era come
se fossi finita in una specie di rete: più tentavo di districarmi, di
dimenticarlo, di separarmi da lui, e più le maglie mi si stringevano
addosso,
intrappolandomi.
Se
il buongiorno si vedeva dal mattino, quella volta non si trattò affatto
di una
buona giornata. Mi svegliai con un forte mal di testa, a causa della
notte
passata a vagare per tutta la casa, inoltre era come se mi sentissi
oppressa da
qualcosa.
Spalancai
le palpebre e mi stropicciai gli occhi, non riconoscendo affatto i
contorni
della mia stanza da letto. Magliette lanciate sopra le sedie, calzini
sparsi a
terra, riviste che penzolavano dagli scaffali. Quella specie di tugurio
poteva
appartenere ad una sola persona: Simone.
Non
appena realizzai cosa fosse successo la notte prima, sentii una forte
scarica
di adrenalina in tutto il corpo e mi accorsi finalmente di avere un
altro
essere umano avvinghiato addosso. Con la coda dell’occhio scorsi un
ciuffo di
capelli di Simone che mi solleticavano la nuca e infatti quel demente
mi si era
appiccicato durante il sonno come un cucciolo di koala.
Ci
sarebbe voluta soltanto tutta la mia forza di volontà per non
rovesciargli
addosso tutto il letto, facendo svegliare Celeste di soprassalto.
Perché
dovevano capitare tutte a me? Non era bastato l’imbarazzo della sera
prima?
Evidentemente il karma si era accanito contro di me per qualche assurdo
motivo.
Con
un enorme sforzo, tentai di girarmi in modo da non dargli le spalle e
di
divincolarmi da quell’abbraccio da piovra. Ci riuscii al terzo
tentativo,
facendo traballare un po’ il materasso ma Simone sembrò non
accorgersene.
Dormiva
come un ghiro.
Purtroppo
non avevo fatto i conti con l’effetto del suo viso con la prima luce
del
mattino. Quando dormiva, dimostrava ancora meno anni. Sembrava che il
tempo non
fosse mai passato per lui, che l’avesse congelato all’età di
diciassette anni e
lì si fosse fermato, dandogli per sempre l’aspetto di un adolescente.
Le
labbra semi dischiuse a lasciare intravedere il bianco degli incisivi,
un
ciuffo di capelli castani che gli ricadeva sul viso addormentato e
quelle
grandi mani avvolte sui miei fianchi. Potevo sentirne il calore
attraverso la
stoffa del pigiama, quasi a bruciarmi la pelle e a marchiarla.
D’improvviso
persi un battito perché lo sentii muoversi leggermente, ma subito dopo
sembrò
di nuovo addormentato. Evidentemente era stato un movimento
involontario
durante il sonno.
Con
la gola secca, mi trovai ad osservarlo ancora, sempre più vicino.
Mi
sentivo in colpa per quello che stavo facendo, per l’ingordigia con cui
il mio
sguardo sondava ogni suo particolare. Dalle spalle larghe alle braccia
lunghe e
affusolate, con le vene sporgenti che sparivano al di sotto della
trapunta, a
stretto contatto col mio corpo.
Con
James non avevo mai raggiunto questo tipo d’intimità, perché non ce
n’era stata
occasione. O meglio, una volta mi aveva invitato a casa sua ma Simone
mi aveva
fatto cambiare idea senza chiedermi nulla. Soltanto il suo sguardo
afflitto mi
era bastato a rinunciare a quell’invito.
Era
come se il calciatore avesse uno strano potere sulla sottoscritta,
nonostante
avessi sempre creduto di poterlo rigirare a mio piacimento. Avevo dato
per
scontato che la sua professione lo rendesse un po’ a corto di acume,
invece lui
avrebbe anche potuto frequentare Cambridge, come la sottoscritta, ma la
passione per quello sport lo aveva condotto da un’altra parte.
Liberai
una mano da sotto le coperte e la passai impercettibilmente sul suo
viso,
studiandone i contorni ancora una volta, quasi come se fosse
impossibile
resistere a toccare quella pelle così liscia e bianca, quasi di
porcellana.
Gli
scostai quella ciocca ribelle di capelli dal viso e avvertii
distintamente il
suo profumo sparso sul cuscino. Non si trattava di qualche fragranza
famosa,
come Calvin Klein o roba simile, ma proprio l’odore che emanava la sua
pelle,
quel tipo di sostanza che inizialmente contraddistingue la persona, ma
poi diventa
un’abitudine sentirla attorno a sé.
A cosa stai pensando, Ven? Ti
piacerebbe non sentire più quel profumo?
Quel
pensiero pungente mi fece ritrarre immediatamente la mano dal viso di
Simone,
perché altrimenti mi sarei potuta bruciare con le mie stesse mani. Mi
faceva
male tutto quello, tutta la situazione che si stava instaurando tra me
e
Simone. Stavo mettendo tremendamente a rischio tutto il mio lavoro,
tutto ciò
per cui avevo fatto degli enormi sacrifici e avevo lasciato la mia
stessa casa.
Per
cosa, poi? Avrei mandato la mia carriera a rotoli per qualcuno che non
sapeva
nemmeno prendersi le proprie responsabilità, che in ballo aveva una
causa di
dubbia paternità?
Io
avevo bisogno di stabilità, di qualcuno capace di darmi una certa
sicurezza.
Ormai ero troppo grande per vivere ancora sul filo del rasoio, di una
relazione
altalenante.
Decisi
di alzarmi, di allontanarmi di lì il più presto possibile prima che
potessi
impantanarmi ancora di più con le mie stesse mani. Quella situazione mi
stava
sfuggendo di mano, con Simone non riuscivo ad essere me stessa, a
tirare fuori
quel muro che mi permetteva di essere così fredda e distaccata.
Era
come se lui riuscisse a scavalcarlo, a passarvi oltre senza alcuna
difficoltà.
Proprio
quando mi voltai per scendere dal letto, sentii le sue braccia
stringere con
forza trattenendomi al mio posto. Divenni letteralmente una statua,
completamente immobile, soprattutto quando Simone si avvicinò con tutto
il suo
corpo, facendolo aderire al mio.
«Buongiorno,»
mi soffiò nell’orecchio,
facendomi venire la pelle d’oca. «Dove pensavi di scappare?» ridacchiò.
Tentai
di sfuggire al suo sguardo ma non ci riuscii. Lo cercai poco dopo
qualche
secondo, troppo affamata da quegli occhi incredibilmente scuri ed
espressivi.
Stava diventando un’ossessione, una droga a cui non riuscivo a
resistere.
«Devo
andare al
bagno,»
mentii, pur di andarmene da lì.
Sapevo
che se fossi rimasta almeno qualche altro minuto gli avrei dato la
possibilità
di scorgere un lato di Venera che non avevo mai fatto vedere a nessuno.
Ero
troppo debole, avrei dovuto riprendermi e riacquistare un po’ della mia
consueta acidità.
«Bugia,»
disse lui,
ridendo e fissandomi con quei maledetti occhi.
Lo
odiavo. In quel momento avrei voluto urlargli contro di lasciarmi
stare, di
togliere quelle mani calde e accoglienti dal mio corpo. Lo avrei voluto
maledire di essersi rivolto al mio stesso studio. Per colpa sua mi
stavo
lentamente disintegrando.
Mi
guardò ancora una volta, ma serio. Era così bello, perfino la mattina
appena sveglio
e con lo sguardo assonnato.
Senza
aggiungere nient’altro si avvicinò lentamente e premette le sue labbra
sulle
mie, senza forzarmi. Lo fece di proposito, perché aspettava una mia
reazione
negativa che ovviamente non arrivò. Era impossibile che arrivasse.
Da
quando eravamo stati interrotti dall’arrivo improvviso di Leonardo e
Celeste,
era come se mi fosse mancato qualcosa.
Allungai
una mano e intrecciai le dita con i suoi capelli, così morbidi e
setosi, mentre
arrendevole schiudevo le labbra e gli permettevo di infilare la lingua
che andò
subito a lambire la mia. Nessuna parte di me si ribellò a
quell’intrusione, non
ve n’era motivo, non dopo che segretamente avevo serbato quel desiderio
da
tempo.
Il
suo profumo mi penetrò con forza nelle narici, ottenebrandomi i
pensieri,
mentre le nostre bocche si rincorrevano tra i baci. Simone si fece più
intraprendente e mi schiacciò sotto di sé, non facendo tanta pressione.
Si
scostò da me per prendere fiato e per guardarmi negli occhi, quasi
sicuramente
annebbiati dalla passione.
«Devo
prendere
nota che la mattina presto sei decisamente più arrendevole,» ironizzò
malizioso, sfoderando un sorriso birichino.
Sorrisi
anche io, visto che ormai non potevo più nascondere l’attrazione che
provavo
nei suoi confronti. «Sarà
che il sonno m’intontisce. Ti consiglio di approfittarne.»
Cosa hai fatto alla vecchia Ven,
quella responsabile e matura? Chi è quest’essere malizioso e
arrendevole?
Ignorai
il mio Cervello e accolsi di nuovo le labbra di Simone sulle mie, la
sua lingua
calda che si muoveva tra le mie labbra affamate. Sentivo tutto il peso
del suo
corpo sul mio e non mi dispiacque, anzi. Era davvero troppo tempo che
non mi
buttavo in una qualsiasi relazione e per quanto fossi stata impegnata
col
lavoro, adesso ne avrei pagato le conseguenze.
Il
mio corpo bramava quel peso e quel calore più di ogni altra cosa, quasi
si
protendesse verso di lui a cercarlo quando mancava.
Ma
in quel momento, mi domandai, perché tutto quello non era successo
prima con
James? Per quale motivo non avevo avvertito lo stesso bisogno, quasi
animale,
di lanciarmi tra le sue braccia. Forse perché Simone era qualcosa di
instabile,
di proibito, qualcosa da cui mi ero sempre ben vista?
Tra
un bacio e l’altro avvertii le mani di Simone che si facevano spazio
tra le
pieghe del mio pigiama, sollevandone il bordo e cercando avide il
contatto con
la mia pelle.
Erano
bollenti e tutto il mio corpo reagì con un lungo e profondo brivido.
Simone
spostò le labbra e andò a torturare un lembo della mia pelle
direttamente sotto
l’orecchio. Incapace perfino di pensare, mi limitai a fissare il
soffitto in
balia delle sue mani morbide, ricordandomi solo di respirare.
Ero
in affanno e sentivo che prima o poi il cuore mi sarebbe scoppiato nel
petto.
«D-Dovremmo
fer-fermarci…» annaspai, in
un momento di lucidità che svanì quasi subito.
«No,»
rispose lui
secco, dicendomelo direttamente nell’orecchio come a volermi far
intendere
quella parola alla perfezione.
Avrei
dovuto insistere, anche perché ero l’unica che rischiava grosso da
tutta quella
storia.
«L-La
causa,» riuscii ad
aggiungere, cercando di fargli ritrovare un po’ di sale in zucca.
Simone
si avventò con forza e decisione sulle mie labbra, facendomi tacere a
suon di
baci caldi e umidi. Non mi sarei aspettata che si mettesse da parte,
che, come
James, razionalizzasse sul problema e trovasse una decisione
diplomatica.
Lui
era puro istinto e nient’altro.
«Ti
voglio,» disse
imperativo, arrivando a slacciarmi perfino il reggiseno. «Ora.» Gli
permisi
di alzarmi la maglietta, di cominciare a lasciare una scia di baci
umidi che
partiva dal mio ombelico e risaliva fino a lambirne il seno.
Lanciai
un urlo muto verso il cielo quando le sue labbra toccarono quel
bottoncino di
carne delicato e inarcai la schiena, cercando con le mani i suoi
capelli e
affondandovi le dita con forza. Stavo rischiando troppo, gli stavo
concedendo
una libertà che difficilmente avevo dato ad un ragazzo.
Ma lui non è uno qualsiasi.
Era
piombato nella mia vita come un uragano, e con la stessa intensità
aveva
spazzato via ogni mia fermezza. Aveva scavalcato il muro ed era
riuscito ad
arrivare a me.
«S-Simo…»
gemetti
affannata, senza sapere cosa dire né cosa fare. Era come tornare alla
mia prima
volta, tra l’imbarazzo di non saper dove mettere le mani.
Invece
lui era così esperto, così sicuro di sé nei movimenti e nelle reazioni
che il
mio corpo avrebbe avuto. Perché Simone ci era abituato, con tutte
quelle che si
portava a letto quasi ogni sera.
Sentii
il mio cuore fare un tuffo verso il basso, realizzando che sarei potuta
essere
semplicemente uno dei suoi passatempi. Una valvola di sfogo per quella
specie
di castità che suo fratello e James gli avevano imposto.
Senza
che me ne accorgessi, una lacrima rotolò giù dal mio occhio sinistro,
infrangendosi sul dorso della mano di Simone che subito si fermò e
cercò i miei
occhi.
Si
avvicinò e mi posò un bacio sul mento, poi sul naso e infine in fronte.
«Che
hai?» mi chiese
preoccupato ed io rimasi quasi totalmente imbambolata da quel suo
strano
comportamento.
«Niente,»
mentii,
asciugandomi velocemente l’angolo dell’occhio. Non avrei certo potuto
ammettere
che avevo paura di essere una delle sue tante giraffone, anche se non
ero né
una modella, né tanto meno una bellezza da copertina.
Simone
si accigliò, così si accomodò meglio sul mio corpo, posando la testa
sul mio
seno scoperto.
«Stai
mentendo,
ormai lo capisco quando mi racconti bugie,» disse sicuro, neanche
fossimo
sposati da dieci anni.
Come
pretendeva di conoscermi dopo nemmeno un mese di convivenza? Cosa ne
poteva
sapere di me?
«Ti
ho detto
che non è niente, poi non devo certo spiegarlo a uno come te,» sibilai,
senza pensare. Non sapevo nemmeno cosa volesse da me, se il suo scopo
era
solamente quello di portarmi a letto e nient’altro, se ero solo
un’altra tacca
sul suo bastone delle scopate. E lui pretendeva di conoscermi?
Simone
s’indispettì, sollevandosi dal mio corpo e guardandomi. «Uno come me?»
mormorò
offeso. «Vorresti
dire che non sono alla tua altezza?»
C’era
aria di litigio quella mattina, così mi alzai a sedere anche io,
abbassandomi
la maglietta del pigiama e riallacciandomi il reggiseno. Simone non
aveva
capito che il problema era proprio l’inverso, che io stessa avevo il
terrore
che mi stesse usando.
«Sei
abituato
ad un certo tipo di donne, o sbaglio?» gli rinfacciai piccata.
Simone
s’adombrò, fissandomi da sotto quelle lunghe ciglia scure. Aveva ancora
i
capelli spettinati dalla furia con cui mi ci ero aggrappata e il
respiro
affannato.
«Anche
tu sei
abituata ad un certo tipo di uomini…» lasciò la frase in sospeso di
proposito, riferendosi a James.
Dio,
quanto lo odiavo, quando faceva lo stupido in questo modo! Possibile
che non ci
arrivasse? Che pensasse davvero di non essere alla mia altezza?
«Senti,
finiamola qui sennò svegliamo anche tuo cugino e Celeste,» dissi io,
diplomatica, scendendo dal letto.
«Sai
che mi
importa,»
mormorò incazzato.
«Sei
proprio un
bamboccio capriccioso,»
gli dissi, per l’ennesima volta.
Lui
mi fulminò con lo sguardo. «E
tu sei una vecchia acida che entrerà in menopausa a trent’anni.
Sbrigati a fare
figli, altrimenti le tue ovaie andranno in sciopero preventivo.»
Soltanto
noi potevamo svegliarci tra i baci e finire a fare colazione
lanciandoci
parolacce e maledizioni.
«Quanto
sei
cretino.»
«Acida.»
«Vedi
di
crescere.»
«E
tu tieni a
bada Pisellino se non vuoi
ritrovarti
ragazzo padre.»
Simone
sorrise malizioso, inchiodandomi sulla soglia della porta semiaperta.
Si
abbassò quel tanto da immobilizzarmi con quel suo sguardo brevettato.
«Fino
a poco
tempo fa non ti dispiaceva,»
sussurrò malizioso.
Gli
posai una mano sul petto per allontanarlo, anche se in verità non
riuscivo a
smuoverlo di un millimetro.
«Nemmeno
a te
dispiaceva,»
risposi sprezzante. «“Ti
voglio. Ora”»
gli scimmiottai dietro, prendendolo in giro.
Lui
mi guardò di traverso, cercando il modo di rispondermi per le rime,
quando
aprii del tutto la porta e ci ritrovammo davanti gli occhi azzurri e
vispi di
un’anziana signora dai candidi capelli bianchi.
Aveva
un volto familiare ma non mi era mai capitato di incontrarla.
Continuava a
guardarci con un sorriso smagliante che andava da orecchio ad orecchio.
Simone
era bianco come un lenzuolo. «Nonna,» disse
solamente, quasi come un lamento ed io rimasi immobile.
Nonna?
Ma quella casa era una specie di via vai di parenti?
Gli
occhi azzurri dell’anziana donna si spalancarono colmi di felicità.
«Pisellino
della nonna! Ho preso il primo aereo e sono subito passata a trovare il
mio bel
nipote!»
trillò estasiata, aprendo le braccia e avvinghiandosi al metro e
novanta di
Simone.
Lui
mi guardò terrorizzato, sperando corressi in suo aiuto ma non sapevo
davvero
cosa fare. Celeste mi aveva parlato della famosa nonna Annunziata, la
proprietaria del negozio di fiori in cui Leonardo aveva detto di
lavorare
all’inizio della loro storia, ma non mi sarei mai immaginata di
trovarmela
davanti agli occhi, per giunta con la piacevole sveglia
di quella mattina.
«Nonna,
per
favore…»
si lagnò Simone, tentando di divincolarsi dalla stretta della donna, ma
il
poveretto sembrava rinchiuso in una morsa d’acciaio.
«Oh,
lascia ad
un’anziana signora i suoi diletti. Non ti vedo da quest’estate!» si
lamentò,
allentando la stretta.
Simone
si massaggiò le braccia indolenzite. Sapevo bene come potevano essere
spossanti
gli abbracci di una nonna, anche io a Tivoli ne avevo lasciate due ben
intenzionate e rivedermi almeno due volte l’anno.
«Nonna
lo sai
che la squadra mi tiene impegnato,» si giustificò lui.
Nonna
Annunziata scosse la testa convinta. «No, no. Ormai non me la bevo più
la scusa del lavoro, bello mio.»
Spostò quei profondi occhi azzurri su di me e sorrise. Quel gesto mi
ricordò
molto quello di Sofia. «Ora
capisco il perché non hai mai tempo per la tua nonnina,» sorrise. «Mi
vuoi
presentare questa bella signorina?»
Sorrisi
per la scenetta comica, soprattutto quando notai che Simone era
all’apice
dell’imbarazzo. Non lo avevo mai visto così e mi fece molta tenerezza.
Era
proprio un bambinone.
Sentimmo
lo scatto metallico della porta in fondo al corridoio e ben presto
Celeste e
Leonardo fecero la loro comparsa.
«Nonna!»
gridò la mia
migliore amica, appena vide l’anziana donna. Le corse in contro
euforica,
gettandole le braccia al collo e dicendole che non si sarebbe mai
aspettata di
trovarla lì.
«Chicco
e la
mia piccola Celeste!»
mormorò la nonna estasiata. «Finalmente
passeremo delle vacanze natalizie tutte in famiglia.»
Ci
spostammo poco dopo a fare colazione, mentre nonna Annunziata, per
nulla stanca
del viaggio, si mise ai fornelli e cominciò a preparare le sue famose
frittelle. Celeste era al settimo cielo e non la finiva di raccontare
all’anziana donna la tesi che aveva dato da qualche mese.
Leonardo
si infilava tre frittelle in bocca contemporaneamente, spruzzandosi la
cioccolata direttamente dal tubetto. Evidentemente il fatto di essere
fighi
nella famiglia Sogno era direttamente proporzionale alla quantità di
cibo che
si ingeriva.
L’unico
che aveva un’aria da funerale era Simone. Se ne stava ad un angolo del
tavolo e
continuava a giocherellare col cibo, senza mangiarne nemmeno un
pezzetto.
Era
troppo strano.
«Insomma,
tesoro,»
disse Annunziata rivolgendosi a me, «da quant’è che tu e il mio
piccolo maschietto state insieme?» mi chiese ed io per poco non mi
strozzai con la colazione.
Tossii
un paio di volte, anzi, anche tre, poi mi avventai sulla tazza di latte
per
cercare di mandar giù il boccone senza vomitare.
Simone
non riuscì a trattenere una risatina. Evidentemente aspettava solo una
mia
figura di merda per ritrovare il buonumore. Maledetto.
Celeste,
invece, parve sorpresa. «Perché
dici così, nonna?»
le domandò incuriosita.
La
donna girò le tre frittelle che aveva sul fuoco, facendole roteare per
aria
come una cuoca provetta, poi tornò a sbattere le uova. «Beh,
stamattina li ho incontrati che uscivano dalla stanza di Pisellino, ho
pensato
che convivessero visto che avevano dormito insieme,» rispose
semplicemente.
«Nonna,
non mi
chiamare così!»
disse Simone, infastidito.
Leonardo
cominciò a ridere a crepapelle, poi rischiò di strozzarsi con una
frittella.
La
mia migliore amica mi fissò con quei grandi occhi azzurri completamente
sgranati. «Dice
davvero?»
«Te
la fai con
le secchione, cuginetto?»
ridacchiò Leonardo, rivolgendosi a Simone che gli lanciò uno sguardo
glaciale.
Né
io né lui avevamo modo di rispondere a quella domanda. Ci guardammo per
un
attimo e per quanto fosse difficile, rimasi a corto di parole. Cosa
avrei
potuto dire a Celeste? Che nonna Annunziata si stava inventando tutto?
Ci aveva
sorpresi ad uscire dalla stanza di Simone, dopo che avevamo dormito
insieme – e
non solo –, ma se le avessi detto la verità avrei anche dovuto
ammettere che
provavo una qualche specie di attrazione per il calciatore.
Che
razza di persona ero diventata?
«Ven
era venuta
a svegliarmi, tutto qui. Ha dormito sul divano stanotte,» concluse
Simone, molto più rapido e più sveglio di me ad inventare una scusa.
Nonna
Annunziata sembrò quasi delusa da quella notizia, ma lo nascose quasi
subito. «Quindi non
state insieme?»
s’informò la mia migliore amica.
Simone
sfoderò quel solito sorriso sbieco. «Ti pare che Simone Sogno possa
abbassarsi a frequentare una nerd che passa la maggior parte del tempo
a
sgobbare sui libri o ad ammazzarsi di lavoro? Tutta movida qui,
sorella.»
Celeste
rimase di sasso per la superficialità di Simone. Le avrei voluto tanto
dire che
alla fine ci si sarebbe abituata, era fatto così e non poteva cambiare.
«Sorella?»
ripeté
sbigottita.
«Lascialo
perdere,»
le dissi io, tornando a mangiare.
Mi
ritrovai ben presto a fissare lo sguardo azzurrissimo di nonna
Annunziata, che
mi scrutava attentamente senza aggiungere una parola. Era come se al
posto
delle iridi avesse due raggi X con cui riusciva a leggermi dentro con
una
facilità disarmante.
Lo sa. Non si è bevuta la scusa
di Simone, lei sa che tra voi due c’è dell’altro.
Ora
ne avevo la conferma.
Il
suono del citofono interruppe i miei pensieri, così andai ad aprire e
la voce
squillante di Sofia per poco non mi fece perdere l’udito. Poco dopo
suonò il
campanello e non appena il portone si aprì, la piccola furia bionda si
precipitò a salutare Celeste e Leonardo.
Dietro
di lei apparve un Ruben abbastanza imbarazzato. La dolcezza di quel
ragazzo era
merce rara e anche se ancora mi era difficile credere che una ragazza
come
Sofia potesse stare insieme a quella specie di talpa, i due sembravano
perfetti.
«Sofi!»
gridò la mia
migliore amica, abbracciando la cugina del suo ragazzo.
«Cel,
cuginetto!»
trillò lei, saltando addosso ad entrambi.
«Sofia!»
Dopo
una serie di convenevoli, tra cui una scena di commozione durante
l’incontro
tra Ruben e Leonardo che era da un po’ che non si rivedevano, tornammo
a fare
colazione.
«Posso
fare due
osservazioni?»
se ne uscì Simone.
«Che
vicino a
te siede un bel ragazzo, nonché calciatore in lizza per il Pallone
d’Oro?»
Il
cugino più piccolo lo linciò con un’occhiata. «Ti piacerebbe.» rispose
piccato. «Mi
è sorto un dubbio. Sbaglio o questa casa è diventata una sorta di
albergo?
Prima che l’elfo venisse ad abitare qui, me ne stavo tranquillo e beato
nella
mia solitudine. Ora, un giorno sì e l’altro pure mi ritrovo la casa
stracolma
di gente!»
protestò.
«Simone
William
Marco Aurelio Sogno!»
gridò la nonna sconvolta. «È
così che tratti la tua famiglia? Dovresti essere contento e ringraziare
questa
bella signorina che ti ha permesso di riavvicinarti a tutto il tuo
parentado!»
«Giusto!»
sorrisi io.
«In
effetti,
prima dell’arrivo di Ven venivo soltanto io a trovarti. Molto spesso
trovavo
l’appartamento vuoto e me ne ritornavo indietro senza nemmeno averti
visto,» aggiunse
Sofia.
«Davvero
sei
così orso, Simone?»
domandò Celeste curiosa.
Lui
si sentì attaccato, così comincio ad issare su, mattone dopo mattone,
quel
grande muro che ormai era il mio e il suo marchio di fabbrica.
«Non
sono un
orso. È questa famiglia che mi opprime. Leonardo non fa testo, lui è
figlio
unico quindi non puoi capire,»
rispose sincero.
«Vuoi
dire che
ti opprimiamo?»
chiese Sofia, offesa.
Simone
sbuffò stufo. Cominciava a intravedersi un lato di lui che raramente
permetteva
di trapelare.
«Lasciamo
perdere,»
tagliò corto, alzandosi dalla sedia e tornandosene in camera.
«Ehi,
cugino!» intervenne
Leonardo, fermandolo a metà strada.
«Che
vuoi?»
«Qual
era la
seconda cosa?»
gli chiese. «Hai
detto di dover fare due osservazioni.»
Simone
parve ricordarsi soltanto in quel momento di averlo detto. Sfoderò un
sorriso
malandrino e mi fissò. «L’altra
osservazione è che sono le nove meno un quarto, Lil’Elf.»
Sconvolta
mi voltai verso il grande orologio a muro e divenni bianca come un
fantasma.
«Porca
miseria!»
Mi
fiondai verso il bagno per prepararmi prima che Mr. Abbott trovasse una
scusa
valida per licenziarmi.
Allur,
mi nascondo immediatamente perché vi PROMISI (?) il capitolo tipo
516516516146 mesi fa (mercoledì)
e invece sto qui a postarvelo Sabbbbbbato VEGGOGNA!
Cmq, direi che la situazione in casa Sogno è più
movimentata del solito e la povera Vennie si ritrova in mezzo a "due
fuochi"
che sarebbero Leonardo e Simone (però io li adoro XD)
Ma quanto è cucciolo quando la chiama Lil'Elf?? ç_ç vorrei tanto che
Simo fosse vero e non solo di carta e inchiostro!
Babbé, smettiamola di compiangerci...
Dopo mi metto d'impegno e rispondo alle recensioni e PRIMA O POI
riuscirò a scrivere l'ultimo capitolo di CIUS
anche se comprendo che è stato abbandonato, vabbé.
Gli voglio cmq dare una degna conclusione :3
Se di tanto in tanto vedere che pubblico spornazzate, non
preoccupatevi! C'è il p0rn!fest *sia benedetto* indetto da fanficitalia
e alcuni prompt sono talmente awwwwwwwwwwwwww che devo scriverci ù_ù
Bene, alla proxxxxima! E BUON ANNO A TUTTE! (in anticipo)
-Marty
|
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Capitolo 17 *** Capitolo 15 ***
CAPITOLO
15
betato da quella santa donna di nes_sie
L’ultimo
giorno di lavoro prima delle vacanze natalizie fu un caos. C’erano
pratiche da
archiviare ovunque, la fotocopiatrice era impazzita e noi stagisti
venivamo
mandati a destra e a manca neanche fossimo stati ad una maratona.
Yuki
era sudata e appiccicosa, infatti di tanto in tanto cercava di
tamponarsi le
chiazze di sudore sulla camicetta con dei fazzolettini profumati. Gli
altri
soci dello studio avevano passato troppo tempo a bighellonare, ed ora
ci
ritrovavamo in ritardo con alcune archiviazioni da fare entro la fine
dell’anno
corrente. Il Tribunale le aveva richieste e così eravamo stati
avvertiti che
quel giorno sarebbe stato l’ultimo per la scadenza di quei contratti.
«Clarck contro
Van Bier va fotocopiato e inserito nella banca dati,» mi disse
Geoffrey, l’avvocato penalista che alle volte prendeva anche le veci di
Mr.
Abbott.
«Faccio
subito,»
dissi, aggiungendo il plico alla pila che mi portavo dietro da quella
mattina.
Per
fortuna ero riuscita a prepararmi in tempo, sfiorando il record, e mi
ero
diretta in ufficio quasi correndo. Appena entrata era scoppiato il
putiferio.
Avevo
avuto pochissimo tempo per respirare, visto che le scadenze andavano
rispettate
obbligatoriamente, così non ero nemmeno passata nell’ufficio di James
per salutarlo.
Più volte avevo posato la mano sul pomello della porta, ma ero stata
sempre
bloccata da qualcuno che necessitava il mio aiuto.
L’intera
mattinata passò in questo modo e anche gran parte del pomeriggio. Verso
l’ora
del the, noi assistenti ci ritrovammo nel salottino relax con le gambe
gonfie e
il fiatone, completamente distrutti.
«Dovrebbero
pagarci di più,»
si lamentò uno.
«Non ho sudato
tanto nemmeno alla finale di Badminton al circolo,» borbottò un
altro.
«Per me
dovreste ringraziare di essere stati almeno presi,» intervenne
Yuki, tirando fuori l’ultima salviettina rinfrescante del pacchetto. «Questo è uno
degli uffici più importanti di Londra e c’è chi farebbe carte false pur
di
entrare.»
Roteai
gli occhi verso l’alto, sventolandomi con un volantino. L’idea di
tornare a
casa era allettante, soprattutto visto che l’indomani sarebbe stata la
Vigilia
di Natale, ma quando ricordai che casa di Simone era diventata il
ritrovo della
famiglia Sogno allargata, mi passò la voglia.
Ero
felice di riavere la mia migliore amica con me, su questo non
discutevo, ma
avevo bisogno dei miei spazi e quelle feste si stavano trasformando in
una
specie di incubo.
Niente
più privacy, niente più segreti.
E
niente più risvegli come
quello di questa mattina.
La
gola mi si seccò tutta insieme e annaspai in cerca d’aria. La stanza
divenne
improvvisamente più calda, così aumentai la forza con cui muovevo il
volantino.
Lo sguardo scuro di Simone era come se fosse tatuato per sempre nella
mia
memoria, perfetto.
Sentivo
ancora la sua lingua sulla mia pelle, i suoi baci delicati e quel suo
respiro
caldo che mi aveva solleticato l’orecchio. Non avrei dovuto farmi
distrarre da
certe fantasie, soprattutto in quel periodo stressante; eppure da
quando avevo
lasciato perdere la storia con James, Simone era subentrato come uno
tsunami.
«Ven, stai
bene? Sei tremendamente rossa in viso. Forse dovresti prenderti il
pomeriggio
libero,»
mi suggerì Matt, ed io tentai di nascondere quell’evidente imbarazzo.
«Sì certo,
sono solo accaldata!»
mi affrettai a scusarmi.
Avrei
dovuto essere più accorta, soprattutto quando si trattava di mettere a
nudo la
mia vita privata. Dovevo tenere a mente che sia per colpa di Simone che
di
Jamie, il mio praticantato era sospeso su un filo sottilissimo che
rischiava di
spezzarsi da un momento all’altro.
Se
soltanto uno di questi individui avesse sospettato qualcosa, avrei
finito per
tornarmene a Roma con il primo volo disponibile.
D’improvviso
la porta della sala ricreazione si aprì e James fece il suo ingresso
senza indossare
la giacca, con le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci.
«Lì fuori è
una giungla!»
sorrise, rivolgendomi uno sguardo sincero.
Il
resto degli stagisti annuì convinto, mentre all’interno della saletta
calò un
silenzio imbarazzante intervallato unicamente dallo sventolio del mio
volantino.
Feci
di tutto per evitare di incrociare lo sguardo di James, soprattutto
quella
mattina che ero ancora piuttosto vulnerabile. Da quando ci eravamo
ufficialmente lasciati, dopo essere stati insieme di nascosto, non
avevo perso
tempo e quel tira e molla con Simone era andato sempre più peggiorando.
Il
pensiero che Celeste potesse scoprire ogni cosa mi terrorizzava.
Non
tanto perché mi avrebbe potuta giudicare, in fondo si trattava della
mia
migliore amica, avrebbe capito. Piuttosto ero spaventata da come
avrebbe potuto
reagire, soprattutto dopo questa lontananza. Noi che eravamo abituate a
sentirci ogni giorno, per raccontarci anche le più autentiche cazzate.
Ora io
le avevo nascosto tre delle cose più importanti da quando mi ero
trasferita lì.
Avevo
paura che ciò avrebbe incrinato per sempre il nostro rapporto.
Dopo
qualche minuto si sentì la voce infuriata di uno dei soci dello studio,
che
richiamava all’ordine gli stagisti che avevano esaurito la pausa.
Feci
per alzarmi, visto che facevo parte della “troupe” che in quel venerdì
nero –
se così si poteva chiamare – avrebbe svolto altri milioni di fotocopie,
quando
fui trattenuta da James.
L’avvocato
richiuse la porta dopo che gli altri se ne furono andati e mi sorrise,
genuino.
Fu una stilettata dritta al cuore, proprio perché non mi sarei mai
aspettata
che James potesse ancora avere tutto questo effetto su di me.
Ora
che hai Simo dalla tua
parte.
No!
Quella storia era solo uno sbaglio, iniziata nel peggiore dei modi e
avrei
dovuto troncarla immediatamente, appena tornata a casa.
«Oggi è
l’ultimo giorno,»
sorrise James, lievemente imbarazzato. «Cosa fai durante queste vacanze?
Tornerai a casa?»
mi chiese.
Scossi
la testa, guardano fuori dalla finestra. Tutto per non incontrare
quelle iridi
azzurre che mi avrebbero fatta capitolare. «Non penso. Ho troppo da fare qui
a Londra, poi sono arrivati degli amici che non vedo da tanto tempo.»
«Capisco.»
Il
silenzio tornò a governare quelle quattro pareti tinteggiate di giallo
pallido,
ed io non feci nulla per interromperlo. Cosa avrei potuto aggiungere?
Davvero
voleva che gli chiedessi di passare il giorno di Natale con me?
«Io credo che
tornerò a Liverpool,»
smozzicò lui. «Zio
August e papà organizzano la solita rimpatriata con tutti gli Abbott
sparsi per
l’Inghilterra. Spero di sentirti il giorno di Natale, o la vigilia…» e lasciò
appositamente la frase in sospeso.
Per
quale motivo, dopo tutto questo tempo, James riusciva ancora a
condizionare le
mie emozioni utilizzando frasi così semplici e innocenti?
Niente
“Ti voglio”, nessun morso o incontro violento di labbra.
Con
lui era tutto fatto di sguardi e di frasi a modo, come un vecchio
corteggiatore
d’altri tempi.
«Certo, ci
sentiremo,»
gli dissi sicura.
Una
telefonata non significava certo una promessa di matrimonio.
James
si avvicinò di qualche passo ed il mio cuore cominciò a battere molto
più
velocemente di quanto mi sarei aspettata. Forse i sentimenti che
provavo per
lui non si erano del tutto sopiti, forse quella pausa che ci eravamo
presi non
sarebbe servita poi a tanto.
Per
quanto potessi ignorarlo, buttarmi tra le braccia di Simone soltanto
per lenire
quella sua assenza, era del tutto inutile. Prima avrei finito il caso,
prima
saremmo potuti tornare insieme.
James
si fermò quando fu davanti a me e frugò qualcosa nella tasca del suo
completo
elegante. Aveva ancora quello sguardo semi-imbarazzato di poco prima,
che lo
faceva somigliare ad un bambino troppo cresciuto.
Ne
tirò fuori una scatolina di velluto rosso, con un grande fiocco
argentato
sopra. Me la porse sorridendo e augurandomi un timido “Buon
Natale, spaghetti-girl”.
Afferrai
il regalo con mani tremanti, realizzando forse troppo tardi che io non
avevo
nulla per ricambiare.
«N-Non dovevi…» soffiai
imbarazzata.
Lui
si portò una mano dietro la nuca e sorrise nervoso. «Ma dai, è una
sciocchezza! Aprilo,»
mi invitò.
Feci
come mi aveva suggerito e aprii il cofanetto, rivelando un piccolo
braccialetto
d’oro bianco con un singolo ciondolo. Lo tolsi dalla scatola per
osservarlo
meglio e notai che il gioiello rivelava la forma di un piccolo
martelletto da
giudice.
«Così mi
penserai anche quando saremo lontani,» mi disse lui, posandomi una
mano sulla spalla.
«È bellissimo…» sospirai
senza parole e lo indossai subito.
James
allora ne approfittò e mi prese il mento tra le mani, abbassandosi quel
tanto
da sfiorare le mie labbra con le sue. Fu un bacio veloce, quasi
impercettibile.
Eravamo ancora in ufficio e chiunque sarebbe potuto entrare e scoprirci.
Però
fu abbastanza.
Ritrovai
quel suo calore, l’odore pungente del dopobarba e la morbidezza di
quelle
labbra che non aveva nulla a che vedere con quelle di Simone.
Stai
facendo dei paragoni?
No,
non ce n’era alcun bisogno. Ci sarebbe stato sempre prima James, prima
di tutto
ed io lo avrei aspettato. In qualche modo glielo avevo promesso.
«Buon Natale,
Venera,»
soffiò a pochi centimetri dalle mie labbra.
Gli
carezzai la nuca con la punta delle dita. «Buon Natale, James.»
La
Abbott&Abbott chiuse esattamente alle dodici spaccate, e tutti
gli avvocati
dello studio si salutarono e si augurarono buone vacanze sul
porticciolo
dell’edificio. Quella mattina erano caduti altri cinque centimetri di
neve,
facendo arrivare quel manto bianco fino a bagnarmi l’orlo dei
pantaloni,
infilati sapientemente dentro un comodo paio di doposci.
«Allora ci
rivediamo il 28,»
disse Carl.
«Buon Natale a
tutti!»
Ognuno
prese strade diverse. Io imboccai come mio solito Regent Street,
diretta
all’incrocio con Oxford Circus. Non vedevo l’ora di tornare a casa, di
avvolgermi in una comoda coperta di pile e di sbracarmi sul divano
pronta per
una maratona di The Deep End.
Poi
ricordai che a casa di Simone era arrivato l’uragano “Sogno”, con tanto
di
nonna Annunziata impicciona e paladina delle storie d’amore celate.
Sbuffai
sonoramente e m’incamminai a passo svelto. Nonostante la neve, era una
bella
giornata e le temperature rasentavano i -5°C. Del resto, Londra
imbiancata
dalla neve era uno spettacolo inimmaginabile e per quanto adorassi la
mia città
natale, la capitale inglese era al secondo posto, se non addirittura a
pari-merito.
Svoltai
su Piccadilly Circus, stando attenta a non capitombolare su un grosso
lastrone
di ghiaccio e mi incamminai verso la palazzina. Frugai all’interno
della borsa
per cercare le chiavi, quando sentii il braccialetto di James
tintinnare.
Mi
fermai per un attimo ad osservarlo.
Era
bello e molto di classe. James mi aveva fatto dono di quel pensiero
incondizionatamente, senza che ce ne fosse motivo. Lo aveva fatto per
lasciarmi
un ricordo di sé, un segno del suo passaggio per quando sarebbe partito
per
Liverpool.
Ed
io invece di aspettarlo lo avevo tradito.
Ehi,
svegliati. Mica state
insieme!
Nonostante
gli avvertimenti del mio Cervello, mi sentii comunque in colpa e sempre
più
determinata a troncare di netto qualsiasi cosa potesse nascere con
Simone.
D’altronde
era pur sempre un Sogno, quindi sinonimo di inaffidabilità. Io ero il
suo
avvocato e lui aveva una causa di dubbia paternità in corso.
Realizzai
che nemmeno Beautiful sarebbe stato
in
grado di eguagliare la mia vita.
Scorsi
il portone della palazzina dietro l’angolo, così mi apprestai ad
accelerare il
passo, quando vidi una figura incappucciata fino alla punta dei capelli
che
usciva di gran corsa.
Quello
strano cappello con le orecchie lo avevo già visto da qualche parte…
«Simone!» gridai,
andandogli in contro e fermandolo.
Il
ragazzo imbacuccato si bloccò di colpo, mi fissò attraverso gli spessi
occhiali
da sole, poi come se nulla fosse proseguì di gran lena. Mi ritrovai ben
presto
a scapicollarmi pur di stargli alle costole, con quelle gambe magre e
chilometriche faceva dei passi talmente lunghi che cominciai a sudare.
«Fermati
deficiente! Dove cavolo stai andando?» gli urlai dietro, col fiato
corto.
Dio,
ero troppo vecchia per star dietro a quel moccioso.
Simone
non accennava a rallentare il passo, nonostante di tanto in tanto si
voltasse a
vedere se fossi ancora viva. Grazie tante!
«Smettila di
seguirmi!»
mi intimò, da dietro lo spesso strato di lana della sciarpa.
«Voglio sapere
dove… stai andando!»
ansimai.
Dopo
tre secondi netti lo mandai a quel paese e mi bloccai nel bel mezzo del
marciapiede, decisa a riprendere fiato. Sentivo l’aria gelida di quel
Venerdì
pomeriggio che mi graffiava fortemente la gola. Quel cretino non si
meritava
affatto la mia considerazione.
«Vatti a
schiantare!»
gli urlai dietro col fiatone.
Fu
allora che Simone si bloccò e tornò indietro, sincerandosi se fossi
morta o
meno. «Hai
resistito parecchio,»
constatò divertito. «Considerata
l’angolatura misera delle tue gambe.»
«Fottiti,
spilungone,»
ringhiai offesa.
Oltre
ad avermi fatto fare la sudata più epica di tutta la mia intera
esistenza,
aveva davvero il coraggio di infierire?
Simone
rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere fragorosamente. Lo
fissai di
traverso e per poco non gli diedi una spinta solo per farlo cadere.
Se
lo sarebbe meritato, quel deficiente.
«Si può sapere
dove cavolo te ne stavi andando? Lo sai che non puoi uscire a fare i
tuoi porci
comodi, sei sotto la mia supervisione!» gli ricordai.
Simone
fece spallucce e continuò a sghignazzare. «Non sopportavo più di stare lì
dentro. Odio il Natale,»
bofonchiò.
«Ma come! È la
festa preferita dai marmocchi!»
ridacchiai, rispolverando una tenera allusione.
Il
calciatore mi fulminò con uno sguardo. «Ciao,» disse e fece
per andarsene ma io mi aggrappai al suo braccio neanche fossi un koala.
«Eh no! Ora ce
ne torniamo su a casa, che sono esausta,» gli dissi.
Lui
scosse la testa e tentò di liberarsi dalla mia stretta. «Non ci torno
lì dentro, con mia
nonna che fa la
comare con la tua amica e con mia sorella. Hanno costretto Leonardo ad
addobbare l’albero e Ruben sta facendo i biscotti allo zenzero.» Fece una
pausa. «Okay,
forse Ruben è l’unico che si sta divertendo,» constatò.
Sgranai
gli occhi immaginandomi perfettamente il mio ingresso
nell’appartamento, con
Celeste che mi piombava addosso pregandomi di aiutarla a scegliere
quale punta
sarebbe stata più adatta in cima a quello splendido abete di plastica.
Orrore.
«Okay,
battiamocela,»
dissi, incamminandomi al fianco di Simone lungo la strada innevata.
Riuscimmo
a raggiungere Westminster Bridge a piedi piuttosto in fretta e non
sentii
nemmeno troppa stanchezza. Magari mi ero abituata a camminare con tutta
quella
neve sotto gli scarponi. Ci affacciammo sul ponte proprio quando il Big
Ben
segnalò che erano le dodici e mezza.
«Ho fame,» sentenziò
Simone.
«E cosa ti
posso fare io?»
borbottai.
Simone
si guardò in giro, poi vide una specie di chiosco aperto vicino al
London Eye. «Vieni!» disse. Mi afferrò
la mano e attraversammo la strada incurante delle poche macchine che
attraversavano il famoso ponte.
«Ehi!» protestai,
ma era del tutto inutile cercare di far cambiare idea a Simone.
Lui
era come un uragano che ti travolgeva e ti strappava via dal tuo stesso
corpo.
Era impeto, istinto, sentimento allo stato puro.
Era
un qualcosa che non si poteva imprigionare.
Me
ne sarei resa conto soltanto col tempo. Ecco perché non era facile che
si
legasse profondamente a qualcuno. Lui sfuggiva ai legami perché non era
fatto
per essere intrappolato, costretto in qualche spazio angusto.
Le
donne lo volevano tutto per loro, un trofeo da tenere nascosto e
custodito.
Invece lui aveva bisogno d’aria, aveva bisogno di volare, e quella
situazione
che lo vedeva costretto a casa lo faceva sentire come un canarino in
gabbia che
guardava il cielo attraverso le sbarre dorate.
Nessuno
era capace di
rinchiudere un’anima nata libera.
«Tieni!» mi disse
eccitato, porgendomi una specie di wurstel infilzato in un bastoncino e
cosparso
di senape.
Lo
fissai inorridita. «Che
diavolo è?»
Simone
fece spallucce. «Carne.
È buono,»
insistette, spingendolo sempre di più verso la mia bocca. Non sapevo se
fidarmi
di lui o meno. Lo annusai e dall’odore che emanava il mio stomaco reagì
con un
brontolio ben poco sommesso.
Lo
addentai e tutto sommato era commestibile. Simone mi guardò e sorrise
compiaciuto, continuando a mangiare il suo.
Mi
ritrovai a pensare che tutto sommato la sua compagnia non era così
spiacevole.
Anche se il più delle volte lo trovavo davvero irritante, ero arrivata
ad un
punto in cui non riuscivo più a razionalizzare le mie emozioni.
Se
mi trovavo in compagnia di James, Simone mi sembrava così inadatto,
sbagliato,
fortemente ingiusto e pendevo dalla parte dell’avvocato.
Se,
invece, avevo Simone al mio fianco… a James non pensavo affatto.
«Ti va di
andare lì sopra?»
mi chiese d’improvviso lui, indicando con uno sguardo l’enorme ruota
panoramica.
Deglutii
a fatica un pezzo di quel gigantesco wurstel e le parole mi morirono in
gola. «No?» chiesi
dubbiosa.
Non
è che soffrivo di vertigini, anzi, di solito l’altezza non mi faceva
alcun
effetto. Sentire però il cigolio sinistro di quella struttura mi
metteva
leggermente un po’ d’ansia addosso e Simone sembrò non tenerne per
nulla conto.
«Dai, fifona!» sorrise,
afferrandomi di nuovo la mano e trascinandomi su quel trabiccolo.
Comprò
i biglietti e l’addetto ci aprì la cabina, invitandoci a sedere senza
sporgerci
troppo dal finestrino.
Non
che ne avessi la minima intenzione, ovviamente.
«Pronta?» mi domandò
il calciatore, eccitato.
Annuii
con un enorme groppo in gola, poi la giostra partì cominciando
lentamente a
salire e permettendoci di ammirare l’intera panoramica della città.
Dovevo
ammettere che era stupenda.
«Vieni Ven,
guarda si vede casa nostra!»
disse Simone, tirandomi forte verso il finestrino e facendomi
spiaccicare la faccia
sul vetro.
Era
vero, si vedeva il balcone dove solitamente mi affacciavo per vedere la
gente
in strada.
Casa
nostra.
Come
una reminiscenza lontana, il mio Cervello mi ripropose quel particolare
che
evidentemente mi era sfuggito. Aveva davvero detto “Casa
nostra”? Nostra, non sua… non casa, generico.
Nostra.
Mia e sua.
Lo
fissai con gli occhi sgranati e un enorme peso sul cuore. Quella
situazione
andava chiarita, doveva essere
chiarita.
«Che hai?» mi chiese
lui stupito. «Ho
detto qualcosa di sbagliato?»
Abbassai
lo sguardo e tornai a sedere. «Dobbiamo
parlare,»
gli dissi chiara.
Fu
allora che Simone si tolse tutto il bardamento, compreso di cappello
con le
orecchie del cugino. Se lo rigirò tra le mani nervosamente, poi annuì.
«Tanto lo so
cosa stai per dire, perciò è inutile che ne parliamo,» sospirò
fissandomi truce.
«Ah sì? E cosa
dovrei dire, di grazia?»
lo rimbeccai.
Pensava
davvero di poter risolvere tutto così? Prima urlandoci addosso, poi
rischiando
quasi di fare l’amore, poi litigando furiosamente di nuovo.
Simone
spostò lo sguardo verso il soffitto della cabina, poi sbuffò. «“Quello che è
successo stamattina è stato un errore”,» citò, imitando il mio tono di
voce. «“Io
sono un avvocato, tu sei il mio cliente, dobbiamo mantenere le
distanze, limitarci
ad un rapporto professionale”»
Assottigliai
lo sguardo. «Io
non parlo così,»
bofonchiai.
Gli
occhi di Simone però mi inchiodarono al mio posto, così scuri come mai
avrei
potuto dimenticare. «Dimmi
se ho torto, allora.»
Mi
lasciai andare contro lo schienale della cabina. «Cosa vuoi che dica, allora? È la
verità!»
dissi a mia difesa.
«Non puoi
venire in camera mia e poi fare finta che non ti interesso!»
Rimasi
spiazzata da quella reazione. Sembrava quasi che gli importasse
qualcosa e che
non si trattasse unicamente di un gioco.
«Vuoi dire che
per te è una cosa seria? Davvero?» risi sarcastica.
Simone
s’indispettì quasi subito, tornando sulla difensiva. «No che non lo
è!»
si giustificò. «Solo
che non sopporto che tu mi usi.»
«Anche tu lo
fai,»
gli dissi in mia difesa.
Rimanemmo
a fissarci di traverso per un bel po’, mentre il paesaggio della City
scorreva
davanti ai nostri occhi infuriati. Ecco cos’era Simone: fuoco.
Non
avrei saputo trovare paragone migliore. Una fiamma che ardeva perpetua,
che s’incendiava
per qualsiasi cosa, che fosse rabbia, passione, sentimento.
Era
impossibile imprigionare una fiamma senza spegnerla. Se la si fosse
messa sotto
una campana di vetro, senza ossigeno, si sarebbe spenta.
E
così era lui, incapace di smettere di ardere fino a quando qualcuno non
lo
avesse privato dell’aria.
«Per me è
diverso,»
aggiunse poi lui, interrompendo il silenzio.
«Sì, certo,» bofonchiai,
come se per quel marmocchio la vita fosse piena di giustificazioni.
«No, davvero,» mi disse
sicuro, incrociando il mio sguardo. «Io gioco da una vita coi
sentimenti degli altri, ormai so distinguere l’amore dal sesso. Tu no.
Tu credi
di sapere le regole, ma è come se giocassi ad occhi bendati.»
Non
sapevo cosa intendesse dire con quel paragone, se fosse un’accusa o una
critica
al mio modo di comportarmi, fatto sta che non gli diedi peso.
«Ciò non
toglie che tu sei libero di fare quello che ti pare, mentre non la
smetti mai
di sparare giudizi su James e me,» gli feci presente.
Simone
rimase interdetto da quella mia risposta e si zittì. Rimanemmo a
fissare fuori
dal vetro per tutto il tempo necessario alla ruota per compiere un giro
completo, poi scendemmo. Finalmente a terra, finalmente libera da
quello spazio
troppo stretto e troppo saturo di risentimento.
Era
evidente che ci fosse qualcosa che non andava, che inevitabilmente
avevo
contribuito a gettare benzina sul fuoco. Quello che c’era stato tra me
e Simone
doveva finire lì, in quell’istante. Subito. Prima che gettassimo tutto
allo
sfacelo.
Attraversammo
di nuovo il Westminster Bridge ed io mi appigliai al bordo del ponte
come fosse
un ancora ed io stessi per crollare a terra. Sentivo la presenza di
Simone al
mio fianco ma ancora le sue parole non mi erano chiare.
A
quale gioco aveva fatto riferimento? Per quale motivo aveva insinuato
che non
conoscessi le regole? Che andassi avanti senza curarmi delle
conseguenze?
«Senti, per
quello che è successo lì sopra…»
iniziai, sperando non cambiasse discorso.
Dovevamo
affrontare quella situazione al più presto, prima di rientrare in casa
e
ritrovare tutti quei parenti che non ci avrebbero tolto gli occhi di
dosso.
Simone
mi zittì subito con un cenno della mano. «Non serve che aggiungi altro, ho
capito. Come prima,»
sentenziò guardandomi.
Infilai
le tasche nel giubbotto invernale e sospirai calciando via un ciottolo
ricoperto di neve. In fondo chi mai avrebbe potuto credere ad una
coppia come
la nostra? Nemmeno un miliardario arabo che buttava i propri soldi in
mediocri
squadre di calcio di serie C avrebbe scommesso su di noi.
No.
Simone doveva stare con una modella, magari un po’ meno debosciata ed
io avrei
puntato tutto sul lavoro e poi mi sarei trovata un bravo ragazzo.
È
così che sarebbero dovute andare le cose.
«Ehi voi due,
ehi!»
trillò una voce alle nostre spalle.
Ci
voltammo quasi all’unisono – io presa da una sconfortante sensazione di
aver
riconosciuto quella voce come quella di Sofia. E infatti si trattava di
lei.
Solo che stavolta c’era sommata anche la mia cara amica Celeste, il suo
bel
fidanzato Leonardo e quel poveraccio di Ruben completamente surgelato.
«Hai finito i
biscottini, Barrichello?»
ridacchiò Simone, appoggiato con un gomito al bordo del ponte.
Il
povero fidanzato di Sofia tentò di aggiustarsi meglio la scoppola sui
capelli
color giallo spento. «S-So-Sono
v-ve-venuti b-bene!»
protestò e la bionda cantante si premurò di lanciare un’occhiataccia al
fratello maggiore.
«Vuoi
lasciarlo in pace?»
Leonardo andò in difesa dell’amico.
«Oh! Volete
mettere in piedi una scenata qui? Davvero?» intervenni, inframmezzandomi
tra quei due colossi. «Devo
ricordarvi che siete due personaggi pubblici?» Anche se
stento a crederlo – avrei voluto aggiungere, ma lo tenni
per me stessa.
I
due si lanciarono un ultimo sguardo di sfida, poi grugnirono e si
allontanarono.
«Che ne dite
se ce ne andiamo a mangiare da qualche parte?» propose Celeste, scaldandosi le
mani l’una contro l’altra. Evidentemente non si era ancora temprata al
clima
rigido londinese.
Leonardo
le si avvicinò, le prese le mani e se le infilò in tasca, trovando la
scusa
perfetta per abbracciarla. Fu un gesto spontaneo, quasi fossero
abituati a
farlo. Ne rimasi totalmente folgorata, mentre una punta d’invidia si
diramava
lentamente dal mio cuore, a macchia d’olio.
Dovevo
piantarla. Non c’era motivo di essere gelosa della mia migliore amica.
«Piuttosto,
cosa ci fate tutti qui?»
chiese stizzito Simone.
«Vuoi dire
perché ti abbiamo seguito dopo che hai sapientemente tagliato la corda?» lo corresse
la sorella.
Simone
bofonchiò qualcosa sotto voce.
«Diciamo che
nonna Annunziata non vuole essere disturbata mentre prepara il cenone,» si aggiunse
Celeste, stretta in un abbraccio caldo da Leotordo.
«Ma la vigilia
è domani sera!»
sbottai incredula.
Sofia,
Simone e Leonardo scossero la testa all’unisono. «T-Tu-Tu-T-Tu…» tentò di dire
Ruben.
«Vuole dire
che tu non conosci di cosa è capace la nonna,» tagliò corto Leonardo,
altrimenti ci avremmo fatto notte.
Quella
notizia non mi rese particolarmente tranquilla.
«Bene, dove
vogliamo andare?»
trillò Sofia.
Il
lauto pranzo nel più vicino pub disponibile mi rese la camminata
difficile per
il resto del giorno. Diciamo che “rotolare” sarebbe stato di gran lunga
più
semplice.
«Sto
scoppiando!»
esalai, sentendo il bottone della gonna che stava per cedere.
«Ti credo, hai
mangiato come se non ci fosse un domani,» osservò Simone.
Lo
linciai. «Ma
se ti sei finito anche la mia roba!»
Sghignazzò
divertito. «Metabolismo
lampo. Appena il cibo tocca la mia bocca, viene disintegrato in men che
non si
dica. Ergo, niente ciccia.»
Maledetto
stronzo.
«È una
battaglia persa, Ven,»
mi disse Celeste, prendendomi sotto braccio.
Passeggiavamo
per le vie di Londra col chiaro intento di raggiungere Trafalgar Square
e a
dire dal traffico cittadino ci stavamo avvicinando.
«Perché?» le chiesi
con ovvietà.
La
mia migliore amica mi sorrise e si scostò dal viso una ciocca di
capelli
sfuggita al cappellino rosa col ponpon. «Anche Leonardo mangia come se
fosse digiuno da settimane. Sarà lo sport,» sospirò, facendo qualche altro
passo avanti per distanziare il resto del gruppo.
Mi
sentii improvvisamente “rapita” dalla mia migliore amica. Mi accorsi
troppo
tardi che il suo piano era stato quello sin dall’inizio.
Era
una chiara mossa perché aveva intenzione di parlare.
«Cel, mi stai
facendo male,»
le dissi, riferendomi alla presa d’acciaio che aveva sul mio braccio.
Lei
si scusò subito, ridacchiando, ma quegli occhi vispi ed azzurri non
abbandonarono i miei.
«Ho saputo una
cosa oggi,»
se ne uscì, prendendo la cosiddetta curva larga. «Diciamo che qualcuno ha chiamato
quando tu eri fuori con Simone,»
sorrise malandrina, fissandomi insistentemente il polso.
D’istinto
tirai giù la manica del cappotto, per nascondere il regalo di James. «A-Ah sì?» dissi
ingenuamente.
«C’è qualcosa
che devi dirmi, Venera?»
disse perentoria, scandendo bene le parole.
C’era
forse qualcosa che avrei nascosto alla mia migliore amica? Ovviamente
avrei
dovuto cominciare dal principio, da quando ero giunta lì a Londra e
avevo
incontrato James sulla Tube, oppure attaccare dal giorno in cui capii
che
Simone sarebbe stato mio cliente, o da quando mi ero trasferita a casa
sua.
Da
dove avrei dovuto cominciare?
Inspirai
forte l’aria pungente di quel primo pomeriggio innevato. «Senti, Cel,
davvero. Ci sono un mucchio di cose che vorrei dirti, ma forse dovresti
aspettare un po’ perché devo fare chiarezza prima,» le
smozzicai, sperando capisse.
Lei
annuì comprensiva. «Lo
so, questo. Sei sempre stata la più forte tra noi due, quella che si
teneva
tutto dentro, senza mai esporsi,» sorrise, poi si avvicino e mi
picchiettò piano sul petto con il pugno chiuso. «Anche se tenti di essere forte,
prima o poi tutti hanno bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi.»
Soppesai
le sue parole per tutto il resto della giornata, cedendo qualche volta
alla
tentazione di confidarle tutto. Il problema era che non sapevo da dove
cominciare, come spiegarmi, come giustificare il mio comportamento.
E
se lei mi avesse chiesto chi fosse più importante tra James e il mio
lavoro? E
se mi avesse domandato chi avrei dovuto scegliere tra Jamie e Simo?
Ovviamente
James.
Ovviamente.
Perché
Simone era un caso chiuso.
Archiviato.
Fotocopiato
e riposto accuratamente in una cartelletta sepolta in fondo al mio
cuore, con
polvere annessa.
«Non hai
parlato per tutto il pomeriggio,» osservò Simone, prendendomi di
sorpresa e sedendosi accanto a me sul divano.
Nonna
Annunziata era andata con Ruben e Sofia a dormire nel loro
appartamento, mentre
Cel e Leonardo si erano già rintanati in casa. E così il salotto era di
nuovo
vuoto, tranne che per il rumore della radiocronaca su SkySport.
«E ciò non ti
fa piacere?»
gli chiesi, rannicchiandomi su me stessa e sperando che quel noioso
programma
finisse al più presto.
Simone
fece spallucce. «È
strano,»
si limitò a commentare.
Rimanemmo
a guardare la TV per quasi tutta la notte, senza mai sentire il peso
della
stanchezza. Potevo avvertire il calore che emanava il corpo di Simone,
quel
tepore che mi aveva attratta la notte prima come una falena.
Spostai
lo sguardo su di lui, senza farmi scorgere e seppellendo dentro di me
quella
vocina che mi ricordava di dimenticarlo. Caso chiuso.
Se
Simone era davvero la fiamma, io ero soltanto una farfalla pronta a
bruciarmi.
«Senti,
stanotte il divano lo prendo io. Tu vai in camera. Ho cambiato le
lenzuola,
così non rompi e dici che puzzo,» borbottò, stendendosi sul sofà.
Rimasi
annichilita. «Come
mai tutta questa galanteria?»
chiesi scettica.
Simone
sbadigliò e si stiracchiò come un gatto. «Considerala un anticipo sul
regalo di Natale. Io ne approfitterei Lil’Elf.»
Mi
alzai e mi diressi verso la sua stanza, fermandomi appena sull’uscio
del
salotto. Sapevo di essere una persona incoerente e che avevo senza
dubbio
bisogno di uno specialista, e di corsa, però non riuscii a fare a meno
di
guardarlo.
«Si?» mi chiese,
pensando volessi qualcosa.
«’Notte,» dissi
solamente, sparendo poi nel corridoio.
Non
aspettai una sua risposta, né una sua qualsiasi reazione. Non c’era
niente da
dire, né da fare. Decisi che avrei vissuto le cose giorno per giorno e
quando
avessi fatto più chiarezza nella mia testa, mi sarei decisa anche a
parlarne
con Celeste.
Non
si meritava questo silenzio, ma ancora non ero pronta.
Pronta
a cosa, poi?
Ad
ammettere, finalmente, che
anche la Regina dei Ghiacci aveva un cuore.
***
La
Vigilia di Natale arrivò così velocemente che non riuscii nemmeno a
rendermi
conto del tempo che passò tra la colazione e la cena.
Mi
ritrovai seduta al grande tavolo da pranzo di Gabriele, vestita di un
abito di
lana rosso e circondata da una miriade di parenti chiacchieroni. La
tavola era
imbandita e colma di tutte le più svariate leccornie, mentre il vociare
degli
invitati finì per sovrastare anche i miei stessi pensieri.
«Mi passi quel
vassoio di scampi?»
«Allunga un
po’ di vino!»
«Ehi!
Lasciamene un po’ anche a me!»
Quelle
erano le liti che più o meno si accendevano da più di un quarto d’ora
tra i
cugini più piccoli dei Sogno. Si litigavano il cibo come due cani
randagi.
«Quando
apriamo i regali, mamma?»
chiese Susy, in direzione della signora Sogno.
La
donna, quella sera vestita con estrema eleganza, le sorrise e le
sussurrò di
aspettare almeno la fine della cena.
«A mezzanotte,
Susy»
si aggiunse Mr. Marco, facendo brillare gli occhi della bambina.
Dopo
poco però la piccola s’imbronciò. «Ma io vado a letto alle nove e
mezza!»
protestò sveglia.
Tutti
scoppiarono in una fragorosa risata, compresi quei due testoni di
Simone e
Leotordo. Nonna Annunziata faceva un andirivieni tra il salotto e la
cucina,
portando ogni volta un vassoio di cibo che avrebbe fatto invidia alla
FAO.
«Ancora un po’
di purè, tesoro?»
mi chiese Miss Sogno, con quei capelli biondi così soffici e cotonati.
Declinai
educatamente. «Non
ho più posto, davvero,»
sorrisi.
«Se continua a
mangiare così, dovrò allargare le porte di casa,» sghignazzò Simone, con il tatto
di un sasso.
Gli
rifilai una dolorosa gomitata nel costato, mentre Susanna rideva come
una pazza
assistendo a tutte le nostre scaramucce. Agli occhi degli altri
sembravamo una
vecchia coppia di fidanzati che si stuzzicava.
Di
male in peggio.
Dopo
una quindicina di dolci, tra panettoni, pandori, torroni e quant’altro,
cominciammo a sparecchiare la tavola e a sistemare i regali sotto
l’albero del
salotto.
Susanna
ci seguiva come un falco. Quella bambina riusciva a mettermi un’ansia
addosso
che davvero sfiorava l’incredibile.
«Posso?» chiese,
leggendo il bigliettino del primo regalo.
Rose
cercò lo sguardo del marito, sorridendo e chiedendo silenziosamente il
permesso. Gabriele guardò la figlia con un amore negli occhi che di
rado si
poteva leggere nello sguardo di un uomo. Soprattutto di un tipo così
bello.
«Dai Susy,
aprili pure,»
disse.
La
piccola cominciò a leggere i bigliettini applicati sui pacchi, mentre
tutti noi
sorridevamo vedendola schizzare da una parte all’altra del salotto
distribuendo
i doni ai legittimi proprietari. Ruben regalò a Sofia un plettro in
avorio,
autografato da un famosissimo cantante country a me del tutto
sconosciuto,
mentre lei gli donò un vecchio libro. Una prima edizione di Hemingway.
Rose
e Gabriele si regalarono a vicenda dei bracciali con i loro nomi incisi
sopra,
identici e di una finezza unica, mentre Susanna quasi urlò quando
scartò la sua
Barbie nuova di zecca.
Vedere
come la magia del Natale rendeva tutti un po’ più felici, mi fece
improvvisamente sentire una forte nostalgia di casa.
Mi
alzai un attimo, con la scusa del bagno, e mi rintanai in camera della
piccola.
C’era una finestra, così mi affacciai fuori e spiai le strade deserte
in quella
notte magica per quasi tutto il mondo. Tirai fuori il cellulare dalla
tasca e
lo esaminai per qualche tempo.
Forse
avrei dovuto telefonare, almeno lasciare un messaggio.
Il
ricordo di tutti quei Natali passati a Tivoli, nell’immenso salotto
della
tenuta di mio padre, con i nonni e tutto il parentato. Dovevo ammettere
che in
fondo mi mancava la mia famiglia.
«Si può?» chiese una
voce, facendomi sobbalzare.
Mi
voltai e incrociai gli occhi verdi di Leonardo. Rimasi di sasso perché
mai mi
sarei aspettata di trovarmelo di fronte.
«Certo, entra
pure. È la camera di tua nipote,» gli dissi con ovvietà.
Lui
si infilò le mani nelle tasche dei jeans e mi raggiunse vicino alla
finestra.
Guardò fuori, senza dire nulla. Anche perché non c’era nulla da dire.
«Ti ha mandato
Cel?»
gli chiesi allora io, rompendo il silenzio.
Leonardo
scosse la testa, sorridendo. «Ho
notato che hai il mio stesso sguardo, quando penso a casa,» smozzicò,
stavolta puntando quelle iridi verdi nelle mie.
«Ah…» ammisi,
senza contraddirlo.
Lui
mi osservò dietro quelle folte ciglia brune. «Sarà che Simone è troppo preso
da sé stesso, ma è evidente che ti senti sola in quella casa enorme.
Non ci
vuole un genio per capirlo.»
La
discussione stava prendendo una brutta piega.
Mi
spostai a sedere sul letto della bambina, tutto per allontanarmi da
quella
finestra. «Non
è come pensi. Alla fine ho scelto io di trasferirmi qui. È solo che
durante le
feste è normale sentire la mancanza della propria famiglia,» mi
giustificai.
«Soprattutto
se ne hai una così numerosa davanti agli occhi,» ridacchiò lui.
Da
una parte Simone e Leonardo si somigliavano, ma avevano qualcosa di
profondamente diverso che li divideva. Oltre che gli anni.
Leonardo
adesso sapeva condividere e non pensava più solo a sé stesso.
Di
questo doveva ringraziare soprattutto Celeste.
«Sai,
quand’ero piccolo odiavo venire qui per Natale. Non sopportavo Simone e
l’idea
di passare le vacanze con lui,»
mi confessò imbarazzato.
«E cos’è
cambiato da allora?»
ridacchiai io, alludendo alle attuali litigate tra lui e il cugino.
Anche
il calciatore sorrise. «Hai
ragione, ma adesso sento che non è più come prima. Sarà che da quando
sto con
Celeste, il mondo mi sembra sempre un posto migliore. Nemmeno Simone
riesce a
rovinarmi le giornate.»
«Già,
dev’essere bello,»
commentai malinconica.
«Comunque devo
ammettere una cosa,»
disse lui, guardandomi. «Ho
trovato mio cugino meno irritante del solito. Magari è perché ha te
come
valvola di sfogo?»
ridacchiò.
Quel
suo commento mi fece arrossire, soprattutto perché nonostante avessi
tentato
più volte di ignorare il calciatore dell’Arsenal, lui tornava e
ritornava
indietro verso di me, come un boomerang.
Abbassai
lo sguardo e mi fissai insistentemente le Chanel color vernice che
Sofia mi
aveva prestato per quell’occasione, senza sapere cosa dire.
«Forse,» bofonchiai,
a corto di parole.
Strano.
Già.
Leonardo
non sembrò troppo convinto da quella mia mezza risposta, però non ebbe
tempo di
approfondire perché la figura di Simone apparve sulla soglia.
«Bene, bene,
bene, l’Altro Sogno fa conoscenza con l’avvocato tascabile. Cugino,
prendi
nota, potrebbe servirti un giorno, quando divorzierai.»
In
quel momento avrei volentieri spiattellato tutto il caso, soltanto per
fargliela pagare alla lingua lunga di Simone e a tutta la sua
arroganza, ma mi
zittii.
«Taci,
deficiente. Dovresti soltanto ringraziare che c’è zio di là, sennò ti
avrei già
gonfiato.»
«Provaci.»
«Mi stai
provocando?»
Roteai
gli occhi verso l’alto, stufa di tutta quella dimostrazione di
testosterone.
Stavo per alzarmi e andarmene, lasciandoli a loro stessi, quando la
piccola
Susanna entrò nella stanzetta come un treno in corsa.
Saltellò
euforica tra le lunghissime gambe di Simone, urlandogli «Zietto!
Zietto! Zietto!»
e porgendogli un pacchetto che avrei riconosciuto anche senza le lenti
a
contatto.
Quand’è
che ti sei data allo
shopping?
Simone
fissò l’involucro di carta rossa con un’espressione stralunata. «È petté! È
petté!»
gridò la bambina, col fiatone a causa della corsa.
Il
calciatore allora si abbassò e afferrò il pacchetto tra le mani, mentre
Susanna
gli si avvicinò all’orecchio. Riuscii a recepire solo un “È da parte
di…” e poi
più niente, ma gli occhi scuri e sgranati di Simone fecero tutto il
resto.
Era
stata Sofia a costringermi ad accompagnarla per gli ultimi regali di
Natale ed
io avevo acconsentito, di mala voglia. Quella ragazza era capace di
farmi fare
di tutto, soltanto con uno sguardo. Ed era stato in quella bottega, lì
su
Portobello Road che la ragazza mi aveva dato un colpetto sul gomito e
mi aveva
indicato una vetrinetta nascosta.
Su
di un piedistallo di plastica spiccava la copertina, un po’ sbiadita,
di un
vecchio album dei Queen, forse uno dei più rari in commercio.
Lo
sguardo di Sofia era totalmente rapito da quell’oggetto e pensai lo
volesse
acquistare, ma lei mi sorrise e disse solamente «A Simo piacerebbe molto.»
Dopo
cinque minuti ero uscita dal negozio con centoventi sterline in meno e
un
regalo per quel brontolone che non si meritava un bel niente dalla
sottoscritta.
Ed
ora i suoi occhi mi scrutavano guardinghi, quasi come se non si
fidassero del
pacco sottile che teneva tra le mani.
Leonardo
prese Susy tra le braccia e, con una scusa qualsiasi, si allontanarono
quando
la tensione si riuscì a tagliare anche con un coltello.
«Perché.» disse
solamente, ma senza punto di domanda. Era un’affermazione più che altro.
Era
logico che volesse sapere il motivo per cui avevo speso tanti soldi per
lui,
per una persona che avrei dovuto ignorare.
Feci
spallucce e mi avvicinai di nuovo alla finestra, come se quello
spicchio di
cielo fosse una qualche specie di rifugio, di via d’uscita per fuggire.
«Mi hai dato
una casa senza che ti dessi nulla in cambio, era il minimo,» mi
giustificai.
Beh,
avevo avuto tempo per studiarmela bene.
A
Simone ovviamente quella risposta non piacque.
«Bugiarda.
Perché mi hai fatto questo regalo, proprio questo, quando soltanto ieri
hai
detto che tra noi non ci sarà mai un cazzo di niente?»
Aveva
cominciato ad alzare la voce. Nessuno doveva accorgersi di questa
discussione,
tanto meno suo padre. C’erano troppe cose in ballo, troppi segreti e
bugie.
«Smettila di
urlare,»
lo redarguii.
«Non sto
urlando,»
insistette lui.
Ci
fissammo per quelli che parvero interi minuti, senza dire una parola.
«Sofia mi ha
dato la dritta, altrimenti ti avrei regalato la solita cazzata. Non
leggerci
nulla tra le righe perché non c’è niente,» tagliai corto, spicciola.
Simone
indietreggiò, ferito. «Allora
non c’era bisogno mi regalassi nulla. Hai solo buttato i soldi.» Gettò il
vinile sul letto della nipote.
«Ehi! Quel
coso vale mezzo stipendio!»
gridai arrabbiata.
Dopo
tutto quello che avevo fatto per lui, questo era il ringraziamento?
Simone
colmò in pochi passi la distanza che ci separava, afferrandomi il viso
con
forza e schiacciandomi sul vetro della finestra. Lo sentii incrinarsi e
gracchiare. Temetti che si potesse rompere.
I
suoi occhi erano come due tizzoni di brace, infuocati. Tutto il suo
corpo
ardeva di rabbia a contatto col mio ed io pensai davvero di ardere.
La
fiamma e la falena.
«Solo una cosa
volevo da te, e tu me l’hai negata. Sono stufo dei tuoi giochetti, dei
tuoi
subdoli tentativi. Simone Sogno non si fa abbindolare da una cosina come te!» minacciò.
Cosina?
«Ha parlato Mr.
LeFrancesiCeL’hannoProfumata,» lo
stuzzicai, anche se ero nella posizione meno adatta per sfidarlo.
«Ehi,» ci
interruppe Sofia, mentre Simone si allontanava velocemente da me e
spariva nel
corridoio. La biondina mi corse in contro, pretendendo delle
spiegazioni.
«È solo
nervoso,»
lo giustificai, afferrando il vinile abbandonato sul letto.
Sofia
allora lo prese e mi sorrise. «Vedrai
che capirà, gli ci vuole soltanto tempo.»
Le
avrei voluto chiedere cosa ci fosse
da capire, ma la famiglia Sogno richiedeva la mia presenza per un
mega-torneo
al Mercante in fiera, così dovetti rimandare.
La
chiave girò nella toppa di casa Sogno alle due del mattino, con il
resto della
truppa che a mala pena si reggeva in piedi.
Quando
entrammo in salotto, fummo accolti dalle lucette intermittenti e
fastidiose
dell’albero di Natale che nonna Annunziata ci aveva costretto a montare
per
forza, dicendo è la tradizione!.
«Beh, ragazzi,
Buon Natale,»
sbadigliò Leonardo, puntando la camera da letto.
Celeste
mi sorrise e lo seguì, lasciando me e Simone nella penombra della
stanza.
In
quel silenzio c’erano una miriade di parole non dette e di frasi
smozzicate a
metà, così tagliai la testa al toro.
«’Notte,» e mi diressi
verso il divano.
Simone
allora mi bloccò, senza muoversi. «Non dovevi.»
Sbuffai
infastidita, pensando volesse ricominciare l’ambaradan di prima. «Ho detto che
è una sciocchezza, e poi non ti pago nemmeno l’affitto…»
«No,» mi fermò
lui. «Dico
che non dovevi, perché io non ti ho fatto nulla,» ammise imbarazzato.
Alla
fine Sofia era riuscita a fargli accettare il disco dei Queen, così mi
ero
sentita più leggera, così come il mio povero portafogli.
«L’ho fatto
perché mi andava, non per ricevere qualcosa in cambio,» gli spiegai,
manco avesse quattro anni.
Di
punto in bianco parve proprio imbronciarsi. «Ma io volevo regalarti qualcosa…
solo non sapevo cosa…»
incespicò.
Vedere
Simone così imbarazzato mi fece tremare il cuore. Lo sentii caldo
contro il mio
petto e pensai che ormai il suo muro si era quasi del tutto abbassato,
lasciandomelo vedere per davvero.
Persa
nei miei pensieri, non mi accorsi nemmeno che si era pericolosamente
avvicinato, sfiorando le mie labbra appena appena.
Fu
un tocco leggero, quasi impercettibile, come quando la neve tocca il
terreno.
Nessun rumore.
Eppure
mi sembrò che l’orchestra sinfonica stesse suonando la nona di
Beethoven.
«Un bacio,» soffiò a
pochi centimetri dalle mie labbra.
Chiusi
gli occhi e assaporai quel momento. «Non avresti dovuto darmelo?» gli
domandai, aprendo la mano e facendo un chiaro riferimento al ditale di
Peter e
Wendy.
Simo
afferrò l’occasione al volo, perché non era stupido. «Questo è un
bacio vero, Peter,»
disse, ridacchiando.
Non
riuscii a nascondere un sorriso imbarazzato, mentre lui mi dava la
buonanotte e
spariva nella sua stanza. Poco dopo udii le note di “Princess of the
Universe”
che risuonavano per tutta la casa.
Il
venticinque e il ventisei di Dicembre si susseguirono più o meno uguali
alla
Vigilia, con l’unica differenza dei chili in più che stavo mettendo.
Ero più
che sicura che l’ago della bilancia mi stesse prendendo in giro, perché
ero più
larga che lunga.
«Hai finito lì
dentro?»
urlò Simone infastidito.
«Un attimo!» ringhiai,
salendo di nuovo sulla bilancia.
Niente,
segnava sempre un miliardo di chili in più di quando ero partita
dall’Italia.
Maledetto stress del lavoro e maledette vacanze!
«Guarda che
per quante volte tu salga e scenda da lì, sarai sempre una balena,» ridacchiò
divertito.
Brutto
deficiente.
Il
Natale, passando, si era portato via quel po’ di zucchero che io e il
calciatore avevamo condiviso quel ventiquattro a sera, lasciandoci
letteralmente con l’amaro in bocca. Ci ignoravamo a vicenda, come
doveva essere
e come sarebbe sempre stato.
Prima
che ritornassi a lavoro, l’argomento centrale di ogni nostra giornata
era
diventato il famigerato Capodanno.
C’era
chi – come Leonardo – lo avrebbe voluto passare in strada, vedendo i
fuochi
artificiali da Westminster Bridge e il Big Ben che segnava la
mezzanotte, chi –
come Sofia – che avrebbe voluto partecipare a qualche bella festa
oppure chi –
come la sottoscritta – sarebbe rimasta volentieri in casa ad urlare
contro le
cazzate che sparavano in televisione.
«Insomma?
Avete trovato qualcosa?»
chiese Celeste, sorseggiando del caffè.
Sofia
continuò a digitare sul suo tablet. «Conosco un paio di persone che
potrebbero farci entrare, ma è in abito lungo e non so quanto siate
disposti a
mettervi in tiro…»
rispose mogia.
«Ah no! Io da
pinguino non me ce vesto!»
protestò immediatamente Leonardo.
In
fondo alla sala si udì la lunga sghignazzata di Simone.
Erano
un continuo battibeccare quei due, peggio di me e il calciatore poco
tempo
prima…
…prima
di cosa?
Rabbrividii
e mi concentrai sul discorso delle ragazze.
«Non c’è una
via di mezzo?»
domandò Celeste dispiaciuta.
Lei
e Leonardo sarebbero ripartiti il primo Gennaio, perciò le sarebbe
dispiaciuto
non passare il Capodanno più indimenticabile di sempre.
«Stasera
potremmo provare questo locale qui, se è carino prenotiamo anche per il
31. Che
ne dici?»
propose la biondina. «Tu
e Simo ci state?»
Visto
e considerato che il giorno successivo avrei ricominciato il tirocinio,
non
sarebbe stata una saggia idea frequentare un disco-pub fino a tarda
notte.
«Io passo, mi
fido di voi,»
tagliai corto.
Simone
aveva sentito tutto, così si aggregò perché era lampante come la luce
del
giorno che non aveva alcuna voglia di passare la serata con Leonardo e
Ruben.
Li
definiva “La mummia e lo sfigato”.
Quella
sera nessuno, nemmeno i meteorologi, si sarebbero mai aspettati una
nevicata di
quella portata. Alle nove di sera cominciò ad alzarsi il vento, così
Celeste e
gli altri si bardarono nel vero senso della parola, preparandosi ad
uscire.
L’idea
di rimanere sola in casa con Simone non mi allettava, ma il calciatore
si era
chiuso in camera da un po’, perciò mi preparai con cura le repliche di
Law&Order con una bella cofana di pop-corn.
«Sicura che
non vuoi venire?»
mi domandò per la centesima volta la mia migliore amica.
Sapevo
che era sempre un’occasione per stare insieme, prima che lei partisse.
Purtroppo non avevo proprio voglia di uscire.
«Giuro che a
Capodanno sarò l’anima della festa!» le sorrisi.
Li
vidi uscire dal portico e prendere un taxi, mentre fuori il vento
faceva
fischiare i vetri delle finestre. Non sapevo spiegarne il motivo, ma un
brivido
di freddo mi attraversò la schiena.
Mi
avvolsi nelle coperte, accoccolandomi sul divano, e spingendo “play”
sul
lettore DVD. Finalmente una serata made
in Venera, era da tanto che volevo dedicare un po’ di tempo a
me stessa.
«Ma non l’hai
già visto?»
Ovviamente
avevo parlato troppo presto.
Mi
voltai per vedere Simone che sbocconcellava un pacchetto di patatine.
Non gli
era bastato mangiare come uno sfondato per tutte le vacanze di Natale?
«E anche se
fosse?»
sibilai.
Law&Order
era una serie che seguivo da tutta una vita, ed era grazie a lei che
avevo
coltivato il sogno di diventare avvocato. Sapevo ogni episodio a
memoria e non
mancavo di fare una maratona fino a notte fonda pur di ricordare gli
episodi
salienti.
Il
calciatore sgranocchiò una patatina e si sedette vicino a me. «Stasera c’è
la bufera,»
disse, guardando fuori dalla finestra.
«Non credo…» sospirai,
sperando che davvero non si mettesse a nevicare di brutto.
Celeste,
Sofia e gli altri erano ancora a quel disco-pub. Non so davvero come
sarebbe
potuta finire se le previsioni di Simone si fossero avverate.
Passò
un’ora, poi altre due. Le puntate della serie tv si susseguivano l’una
dopo
l’altra e così finirono ben presto tutti i pop-corn, soprattutto a
causa dell’Ingordo.
Proprio
quando la notte sembrava troppo oltre per dar luogo alla famosa
nevicata, il
vento s’alzo all’improvviso e la bufera arrivò. Fu un cambiamento
repentino,
del tutto inaspettato.
Le
luci cominciarono a tremolare, mentre dalle fessure delle finestre si
udiva
chiaramente il fischio del vento che ululava come infuriato. Guardai
fuori e
fiocchi di neve grandi come noccioline che picchiavano forte sul vetro,
così mi
spaventai e raggiunsi il cellulare.
«Cazzo, come
faranno a tornare a casa?»
imprecai, riferendomi a Celeste e gli altri.
Simone
andò a sigillare meglio i vetri e spense subito il televisore. «Non puoi fare
molto da qui,»
rispose risoluto.
Digitai
il numero della mia migliore amica, ma un sms mi bloccò dal premere il
tasto
“chiama”.
Ven fuori
c’è l’ira divina.
Rimaniamo
al pub finché non migliora. Tranquilla.
‘Notte.
Era
un messaggio scritto in tutta fretta, l’evidenza non lo negava, ma mi
sentii
più sollevata. Almeno erano al chiuso.
Simone
mi fu subito alle spalle. «Ti
pare che quella genia della tua amica rimaneva in mezzo alla strada?» Contribuì,
forse senza saperlo, a farmi sentire bene.
Purtroppo
durò poco, perché passati tre minuti esatti la corrente saltò
lasciandoci
completamente al buio.
«Ma che
cazzo…?»
imprecò subito Simone, muovendosi a tastoni lungo tutto il suo
appartamento. «Uno paga
trecento sterline al mese di elettricità e questo è il risultato! Siamo
a
Londra non in Burundi, porco cazzo!»
Sorrisi.
In fondo era divertente sentirlo smadonnare in questo modo.
Era
come se lo rendesse più… umano.
Ci
dirigemmo verso la stanza meno usata della casa, ovvero la sala hobby o
“studio” – l’unico problema è che lì non ci aveva mai studiato nessuno.
Dopo
aver recuperato una torcia elettrica, Simone mandò al diavolo cinque o
sei
volte gli alari che non volevano saperne di disporsi parallelamente e
si
adoperò per accendere il fuoco.
Anche
perché si stava gelando.
I
termosifoni funzionavano ad elettricità, un po’ come gli scaldini a
presa, e
non essendoci più corrente da un’ora, la casa era diventata un blocco
di
ghiaccio.
«Sicuro di
esserne in grado?»
gli chiesi, dopo che il quindicesimo cerino si ruppe per il troppo
entusiasmo –
per non dire ira – che ci stava mettendo per accenderlo.
«Cosa credi?»
Alzai
le mani in segno di scuse, sorridendo. «Non ti facevo molto stile Evervood[1]» ridacchiai.
Simone
sbuffò e finalmente riuscì a dar fuoco ad un pezzo di diavolina che usò
per
appiccare la legna.
«Tu e le tue
stupide serie TV,»
bofonchiò poco dopo, soddisfatto dal risultato.
Ci
sedemmo comodamente sul tappeto persiano che si trovava sotto il
divano. Posai
la schiena proprio su quest’ultimo, per avvicinarmi meglio al tepore
del
camino. Avevamo entrambi una trapunta addosso, trafugata dai letti
ormai vuoti
e ce ne stavamo in silenzio a vedere le fiamme che lentamente
crescevano
d’intensità.
Quelle
fiamme che mi ricordavano troppo Simone.
Senza
quasi accorgermene, sentii il peso del regalo di Jamie che mi pesava
enormemente al polso. Era come avere una catena, un’incudine che era
sempre lì
presente a ricordarmi quanto fossi stata meschina nei suoi confronti.
Così
penserai a me anche quando
non ci sono.
Oppure
mi sarei dimenticata di lui.
«Guarda che
l’ho visto, non c’è bisogno che lo nascondi,» commentò Simone, fissando il
fuoco.
Lo
guardai e le sue iridi si erano tinte di arancione, quasi come se
inghiottissero le fiamme quasi a nutrirsene. Lui era il fuoco e da esso
traeva
la forza.
«Non lo stavo
nascondendo,»
mi giustificai, fissando le trame del tappeto.
Sospirò.
«Te
l’ha regalato l’avvocato, vero?»
mi domandò, anche se sapeva quale fosse la risposta. Infatti, non mi
lasciò
nemmeno il tempo di parlare. «È
sempre un passo avanti a me.»
«Non è mica
una gara!»
sbottai, stufa di quei continui paragoni con James. «Nessuno di
voi due è in competizione per qualcosa, e avete rotto di farvi la
guerra!»
Il
calciatore mi rivolse uno sguardo stupito. «Quindi anche Mr. Scopa-nel-culo
si mette in guardia, eh? Sa che Simonator è in azione!»
Lo
fissai allibita. «Simonator?» chiesi,
quasi avendo paura della risposta.
Simone
annuì sempre più convinto. «È
forte… tipo terminator.»
«È ridicolo,» commentai,
avvolgendomi meglio nella trapunta.
«Mh, meglio di
TermoSifone è…»
borbottò, guardandomi. «Hai
freddo?»
mi chiese poi.
«Sto gelando.»
La
maledetta elettricità non voleva saperne di tornare, mentre fuori si
continuavano
ad udire i sibili della tempesta di neve che aveva afflitto Londra
quella
notte. Il fuoco non bastava a riscaldarmi.
«Vieni qui,» mi disse
all’improvviso, aprendo la trapunta e invitandomi a rannicchiarmi
contro il suo
corpo.
Sta
scherzando, spero!
Lo
guardai come se fosse un marziano che abitava su Venere.
Lui
s’indispettì. «Ehi!
Non ho secondi fini, se è questo che pensi…» si lagnò, come un bambino di
cinque anni.
Cercai
di fidarmi, o per lo meno ci provai. Il suo corpo era caldo, bollente a
contatto
col mio e nella mia testa c’era sempre quella piccola voce che mi
raccontava
ancora la storia della falena e della fiamma. Forse mi sarei bruciata,
ma era
così caldo.
«Okay forse
magari potrei avere dei secondi fini…» sghignazzò ed io gli rifilai un
pizzicotto sulla pancia. «Ahi!»
«Te lo meriti!» sorrisi,
inspirando il suo odore attraverso la lana del maglione rosso.
Rimanemmo
in silenzio per qualche tempo, guardando il fuoco che danzava davanti
ai nostri
occhi. Era bello sentirsi al sicuro dentro quella stanza, con solo la
luce del
camino ad illuminare il volto cesellato di Simone.
Un
volto giovane, da ragazzo, ma estremamente affascinante.
Sentii
la gola farsi secca e il respiro diventare pesante. Mi alzai la manica
del
maglioncino per toccare il braccialetto di James, come monito per non
commettere stupidaggini.
«Lo ami?» mi chiese
Simone di punto in bianco.
Sgranai
gli occhi e lo fissai. «Come
ti viene in mente?»
Lui
scrollò le spalle.
Lo
guardai di sbieco, mentre ravvivava il fuoco con un altro legnetto.
C’era
qualcosa in lui di diverso, come se stesse smettendo quella maschera da
spocchione ormai indossata da sempre.
«Per te è
così?»
gli chiesi.
I
suoi occhi scuri m’inchiodarono. «Non è fatto per stare con te,» disse
sicuro.
Risi
ad alta voce, credendo mi stesse prendendo in giro. «Ah, davvero?
E allora chi sarebbe adatto a stare con me, sentiamo,» lo provocai.
Ero
più che sicura che avrebbe detto una frase del tipo “Il sottoscritto,
ovviamente” oppure “Qualcuno con cotesta gnoccaggine” e si sarebbe
indicato
senza pudore.
Invece
tornò a guardare il fuoco. «Qualcuno
a cui non serva comprarti,»
soffiò.
Fu
in quell’istante che sentii qualcosa dentro di me fare crack,
rompersi, disintegrarsi in mille pezzi. Il peso del
braccialetto era diventato insostenibile, perciò lo tolsi e lo posai su
un
tavolinetto lì accanto. Simone non aveva indicato sé stesso, non era
stato
egoista, ma aveva detto solo la pura verità.
Non
ero fatta per essere comprata da regali, viaggi, ville megagalattiche.
Cose che
entrambi potevano darmi senza difficoltà.
No,
lui aveva centrato il punto. Al mio fianco ci sarebbe stato soltanto
colui che
non aveva alcun bisogno di spendere fior fior di soldi per avermi.
Sapeva bene
che non una poco di buono, una a cui bastava la notorietà per
concedersi.
Ero
diversa. Una donna con la testa sulle spalle.
Allora
mi avvicinai e cercai le sue labbra. La prima volta in assoluto che
prendevo
l’iniziativa, perché ne sentivo il bisogno e non potevo più resistere.
Era da
tempo che andava avanti tutta quella storia e per quanto lo negassi a
me
stessa, mi ero bruciata.
Ora
le mie ali stavano prendendo fuoco, mentre le braccia di Simone si
avvolsero
attorno alla mia vita, mentre le sue mani esplorarono la mia carne,
toccandola
e marchiandola come se avesse paura di perdermi.
I
baci si rincorrevano l’uno dopo l’altro, le lingue si lambivano e così
i
sospiri.
«Toglila…» soffiò
contro la mia pelle, strattonando la maglietta con disegnata sopra una
renna
buffissima.
Mi
scostai quel tanto da liberarmi subito dell’indumento, poi andai a
reclamare la
sua. L’odore di Simone era così forte da farmi girare la testa,
impedirmi quasi
di respirare.
Stai
bruciando, non c’è più
ossigeno attorno a te.
Non
me ne importava. Fuori c’era la tempesta, il mondo intero avrebbe anche
potuto
essere spazzato via in quell’istante.
Le
sue labbra erano così morbide, così gonfie e tumide di baci. Gli
afferrai i
capelli e li scostai dal viso, guardandolo. Era così bello da far male.
«Sei
bellissimo,»
mi sfuggì, quasi senza riflettere.
Lui
sorrise e parve arrossire. «Lo
so,»
rispose però strafottente.
Per
dispetto gli morsi il labbro inferiore ma subito dopo lo vezzeggiai con
una
carezza di lingua, per scusarmi. Simone ne approfittò per assalire il
mio collo
e annusarmi.
«Anche tu lo
sei, Ven,»
sussurrò dolcemente.
«Non è vero,» lo
contraddetti, rovesciando la testa all’indietro e sospirando in balia
delle sue
carezze esperte.
Fu
allora che il gancio del reggiseno fu slacciato, che le sue mani si
mossero
così bene e così veloci che non capii più niente. La sua bocca era
ancora sul
mio orecchio.
Una
cascata di brividi mai provata prima.
Era
fuoco che lentamente mi avvolgeva.
«Oh, credimi,
non puoi capire l’effetto che mi fai,» sussurrò ancora, facendomi sentire
in qualche modo speciale.
Fu
il momento per me di sfoderare le mie, quasi inesistenti, tecniche di
seduzione, così cominciai a baciarlo ovunque. Iniziai dalla clavicola,
da
quella pelle bianchissima e da quei muscoli così definiti. Pensai a
quante donne
avevano amato quel corpo, a quante prima di me lui aveva sussurrato
quelle
parole.
Mi
sentii male.
Lo
sentii sospirare, ma una sua carezza mi riportò alla realtà. Incrociai
quegli
occhi così scuri da inghiottire qualsiasi fonte di luce presente in
quella
stanza. Sapeva bene come attirare l’attenzione.
«Continua…» smozzicò
lui, guardandomi. Mi diede un bacio d’incoraggiamento, accarezzandomi
il viso. «Lasciati
andare.»
Sarei
davvero riuscita a farlo? Che fine aveva fatto la Ven fredda e
razionale?
Gli
afferrai la mano, ferma sulla mia guancia. Avrei potuto scostarla,
alzarmi e
tornarmene in salotto. Sarei potuta sopravvivere
a tutto quello, sfuggirgli.
Ma
era troppo tardi.
Così
i vestiti sparirono e fummo nudi, circondati dal buio e dal rumore del
vento.
Gli
fui immediatamente sopra, quasi a volerlo travolgere, soffocare, come
se
volessi impormi prima che lui mi spezzasse. Voleva prendersi tutto da
me, anche
il respiro.
«Vuoi condurre
i giochi?»
ridacchiò malizioso, afferrandomi il labbro tra i denti.
Lo
zitti tirandogli i capelli dietro la nuca e baciandolo a modo mio.
Violento.
Stare
con lui mi trasformava in una persona diversa, mi privava del
controllo. Cercai
di tenere le redini, ma sapevo di stare cadendo, di star precipitando
in un
baratro sempre più profondo.
Per
quanto fossi convinta che Simone fosse lungi dai miei interessi, non
riuscivo a
stargli lontano. Non solo fisicamente.
Ne
ero dipendente.
Il
sesso era sempre stato al secondo piano nella mia vita, quasi una
sfumatura di
contorno. Ora ne sentivo l’assenza, ora che quel vuoto era stato
colmato.
«Muoviti…
così…»
Mi artigliò i fianchi e mi incitò ad aumentare il ritmo.
Rovesciai
la testa all’indietro mentre sentivo il calore del fuoco che mi
bruciava la
schiena. Le fiamme reali e quelle di Simone che mi stavano lentamente
consumando, annientando, che mi stavano portando via anche l’ultimo
briciolo
d’aria.
«Simo... ah...
ne...»
gemetti, artigliandomi alle sue spalle e stringendo il suo viso al mio
petto.
Aveva
rannicchiato il volto contro di esso, lo aveva avvicinato al viso, e
continuava
a sussurrarmi all’orecchio parole dolci, frasi di canzoni ormai senza
tempo.
Continuai
ad aumentare d’intensità, rincorrendo un piacere che da troppo tempo mi
era
mancato mentre anche il suo corpo vibrava.
Sentii
le sue labbra lambire la mia pelle e incendiarla centimetro dopo
centimetro,
semplicemente da quel contatto. Avvertii dei brividi sconvolgermi le
membra.
Ormai mancava poco tempo e il piacere stava diventando del tutto
insostenibile.
«N-No.. non ce
la fac-cio…»
gridai, quasi, sconvolta da quelle meravigliose sensazioni.
Non
ebbi tempo di pensare, razionalizzare o riflettere su cosa dire.
Riuscivo
soltanto ad essere guidata da qualcosa
che rischiava di esplodermi dentro.
«Non fermarti…
mh…»
soffiò lui, e per la prima volta lo percepii al di fuori del muro.
Posai
la testa sulla sua spalla mentre sentii un grido raschiarmi la gola e
Simone
accompagnò quel piacere con delle spinte lente e delicate.
Nemmeno
due secondi dopo cercai le sue labbra disperatamente, e muovendomi
involontariamente gli mandai una scarica di piacere.
Lui
sibilò e strizzò gli occhi.
«Scusa.» sorrisi,
imbarazzata.
Distolsi
lo sguardo immediatamente, per non farmi scorgere da lui. Era davvero
troppo
farsi vedere così debole, così vulnerabile.
I
suoi occhi erano lì, pronti ad essere accarezzati. Non riuscii a
resistere
lontano dal loro tocco, perché erano parte di quel fascino che ormai mi
aveva
assoggettata. Mi davano dipendenza.
Così
mi scostai quel tanto da scendere dalle sue gambe.
Ora
era davvero nelle mie mani, ora le parti si erano invertite ed io avrei
fatto
di lui ciò che volevo. Lo accompagnai verso l’orgasmo senza mai
smettere di
fissare il suo viso, ogni sfumatura delle sue espressioni.
La
verità era che entrambi odiavamo i legami, ognuno di noi rincorreva la
libertà,
l’indipendenza, quasi servisse per respirare.
Ed
ora ci eravamo trovati. Due persone libere, insieme.
Simone
allora mi spostò i capelli dietro un orecchio, sorridendo. Lo baciai
perché non
potevo davvero farne a meno.
Non
in quel momento. Non più.
Stai
lì e guardami bruciare, ma
va bene perché mi piace il modo in cui fa male.
Trullallero, trullallà, il capitolo l'ho aggiornato più di un mese fa...
Tralasciando la filastrocca mongola, mi nascondo per aver scritto
questa specie di pornazzo natalizio, tra l'altro partorito a
Ottobre/Novembre mi pare XD Solo io riesco a scrivere pornazzi di
Natale.
Comunque, le feste sono passate #sigh e al loro posto sono arrivati gli
esami #sob, ma io e Nessa ce l'abbiamo fatta ad aggiornare questa
storiella con un capitolo piccantO **
Detto ciò mi aspetto come minimo delle fanghérlate o qui o sul gruppo -
me lo dovete perché non mi farò più vedere dalla veGGogna - per dirmi
come vi aspettate stia andando in porto questa storia.
Bene? Male? Ci vorrei esse io al posto di quella scema di Ven? (sì)
Baciotti esamosi (?) Marty :3
|
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Capitolo 18 *** Capitolo 16 ***
CAPITOLO 16
Mi
svegliai sul divano del salotto, con alcuni pop-corn incollati alla
perfezione
sulla guancia, quasi come tatuati, feci colazione e mi vestii per
andare al
lavoro.
La
bufera era passata, anzi, sembrava non ci fosse nemmeno stata.
I
Bobcat spalavano la neve ad un ritmo costante, liberando le strade
della
capitale inglese. Tutto funzionava alla perfezione.
Passai
davanti alla stanza di Simone. La porta era ovviamente sigillata.
Né
Celeste, né Leonardo erano rincasati a causa della tempesta. La mia
migliore
amica non mi aveva fatto sapere più nulla e sperai che avessero trovato
una
qualche sistemazione, anche improvvisata.
Invece
tu te ne sei stata al
calduccio, nevvero?
Il
mio Cervello, di prima mattina, sapeva essere tedioso come pochi.
D’accordo,
era impossibile rimuovere ciò che era successo la notte prima, quello
che aveva
fatto.
Avevamo…
Sì,
giusto. Quel “noi” che mi perseguitava.
Strinsi
il colletto della camicia con forza, mi aggiustai la gonna, mentre
l’odore del
caffè riempì la cucina. Ero in orario. Presto mi sarei diretta verso
l’ufficio
della Abbott&Abbott e avrei inseguito il mio sogno.
Con
la S minuscola.
Erano
finiti i tempi dei giochi. Quella sera avevo oltrepassato un limite che
mai mi
sarei aspettata di varcare ed era arrivato il momento di metterci una
bella
pietra sopra, un freno.
Prima
che fosse troppo tardi.
Feci
colazione e ricontrollai i documenti che James mi aveva chiesto di
esaminare
durante le vacanze, poi vidi gli appuntamenti nell’agenda.
I
passi di Simone riecheggiarono nel corridoio facendomi venire la pelle
d’oca.
Non
riuscii ad alzare lo sguardo dal telefono. Avevo paura che se avessi
incontrato
di nuovo quegli occhi, i miei buoni propositi sarebbero sfumati.
Lui
d’altro canto non disse nulla. Si limitò a circumnavigare l’isola della
cucina
e tirò dritto verso il caffè, versandosene un po’ nella tazza.
Lo
sciabordio del liquido versato fu l’unico rumore che si udì nella
stanza.
Cercai
di concentrarmi sul meeting che avrebbe avuto luogo quella mattina
stessa,
prima del nuovo anno. Affrontare il 2013 senza essere nemmeno riuscita
a
riesaminare il caso, non era certo una buona prospettiva.
Inoltre,
era chiaro come il sole che Mr. Abbott aveva la chiara intenzione di
stracciare
St. James accaparrandosi il Caso dell’anno – qualora fosse stato reso
noto.
Un
brivido mi attraversò la schiena.
Quella
mattina avrei incontrato il mio collega, nonché ex-presunto-fidanzato,
e con
quale faccia sarei riuscita a parlargli?
Il
suo braccialetto è ancora
nella sala hobby, dopo che te la sei svignata mentre il bello
addormentato
sonnecchiava.
Sentii
la gola improvvisamente ricoperta di sabbia.
Ci
eravamo addormentati dopo averlo fatto, lì, su quel divano di fronte al
fuoco
che stava lentamente spegnendosi. Verso le due del mattino, mi ero
svegliata e
mi era sembrato più che logico tornarmene nella mia “stanza”
provvisoria.
Simone
aveva fatto lo stesso.
Se
Celeste e Leonardo fossero tornati all’improvviso, cosa avrebbero detto
altrimenti?
E
così me l’ero svignata di soppiatto neanche fossi stata l’amante di
qualcuno.
Posai
il cellulare sul ripiano della cucina e cominciai a cercare il mio
mazzo di
chiavi, per poi uscire dalla porta dritta filata, senza nemmeno alzare
lo
sguardo.
«A che ora
torni?»
mi chiese lui con noncuranza.
Cazzo.
Perché
se ne usciva con quelle domande idiote proprio quanto stavo facendo di
tutto
per evitarlo?
Frugai
nella ciotola delle chiavi, facendo volontariamente rumore.
«Non lo so,» risposi
distrattamente. «Ho
una riunione.»
Sperai
che non indagasse ancora, altrimenti avrei ceduto. Era maledettamente
difficile
comunicare con qualcuno senza guardarlo negli occhi.
Quegli
occhi che mi avevano bruciata viva.
«Mh…» sbuffò e lo
sentii succhiare volontariamente il caffè dalla tazza.
Alle
volte si comportava come un bambino, senza alcuna difficoltà. Inoltre,
quelle
maledette chiavi non ne volevano sapere di essere trovate.
«Le tue chiavi
sono lì,»
disse Simone improvvisamente.
D’istinto,
senza riflettere, alzai lo sguardo su di lui e lo vidi indicarmi il
divano. Il
mazzo di chiavi era finito tra le pieghe dei due cuscini e non lo avrei
trovato
nemmeno volendo.
Ciò
non toglieva nulla alle iridi del calciatore che ora mi scrutavano
soddisfatte.
«Che vuoi?» risposi
brusca, afferrando il mazzo con una mano e la valigetta con l’altra.
Ora
mancava soltanto il cappotto e sarei stata libera.
Lo
indossai proprio quando Simone iniziò a mangiare un Ringo. Dio,
soltanto lui
poteva mangiare un dannato biscotto in quel
modo.
Guardò
prima il biscotto con attenzione, quasi contemplandolo, poi fece un po’
di
pressione, ruotandolo leggermente, e separò le due metà. Mangiò subito
il
biscotto senza ripieno, leccandosi le labbra e godendo di quel piccolo
piacere.
Dannato,
dannato, dannato!
Quel
piccolo infido maledetto bastardo sapeva che lo stavo guardando! E
stavolta non
si trattava nemmeno di un sogno.
In
seguito si dedicò all’altra metà del biscotto, leccando via tutta la
cioccolata
e sporcandosi gli angoli delle labbra. Quando passò al secondo dolce,
decisi
che o me ne sarei andata di lì in fretta e furia, oppure tanto valeva
che
chiamassi l’ufficio.
«Nemmeno
saluti?»
commentò, non appena posai la mano sul pomello della porta.
Ero
rigida come un pezzo di ghiaccio. «A dopo, ciao,» tagliai
corto.
In
un soffio mi fu dietro. Sentii lo spostamento d’aria e quel suo profumo
che mi
riportò a quella notte appena passata senza nemmeno bisogno del
teletrasporto.
Simone
mi voltò con impeto, bloccandomi ogni via d’uscita.
«Intendevo un
saluto come si deve,» ghignò,
carezzandomi il labbro inferiore con il pollice.
Voleva
che facessi la prima mossa. Subdolo figlio di puttana.
E
poi lo sguardo mi cadde su quelle macchie di cioccolato all’angolo
della sua bocca.
Ne aveva anche un po’ sul mento.
Fu
quel particolare che mi fece perdere del tutto la ragione.
Al
diavolo il lavoro, al diavolo la riunione, chissenefrega di Celeste o
Leonardo,
oppure di James che mi avrebbe giudicata. Poco m’importava.
Con
una lappata gli portai via la cioccolata sul mento, poi mi appropriai
di nuovo
delle sue labbra.
Riuscii
ad arrivare allo studio con dieci minuti di ritardo.
Ed
eri in orario.
«Passate bene
le vacanze?»
trillò la voce acida ed odiosa di Yuki.
Per
l’occasione, indossava una gonna a scacchi rossa e una camicetta
bianca.
Sembrava appena uscita da un manga.
«Benissimo,» le risposi.
James
mi affiancò subito, salutando la giapponese e richiedendo
immediatamente la mia
presenza con la massima urgenza. Cosa aveva da dirmi?
Un
“bip” mi avvertì del messaggio appena ricevuto sul cellulare. Ebbi il
tempo di
leggerlo appena prima di entrare nell’ufficio di James.
stamattina
ti sei fatta perdonare.
sappi
che nessuno molla simone sogno sgattaiolando
alle due del mattino.
-simonator
Rimasi
allibita. Era davvero così cretino?
Ma
soprattutto, si era davvero firmato Simonator?
Pregai
tutti i santi in paradiso che avesse sbagliato numero, poi nascosi il
cellulare
in fretta e furia prima che James se ne accorgesse. Ci mancava solo una
brutta
figura con lui.
«Come va?» mi chiese
sorridente, scartabellando tra alcuni fogli.
Feci
spallucce. «Bene.»
Considerando
che hai appena fatto
sesso con colui che dovresti difendere.
Si
udì un fruscio di carta. «Hai
passato al meglio il Natale? Io a Liverpool mi sono annoiato.» Sghignazzò. «Quando si ha
una famiglia numerosa, è sempre un gran trambusto.»
Oh,
lo so benissimo.
Visto
e considerato che casa Sogno era stata invasa da tutti i suoi elementi
in una
sola giornata.
«Già. Comunque
è andato tutto benissimo, grazie.»
«Sono contento,» sorrise.
Quel
gesto mi scaldò il cuore. Per quanto odiassi me stessa per quei
pensieri così
puerili, per quel comportamento che lentamente mi stava facendo
somigliare alle
persone che più odiavo al mondo, mi ritrovai a pensare quanto James
fosse
importante per me.
E
molto.
Un
altro “bip” mi riportò alla realtà.
quando
torni, prendimi una ciambella.
Perlomeno
questa volta non si era firmato. Un notevole passo avanti.
Mi
sentii in dovere di rispondergli un Non
sono la tua serva. Scendi e compratele da solo. quando la
segretaria ci
annunciò che la riunione stava per iniziare.
Bene.
Almeno avrei avuto la scusa per spegnere il cellulare.
Mr.
Abbott era già nella sala, mentre all’appello vidi che mancavano alcuni
soci importanti
dello studio. James mi aveva detto che era di routine fare un meeting
prima del
nuovo anno, una sorta di bilancio del 2012 che se ne andava.
«Accomodatevi,» ci disse il
signor August, rivolgendo un sorriso bonario al nipote.
Nervosa
mi sedetti vicino a James, senza proferire parola.
Non
avevo idea degli argomenti che sarebbero stati trattati, eppure mi
sentivo come
se stessi affrontando uno degli esami di Sheperd, a Cambridge.
«Siamo in
attesa di Mark e Carl,»
sorrise Mr. Abbott. «Nel
frattempo, posso chiedervi come sta andando con il caso di Mr. Sogno.
Ci tengo
particolarmente, visto che Marco è un mio carissimo amico, anche se non
lo
sento da tempo.»
E
ci credo bene. Non sapeva nemmeno che suo figlio fosse citato in
giudizio!
James
prese la parola. «Miss
Cloverfield ha fatto sapere, tramite il suo avvocato, che non intende
scendere
ad alcun tipo di patteggiamento. Ha detto che vuole la paternità del
piccolo e
ha aggiunto che Mr. Sogno deve prendersi la responsabilità di ciò che
ha fatto.»
Rabbrividii.
Lentamente
la possibilità che Simone fosse davvero il padre del bambino cominciò a
insinuarsi dentro di me, facendomi tremare.
Dovevo
tagliare i ponti il più presto possibile. Ero ancora in tempo, in fondo
avevamo
scopato solo una volta.
Ecchessaràmai!
Mr.
Abbott annuì pensieroso. «Mh,
capisco. C’era da aspettarselo,»
commentò, poi alzò quegli occhi azzurri su di me. «Lei cosa ne
pensa, Miss Donati. Come dovrebbe agire lo studio?»
Ed
ecco la mia occasione.
C’era
chi aspettava da una vita di riceverla, chi ci sperava ogni giorno.
Prima
facevo parte anche io di quella cerchia. Finalmente era giunto il
momento per
riscattarmi, ma era caduto nel periodo sbagliato. Proprio quando le
“vacanze”
mi avevano portato via del tempo per rivedere gli appunti.
«Beh…» arrancai,
cercando James. «Miss
Cloverfield è stata chiara. Non credo si possa giungere ad un accordo.»
«Questo lo
sapevamo, vada avanti,»
mi spronò l’avvocato.
La
verità era che non sapevo cosa dire. Gli avrei potuto raccontare
dell’arrivo di
Celeste, del timballo di melanzane di nonna Annunziata, della quantità
infinita
di Barbie di Susanna e di quanto fosse bella Londra dalla ruota
panoramica.
Del
caso, invece, sapevo poco e niente.
«Forse…» tentò di
salvarmi James in corner.
Mr.
Abbott alzò una mano interrompendolo. «Lascia parlare la ragazza,» s’impose.
E
il silenzio ripiombò nuovamente nella sala riunioni. Mi sentii come
quando fui
interrogata per la prima volta, alle elementari. Avvertii lo stesso
groppo alla
gola, le parole che si aggrappavano alla faringe senza riuscire ad
uscire.
Potevo
anche dire addio al posto nello studio, ora.
«August,
eccoci,»
disse Carl, salvandomi.
I
due soci arrivarono proprio nel momento adatto, distraendo Mr. Abbott e
facendogli momentaneamente perdere la concentrazione. Avvertii
immediatamente
la mano di James stringersi alla mia e infondermi forza.
Era
fredda.
Dopo
qualche secondo non riuscii più a sopportarla.
«Vado un attimo
alla toilette,»
gli sussurrai, a riunione iniziata.
James
annuì distrattamente, troppo concentrato ad ascoltare ciò che i suoi
colleghi
avevano da dire sul piano annuale dello studio.
Corsi
a perdifiato per l’edificio, alla ricerca di ossigeno. Scesi le
scalette e mi
riversai in strada, sentendo un forte peso che mi opprimeva il cuore.
Caddi
sulle ginocchia, con le calze di nylon a stretto contatto con la neve
fredda.
Cercai
il cielo solo per sfuggire da quella morsa che lentamente mi stava
offuscando
anche la vista. Avevo rischiato troppo per la mia negligenza.
Lentamente e
senza quasi accorgermene stavo mandando a rotoli tutto ciò per cui
avevo
lavorato con tanta fatica.
Per
cosa poi?
Nemmeno
una relazione seria sarebbe valsa il sacrificio. Quella con James non
era
nemmeno cominciata e con Simone… era solo sesso.
«Ehi…»
Una
voce familiare mi riportò alla realtà, così alzai lo sguardo e trovai
gli occhi
azzurri della mia migliore amica.
«E voi cosa ci
fate qui?»
Leonardo
rispose per lei, sorridendo. «È
da quando siamo arrivati che vuole vedere dove lavori. Visto che il
locale di
ieri sera era qui vicino, ce l’ho portata.»
Ovviamente.
«Che bella
sorpresa, non sapevo conoscessi l’indirizzo dello studio,» dissi,
rialzandomi in piedi e aggiustandomi il tailleur.
Celeste
sorrise. «Infatti,
non lo sapevamo, ma abbiamo incontrato Simone da Starbucks,
che comprava una ciambella.»
Che
fortuna sfacciata.
«Eccolo che
arriva,»
sbuffò Leonardo, con le mani in tasca.
La
mia migliore amica mi fissò con occhi brillanti. «Ci ha accompagnati fin qui, è
stato carino. no?»
«Adorabile,» grugnii scettica, mentre il
sorriso di quel demente si allargava da orecchio a orecchio.
Simone
fece il suo solito ingresso trionfale, col petto in fuori e
quell’espressione
sul viso che diceva solamente “ammiratemi”.
Che
razza di pallone gonfiato.
Mi
fissò con sufficienza, ingurgitando la ciambella da cui uscivano chili
e chili
di burro. Ma dove metteva tutta quella roba?
«Alla fine sono
dovuto uscire,»
bofonchiò acido.
«Ti facesse
male…»
borbottai.
Neanche
l’avessi programmato, non appena fummo tutti impalati di fronte al mio
ufficio,
sentii la porta cigolare e un paio di scarpe eleganti che si muovevano
frettolosamente sul selciato. Mi voltai e James mi restituì uno sguardo
preoccupato.
Non
disse nulla. Aveva visto Simone.
«Ero venuto a
vedere come stavi,»
sospirò, cercando di ignorare il calciatore. «Sei scappata via nemmeno la
stanza avesse cominciato a bruciare.»
Avvampai
di colpo. Non mi ero resa minimamente conto dell’effetto che avevo dato
scappando via così, magari Mr. Abbott c’era rimasto di stucco.
«Avevo bisogno
d’aria,»
risposi.
«Tu devi essere
James,»
disse Celeste, avanzando di qualche passo e tendendo la mano al
bell’avvocato. «Ho sentito un
tuo messaggio in segreteria.»
Da
gentleman qual era, James si fiondò a stringere la mano alla mia
migliore
amica, sorridendole con garbo. Più lo guardavo e più sembrava un uomo
d’altri
tempi.
«Piacere mio,» sorrise,
mentre Leonardo lo linciava da lontano. «Tu sei…?»
«Celeste, la
migliore amica di Ven,»
sorrise, lanciandomi uno sguardo furbo.
Vidi
i due cugini Sogno sul ciglio della strada innevata. Stavano mangiando
le
rispettive ciambelle con sincronismo e non la smettevano di fissare
James con
l’aria di chi lo avrebbe ucciso a morsi. Quei due erano terribilmente
simili,
mi trovai a pensare, ma non mi sarei mai azzardata a dirlo ad alta
voce,
altrimenti avrei scatenato l’inferno sulla terra.
Leonardo
si decise a muoversi. «Io
so’ Leonardo. Er ragazzo suo,»
grugnì in un forte accento romano.
James
ci mise un po’ a decifrare, ma tutto sommato capì. Era un uomo dalle
mille
risorse.
«Oh, sei l’altro
calciatore!» disse
innocentemente.
Simone
sghignazzò, mentre Leonardo diventò davvero color aragosta. Decisi di
intervenire prima di ritrovarmi senza un avvocato che potesse
spalleggiarmi
durante il caso Sogno-Cloverfield.
«Dobbiamo
tornare in riunione, ci vediamo a casa,» dissi, prendendo James
sottobraccio. Quel mio gesto non sfuggì allo sguardo scuro di Simo.
S’irrigidì
tutto d’un tratto ed io provai un profondo brivido, come se mi sentissi
in
colpa.
Okay,
avevamo fatto sesso una volta – forse due –, e il nostro rapporto si
era
evoluto, ma nessuno aveva parlato di legami.
Eppure
sentivo come un fastidio.
Ignorai
Simone e salutai la mia migliore amica, tornando a lavoro.
Dovevo
darmi una svegliata, altrimenti c’era il rischio che davvero mettessi
in secondo
piano il lavoro. Prima c’era stato James a distrarmi, ora Simone. Si
rincorrevano l’un l’altro nei miei pensieri, mandandomi ai pazzi.
Li
lasciai a guardarmi rientrare lì nel vicolo, su un marciapiede sporcato
dalla
neve di quella notte. Una notte che difficilmente avrei dimenticato.
James
si fermò nell’atrio. «Dovremmo
parlare,»
disse ed io rabbrividii.
«Mi servirebbe
un incontro con Mr. Sogno. È arrivato il momento di rimboccarci le
maniche e
lavorare sul serio, fino a tardi, coi libri del college sotto mano. Non
ci
hanno ancora fissato il giudice al processo, ma penso che col nuovo
anno
arriveranno altre brutte notizie.»
Feci
un mentale sospiro di sollievo, perché James si riferiva al caso,
ovviamente.
«Hai ragione.
Le cose mi sono sfuggite di mano ultimamente.»
Diciamo
che di mano, non ti è
sfuggito poi tanto.
James
sorrise. «Non
preoccuparti, è vacanza. Ti capisco,» mormorò, gentile come sempre. «Però ho come
la vaga impressione che Mr. Sogno abbia una certa confidenza con te,
forse
sarei di troppo?»
Deglutii
a fatica. «Macché!» sbottai,
mettendo le mani avanti. Possibile che avessi scritto in faccia “Hofattosessoconuncalciatore”? «Figurati se io
e quello lì potremmo mai andare d’accordo.»
Fuori
dal letto.
Sì,
nessuno è perfetto.
«Okay, mi fido,» sorrise,
posandomi una mano sulla spalla.
Sembrava
imbarazzato, come se volesse dirmi qualcosa ma non sapeva se fosse il
momento o
il luogo adatto. Gli afferrai gentilmente il polso.
«C’è qualcosa
che vuoi chiedermi?»
lo incitai.
James
sgranò quei grandi occhioni blu che mi fermarono il cuore. «Beh,
veramente…»
soffiò imbarazzato. Era raro che perdesse il controllo. «La notte di
San Silvestro, mia zia organizza un party. Zio August mi ha chiesto se
volevo
invitarti e beh…»
temporeggiò ancora.
L’ossigeno
sparì in tre nanosecondi.
«Io vorrei
invitarti,»
concluse, fissandomi serio.
Mayday,
mayday, mayday. Schianto
previsto tra un minuto.
Non
sapevo cosa dire, né cosa rispondere. Celeste stava organizzando quella
notte
da tempo, erano addirittura rimasti intrappolati in quel disco-pub pur
di
andare ad informarsi, con Sofi, ed ora io mi trovavo ad un bivio.
Sapevo
che Simone non aveva alcuna voglia di passare il Capodanno fuori, non
ora che
non poteva trombarsi tutto ciò che si muoveva, ma non avevo idea di
quali
fossero i suoi programmi.
Davvero
ti interessa?
No.
Bugiarda.
«Volevo passare
il Capodanno con Celeste. Lei il giorno dopo tornerà a Roma,» spiegai,
cercando di non ferirlo.
James
abbassò lo sguardo. «Capisco.» Poi cercò di
nuovo il mio. «Nel
caso potremmo raggiungerli verso le ventidue, così abbiamo la scusa
perfetta
per mollare la noiosissima festa di zio August.» E sorrise.
Bellissimo.
Non
potei fare a meno di vedere soltanto lui in quel contesto. «Perfetto.
Allora possiamo andare alla festa dai tuoi, poi passare dai miei amici,» ricapitolai.
Soltanto
dopo averlo detto, mi accorsi che suonava molto
da fidanzatini. Ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.
Il
sorriso di James mi scaldò il cuore. «Sarà una serata stupenda,» poi aggiunse
sotto voce. «Perché
ci sarai tu con me.»
Ven,
sei una zoccola.
Amen.
La
trama fitta della carta da parati non era mai stata così interessante
come in
quel momento. Avevo sparsi sul divano tutti i fogli riguardanti il caso
di cui
dovevo occuparmi, compresi i file di Miss Cloverfield che James si era
fatto
passare dal suo avvocato.
Ovviamente
il compromesso ormai era da escludere. L’importante sarebbe stato
arrivare al
processo senza ulteriori scandali, sia per la carriera della ragazza
che per
quella di Simone.
Se
non si fosse raggiunto un accordo, ci sarebbe stato il test del DNA.
Era
l’ultima spiaggia a cui potevamo appellarci e sia io che James
contavamo sulla
risoluzione del caso molto prima di quell’asso nella manica.
Persa
in questi pensieri, mi ero ritrovata a fissare i ghirigori della carta
da
parati e a riflettere su quanto era successo in quegli ultimi giorni.
C’era
stato un bacio, poi un altro, infine c’era stata una pioggia di baci,
carezze,
effusioni. Infine c’era stato il sesso.
Ora
però mi trovavo schiacciata tra due fuochi, senza avere la minima idea
di cosa
fare. Ero partita dall’Italia con la chiara intenzione di fiondarmi di
petto
nel lavoro, senza lasciare spazio a tutto il resto, poi però avevo
incontrato
James e poi Simo.
Simone
che mi era entrato dentro e si era rannicchiato in un piccolo angolino,
proprio
lì vicino al cuore.
James,
invece, c’era sempre stato.
Ed
ora? Farai la fine di Bella o
delle classiche eroine dei romanzi d’Ammmore?
Il
problema non era il classico triangolo di cui aveva parlato anche
Renato Zero.
La verità era che non c’erano le basi per costruire chissà quale idea.
I
fatti erano presenti, d’accordo. Mi era piaciuto fare sesso con Simone,
due
volte, e l’avrei rifatto. Era solo attrazione fisica, nient’altro.
James,
invece... tutt’altro paio di maniche. Era come se finalmente fossi
riuscita a
trovare qualcuno che mi completasse, ma non potevo
starci insieme.
Non
fin quando il processo non si fosse concluso.
Mi
ero cacciata in un bel guaio accettando l’invito per Capodanno,
soprattutto
perché avrei dovuto trovare il coraggio di dirlo alla mia migliore
amica. Una
serata tutta per noi, che io avrei diviso con un uomo.
Non
era mai successo che ci separassimo per un ragazzo.
Ero
stata proprio una sciocca.
«Ehi.»
La
voce di Sofia mi sorprese, così balzai a sedere senza nemmeno
accorgermene. I
suoi occhi azzurri, grandi come due piattini da caffè, erano talmente
limpidi
che mi ci potevo specchiare dentro.
«Ehi,» le risposi,
sorridendo.
Sofia
si accomodò vicino a me, spostando qualche scartoffia sul tavolino.
«A quanto
ricordo, questo divano è stato sempre scomodo. Come fai a dormirci?» mi domandò
incuriosita.
Scrollai
le spalle. «Dopo
un po’ ci si fa l’abitudine,»
smozzicai, rimettendo in ordine i documenti prima che li perdessi
un’altra volta.
Sofia
guardò con interesse ogni mio movimento. La sua pelle era così chiara e
le sue
labbra così rosa che pensai fosse davvero la Biancaneve bionda
delle mie favole di bambina.
«Sai che è come
se ci fosse qualcosa di nuovo in te?» mi sorprese. «Come un taglio
di capelli, un nuovo profumo addosso… una ventata di novità, insomma.»
Rabbrividii.
Se Sofia avesse lavorato per Scotland Yard, l’FBI o la CIA, a quest’ora
non ci
sarebbero più terroristi in giro per il mondo.
Cercai
di cambiare discorso, o almeno ci provai.
«Sarà l’arrivo
dell’anno nuovo?»
ridacchiai nervosa.
Sofia
mi sorrise divertita, nonostante avesse ancora quella
luce furbesca negli occhi.
Cadde
il silenzio e mi sentii in dovere di cominciare pur da qualcuno, così
parlai e
decisi di vuotare il sacco, almeno per liberarmi da quel “peso”.
«James mi ha
invitata ad un party per Capodanno,» sputai tutto in una volta.
Era
un sollievo riuscire a dirlo finalmente, almeno prima di affrontare
direttamente la mia migliore amica. La biondina mi fissò allibita. «E tu cosa gli
hai risposto?»
chiese poi.
Guardai
verso il basso, le mie dita intrecciate che torturavano un lembo del
pullover.
«Ho accettato,» smozzicai
imbarazzata. «Però
ha promesso che andremo via per le ventidue. Vi raggiungeremo prima
della
mezzanotte,»
aggiunsi immediatamente, come se mi sentissi in dovere di dare delle
spiegazioni.
Sofia
però non smise quell’aria sorpresa. «Ah,» disse. Si afferrò una ciocca di
capelli biondi e se la rigirò tra le dita, nervosa.
Era
strano vederla così seria, lei che aveva sempre stampata l’ombra di un
sorriso
in volto.
Abbassò
lo sguardo. «Beh,
contavamo molto sulla tua presenza,» mormorò. «Ero riuscita a
convincere anche Simone, dicendo che venivi. Ora non penso voglia più
partecipare.»
Mi
sentii doppiamente in colpa dopo quella confessione, quasi come se
avessi
commesso chissà quale grave reato. Mi diedi mentalmente dell’idiota e
mi
maledetti per aver accettato quello stupido invito.
«Sono ancora in
tempo per disdire…»
smozzicai, dispiaciuta.
Sofia
scosse la testa e ritrovò il sorriso, anche se era forzato. «Alla fine è
giusto che James ti abbia qualche volta, in fondo è il tuo principe azzurro,»
spiegò cheta.
James
non era di sicuro un principe, ma sia i modi che il suo aspetto lo
facevano
somigliare molto ad un nobile d’altri tempi.
«Tenterò di
convincere Simo,»
aggiunse infine.
In
quel momento mi sentii come sotterrata da un masso. Una pietra gigante
che mi
schiacciò l’animo e mi fece assomigliare ad una vera merda.
«Ci parlo io
con Simone,»
dissi di punto in bianco, come se quello avrebbe cambiato le cose.
Già
mi immaginavo la scena del “Ciao Simo, vieni alla festa di Capodanno
che io vi
raggiungo con James a braccetto prima della mezzanotte. Giusto in tempo
per
slinguazzarci di fronte a te!”
Fantastico.
Gli
occhi di Sofia brillarono di felicità. «Davvero lo faresti? Sarebbe
fantastico… non passiamo un Capodanno insieme da anni,» soffiò
amareggiata.
Era
chiaro. Simone non si sarebbe perso una festa nemmeno per tutto l’oro
del mondo
e di sicuro non l’avrebbe passata con sua sorella, o con la sua
famiglia.
Tutto
ciò prima del caso in cui era stato
citato.
Capivo
benissimo come poteva sentirsi Sofia, com’era doloroso stare lontano
dalla
propria famiglia in quel clima di festività. Se poi il “lontano” era
inteso in
senso metaforico, il dolore raddoppiava. Era evidente che il calciatore
non si
rendeva conto della sofferenza che infliggeva agli altri, soltanto un
occhio
esterno come il mio poteva accorgersene.
E
ormai ero legata a quella famiglia in un modo che mai avrei immaginato.
«Ci proverò,» le dissi
sorridendo.
Mi
erano entrati dentro con la forza, tutti quanti. Erano riusciti a
penetrare
questo muro di cinismo, di ostilità e vi si erano annidati. Erano degli
inquilini abusivi.
A
partire dalla piccola Susanna e col finire con nonna Annunziata. Tutti
quanti.
Forse
sarebbe stato più semplice separarmi da loro, rinunciare a tutto
quello. Dire
addio a James, troncare tutto, lasciare indietro Simone e vederlo
unicamente
per il tribunale.
Forse
sarei dovuta tornare al monolocale, riprendere in mano la mia vecchia
vita.
Forse avrei dovuto dire “basta” prima che fosse troppo tardi per
tornare
indietro.
«Cosa state
confabulando?»
La
voce di Simone mi fece sobbalzare.
E
poi incontravo quegli occhi ed era difficile ragionare con la mente
lucida.
Sofia
prese la cosiddetta palla al balzo e si alzò in piedi. «Si è fatto
tardi, Ruben mi passerà a prendere tra poco, quindi vi lascio a questioni ben più importanti.» E mi fece
l’occhiolino.
Un
occhiolino davvero insistente.
Quella
scenetta da sit-com poteva davvero sembrare divertente ad un occhio
esterno,
peccato però che stavo raggiungendo l’apice dell’imbarazzo.
Simone
poi, con quel sorrisetto arrogante stampato in faccia non aiutava per
niente.
«Che hai da
sghignazzare?»
gli feci inviperita.
Lui
scosse la testa e si spostò distrattamente i capelli dal viso. Gesù,
quel gesto
era sempre da infarto. Ogni. Singola. Volta.
«Niente,» borbottò. «Mi piace
quando sei in imbarazzo.»
Lo
disse così, senza curarsene, ma non avrebbe mai immaginato che il mio
cuore
facesse un doppio salto mortale carpiato all’indietro. Odiavo questa
sua
spontaneità, il suo essere così maledettamente diretto.
Come
un bambino.
Un
poppante.
Un
marmocchio.
Bamboccione.
«Smettila!» gli dissi,
nascondendo l’imbarazzo e cercando di fare qualsiasi altra cosa.
Qualsiasi!
Mi
alzai diretta in cucina e cominciai a rovistare tra gli scaffali.
Sentivo il
suo sguardo addosso che mi accarezzava quasi fosse tangibile, ed io ci
stetti
troppo male.
Come
faceva ad influenzarmi tanto facilmente?
Sospirai,
tanto per scacciare quei brutti, bruttissimi, pensieri. Cercai il suo
sguardo
che subito si allacciò al mio, quasi come due calamite.
«Dobbiamo
parlare,»
dissi di punto in bianco.
Era
meglio tagliare la testa al toro subito, prima di rimuginarci troppo
sopra.
Sarebbe stato controproducente e non avrebbe portato da nessuna parte.
Chiaro
e tondo: James, io, Capodanno. Stop.
Simone
sulle prime non mi prese sul serio. Si avvicinò come un predatore
avrebbe fatto
con un succulento boccone e mi posò le mani sui fianchi. Rabbrividii
immediatamente a quel contatto. Mi mancavano troppo quelle mani.
Avrei
davvero voluto cedere, permettergli di fare di me quello che voleva, ma
avevo
fatto una promessa a Sofia. Via il dente, via il dolore. La sua
presenza al
party di Capodanno era fondamentale, anche per la sottoscritta.
Ero
un’egoista, e lo sapevo bene. Li volevo entrambi la notte di San
Silvestro,
tutti e due sotto lo stesso tetto.
Gli
bloccai le mani che nel frattempo erano andate a solleticare la pelle
sotto il
pullover.
«Davvero,
dobbiamo parlare,»
dissi decisa, guardandolo con serietà.
Simone
allora capì che c’era qualcosa di fondo in tutta quella storia, così
sorrise e
mi baciò la punta del naso. «Dopo.
Prima devo portarti in un posto,» disse, in tutta naturalezza.
C’erano
volte in cui pensavo di aver inquadrato un tipo come Simone, un ragazzo
giovane, bello, che aveva tutto dalla vita. E poi c’erano volte in cui
agiva
così, d’istinto, e mi trascinava dentro il suo vortice senza che io
potessi
sottrarmi.
«Promesso che
dopo parliamo?»
gli chiesi a conferma. Tanto non mi sarebbe sfuggito.
Lui
mi guardò con quelle iridi scure e profonde. Due opali. «Promesso.
Vieni.»
Mi
prese per mano e mi condusse fuori dall’appartamento, verso la sua
cinquecento
blu metallizzata parcheggiata in garage.
Il
tempo non era dei migliori, ma i meteorologi non avevano messo nevicate
in
programma per quella serata. Il viaggio fu piuttosto lungo, anche
perché
sembrava ci stessimo dirigendo fuori città, oltre la periferia di
Greenwich.
C’erano tanti quartieri alla periferia di Londra, posti che avevo visto
soltanto sul pullman quando ero arrivata dall’aeroporto di Gatwick.
Case
in mattoni rossi, a schiera, con piccoli giardini sul retro e sul
davanti. I
comignoli accesi che fumavano, le loro strutture sviluppate in altezza,
il
rosso scuro dei mattoni che spiccava in contrasto con la neve candida.
Sembrava
quasi il quadro perfetto, degno di una cartolina.
«Dove stiamo
andando?»
chiesi.
Era
legittima come domanda, visto che l’ultima volta in macchina con lui mi
ero
buscata un bel raffreddore da dimenticare. Simone teneva gli occhi
incollati
alla strada. Quegli occhi che più volte mi avevano mangiata viva.
Mi
morsi il labbro e tentai – davvero, ci provai con tutta me stessa – di
non
pensare a quello che avevamo fatto, ma per ovvie ragioni i ricordi si
riversarono nella mia mente come uno tsunami.
«Aspetta e
vedrai,»
disse misterioso, ed io incrociai le braccia.
Perché
doveva tenermi nascoste le cose? Sapeva che non riuscivo a resistere
dal
curiosare, era più forte di me!
«Mi stai
portando al mare? Ad un ristorante? Alla villa dei tuoi antenati morti?» provai, anche
se quella mia ultima uscita lo fece sorridere.
Mi
guardò tenendo le mani sul volante. Sorrise. «Non te lo dico. È inutile che
insisti,»
soffiò, avvicinandosi pericolosamente.
Eravamo
su una strada secondaria, ma pur sempre una strada. Cosa diavolo gli
era venuto
in mente? Possibile che fosse così ritardato?
«Guarda davanti
a te,»
gli dissi, preoccupata.
Lui
tolse una mano dal volante e la posò sulla mia gamba fasciata dai
jeans. «So guidare,
Lil’Elf,»
mi ricordò.
Lo
fissai di traverso. «Anche
se non metto in dubbio il livello di preparazione della motorizzazione
anglosassone, già l’idea di essere sul lato sbagliato della strada mi
mette a
disagio…»
mi lagnai.
Okay,
la mia metà cagasotto stava uscendo fuori senza alcun controllo.
Simone
scoppiò in una fragorosa risata e tornò a guardare la strada con più
attenzione. «Certe
volte mi spiazzi proprio,»
commento tra una risata e l’altra.
Inclinai
la testa da un lato, non afferrando pienamente il suo riferimento. «Cosa ho fatto,
si può sapere?»
chiesi irritata.
Ed
ecco che ci guardammo di nuovo. Se qualcuno avesse cronometrato il
tempo delle
nostre occhiate, ero sicura che sarebbe trascorso pochissimo tra un
battito di
ciglia e l’altro.
Due
calamite che si rincorrevano.
«Qualche volta è come
se ti avessi inquadrato,»
disse, cambiando marcia e accelerando un po’. «Poi è come se avessi un’altra
persona davanti a me. Sei come un camaleonte,» concluse.
Sorrisi.
In fondo era una specie di complimento ed io pensavo quasi la stessa
cosa di
lui. «Prima
mi chiami vecchia, poi piccolo elfo, nanetta ed infine camaleonte… si
può
sapere quanti soprannomi ho?»
borbottai, fingendo di fare l’offesa.
Era
divertente stuzzicarlo in quel modo. Non ero mai riuscita a fare lo
stesso con
James.
Simone
scrollò le spalle. «Tanti,
suppongo.»
«Anche io te ne
ho affibbiati tanti,»
realizzai. «E
pensare che non ho mai dato soprannomi a nessuno, se non una semplice
abbreviazione di un nome.»
Il
calciatore accelerò ancora, facendomi voltare verso la strada. «Nemmeno io ne
ho mai dati,»
concluse conciso.
C’erano
tante cose che a mano a mano stavamo facendo diventar nostre e forse
era sbagliato.
Niente era giusto di quello che stavo combinando con Simone. Dal sesso,
alla
frequentazione, al rischio di mandare tutto il lavoro e il tirocinio
all’aria.
E
quei maledetti soprannomi, poi.
«Allora ce la
vogliamo far arrivare la nave in porto, Capitano?» sorrise lui, guardandomi
complice.
Purtroppo
era impossibile resistere. «A
vele spiegate, Marinaio,»
risposi.
***
Arrivammo
ad Aton prima del previsto e gironzolammo un po’ per trovare un
parcheggio che
non desse troppo nell’occhio. Simone aveva in mente un posto preciso,
perciò
cercò di posteggiare la Cinquecento il più vicino possibile.
Ancora
non sapevo dove mi stesse portando o cosa volesse mostrarmi.
Era
un continuo enigma passare il tempo con lui, soprattutto quando non mi
trovavo
nel suo ambiente. Le partite erano un conto, gli allenamenti anche, ma
a tutto
questo non ero abituata.
E
poi faceva dannatamente freddo.
In
campagna, o periferia, senza lo smog che creava una specie di “cappa”
sulle
case, i meno cinque gradi di quella giornata si sentivano tutti
perfettamente.
Rabbrividii subito e mi rannicchiai nel cappotto.
Allora
Simone afferrò una delle mie mani e la strinse, infilandosela nella
tasca del
piumino.
Lo
guardai stranita.
«Che c’è? Non
posso essere gentile?»
ironizzò, fissandomi divertito.
Non
poteva comportarsi così. No! Era scorretto! «Mi dici dove stiamo andando?» chiesi stufa
di tutti quei suoi giochetti da marmocchio.
Simone
continuò a camminare, poi m’indicò con un cenno del capo un piccolo
parco
recintato.
Ci
avvicinammo ed entrammo in un cancelletto nero, in ferro battuto. C’era
una
pace in quel posto da sembrare quasi una finzione.
«E questo
sarebbe…?»
dissi, tentando di cavargli le parole fuori dalla bocca.
Era
più difficile di quanto pensassi, soprattutto per una che avrebbe
dovuto fare
l’avvocato.
«Un posto,» mormorò lui.
Arrivammo
fino ad un campetto da calcio dall’aria trasandata. L’erba era incolta,
poco
curata e la neve aveva ghiacciato la maggior parte dell’area.
C’era
una panchina abbastanza pulita su cui potersi sedere.
Rimanemmo
in silenzio a sentire il vento che frusciava tra le fronde degli
alberi. Di
tanto in tanto passava un barbone, o un senzatetto, con un fagotto dei
suoi
averi che ci ignorava.
Simone
teneva ancora la mia mano nella sua tasca e l’accarezzava. Mi sentii a
disagio
in quel momento, con quella verità che ancora dovevo svelargli.
«Senti…» tentai di
dire, visto che ormai non c’era quasi più tempo.
«È qui che è
cominciato tutto,»
disse lui, interrompendomi.
«Tutto?» chiesi.
Simone
annuì e sospirò. «Dove
ho scoperto che un pallone poteva dare mille emozioni diverse.»
Un
pallone… dove aveva scoperto che il calcio era la sua vita.
«Prima
abitavate qui,»
realizzai in ultimo.
«Sì, all’inizio
non eravamo una famiglia piena di soldi e di successo. Più o meno come
il papà
di Leonardo. Si tirava avanti,»
raccontò.
Non
sapevo perché mi stesse confidando tutto quello, per quale motivo
avesse deciso
di aprirsi con me di punto in bianco. Fatto sta che non lo fermai, non
ne ebbi
il coraggio né la voglia. Dovevo sapere più di lui, dovevo abbattere
quel muro
o perlomeno provare a scalarlo.
«Quel pallone
che ho in camera, quello rovinato che Sofia ha miracolosamente salvato
dal tuo
tornado di pulizie,»
ridacchiò guardandomi. «Sì,
me l’ha detto,»
aggiunse.
«Quel pallone è
stato il primo che mio nonno mi ha regalato, anzi, ci.
A me e a Leonardo, un Natale di non so quanto tempo fa. È
l’unico ricordo che abbiamo di lui ed è come un portafortuna.»
«Anche Leonardo
ne ha uno uguale?»
chiesi.
Lui
annuì. «Almeno
dovrebbe. Non so se l’ha conservato o se l’ha gettato via. Sono passati
dieci
anni da quando nonno è morto.»
Sì,
Celeste me ne aveva parlato qualche tempo fa. Nonna Annunziata era
rimasta
vedova abbastanza giovane e non si era mai risposata. Una donna dal
carattere
forte e davvero ammirevole.
«Quindi, questo
campetto è una specie di rifugio per te?» gli domandai, sentendo le sue
carezze affievolirsi fino a smettere del tutto.
Si
prese un po’ di tempo per elaborare il tutto. C’era un Simone diverso
di fronte
a me, un Simone che credevo non potesse esistere.
«Diciamo che è
dove ho capito cosa volevo fare della mia vita,» mi corresse lui.
«E cosa c’entra
il pallone?»
domandai ovviamente.
Lui
si alzò in piedi e cominciò a camminare verso le porte da calcio, con
le reti
scucite e penzolanti. C’era tutta la ruggine sui pali, dove un tempo
spiccava
la vernice bianca. Ormai vi erano rimasti soltanto dei residui cadenti
e
semi-incrostati.
Lo
seguii perché era chiaro che voleva dirmi dell’altro.
Si
infilò le mani in tasca e trotterellò lungo tutta la linea del campo,
seguendo
il bordo dell’area. Mi misi dietro di lui, come i vagoni di un treno
sulle
rotaie.
Il
cielo si preannunciava sempre più nero e in lontananza si sentivano i
tuoni
squarciare il cielo.
«Mio nonno è
stato come un padre per me e per Leonardo. Era l’unico che riusciva a
tenerci
uniti e il calcio, in uno strano modo che ancora non so spiegarmi, ci
ha
aiutato anche in questo.»
«Ma se vi
linciate in campo!»
sbottai, incredula.
Simone
si voltò soltanto un pochino, giusto lo spazio per guardarmi. «Si fa quel che
si può,»
rispose con un sorriso simile ad un ghigno.
Continuammo
a girare in tondo per un po’ di tempo, mentre Simone continuava a
cianciare
roba sul suo passato. Anche se tra lui e il cugino non correva buon
sangue, ne
avevano passate di avventure quei due. L’unica cosa che avevo compreso
a fine
discorso, era l’importanza di nonno Sogno e di quel pallone scucito.
«E così mi hai
portato qui perché finalmente posso immedesimarmi in quella tua
testolina e
comprenderti?»
gli chiesi sorridendo.
Lui
mi guardò sincero. Quel tipo di sguardo che leggeva l’anima. «No,» rispose
tranquillo. «Ti
ho portato qui soltanto per farti vedere il mio mondo da un’altra
prospettiva.
Non il successo, non le donne, non gli autografi o gli sponsor.
Soltanto io, un
pallone e un vecchio campetto da calcio.»
In
quel momento pensai che se fossimo stati in un altro luogo, in un altro
momento, se lui non fosse stato Simone Sogno ed io non avessi la sua
causa per
dubbia paternità che oscillava pericolosamente sulla mia testa… beh,
forse se
non fossimo stati noi, avrei potuto amarlo.
Forse.
Iniziò
a piovere in quel momento, proprio quando c’era l’occasione per
parlare, per
dire qualcosa e finalmente affrontare il famoso discorso del Capodanno.
Evidentemente nemmeno madre natura era dalla mia parte.
«Cazzo!» imprecò
Simone, coprendosi con il bavero del cappotto.
«Dobbiamo
tornare alla macchina!»
urlai.
Lui
mi afferrò la mano e cominciammo a correre, ma in direzione opposta a
dove
avevamo parcheggiato la Cinquecento.
Non
sapevo dove mi stesse portando e non avevo nemmeno il fiato per
chiederglielo.
La pioggia aveva cominciato a penetrare sui vestiti, bagnandomi fin
dentro le
ossa. Corremmo sotto l’acqua, slittando con gli stivali sulla neve e
sul
ghiaccio che c’erano ancora per la strada, finché non imboccammo un
vicolo.
La
stretta di Simone era sempre forte, ma il fiato cominciava a
scarseggiare.
Avevo
i capelli appiccicati al viso e l’acqua che mi galleggiava nelle
scarpe. Odiavo
essere così bagnata ma vivendo a Londra da quasi quattro mesi, ci avevo
fatto
un po’ l’abitudine.
«Ehi…
aspe-aspetta!»
esalai, cercando un modo di farlo fermare. D’accordo che lui era
allenato, ma
io non muovevo un passo dal liceo ormai.
Simone
rallentò, ma continuò a camminare tirandomi dietro. «Siamo quasi
arrivati,»
disse.
«Ma dove?» sbottai io,
stufa.
Dopo
aver girato a destra due volte e un’ultima a sinistra, in un piccolo
vicolo
poco illuminato ma grazioso, c’era una locanda. Le gocce di pioggia
erano
poche, i tetti fitti, ma l’umidità e la temperatura di quella giornata
mi
fecero rabbrividire.
Simone
mi sorrise e mi condusse all’interno del locale.
Un
caldo tepore mi invase appena misi piede lì dentro, avvolgendomi come
un
abbraccio caldo di una madre. Il campanello tintinnò al nostro
ingresso, così
una donna corpulenta e piuttosto bassa, con le tipiche guance rosse
anglosassoni ci accolse con un sorriso sincero.
«Benvenuti alla
Blue Rose,» disse
accogliente. «Cosa
posso fare per voi?»
Notò
subito le condizioni pietose in cui eravamo, così si adoperò
immediatamente per
portarci due calde coperte di pile.
«Oh Cielo,
questo tempaccio!»
protestò, attizzando il fuoco con qualche altro ciocco di legna. «Non ci voleva
proprio un temporale così, soprattutto con la neve dell’altro giorno!»
«Le previsioni
non avevano detto…»
intervenni.
«Tesoro, ormai
noi inglesi non diamo più retta a quello che dice il televisore,» ridacchiò.
Rimasi
sorpresa. «Come
fa a sapere che non sono di qui? È per l’accento?»
Simone
mi guardò sorridente, senza aggiungere nulla.
«Senza offesa,
tesoro,»
mormorò la donna. «Ma
in settantadue anni di vita, so riconoscere la mia gente. Inoltre, il
tuo
inglese è perfetto. Penso sia una questione di pelle,
non so come spiegarlo. E poi le abitudini…»
«Invece lui è
inglese?»
chiesi, indicando Simone.
Non
sapevo se la donna seguisse il calcio, oppure avesse visto Simo su
qualche
rivista. Tentai ugualmente.
La
signora rotondetta mi sorrise. Una volta aveva i capelli rossi, i suoi
tratti
somatici me lo suggerirono anche attraverso quella semi-oscurità.
«Sei così
dolce, tesoro. Mr. Sogno è fortunato ad averti trovato,» sorrise.
«Allora lo
conosce!»
esclamai, riferendomi al fatto che probabilmente lo avesse visto in
televisione, anche se aveva detto che non seguiva molto i programmi.
Sentii
la risata di Simone uscire così sincera e limpida, da riscaldarmi.
«Da quando
aveva due anni, credo,»
sospirò la donna. «E
anche allora era un piccolo sciupafemmine!»
Rimasi
lievemente perplessa. «Vuol
dire che…?»
azzardai.
Finalmente
Simone si sentì in dovere di intervenire. «Ti presento mia nonna Eleonor.»
La
donna subito mise le mani sui fianchi. «Quante volte ti ho detto di non
chiamarmi nonna? Mi fai sentire vecchia, ma sono nel fior fiore dei
miei anni!» trillò
estasiata.
Quindi
era l’altra nonna di Simone, quella materna. La nonna inglese.
«Tanto piacere.
Io sono Venera,»
dissi, porgendole la mano.
Lei
me la strinse e mi invitò ad abbracciarla. Mi sentii lievemente in
imbarazzo,
ma non mi sottrassi a quel gesto, non potevo. Io che i nonni non li
avevo più.
«Tanto piacere,
Vennie,» ridacchiò l’anziana signora. «Che ne dite di
fermarvi qui, eh? L’inverno Aton diventa un posto desolato e alla Rosa Blu non c’è quasi mai nessuno.
Inoltre è quasi buio ed è pericoloso tornare a Londra con il maltempo.»
Stavo
per protestare, quando Simone bloccò le mie parole sul nascere.
«La solita
stanza?»
sorrise.
La
donna gli restituì lo stesso gesto con malizia. «La numero sei.» E andò a
prendergli un mazzo di chiavi dall’aspetto piuttosto vecchio.
Con
“solita” cosa aveva voluto dire? Che ci portava tutte le sue
sgualdrinelle? Che
sua nonna coprisse le scopate clandestine che si faceva con le
giraffone per
non destare scandalo?
Il
mio Cervello cominciò a farsi i peggiori filmini. Nemmeno Federico
Fellini lo
avrebbe eguagliato.
Salutai
la nonna e ci incamminammo verso una stretta rampa di scale. Diciamo
che la
visuale del sedere di Simone che ondeggiava davanti al mio visto, aveva
momentaneamente dissipato ogni problema precedentemente sorto.
Tra
cui il famoso Capodanno.
«Questo posto
cos’è? Il locale segreto dove porti le tue amanti?» chiesi,
provocandolo volontariamente.
Simone
non rispose. Si limitò a infilare la chiave nella toppa e a girarla,
aprendo la
porta e facendomi entrare. Nel mentre, tirai fuori il cellulare dalla
borsa per
avvertire Celeste che non saremmo tornati.
Aprii
la casella dei messaggi, ma mi bloccai.
Cosa
avrei potuto scriverle? Era ovvio che tutto ciò sembrasse fin troppo
ambiguo,
proprio quando la mia migliore amica aveva conosciuto James.
Fu
di punto in bianco che Simone mi afferrò il cellulare. «Ehi!» protestai.
Lo
spense e se lo infilò in tasca. «Non manderai messaggini romantici
a quel baccalà in giacca e cravatta.»
Roteai
gli occhi al cielo. «Stavo
avvertendo Celeste che non saremmo rientrati, testone!» ringhiai. A
volte era proprio un moccioso.
Simone
ghignò ugualmente. «Meglio
se non lo sanno, così si faranno strane idee su di noi,» mi provocò.
Arrossii
d’istinto, ma abbassai prontamente lo sguardo per nasconderlo.
«Tra noi non
c’è nulla, e nulla da nascondere,» dissi chiara.
Ovviamente
lui nemmeno mi ascoltò. Anzi, si tolse la coperta, il cappotto e
cominciò
lentamente a spogliarsi. Un po’ troppo
lentamente.
E
mi fissava.
«Hai capito
male,»
misi subito le cose in chiaro. Non poteva rapirmi, farmi conoscere sua
nonna e
dopo pretendere di fare sesso senza che nessuno sapesse dove fossimo.
E
dovresti dirgli anche di James.
Ecco!
«Io mi sto solo
spogliando per fare una doccia calda e rilassante. Vuoi unirti?» mi chiese.
«No!» ringhiai, poi
mi misi seduta di peso sul letto –che ovviamente era matrimoniale.
Simone
allora si liberò del maglione, della maglietta sottostante,
appoggiandoli ad
una poltrona, poi cominciò a slacciarsi i jeans.
Anche
se le sue nudità non erano una novità per la sottoscritta, ed era dura
anche
ammetterlo, riusciva sempre a colpirmi. Era perfetto, in ogni cosa.
Nemmeno
Michelangelo con il suo marmo e il suo scalpello avrebbe potuto
riprodurre
qualcosa di meglio.
«Lo rivuoi, il
tuo telefono?»
mi chiese, facendomelo dondolare davanti agli occhi.
Era
rimasto in boxer. Quelli arancioni a pois viola che gli aveva regalato
Sofia
per Natale. Il pensiero di aver riconosciuto i suoi indumenti intimi
per un
nanosecondo mi terrorizzò.
«Dammelo,» gli intimai.
Simone
sfoderò quel sorriso sghembo che tanto odiavo, poi allargò l’elastico
dei boxer
e ci fece cadere dentro il blackberry.
Ero
ufficialmente fottuta.
«Ora vienilo a
prendere,»
sghignazzò ed io maledissi quel tempaccio di merda fino alla fine dei
miei
giorni.
Bene, bene, bene!
Ce l'ho fatta a pubblicare! #dovevaabdicareilpapaperchéciriuscisse ma
ce l'ho comunque fatta! Dopo mesi e mesi di estenuante attesa, ora
potete sapere cosa è successo ''dopo'' il fattaccio dello
scorso capitolo. Mi sono anche prodigata a rispondere a tutte le
recensioni arretrate #bravaragazza, nonostante ho dovuto smollare una
marea di esami e recuperare gli episodi delle millemila serie tv che
seguo ù_ù
*magari se ne seguissi di meno*
*magari se ti facessi gli affaracci tuoi*
Dopo questo teatrino, mi ritiro prima che mi internino al manicomio più
vicino. Sono davvero felice che nonostante i miei ritardi (mentali) nel
pubblicare voi fanZZ-tunZ vi fate comunque sentire, sia qui, sia nel
gruppo facebook (Crudelie).
Grazie davvero.
Mi ritaglio un ultimo pezzettino *angolo pubblicitario* per segnalarvi
due storielle pubblicate di recente:
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Capitolo 19 *** Capitolo 17 ***
Il
telefono ovviamente era stato requisito e portato nel bagno, dove ora
si
sentiva lo scrosciare intenso dell’acqua della doccia. Me ne stavo
spaparanzata
sul letto, udivo i tuoni in lontananza che squarciavano il cielo e
pensavo.
Pensai
a quello che stava succedendo.
Ricordai
i primi giorni a Londra, quando mi ero appena trasferita in via
definitiva. Mi
ricordai del caos della Tube, del mio piccolo appartamento a soqquadro,
delle
corse per arrivare in tempo in ufficio.
Sembrava
una vita diversa da quella che avevo ora.
La
fine del vecchio anno si avvicinava inesorabile e mai mi ero sentita
così
ansiosa che ciò non accadesse. Ero partita decisa con l’intenzione di
mettere
fine a quella specie di tresca che si era instaurata tra me e il
calciatore –
cliente, tra l’altro – e di metterlo immediatamente al corrente
dell’appuntamento con James.
Avevo
fallito su entrambi i fronti.
Mi
alzai in piedi decisa ad ignorare quei pensieri che avrebbero
altrimenti finito
per mandarmi ai pazzi, così cominciai a girare per la stanza a grandi
passi,
cercando qualsiasi cosa da fare. Fuori era buio e le verdi campagne del
Sussex
venivano illuminate di tanto in tanto da uno sporadico lampo che
squarciava il
cielo.
Raggiunsi
il davanzale e vi posai le mani sopra.
Mi
cadde lo sguardo sui vestiti di Simone abbandonati malamente sulla
sedia lì
accanto, accartocciati come giornali vecchi. Sbuffai e roteai gli occhi
al
cielo, per poi cominciare a piegargli i pantaloni e tentaredi lisciarli
il più
possibile.
Neanche
fossi sua madre, mamma mia. Gli ci voleva la balia ventiquattr’ore al
giorno!
Non
appena afferrai il maglioncino a righe firmato Ralph Lauren, una
zaffata di
profumo mi assalì le narici ed io rimasi completamente pietrificata.
Era la
stessa, identica fragranza di quella notte, di quando smise la maschera
del
calciatore arrogante, di quando aveva, per un attimo, fatto crollare il
muro.
Senza
pensarci, lo avvicinai alle narici, quasi guidata da quell’odore pieno
di
ricordi.
«Stai annusando
il mio maglione?»
mi sorprese la voce di Simone ed io sobbalzai per lo spavento.
Si
era mosso furtivo, quasi come una pantera. Non mi ero minimamente
accorta che
la porta del bagno si fosse aperta.
Presa
in contropiede, strinsi tra le mani l’indumento incriminato.
Dovevo
inventarmi una scusa alla svelta, oppure avrei segnato la mia fine.
Secoli e
secoli di prese in giro made in Simone Sogno.
Non
sarei sopravvissuta alla prima settimana.
«Certo che no!» sbottai,
forse un po’ troppo forte. «Stavo
solo controllando che fosse 100% cotone. Sai, queste cose sintetiche
possono
far irritare la pelle…»
e cominciai a rigirare il maglione tra le mani.
Simone
mi fissò esterrefatto. «Davvero
pensi che me la beva?»
Ovviamente
no. Certo, Mr. Furbetto non poteva credere alla cazzata del secolo.
Sbuffai e
lanciai il maglione sulla poltrona. «Credi quello che vuoi,» tagliai
corto, pur di non dargliela vinta.
Era
chiaro che avessi mentito, ma per principio non gli avrei mai dato
ragione. Si
era trattato solo di una debolezza, di qualcosa di incontrollato. Non
si
sarebbe mai più verificato un evento del genere, questo era certo.
Voltai
lo sguardo per incrociare il suo e mi accorsi solo in quell’istante il
mini-mini-mini-davveromini asciugamano, praticamente un insulto agli
asciugamani, fissato alla vita di Simone. Era ciò che avrebbe dovuto
coprirgli
il Santonoré, ma che falliva
miseramente il suo intento.
Ovviamente
lui ghignò soddisfatto, come se lo avesse fatto di proposito.
Lo
ha fatto di proposito.
Ma
va?
«Vorresti un
assaggino di Simo tuo, eh?»
ridacchiò soddisfatto, slacciandosi lentamente il nodo. «Basta una
parola, e lo lascio cadere…»
L’Ormone
si svegliò d’improvviso, pregandomi in ginocchio di parlare.
Tentai
di fare forza su me stessa, perché lo avevo accontentato fin troppo,
impelagandomi in quell’incresciosa situazione.
«Tieni a freno
il fagiolino laggiù,» gli intimai
tagliente.
Lui
mi fissò stupito e si risistemò l’asciugamano. «È tornata la Regina Delle Nevi,» asserì. «Sei più
divertente dopo un orgasmo.»
Linciai
Simone con uno sguardo che avrebbe incendiato mezza foresta pluviale. «Dobbiamo
parlare, se ben ricordi.»
Fu
allora che Simone, in barba al suo corpo ancora umido della doccia, si
spaparanzò sul letto, incrociando le braccia dietro la nuca e
fissandomi
sorridente. «Parliamo,
allora. Anche se con questo,»
e indicò il suo corpo. «Potremmo
fare molto altro.»
Roteai
gli occhi al cielo e mi sedetti sulla sponda opposta del letto, il più
lontano
possibile da lui.
Per
non cadere in tentazione.
Amen.
Rimanemmo
però in un imbarazzante silenzio. Avrei dovuto trovare le parole adatte
per
quello, per introdurre la faccenda di James e spiegare il perché
continuassi ad
oscillare tra l’uno e l’altro senza mai decidere.
«Dobbiamo
smetterla,»
cominciai, decisa. Simone arcuò un sopracciglio. «Smettere con tutto questo, col
vederci al di fuori delle questioni che riguardano l’ufficio,» precisai.
Lui
scrollò le spalle. «Pensavo
fossero degli extra concessi dalla Abbott&Abbott.»
«Cretino!» ringhiai. «Fai il serio
per un momento.»
Simone
allora tornò quella persona che di rado riuscivo a scorgere. Quella di
quando
c’era il padre, di quando doveva affrontare le sue partite, quel
ragazzo che
forse era il vero Simone Sogno.
«Va bene,» disse
solamente, con un tono menefreghista. «Per me possiamo anche far finta
che non sia
successo nulla. Sai quante
volte l’ho fatto.»
Rimasi
estremamente delusa da quella sua risposta.
Certo
non mi sarei aspettata i pianti disperati o i vani tentativi di
concedergli una
seconda occasione, ma quella risposta fu uno schiaffo in piena faccia.
È
evidente che ti ha soltanto
usata.
Lo
sapevo, eppure ci rimasi male.
Una
strana sensazione di fastidio cominciò ad impossessarsi del mio corpo,
e non
riuscii a sopprimerla. Avevo voglia di urlargli addosso, di dirgli
quanto
potesse essere immaturo e stupido questo suo comportamento, però mi
feci forza
e tacqui. In fondo era ciò che volevo: separarmi da Simone.
«Perfetto,» sentenziai. «Allora non ha
alcuna importanza se ti dico che a Capodanno andrò alla villa di James,» buttai fuori
in un sol colpo.
Era
una granata pronta ad esplodere, me lo suggerì lo sguardo di fuoco del
calciatore.
Strinse
la mascella. «Fai
come cazzo ti pare.»
Mi
presi quella piccola rivincita e nel frattempo riuscii finalmente a
confessargli
quel piccolo “segreto” di James, se così si poteva chiamare.
«Mi farò vedere
al locale prima della mezzanotte. Me l’ha promesso,» spiegai,
arrivando poi al punto in cui avrei dovuto convincerlo ad andare
comunque,
altrimenti Sofia mi avrebbe ammazzata.
Simone
scrollò le spalle e si alzò dal letto con stizza. «Non devi dirlo
a me. È mia sorella che ci tiene.»
Camminò
lungo tutta la stanza, soffermandosi davanti una cassettiera. Ne prese
un bel
pigiama lungo, di seta sembrava, e cominciò a slacciarsi l’asciugamano
in vita.
Stavo
per fermarlo, o almeno per coprirmi gli occhi, quando la stoffa umida
cadde sul
pavimento di parquet.
Cercai
di non far indugiare il mio sguardo sulle natiche sode o su quelle
spalle nude
e possenti. Ovviamente fallii su tutta la linea.
Simone
indossò i boxer puliti che aveva afferrato dal comò e il pigiama,
sempre
dandomi la schiena, senza parlare. Non c’era nulla da dire e
nient’altro da
aggiungere. Finalmente avevo ottenuto ciò che volevo, una pausa da
tutto quel
tornado di avvenimenti che mi aveva travolta.
«Ho promesso a
Sofia che dovrai esserci al locale la notte del 31,» aggiunsi,
sperando non mi lanciasse qualcosa in faccia.
Lui
si limitò ad indossare la maglia del pigiama che gli spettinò ancora di
più
quei capelli ribelli che si ritrovava, poi mi sorrise. «Ti pare che mi
possa perdere un’occasione per rimorchiare?»
Assottigliai
lo sguardo. «C’è
sempre quel piccolo accordo di non correre dietro alle gonnelle fino a
processo
concluso…»
gli ricordai.
«Ovviamente
esclusa la tua, di gonnella,»
commentò lapidario.
«Io porto i
pantaloni,»
replicai.
Rimanemmo
in silenzio a fissarci reciprocamente, senza aggiungere altro. C’era
della
tensione irrisolta tra di noi, che era sfociata in qualcosa di fisico e
penosamente immaturo. Ci ero cascata un paio di volte, ci eravamo
divertiti,
okay. Ora basta, sarei tornata alla realtà.
Stai
convincendo me, oppure te
stessa?
Entrambi.
Dovevo
farlo per forza, altrimenti non sarei sopravvissuta. Era troppo
difficile per
me relazionarmi a qualcuno, figurarsi un calciatore che aveva ancora il
cervello di un quattordicenne.
Simone
si infilò sotto le coperte, voltandosi dalla parte opposta alla mia.
«Non mi hai
ancora detto cos’è questo luogo,» gli chiesi, cercando di fare un
po’ di conversazione.
Mi
serviva una distrazione per non pensare al fatto che avremmo passato la
notte
insieme, di nuovo, dormendo e basta.
Lo
sentii sbuffare annoiato. «È
una pensione. Cosa c’è da capire?»
In
quel momento lo avrei volentieri preso a cuscinate. «Grazie, genio!
Intendevo perché tua nonna ti riserva questa stanza. Ci porti forse le
tue
giraffone preferite? È una sottospecie di bordello non autorizzato?» ipotizzai.
Simone
si voltò di scatto e mi fissò malissimo. «Nonna Eleonor è una donna
rispettabile,»
ringhiò.
Alzai
le mani in segno di scuse. «Stavo
solo scherzando, calmati.»
Il
calciatore allora distese i nervi e posò la testa sul palmo, con
l’avambraccio
piegato. Mi fissava con quegli occhi neri così dannatamente espressivi.
Sembravano scuri tanto quanto il cielo di quella notte.
«Non è un luogo
di perdizione come pensi tu,»
iniziò sospirando, poi si distese a guardare il soffitto. «Diciamo che i
primi tempi in cui divenni famoso, non sopportavo tutta la pressione
che mi
faceva Gabriele, i giornalisti, l’allenatore e i fans. Allora, di tanto
in
tanto, prendevo la macchina e mi rifugiavo qui ad Aton, da nonna
Eleonor. È una
sorta di scappatoia dalla realtà. Soddisfatta?»
No.
Non ero per nulla soddisfatta.
Il
vedere questo Simone mi rendeva
ancor
più inquieta rispetto a quando l’avevo conosciuto. Sarebbe stato tutto
più
semplice se lui fosse stato quello proprio ciò che appariva. Invece no.
Quando
tirava fuori questo suo lato più maturo, lo detestavo.
«Non era la
storia che mi aspettavo,»
ammisi, delusa.
Simone
sbuffò. «Trai
sempre conclusioni affrettate e spari giudizi su tutti prima di
conoscerli,» mi ammonì
subito.
Stava
cominciando a farmi la morale?
«Non è vero!» protestai.
Fu
allora che incrociai di nuovo il suo sguardo. «Allora credi ciò che vuoi. Non
fai altro che sparare sentenze su qualsiasi persona tu conosca. Sei
proprio un
avvocato nell’anima.»
«Perché forse
tu non sei viziato e arrogante? Non sei un bambino capriccioso e
immaturo?
Correggimi se sbagli,»
lo pungolai.
C’era
un limite a tutto. Voleva la guerra? Beh, l’avrebbe avuta.
«Non ti
correggo, è vero. E ne vado fiero,» asserì sicuro. Era
stramaledettamente insopportabile questa sua arroganza e spavalderia.
«Sei
irrecuperabile,»
sbuffai.
«E te sei
lunatica.»
Sgranai
gli occhi esterrefatta. «Prego?»
«L.U.N.A.T.I.C.A.» sillabò lui. «Significa che
cambi idea ogni tre secondi, che sei volubile come un’ape.»
«So cosa
significa, idiota. E poi che c’entra l’ape?»
Simone
ghignò. «Voli
di fiore in fiore,»
alluse maliziosamente.
Rimasi
a fissarlo con gli occhi socchiusi che mandavano saette intimidatorie.
Come si
permetteva di appellarmi a quel modo? Lui che cambiava ragazza più
spesso di
quanto si lavasse i denti!
«Senti chi
parla,»
lo apostrofai.
«Beh, io almeno
lo ammetto. Tu fai tutta la santarellina, poi mi usi e mi getti via.
Hai
spezzato il mio tenero cuoricino, sai?» ridacchiò.
«Certo, come
no,»
bofonchiai.
Simone
allora si chinò a terra e raccolse un oggetto che poi mi porse. Era il
mio
telefono cellulare.
«L’hai
sterilizzato?»
gli chiesi con una smorfia.
Lui
ridacchiò. «Tranquilla,
se avessi qualche malattia te la saresti già beccata.»
Era
un ovvia allusione a quello che avevamo fatto, ma la sottoscritta era
superiore
e avrebbe sorvolato.
Per
ora.
Afferrai
il cellulare e lessi i cinque messaggi che lampeggiavano sul display a
cristalli liquidi. Si trattava di due chiamate perse da Celeste, una da
Sofia e
ben due messaggi in segreteria. Chiamai il 42050 e li ascoltai.
Simone
non la smetteva di fissarmi divertito.
Il
primo messaggio mi fece sussultare all’improvviso. Era la voce di James.
Ciao
spaghetti-girl! Dove sei
finita? Ho provato al tuo appartamento, ma Celeste mi ha risposto che
avresti
passato la notte fuori. Nemmeno lei sapeva dove ti trovassi. Stai per
caso
facendo la vagabonda? Sentii una risata imbarazzata.
Chiamami
appena senti questo
messaggio
Poi ci fu il bip che segnalava la fine
della telefonata.
Simone
grugnì infastidito. «Ma
non ti scoccia la sua pedanteria?» commentò. «Si accolla…»
Lo
linciai con un’occhiataccia. «Almeno
lui dimostra che ci tiene, a differenza di qualcun altro,» sibilai,
alludendo ovviamente al suo comportamento perennemente menefreghista.
Simone
alzò un sopracciglio e indicò il telefono. «Davvero vorresti uno che ti
scassa le palle continuamente come Mr. Avvocatuncolo?» mi chiese
esterrefatto.
Ignorai
quel pensiero e ascoltai il secondo messaggio.
Era
Cel questa volta.
Amica!
Si può sapere che fine hai
fatto? Leonardo sta vagando da ore e ore su e giù per la cucina perché
il
frigorifero è vuoto. Credo che andremo a cena fuori, tu cosa fai?
Chiamami.
Mi
sentii in colpa per non aver avvertito la mia migliore amica, ma più di
tutto
sentii una rabbia montarmi dentro perché era unicamente colpa di quel
marmocchio infantile che ora sedeva accanto a me.
«Devo fare
alcune telefonate,»
dissi perentoria, alzandomi dal letto e dirigendomi verso il corridoio.
«Ed è
necessario uscire dalla stanza?»
mi chiese lui sospettoso.
Ignorai
palesemente quel commento infimo. Posai la mano sulla maniglia della
grande
porta laccata di bianco e mi precipitai all’ingresso.
Simone
si alzò a sedere sul materasso e mi fissò ombroso. «Detesto quando
fai così,»
mugugnò.
«Così come?» chiesi
dubbiosa, prima di accostare l’infisso.
Simone
sospirò. «Quando
mi nascondi le cose.»
Ignorai
quella punta di delusione che lentamente si stava facendo strada nel
mio petto
e non gli risposi. Mi limitai a socchiudere l’uscio e ad avvicinare il
cellulare all’orecchio prima di voltare le spalle alla stanza numero 6.
Meglio
così, tanto avete tagliato
i ponti giusto?
Giustissimo.
Finii
il mio giro di telefonate quando ormai l’orologio da polso segnava
mezzanotte e
ventitré. Dopo un lungo e umido sbadiglio, decisi che era venuto il
momento di
meritarmi un po’ di riposo, così rientrai nella stanza prenotata da
Simone e mi
diressi verso il grande letto matrimoniale.
Avremmo
dovuto dormire insieme, a quanto pareva, ma questa volta non fui tanto
polemica.
Per
ovvi motivi.
Soppressi
i pensieri del mio Cervello e mi tolsi il maglione, optando per la
maglietta a
maniche lunghe che indossavo sotto e un paio di culotte post-ciclo che
mettevo
unicamente per spaventare eventuali maniaci.
Simone
dormiva profondamente.
Mi
mossi furtiva e scostai le coperte per poi prepararmi ad una lunga
notte di
sonno. Dovevo ammettere che il caso che stavo seguendo mi stava
succhiando
parecchie energie, per non contare i litigi estenuanti con Simone a
causa di
James, della sua famiglia, poi di nuovo James, Leonardo, Sebastian e
tutto il
mondo contro cui litigava ogni giorno.
Posai
la testa sul cuscino e mi rivolsi verso di lui. Era di schiena, ma
anche se non
potevo vederlo riuscii ad immaginare perfettamente il suo volto
rilassato.
L’avevo visto dormire tante di quelle volte da quando condividevamo lo
stesso
appartamento, eppure quel pensiero non mi fece vergognare.
Sapevo
di doverla pensare diversamente, anzi, di non dover pensare affatto.
Purtroppo
mi aveva fatto qualcosa quel marmocchio, una specie di macumba.
È
riuscito a scavarsi un piccolo
rifugio dentro di te.
Sì,
ma devo riuscire a farlo sloggiare.
«Possibile che
devi essere così?» sussurrai.
Allungai
una mano soltanto per stiracchiarmi, per distendere la schiena che era
completamente annodata a causa della tensione di quei giorni. Rivolsi
lo
sguardo al soffitto e chiusi gli occhi. Immediatamente si materializzò
davanti
al mio viso il volto sorridente di James.
Il
mio cuore cominciò a battere all’impazzata e forse quello fu un chiaro
segno di
come si sarebbero svolte le cose di lì in futuro.
James
era davanti a me, era l’uomo della mia vita. Lo sapevo, ne ero certa.
Anche
se Simone dormiva nel mio stesso letto, anche se le sue mani erano
state in
punti del mio corpo che avevo permesso a pochi di raggiungere, anche se
quando
ero con lui, spesso e volentieri il resto del mondo si fermava, anche
se tutto
questo mi legava profondamente a lui, sapevo
che il mio futuro era con James.
Era
come quando leggevo un libro e sapevo già come sarebbe andato a finire.
La
mia storia era già scritta, mancava solamente la parte centrale.
Aprii
nuovamente gli occhi, sentendo che la stanchezza volava via con la
stessa
velocità con cui mi aveva appesantito le membra. Tutta la stanza
profumava di
Simone. Sentivo il suo odore sul cuscino, sulle federe, ormai anche su
di me.
E
lo detestavo.
«Non riesco
nemmeno a dormire. Bene,»
bofonchiai acida.
«Se non la
smetti di cianciare, non riesco nemmeno io,» brontolò il calciatore.
Sussultai
a quella risposta perché non mi aspettavo che fosse sveglio. In quel
preciso
istante desiderai sotterrarmi, scavarmi una tomba e poi seppellirmi al
suo
interno.
«Scusa,» dissi
solamente, mortificata.
Sentii
Simone agitarsi nel letto e poi voltarsi nella mia direzione, aprendo
quei
meravigliosi pozzi scuri che erano i suoi occhi d’ebano.
«Non puoi
cambiarmi, se è questo che intendevi prima,» disse sicuro.
«Cosa?»
Sbuffò.
«Prima
mi hai chiesto perché devo essere così.
Ebbene, non voglio cambiare. Mi piace come sono e non intendo
modificare nulla.
La perfezione ormai è insita nel mio stesso essere. O prendi tutto il
pacchetto, o niente.»
La
risposta era fin troppo ovvia. «Credo
che opterò per il “niente”, grazie. Buonanotte,» tagliai corto.
Simone
allora grugnì infastidito da quella mia imposizione, poi avvertii le
sue mani
che si facevano strada, senza alcun timore, verso i miei fianchi.
Spalancai
gli occhi e lo fissai furibonda. «Che cazzo
pensi di fare?» lo ammonii.
«Dormo, mi
sembra ovvio,»
commentò lui, sbadigliando subito dopo.
Mi
beai di tutta la sua giugulare, fino alle tonsille. «E queste?» ringhiai,
indicando le sue manone avvinghiate
attorno ai miei fianchi coperti appena da quelle culotte in puro stile
Bridget
Jones.
«Sono abituato
a dormire con un corpo di donna schiacciato contro. Anche se il tuo non
può
nemmeno avvicinarsi a quello di Francine o Bernadette… per stavolta mi
accontento,»
sorrise.
Ovviamente
si meritò un ceffone ben assestato su quell’enorme testone.
«Ahi! Ahi!
Okay!»
protestò, alzando le mani. «Pensavo
fosse un premio d’addio.»
«Ti do un
calcio come regalo, va bene?»
lo minacciai. «Rimani
al tuo posto.»
Simone
non la finiva di fissarmi con quel solito ghigno arrogante in volto, ma
io
tentai di ignorarlo.
«E ora dormi,» ordinai.
«Va bene,
mammina,»
ridacchiò lui.
Il
giorno dopo mi ritrovai stretta in una morsa d’acciaio, completamente
spalmata
contro il corpo di Simone.
Maledetto
moccioso.
***
«Dove passerai
il capodanno, eh, Ven?»
domandò la voce acuta e petulante di Yuki.
Stavo
riordinando delle pratiche per conto di Mr. Abbott quando me l’ero
ritrovata
alle spalle come un avvoltoio pronto a colpire.
O
a nutrirsi della tua carcassa.
«Con degli
amici,»
risposi distrattamente.
Era
incredibile la quantità di doppie copie che ogni cartelletta conteneva,
così mi
era stato chiesto di ridurre drasticamente la quantità di carta
straccia e
mettere un po’ d’ordine nell’archivio.
«Io sono
invitata ad un party a Londra, alta società... non puoi capire,» sospirò,
sistemandosi i capelli dietro le orecchie elfiche.
«Mh…» commentai
distrattamente.
«Chissà, magari
riesco ad incrociare James.»
Sussultai
a quel nome e mi voltai alla ricerca degli occhi a mandorla della
Giapponese. «Come?»
Lei
sorrise melliflua. «Pensi
davvero che, essendo la sua assistente, lui abbia dei favoritismi nei
tuoi
confronti?»
ridacchiò. «Mio
padre ha detto che Jamie è uno dei rampolli della famiglia Abbott,
erede di
quasi tutto il patrimonio della famiglia. Ergo, un pesce appetibile per
i
Nakatomo.»
Ovviamente
si riferiva alla sua facoltosa famiglia.
Cercai
di sorvolare, anche perché per un attimo avevo avuto il sentore che la
ragazza
conoscesse il mio segreto.
«Auguri,» smozzicai,
tornando ad occuparmi delle pratiche.
Fare
finta di niente era il mio secondo mestiere. Sapevo nascondere le mie
paure e i
miei sentimenti fin quasi a credere di non provarli nemmeno. La tecnica
del
“muro” funzionava alla perfezione in questi casi delicati.
Il
problema sorgeva quando tale barriera veniva abbattuta.
«E con il
calciatore come ti va?»
s’impicciò la Giapponese.
Sbuffai
infastidita. «Simone
è un mio cliente, come devo ripetertelo?» ringhiai. «シモーヌは私のクライアントである. Va meglio?»
Yuki sgranò gli occhi ed io
mi presi una
piccola rivincita. Sapevo sì e no quattro parole in Giapponese, ma
quello che
mi premeva di più era fargliela pagare.
Ringraziai mentalmente Mrs.
Chiaki – la
donna delle pulizie del vecchio palazzo –, che mi aveva costretta a
seguire un
corso on-line soltanto per comunicarle ogni volta di non allagare il
bagno.
Altri due tirocinanti
entrarono nella
stanza per accatastare altre pratiche da riordinare.
«Non finirò mai!» sbuffai incredula.
Carl sogghignò. «Il signor Abbott ha specificato di
farle
riordinare a te,» disse.
Per quale motivo dovevo
essere punita in
questo modo? Possibile che avessi dato una così cattiva impressione a
quel
meeting prima di Natale?
«Okay,» sospirai. Ormai era più che certo
che
quella sera sarei rientrata non prima delle 21.00.
Yuki mi lasciò finalmente
al mio lavoro,
portandosi dietro anche quelle altre due iene che mi avevano appioppato
tutte
quelle cartelle.
Frugai nella tasca della
giacca e afferrai
il cellulare.
Rimasi interdetta a fissare
lo schermo a
cristalli liquidi, indecisa se scrivere o meno l’SMS. Cominciai a
digitare:
faccio
tardi in ufficio. non ci sono per
cena.
L’idea
iniziale era quella di mandarlo a Simone, visto che l’ultima volta mi
era
venuto a raccattare direttamente in ufficio, eppure mi bloccai.
Come
conti di tagliare i ponti se
continui a cercarlo?
Perfettamente
logico.
Cambiai
il numero del destinatario e lo inviai a Celeste, sapendo che la mia
migliore
amica avrebbe avvertito tutti per mio conto. A cena erano stati
invitati anche
Sofia e Ruben, con nonna Annunziata, ma purtroppo avevo quel compito da
portare
a termine prima della fine dell’anno.
«Casi del 2009
a noi! Vi riordinerò come Dio comanda!» minacciai il plico di fogli.
L’orologio
indicava le 20.35 quando notai che il mucchio di scartoffie da
riordinare era
diminuito soltanto della metà. Inspirai profondamente e tentai di non
urlare.
Di quel passo mi sarei dovuta portare il lavoro a casa, e non era mia
intenzione.
«Si può?» mi chiese una
voce, facendomi voltare.
James
mi sorrise sulla soglia dell’ufficio ed io mi sentii molto più
sollevata.
«Certo,» gli dissi
esausta. «Sto
finendo questo noiosissimo riordinamento di pratiche.»
L’avvocato
mi si avvicinò e diede uno sguardo al cassetto di metallo dove erano
archiviate, in ordine alfabetico, tutte i vecchi casi risolti dallo
studio.
«Zio August ti
ha messo ai lavori forzati, eh?»
ridacchiò.
Io
sorrisi di rimando. «Sarà
una specie di punizione per non avergli risposto in modo adeguato
l’ultima
volta. L’avrò sicuramente deluso.»
James
avvicinò il suo dito indice alla punta del mio naso, accarezzandola. «Secondo me ti
sta mandando un segnale,»
disse sicuro. «Zio
August non fa mai nulla per caso.»
Guardai
esterrefatta le cartelle tra le mie mani, poi notai le fotocopie da
buttare che
avevo accatastato in un angolo della stanza.
Vuoi
vedere che…?
«Potrebbe
essere un suggerimento per il nostro caso!» trillai eccitata, tuffandomi a
pesce su quei fogli e cominciando a controllarli.
James
si sedette sul pavimento accanto a me, con le gambe incrociate.
Sembravamo dei
ragazzini con dei Lego.
«Grayson contro
Lawsheld?»
chiese lui, mostrandomi un foglio.
Scossi
la testa. «Lei
si era inventata tutto, è bastato un semplice esame delle urine,» dissi.
Continuammo
a cercare. Dopo quello che mi aveva detto Jamie, ero più che sicura che
tra
queste vecchie scartoffie ci fosse un caso analogo a quello di Simone.
Magari
sarei riuscita a risolverlo da sola, prendendomi quasi tutto il merito.
«Mc Pherson e
Carlson contro Yewitt?»
domandò ancora.
«Non penso,» sospirai. «Dobbiamo
trovare qualcosa di molto simile, che riguardi due persone
potenzialmente
famose.»
James
smise per un attimo di cercare e mi guardò. «Il giudice ha approvato il test
di paternità. Con l’inizio dell’anno Mr. Simone dovrà presentarsi in
clinica e
depositare il suo DNA.»
Non
mi aspettai quella notizia, ma tutto sommato era di buon auspicio.
«Bene!» esclamai,
posando le pratiche “inutili” in una pila diversa da quelle ancora
“utili”.
James
abbassò lo sguardo. «Già.
Sarebbe fin troppo facile se il test risultasse negativo,» commentò.
Tentai
di carpire qualcosa da quel suo comportamento. «Lo abbiamo richiesto noi, o
sbaglio?»
L’avvocato
annuì e cominciò a riordinare i documenti all’interno della
cartelletta. «Sì, è la prima
cosa da fare per togliersi ogni dubbio. Certo che…» e lasciò la
conversazione a metà.
La
pendola nel corridoio suonò le 21.30.
«Si è fatto
tardi,»
concluse infine James, alzandosi da terra e tendendomi una mano per
aiutarmi a
venir fuori da quel mare di carta stampata.
«Devo finire
qui,»
spiegai, mostrandogli l’archivio in disordine. «Non posso lasciare tutto in
questo modo. Tuo zio mi ucciderà!» sospirai.
L’avvocato
sorrise e si accucciò vicino a me. «Metterò io una buona parola per
te,»
e mi strizzò l’occhiolino.
Sorrisi
di rimando, forse un po’ nervosa. Anche se mi sarei voluta abbandonare
all’abbraccio malizioso degli occhi di James, avevo come qualcosa che
mi
pizzicava dietro l’orecchio. Non sapevo se si trattasse di irritazione
cutanea,
rosolia, zecche o quanto altro ma era davvero fastidiosa.
«Grazie
dell’offerta, ma preferisco finire,» dissi gentilmente.
James
non rimase per nulla deluso dall’essere metaforicamente respinto, anzi.
«Ci conto per
il 31,»
mi ricordò, posandomi una mano sulla guancia e spostando un ciuffo di
capelli
dietro l’orecchio. Si chinò quasi impercettibilmente a sfiorare le mie
labbra,
poi, in un fruscio di vestiti si alzò ed uscì dalla stanza
dell’archivio.
Rimasi
a fissare la porta da cui era appena uscito il giovane avvocato mentre
il mio
cervello registrava gli ultimi eventi. Dapprima mi soffermai ancora su
ciò che
era appena successo. Portai due dita alle labbra e vi sentii impresso
sopra il
calore di quelle di James.
Non
sapevo se fossi innamorata o meno, se quello si potesse in qualche modo
definire infatuazione, quello che era certo è che ne sentivo
profondamente la
mancanza.
C’era
un lato di James di cui non potevo fare a meno. Quella sua gentilezza,
i suoi
modi riservati, l’essere sempre cauto e accorto.
E
allora perché Simone?
Lasciai
scivolare via il pensiero del calciatore, prima che potessi in qualche
modo
crucciarmi più del dovuto. Era finita? Okay, perfetto.
Ci
avrei messo una pietra sopra.
Tanto
nemmeno a lui sembravo interessare. Era stato solo un gioco. Una cosa
stuzzicante.
«Bene,
mettiamoci al lavoro!»
esclamai, continuando a frugare nei vecchi casi giudiziari.
Non
mi accorsi nemmeno del tempo che passò, persa tra un Geoffrey Hummel –
donnaiolo incallito – che era riuscito a dimostrare che Miss Van Hauten
non
solo aspettava il figlio di un altro, ma che tal Tizio
non era altri che suo fratello, quando il cellulare cominciò
a vibrare insistentemente.
Cercai
di recuperarlo in mezzo al caos che regnava su quel pavimento, quando
vidi
comparire sul display il nome di Simone, ribattezzato amorevolmente Pisellino sul mio BlackBerry.
Sentii
il cuore farmi una specie di mezza capriola all’indietro.
Inspirai
forte, poi espirai e premetti il tasto “Ignora chiamata” tornando al
mio solito
impiego. L’orologio segnava le 21.55 e la pila di scartoffie non
sembrava
diminuire.
Continuai
imperterrita ad esaminare documento per documento.
Brrr
Brrr Brrr
Il
telefono ricominciò a vibrare e a muoversi per tutto il pavimento, con
più
insistenza di prima.
Guarda
se quel decerebrato capisce che deve piantarla di tormentarmi!
Magari
è solo preoccupato…
Il
mio buon senso mi mise in guardia. Più di una volta lo avevo giudicato
male e
se si fosse trattata dell’ennesima volta? Se davvero stesse chiamando
solo per
sentire se stavo bene?
Decisi
di dargli un terzo tentativo.
Ignorai
nuovamente il telefono, stavolta lasciandolo squillare a vuoto. Nel
frattempo
mi saltò all’occhio un documento interessante:
Sanders
vs Hardy
Il
giorno 09 – 10 – 2003, il giudice Henry Mills ha
liberato da ogni obbligo e vincolo di parentela Mr. Kevin Micheal
Hardy,
giocatore professionista di golf, nei confronti di miss Samantah
Juliett
Sanders, attrice riconosciuta all’Albert Hall.
Dopo
aver invalidato il test di paternità, richiesto
dagli avvocati dell’accusa, a causa
di
un’anomalia genetica presente nel corredo di Mr. Hardy e assente in
quella del
feto, il giudice Mills ha così dichiarato chiuso il caso di dubbia
paternità
Sanders-Hardy.
[…]
Era
un buon inizio da cui partire. Mi tenni a mente di chiedere a Simone o
a Sofia
se casualmente la loro famiglia soffrisse di una particolare anomalia
genetica,
o qualsiasi particolare che potesse essere utile ai fini del caso.
Brrr
Brrr Brrr
Ecco
la terza telefonata.
Ora
dovresti rispondere,
mi suggerì il caro e acuto Cervello.
Afferrai
il BlackBerry con stizza, poi premetti il tasto Rispondi. «Che c’è!» ringhiai,
infastidita da quella serie di telefonate a raffica che mi avevano
distratta
proprio quando il caso mi aveva fatto trovare quel documento così
importante.
All’altro
capo del telefono, però, mi rispose una vocina esitante. «Z-Zia Vennie?» cinguettò una
voce di bambina.
Sgranai
gli occhi quando mi resi conto che si trattava di Susanna.
Porca
di una tro… ta.
«C-Ciao tesoro…» smozzicai
imbarazzata. Cosa diavolo ci faceva col telefono di quel babbeo di
Simone?
La
bambina sembrò ritrovare più serenità. «Zio Simo mi ha detto di
telefonarti,»
mormorò tranquilla. «Mentre
ti viene a prendere ha detto di tenerti compagnia.»
«A p-prendere?» domandai
confusa.
Udii
una voce in sottofondo che sembrava suggerire le battute alla piccola. «Sì. Ha detto,» e qui finse
di imitare la voce di Simone. Tentativo buffo, aggiungerei. «Possibile che debba star via fino a
quest’ora? Cosa
vuole che le diano, la medaglia? Ora la trascino fuori di lì!»
Sorrisi
per l’intraprendenza di Susanna e me la immaginai con le guance
arrossate e
l’espressione concentrata nell’imitare alla perfezione la voce del suo
giovane
zio.
«E ti ho
telefonato per farti compagnia, mentre zio Simeone
viene a prenderti!» ridacchiò.
Mi
scappò una risata genuina. «SimEone,
eh?»
Susanna
allora riempì quella telefonata con il suono squillante della sua voce,
di
quella risata dolce che possiedono soltanto i bambini.
«Da quanto
tempo è uscito?»
le domandai, così da evitare tutto quel trambusto e tornarmene a casa
per conto
mio.
Susanna
rimase in silenzio per un po’, probabilmente rifletteva. «Da tanto
tempo. Tu non rispondevi e zia Sofi ha continuato telefonarti. Ha detto
“se
vede il numero di zio Simo, risponderà di sicuro!”» e lì aveva
imitato la voce della giovane Sogno.
«Capisco,» risposi,
maledicendo quella testaccia dura del calciatore. Che bisogno c’era di
venirmi
a prendere? In fondo avevo avvertito che avrei fatto tardi. «Allora che mi
racconti, piccola Susy?»
le chiesi, ingannando l’attesa.
Tanto
era più che sicuro che di lì a poco Simone avrebbe sfondato la porta a
suon di
testate.
O
l’avrebbe buttata giù a colpi
di arroganza.
O
di vanteria.
...perché
non di narcisismo?
La
voce della piccola mi riportò alla realtà. «Quando avrò un cuginetto?» mi domandò a
bruciapelo.
Cosa
intendeva per “cugino”?
Cosa
potrebbe mai intendere una
bambina di cinque anni, genio?
Gli
occhi mi si spalancarono e divennero grandi come piattini da caffè. «Direi che è un
po’ presto per zia Sofi e zio Ruben, no? Sono giovani…»
La
piccola ridacchiò. «No
zio Puré e zia Fofi!»
ripeté stupita. «Io
voglio un cuginetto da te e da Simeone,» e continuò a
ridere storpiando tutti i nomi.
Il
sangue mi si gelò nelle vene. Premesso che per una bambina così piccola
era del
tutto fuori luogo che si pensasse a quella parola che iniziava per S…
Ti
ha chiesto un cuginetto, non
le analisi ginecologiche.
Finsi
di ridere. «Vedremo,
vedremo…»
Vedremo un corno!
«Tu fai ridere zio Simone!» disse
sinceramente la piccola Sofi.
Rimasi
spiazzata da quell’affermazione, ma non potei approfondire perché udii
distintamente qualcuno bussare alla porta dell’ufficio.
«Tesoro, credo
sia arrivato. Ci vediamo a casa!» dissi alla piccola.
«Dai un bacio a
zio Simone. L’ho visto tritte tritte.»
Quella
sensazione di disagio andò aumentando. «Te lo prometto.» E riagganciai
la chiamata.
Mi
alzai dallo scomodo pavimento e mi diressi verso il portone. La prima
immagine
che mi si presentò davanti, attraverso la porta a vetri, fu un Simone
dall’aria
scocciata con indosso un enorme giaccone di piume d’oca, un paio di
pantaloni
della tuta e, calcato sulla testa, un berretto di pelo con le orecchie
svolazzanti.
Da
dove è uscito? Dal paese di
Oz?
Era
troppo buffo.
Soffocai
una risata nel vederlo e tentai anche di non farmi scorgere, ma i suoi
occhi
scuri mi beccarono subito.
«Muoviti che mi
sto congelando!»
Picchiettò sul vetro.
«Arrivo!» sghignazzai,
recandomi alla porta e sbloccando la serratura.
Non
appena Simone entrò all’interno dello studio Abbott&Abbott,
emise un
sospiro di sollievo che gli fece sbuffare una nuvola di fiato dalle
labbra
intorpidite.
«Cazzo, si gela
lì fuori!»
imprecò.
«Se ti fossi
vestito più adeguatamente…»
commentai, guardando soprattutto le ciabatte a forma di animale.
Lui
sbuffò. «Avevo
fretta, va bene? Ti rendi conto di che ore sono? Potevi portarti il
sacco a
pelo già che c’eri…»
Scrollai
le spalle. «Devo
lavorare, sono indietro con le pratiche,» spiegai, tornando nella sala
dell’archivio e tentando di dare almeno un po’ d’ordine a quelle
scartoffie.
Simone
mi seguì incuriosito. In fondo, che io sapessi, non era mai entrato nel
palazzo
ed ora si trovava ad esplorare quel luogo “inospitale” che denigrava
giorno per
giorno ma che gli avrebbe salvato il culo.
«Allora…» bofonchiò,
appoggiato allo stipite della porta.
Mi
voltai squadrandolo minacciosa. «Metto in ordine, poi possiamo
andare,»
dissi.
Lui
continuò a fissare le pareti interessato. «È l’ufficio del finocchio
inglese, questo?»
chiese ghignando.
E
te pareva che non mettesse in mezzo Jamie. «No. È un archivio, come vedi.» Gli indicai i
mobili dai grandi cassettoni che contenevano tutte le vecchie pratiche
archiviate.
Passò
qualche minuto di silenzio che adoperai per finire di impilare i
documenti da
rivedere. Rimisi apposto tutti quelli che non mi sarebbero stati di
alcuna
utilità.
Dopo
cinque o sei sbuffi, Simone parlò di nuovo. «Dov’è?»
«Dov’è cosa?» domandai.
Il
calciatore roteò gli occhi annoiato. «La tana del coniglio! L’ufficio
di quel rammollito, dove sta?»
Alle
volte era davvero scortese e fastidioso. Insopportabile.
«Quanto sei
palloso, mamma mia!»
sbottai, gettando le ultime cartelle nel mucchio e camminando stizzita
verso
l’ufficio del mio collega – non che capo.
Sentii
i suoi passi dietro le spalle.
Aprii
la porta girando la chiave ed entrai. Tutto era in ordine, compresa la
cancelleria sulla scrivania in mogano.
«Soddisfatto?» brontolai.
Simone
si guardò intorno incuriosito, quasi come un appassionato d’arte alla
sua prima
mostra di Dalì. Sondò il terreno con attenzione, studiando tutti i
particolari,
addirittura sfiorando i contorni dei mobili con la punta delle dita.
Quelle
dita sottili e affusolate.
Capaci
di fare grandi magie.
«Conclusioni?» insistetti,
incrociando le braccia al petto.
Simone
si fermò di fronte alla scrivania, poi mi sorrise – anzi, ghignò –
prima di
buttare tutto a terra con un semplice movimento del braccio.
«Che diav- …?» imprecai
sconcertata, ma Simone colmò brevemente la distanza tra di noi,
tirandomi per
la giacca e gettandomi di peso sul tavolo di legno.
Il
suo corpo mi fu sopra in pochi secondi, così come quelle
mani sulla vita della gonna.
«È da una vita
che sogno di farlo qui sopra,»
disse, poi si avventò sulle mie labbra.
Okay, potete ufficialmente uccidemi *si offre volontaria come tributo!*
(HG quotes).
Scherzi a parte, HO AGGIORNATO! 1) Perché ho iniziato a scrivere il
capitolo 2O e quindi tento sempre di mantenere uno o due capitoli di
distanza per quando ci sono giorni di "magra" e 2) Perché è quasi
Pasqua e mi pareva brutto XD
Tra un pochito vado a rispondere alle recensioni arretrate, che sono
TANTERRIME *.*, dovrei farlo volta per volta, ma sono pigra #js
Comunque! Insomma questi due sono un continuo tira e molla, ma alla
fine dei conti finiscono sempre per avvinghiarsi l'uno all'altro come
polipetti! E come biasimarli? Sono così pucci-pucci. Dunque, spero
proprio che questo con questo capitolo mi sia guadagnata la vostra
clemenza #spero e che mi diate un po' di respiro!
UHAAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH (tranne nessa e rosie che sono le mie stalker
personali :3)
Bai Bai!
Alla prossima!
Non dimenticate di passare qui dove vi aspetta l'ultimo capitolo
di Come in un Sogno (manca solo l'epilogo #sob).
Basiotti! E auguri per chi è credente (io no LOL) <3
|
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Capitolo 20 *** Capitolo 18 ***
CAPITOLO 18
betato
da quella Tonna paziente di nes_sie
Mi
svegliai di soprassalto con la strana sensazione di essermi persa
qualcosa.
Avevo ancora la mente annebbiata e confusa dagli avvenimenti del giorno
prima,
soprattutto riguardo a quelle pratiche che ancora dovevo mettere in
ordine.
Sentivo
attraverso le ossa la spiacevole sensazione di aver tralasciato
qualcosa di
importante. Ma cosa?
Fatti
una cura di fosforo!
Già,
come nonna Gelsomina mi raccomandava sempre.
Ripiombai
con la testa sul cuscino, voltandomi e ritrovando i contorni del
tiepido
salotto dell’appartamento. Non ricordavo nemmeno di esserci arrivata la
sera
prima, l’unico flash che la mia mente ancora assonnata mi permetteva di
metabolizzare era un sonoro e piacevole ceffone che avevo rifilato a
Simone.
Mi
crogiolai nel suono echeggiante dello schiocco sulla sua pelle e delle
sue
successive lamentele su quanto fosse poco adatto per una ragazza essere
così
violenta. La prossima volta ci avrebbe pensato bene prima di stuprarmi
sulla
scrivania di James.
Io
non mi appellerei a quel capo d’accusa…
Arrossii
violentemente e nascosi il volto tra le pieghe del divano. Dannazione
al mio
Cervello e al suo essere così maledettamente realistico. C’era stato
forse un
momento, un nano-secondo, una particella di tempo infinitesimale in cui
avrei
anche accettato la proposta del calciatore.
Insomma…
ero pur sempre un essere umano con le sue debolezze!
Per
fortuna la mia parte razionale aveva avuto il sopravvento, anche perché
tra me
e Simone non ci sarebbe stato più nulla. Lo avevamo chiarito in quella
camera
d’hotel e mi sentivo sempre più sicura di quella mia decisione.
Era
stata un’avventura, una scopata e via.
Più
di una…
Non
essere puntiglioso!
Sbuffai
e guardai l’orologio. Erano appena le sette del mattino, ma non avevo
alcuna
voglia di alzarmi. Era come se quella coperta costituisse una specie di
bozzolo
protettivo che mi isolava dal resto del mondo, dalla festa di Capodanno
a casa
degli Abbott, alle promesse fatte a Sofia.
«Stiamo
poltrendo?»
Una
voce mi sorprese e mi fece sobbalzare, poi incrociai il mio sguardo con
quello
di Leonardo. Aveva un’espressione proprio buffa, sembrava quasi quella
di
Simone appena sveglio. Riflettei che i due cugini, anche se non lo
avrebbero
mai ammesso, si somigliavano molto.
I
capelli di Leo, per quanto corti e ricci, erano sparati in ogni
direzione,
mentre con una mano chiusa a pugno si stropicciava l’occhio sinistro.
«Com’è,
in piedi a quest’ora?» chiesi, notevolmente stupita.
Era
raro vedere un ragazzo di vent’anni e passa in piedi alle sette
spaccate del
mattino, fatta eccezione per la sottoscritta che voleva passare in
ufficio a
prendere in prestito le pratiche da riordinare in modo da poterle
esaminare
meglio nella tranquillità di casa propria.
Leonardo
sbadigliò sonoramente, lasciandomi osservare bene le sue fauci e le
tonsille.
Aveva un bel colorito gengivale.
«Celeste
russa come un trombone, non la sopporto.» Si sedette sul primo sgabello
disponibile e posò la testa scarmigliata sul braccio. «Credo che oggi
mi
sparerò un litro di caffè via endovena.»
Sorrisi.
In effetti, dovevo ammettere che nelle poche occasioni in cui io e la
mia
migliore amica avevamo condiviso la stanza, la maggior parte delle
volte
l’avevo passata in bianco – magari in compagnia di un bel libro.
«Non
è colpa sua, lo sai…» dissi in sua difesa. «Ha il setto nasale deviato.»
Leonardo
sbadigliò una seconda volta. «Se continua così, glielo raddrizzo con un
pugno…»
piagnucolò.
«Non
fare l’esagerato!» lo redarguii e mi decisi finalmente ad alzarmi.
Lo
raggiunsi e cominciai a tirare fuori gli utensili per preparare
un’abbondante
colazione. Di sicuro avrei messo su ben due macchinette del caffè.
Sapevo alla
perfezione che quella serata l’avrei passata in bianco, a scartabellare
ogni
appunto pur di trovare qualcosa di simile nelle passate deposizioni.
«Insomma
ieri avete fatto tardi tu e Microcefalo,» mi domandò il calciatore.
Mi
spuntò subito un sorrisetto. «Microcefalo non l’avevo mai sentita…»
ridacchiai.
Leonardo
sorrise di rimando, gonfiando il petto come il proverbiale galletto.
«Devo
ammettere di avere fantasia quando si tratta di offendere Simone. È uno
dei
miei passatempi preferiti.»
«Ti
capisco benissimo.» Cominciai a preparare la moka.
Seguì
un silenzio intervallato unicamente dai rumori del metallo che veniva
chiuso e
del fornello acceso. Non mi ero mai trovata da sola col ragazzo della
mia
migliore amica, personaggio famoso oltretutto, perciò ero davvero in
crisi. Non
sapevo né cosa dire, né cosa fare.
Alla
fine, l’unico argomento in comune era quel bamboccio di Simone. Di
sicuro non
avevo alcuna intenzione di parlare ancora di lui.
«Credo
che tu gli piaccia,» commentò d’improvviso, facendomi voltare di scatto.
«Eh?!»
sbottai, incapace di aggiungere altro. «Non prendermi in giro, per
piacere. A
quello già ci pensa tuo cugino tutti i santi giorni.»
Sentii
Leonardo ridacchiare. «Sai, Ven…» sospirò e si alzò per prendere una
delle
tazze che erano riposte vicino al lavello. «Conosco Simone da quando è
nato e,
per un certo verso, posso dire che siamo cresciuti insieme, che ci
hanno
influenzato le stesse cose e che – in fin dei conti – io e lui ci
assomigliamo
più di quanto io voglia ammettere,» confessò.
«Pensavo
non lo avresti mai ammesso,» gli dissi sincera.
Leonardo
sorrise sghembo. In quella frazione di secondo si notò quanto i due
cugini si
somigliassero, sia nei tratti giovanili del viso, sia in quella strana
luce
magnetica che avevano negli occhi, proprio vicino all’iride, talvolta
nascosta
dalle lunghe ciglia socchiuse.
«So
che è difficile da dire, soprattutto per me che ho avuto contrasti con
Simone
da tutta una vita. È da sempre che ci facciamo la guerra, che cerchiamo
di
primeggiare l’uno sull’altro, ma lo facciamo da quando ne ho memoria e
francamente ho anche dimenticato il perché.»
Sentii
l’acqua del caffè cominciare a bollire, coprendo un poco il silenzio
che a mano
a mano si era creato tra me e di Celeste. Mi accorsi che c’era un
abisso tra
lui e Simone e quei tre o quattro anni di differenza tra i due cugini
si
vedevano proprio in questi momenti di confessioni.
Leonardo,
per quanto avesse fatto una valanga di cazzate in tutta la sua vita,
era molto
più maturo e soprattutto riusciva ad ammettere i propri sbagli, anche
se ancora
non avevo capito dove volesse andare a parare.
«È
pronto,» dissi, afferrando con la presina la moka e cominciando a
dividere il
caffè in due tazze.
Almeno
avevo interrotto un possibile argomento pericoloso. Non era la prima
volta che
un membro della famiglia Sogno mi dicesse che Simone nutriva qualcosa
di più
che semplice attrazione fisica per me, ma ancora non volevo crederci.
Ad
Aton si era incredibilmente aperto con me, lasciandomi vedere una parte
del suo
carattere che non sapevo nemmeno potesse esistere, però poi gli avevo
raccontato del Capodanno con James e lui non aveva fatto una piega.
Aveva
silenziosamente accettato di farsi da parte.
Afferrai
la tazza con dita tremanti e cominciai a sorseggiare il caffè bollente,
senza
sapere cosa dire. Avrei dovuto dimenticare tutta quella storia e
prendere la
palla al balzo con l’offerta pacifica del giovane Abbott di passare la
sera del
31 tutti assieme, eppure mi ritrovavo sempre a girare attorno a Simone,
volente
o nolente.
Mi
era venuto a prendere la sera precedente e se non avessi avuto
sufficiente
autocontrollo, di sicuro sarei finita con il fare l’amore con lui
un’altra
volta.
L’ennesima,
aggiungerei.
Taci.
«Buongiorno,
ragazzi…» bofonchiò una Celeste assonnata e scarmigliata, mentre
avanzava in
cucina vestita di un enorme pigiamone con le nuvolette e i capelli
perennemente
in disordine.
«’Giorno,
amo’» Leonardo la raggiunse e si chinò per cercare le sue labbra.
Distolsi
lo sguardo quasi senza pensarci, eppure non avrebbe dovuto darmi
fastidio.
L’idea che la mia migliore amica fosse felice, mi avrebbe dovuta far
sentire
contenta a mia volta.
«Sei
stato mattiniero, com’è possibile?» s’informò sospettosa. Raggiunse il
lavello
e preparò nuovamente la macchinetta dopo averla sciacquata
accuratamente.
Leonardo
scrollò le spalle. «Avevo troppi pensieri per la testa, e poi si
avvicina la
notte di Capodanno e, con essa, il rientro a casa. È finita la pacchia!»
Io
e Celeste ridemmo all’unisono. Di certo, Leonardo era un tipo
divertente e
scherzoso, non antipatico e musone come il cugino.
«Simone
dorme?» s’informò la mia migliore amica, guardandomi con un sorrisetto
poco
rassicurante.
«E
che ne so, io? Per me potrebbe anche essersi gettato dalla finestra,»
sentenziai e finii di fare colazione.
«No,
ho pensato che visto ieri sera…» e lasciò che i puntini di sospensione
completassero il suo pensiero allusivo.
Ridussi
gli occhi a due fessure sottilissime, da cui scaturirono dei lampi
assassini.
«Ieri sera non è successo assolutamente nulla, è inutile che insistete
a farmi
l’interrogatorio!»
Celeste
e Leonardo si cercarono. «Anche tu glielo hai chiesto?» sbottò lei.
«Ho
pensato che poteva aprirsi con uno che condivideva lo stesso suo odio
per
Simone, scusa!» si giustificò.
La
mia migliore amica puntò il famoso indice pungolatore contro il suo
ragazzo. «E
tu pensi che verrebbe a dire una cosa così privata a te – sconosciuto
calciatore e parente di Simone – piuttosto che alla sua migliore amica
dalla
nascita?» sbottò.
«Chi
deve dire cosa?»
D’improvviso
la voce semi-assonnata di Simone ci fece gelare a tutti quanti.
Rimanemmo
immobili e in silenzio per qualche minuto, voltandoci solamente quando
Simone
cominciò a ciabattare per il soggiorno.
Con
le ciabatte a forma di
ippopotamo.
Ovviamente.
Si
sedette sullo sgabello accanto a Cel, lanciandole un sorriso mellifluo
che
nemmeno il più viscido abitante del sottosuolo sarebbe stato capace di
emulare.
«Giorno, cuginetta,» ridacchiò.
«Lasciala
in pace, cretino,» sibilò Leonardo, monitorandolo da lontano quasi come
una
leonessa controllava i suoi cuccioli che giocavano troppo vicino ad uno
stagno
pieno di alligatori.
«Taci,
babbeo.» rispose per le rime Simone, poi si guardò intorno notando
l’assenza
della sua colazione. «Ehi, pinguino in smoking, dove sono i miei CocoPops?» ordinò, neanche fosse stato
il principe del Galles.
«Dove
sono da quando li abbiamo comprati, Genio. Nella dispensa!» gli
risposi,
innervosita.
Avrei
dovuto già essere pronta, lavata e vestita nel mio completo da lavoro,
invece
mi ritrovavo lì a litigare con Simone di prima mattina.
Per
fortuna questa volta avevo due testimoni che mi avrebbero impedito di
ucciderlo.
Cioè, Celeste me lo avrebbe impedito, Leonardo sarebbe stato mio
complice.
«Sì,
ma perché non si trovano a galleggiare nel mio latte, all’interno della
tazza a
forma di Grande Puffo?» specificò, fissandomi con quegli occhi neri e
imperiosi.
Di
sicuro, in una vita precedente, Simone era stato un qualche imperatore
oppure
re medievale, talmente viziato da finire alla ghigliottina prima di
emanare il
suo primo proclama come sovrano.
«Ma
fa sempre così?» chiese Leonardo stupito.
Scossi
la testa e cercai di afferrare la scatola di cereali posta in alto. «Di
solito
è anche peggio,» risposi, allungandomi il più possibile.
Nel
frattempo sentivo gli occhi di Simone addosso. Mi bruciavano dietro la
schiena
quasi come avesse dei laser al posto delle iridi.
Finalmente
riuscii ad afferrare la scatola con la punta delle dita e la tirai giù,
sbuffando e aggiustandomi il pigiama che si era tutto aggrovigliato. Mi
voltai
trovandomi Simone con un sorriso beffardo in volto.
«Ecco
i tuoi stupidi cereali,» ringhiai, posandoglieli davanti agli occhi.
«Ed ecco
la tua stupida tazza da poppante. Il latte vallo a prendere da solo.»
«Devi
prepararmi la colazione, Ven. Sennò come potresti ricambiare il fatto
che ti ho
ospitato in casa mia senza chiederti nulla in cambio?»
Celeste
lo fissava inorridita.
«Dai
Simo’, dacci un taglio,» lo ammonì Leonardo.
Loro
non erano abituati a vedere il lato peggiore di Simone, mentre io ormai
ci
avevo fatto il callo. Poco m’importava se mi trattava da schiava, ma
quella
mattina avevo ben altro a cui pensare.
«Va
bene,» dissi e mi diressi verso il frigorifero per prendere il cartone
del
latte.
Lo
posai sul bancone, misi la tazza al centro della tovaglietta e afferrai
la
busta con i cereali che scrocchiavano al suo interno. Dopodiché feci
cenno a Simone
di avvicinarsi.
«Guarda
come si prepara una colazione, perché è la prima ed ultima volta che lo
faccio,» gli spiegai.
Simone,
allora, pensando di aver vinto con facilità quella battaglia, mi
sorrise
sornione e si avvicinò quel tanto da sporgersi sul bancone.
«Devi
prendere il latte e versarlo nel recipiente, poi aggiungerci i cereali
e
mescolare il tutto,» dissi, concentrandomi nel suo sguardo e tentando
di
distrarlo. Riuscii ad avvicinarmi quanto bastava per sfruttare il suo
momentaneo intorpidimento post-sonno, così gli rovesciai mezzo cartone
di latte
gelido nel pigiama e lui subito scattò in piedi imprecando.
«Ma
che cazz-…?» ringhiò.
Afferrai
una manciata di cereali avvicinandomi.
«Sei
uscita fuori di testa, porca miseria?» urlò ancora.
A
quel punto gli posai una mano sul petto, lasciando cadere i cereali nel
pigiama
ormai completamente zuppo. «Te lo ripeto per l’ultima volta: io non
sono una
delle tue servette.»
E
mi diressi in bagno per prepararmi.
Prima
di svoltare l’angolo, udii un grido di trionfo da parte di Leonardo.
«Cugì,
mi dispiace ma la tappetta ti tiene per le palle!» e continuò a
sganasciarsi
fino a quando fui troppo lontana per sentirlo tessere le mie lodi.
Riuscii
ad arrivare in ufficio prima che piovesse a dirotto. Erano un po’ di
giorni che
la temperatura si era alzata di qualche grado e impediva alla neve di
scendere
ancora, rendendo le strade di Londra completamente inagibili.
«Sei
venuta anche oggi?» chiese la voce di Yuki alle mie spalle.
Roteai
gli occhi al cielo e mi liberai del cappotto umido delle prime gocce di
pioggia. «Devo soltanto prendere dei documenti, poi levo le tende e non
mi
rivedrai fino al 6 Gennaio,» tagliai corto.
La
giapponese mi sorrise. «Ti hanno dato parecchi giorni di ferie…»
insinuò.
Mi
sentii presa in giro. «Cosa vorresti dire?»
Yuki
fece spallucce. «Nulla, è solo che noi tirocinanti torniamo tutti il 2
Gennaio,
non so perché te debba tornare il 6. Evidentemente la tua presenza qui
non è
poi tanto necessaria…»
Rimasi
di stucco a quella notizia. Possibile che dovevo essere sempre l’ultima
a
sapere le cose?
«Ci
sarà una spiegazione, e ora scusami,» tagliai corto, raggiungendo
l’archivio
per procurarmi finalmente quei documenti da esaminare.
A
metà del corridoio, però, come in un perfetto film americano di serie
B, andai
a sbattere contro James.
«Oh,
scusa!» dissi mortificata.
Il
sorriso dell’avvocato mi avvolse come una calda coperta in un giorno
d’inverno.
«Andiamo di fretta, eh? Indaffarata per i preparativi di domani?»
Scossi
la testa. «No, è che volevo subito controllare alcune cose. Credo che
mi
porterò un po’ di lavoro a casa, visto che ci dovrò rimanere fino al 6
di
Gennaio,» sbuffai.
James
non mutò espressione.
A
quel punto mi sentii in dovere di confessargli la mia paura. Alla fine,
Yuki
era riuscita a mettermi la pulce nell’orecchio e adesso non facevo che
pensare
a Mr. Abbott che si rendeva conto della mia inutilità come tirocinante.
«Cosa
ti preoccupa?» mi chiese lui, afferrandomi per le spalle e conducendo
entrambi
nell’archivio.
«Nulla,
ho saputo che sono l’unica che tornerà il 6, mentre gli altri
tirocinanti
riattaccano il turno il 2. Credo di non aver fatto poi una così buona
impressione a tuo zio,» confessai amareggiata.
James
a quel punto scoppiò a ridere.
Mi
sentii profondamente offesa da quella sua reazione. «La mia vita da
sfigata ti
fa divertire?» gli chiesi, inarcando un sopracciglio.
«No,
no, non è nulla del genere.» Ammorbidì la sua espressione con un altro
di quei
sorrisi splendidi. «Diciamo che sono un po’ responsabile di questa tua
“vacanza
prolungata”,» mormorò enigmatico.
Rimasi
completamente esterrefatta da quella confessione.
«Prima
prendi i documenti, poi andiamo nel mio ufficio e ti spiego tutto,»
sussurrò
misterioso. «Ti aspetto lì.»
Con
perplessità crescente, mi adoperai per recuperare le pratiche dagli
anni ’90
fino all’inizio del 2012. Ero sicura che tra uno di quei fascicoli
avrei
trovato qualche riscontro su una caso abbastanza simile a quello di
Cloverfield
contro Sogno. Ci doveva essere per forza qualcosa tra gli archivi che
mi
aiutasse a venirne a capo.
Tra
poco ci sarebbe stato il test del DNA, e per quanto credessi alla
parola di
Simone, viste le nostre recenti attività,
ero parecchio in dubbio sulla riuscita di quel test.
E
se fosse risultato positivo? Se davvero il bambino della Cloverfield
era di
Simo?
Non
avevo idee in merito, ma più di tutto non avevo alcuna intenzione di
perdere la
causa e di giocarmi il praticantato.
Infilai
i documenti nella valigetta che mi ero portata da casa – e che ora
pesava
peggio di un macigno –, poi mi diressi verso l’ufficio di James e
bussai.
Chissà
quale fosse il motivo che si celava dietro il mio rientro ritardato in
ufficio.
«Posso?»
chiesi intimorita.
«Entra,
entra!» mi fece James. Quando fui dentro il suo ufficio, rimasi
allibita fissando
il giovane avvocato che tentava di rimettere in ordine le penne e i
fogli
sparsi sul pavimento.
I
suoi occhi azzurri mi bloccarono. «Scusa il disordine, ma credo che la
donna
delle pulizie abbia urtato la scrivania senza accorgersene. Stamattina
ho trovato
tutto messo a soqquadro.»
Il
colore di un pomodoro maturo non si avvicinava nemmeno lontanamente al
rossore
che ora si era dipinto sul mio viso. Sentivo le guance in fiamme e
rimanere
ferma in quelle quattro mura, non faceva altro che farmi rimbombare
nella testa
le parole di Simo.
È
una vita che sogno di farlo qui
sopra.
Rabbrividii.
Possibile
che ogni mio ricordo più imbarazzante doveva essere inspiegabilmente
legato a
quel marmocchio? Volente o nolente era la fonte inesauribile di tutti i
miei problemi,
partendo con il caso giudiziario che mi aveva costretta a dividere
l’appartamento con lui e finendo con i nostri “incontri” al di là del
rapporto
puramente professionale.
«B-Bene…
di cosa volevi parlarmi riguardo il mio rientro?» cercai di chiedergli,
evadendo la scrivania del giovane Abbott come se fosse stata fabbricata
dal
diavolo in persona.
James
finì di riordinare i fogli, poi mi sorrise. «È una cosa piuttosto
imbarazzante,
a dire la verità…» cominciò.
Oh,
questo non sa davvero cosa
sia l’imbarazzo. Vogliamo dirgli che sta posando le mani dove tu e il
tuo
cliente avete quasi trombato ieri sera?
Tu
non esisti. La tua voce è frutto solo della mia immaginazione. Non devo
ascoltarti.
«Dimmi
pure,» sorrisi.
Ero
sempre più preoccupata da cosa James trovasse “imbarazzante”. Quel
termine non
gli si addiceva, anche perché era un uomo per bene e non un ragazzino
talentuoso e immaturo che non perdeva occasione di farsi paparazzare e
ridicolizzare sui tabloid.
«Beh,
diciamo che ho chiesto io a zio August di prolungare la tua vacanza,»
sospirò.
«Da quando hai accettato di passare il Capodanno con me, non ho
resistito. Ho
pensato che dovevo fare qualcosa per ricambiare, per farti capire
quanto io
tenga a te nonostante ci sia di mezzo questo caso che mi impedisce di
trattarti
come meriteresti.»
Mi
stavano tremando le gambe. Non sapevo cosa aspettarmi da James perché
era
capace di sorprenderti con questi gesti d’affetto incondizionato, senza
ricevere null’altro in cambio.
«C-Cosa
stai cercando di dirmi?» soffiai.
James
allora si avvicinò e mi posò entrambe le mani sulle spalle. «Ho pensato
che
sarebbe stato bello tornare con i tuoi amici a Roma, prenderti qualche
giorno
per andare a trovare la tua famiglia,» disse.
Non
appena realizzai cosa aveva fatto, sentii le lacrime pungermi agli
angoli degli
occhi.
«Dimmi
che stai scherzando…» gli feci, senza sembrare scortese.
L’idea
di tornare a casa l’avevo scartata dapprincipio, proprio perché ero
invischiata
in questo caso che mi succhiava via tutte le energie.
«Ti
ho comprato un biglietto per tornare con lo stesso volo dei tuoi amici.
Non
preoccuparti, anche zio August era d’accordo. Per cinque giorni posso
sopravvivere anche da solo. Riposati, vai a trovare la tua famiglia e
goditi
questo periodo accanto ai tuoi cari,» mormorò.
Ecco,
in quel preciso istante mi innamorai di nuovo di lui.
James
Abbott era forse la persona più gentile e altruista che avevo mai
conosciuto.
Non solo c’era sempre per me, ma nonostante avessimo deciso di
prenderci una
pausa, almeno fino alla fine dell’udienza, lui si era sempre
preoccupato per
me.
«Grazie
ma non posso accettare…» dissi, allontanandomi.
«Insisto,»
continuò lui. «Ti serve una vacanza, Ven, lo sai anche tu. Non so se si
tratta
di Mr. Sogno o del caso che stai seguendo, ma ti vedo molto più
distratta. Non
vorrei che questo influisse sul tuo lavoro. Perciò meglio prevenire,
non
pensi?»
Il
suo ragionamento non faceva una piega.
«S-Sì
ma… come potrò mai ripagarti?» gli chiesi.
Il
giovane Abbott sorrise. «Mi ripagherai quando vinceremo questa
maledetta causa
e finalmente potrò chiedere il trasferimento ad un altro ufficio,»
disse, poi
si abbassò raggiungendo il mio orecchio. «Mi ripagherai quando
finalmente
potremmo stare insieme alla luce del giorno.»
***
Non
avrei mai creduto che il giorno di San Silvestro fosse addirittura più
caotico
del famoso Venerdì Nero. I
supermercati erano stati presi d’assalto, quasi fosse stato previsto
l’arrivo
di un uragano che avrebbe reso inagibile l’isola per le successive due
settimane.
«Credi
che riusciremmo a comprare qualcosa per domani?» domandò scettica
Celeste.
Leonardo
fissava basito due vecchiette che litigavano per la stessa passata di
pomodoro.
«Magari ordiniamo una pizza?»
«No,
ho appurato che gli inglesi saranno pure bravi a fare il the, ma la
pizza
lasciamola agli italiani, così come la pasta,» dissentii.
Quella
volta con Simone mi era bastata. Per digerire la pasta di quella pizza
mi ci
erano volute due settimane e un blister di compresse analgesiche.
«E
allora che si fa? Qui non è rimasto praticamente niente!» domandò la
mia amica
allarmata.
«Non
disperate, mi sono trovata in situazioni peggiori,» dissi, con il tono
che
avrebbe utilizzato un sergente veterano dei Marines.
«Sì,
forse al mercato ortofrutticolo di Vattelappesca, in provincia di
Burinocity,»
disse Simone.
Lo
fulminai. «Mi ricordi il motivo per cui sei venuto? Visto che tu non
vai mai, e
sottolineo MAI a fare la spesa?»
Simone
sbuffò e si aggiustò un ciuffo ribelle di capelli con una mano. «Mi
assicuro
che tu non rovesci addosso a poveri malcapitati un’intera colazione
soltanto
perché è il tuo periodo del mese,» rispose. «Se ti girano le ovaie,
prenditela
con madre natura!»
«Punto
primo: non ho il ciclo; punto secondo: non starnazzare come un
maledetto gallo
del pollaio! È pieno di gente, vuoi attirare altra cattiva pubblicità
su di
te?» ringhiai.
«Altra?»
chiesero all’unisono Leo e Cel.
Non
mi ero affatto resa conto che loro due non sapessero ancora nulla del
caso
giudiziario di cui mi stavo occupando per conto di quel mammalucco di
Simone.
Me
lo ritrovai vicino, con lo sguardo da “l’hai fatta grossa, eheheheheh”.
Gli
rifilai una gomitata nel costato giusto per prendermi una qualche
specie di
rivincita. «Sì, sapete com’è fatto. L’altra volta si è ritrovato a
flirtare con
un trans e non se n’è nemmeno reso conto,» ghignai, mentre Leonardo non
faceva
che ridacchiare.
«Ma
non è vero!» protestò lui.
«T’oh,
vedo una passata di pomodoro non ancora presa d’assalto!» urlai,
distraendoli
tutti da Simone che continuava a lagnarsi su quanto fosse abile nel
riconoscere
una donna quando ne incontrava una.
«Stasera
cosa hai intenzione di metterti?» mi domandò Sofia, mentre
giocherellava con
quei riccioli biondi.
Io
ero alle prese con i documenti che mi ero portata a casa. Stavo
rivedendo un
vecchio caso del ’98, precisamente McAvery contro Spencer in cui il
test del
DNA era risultato positivo nonostante il padre continuasse a portare
avanti la
sua innocenza.
Leggendo
le deposizioni e rifacendomi al processo, alla fine si venne a scoprire
che il
bambino era effettivamente di Mr. Spencer, solo che dopo l’abuso di
sostanze
stupefacenti aveva completamente rimosso di essere andato a letto con
Miss
McAvery. Infatti, anche il test della macchina della verità era
risultato
positivo, confermando che il signor Spencer era innocente, o almeno non
ricordava nulla di ciò che aveva fatto.
Simone
usa droghe pesanti?
Credo
che sniffi pure la colla per la carta da parati, cretino com’è.
«Mi
ascolti, Ven?» continuò Sofia, vedendomi assorta nel lavoro.
Scossi
la testa. «Scusami, mi ero persa in queste deposizioni,» e le sorrisi.
Gli
occhi azzurri di Sofia mi squadrarono. Aveva gli occhi di un felino, e
come
essi, avevo sempre la sensazione che riuscissero a scavare molto più a
fondo di
quanto permettessi loro.
«Stai
lavorando troppo, avresti bisogno di una vacanza,» disse dolcemente.
Era
la seconda persona che me lo diceva nel giro di quarantotto ore.
«Beh,
credo di poter rimediare,» dissi, tanto valeva vuotare il sacco. Lo
avevo detto
unicamente a Celeste e Leonardo. Simone ancora non ne sapeva nulla.
«Dimmi
tutto!» disse eccitata.
«Nulla,
James mi ha comprato un biglietto aereo per Roma. Starò dai miei fino
al 6 di
Gennaio, quando tornerò a lavoro,» sospirai.
Gli
occhi di Sofia s’illuminarono. «Ma è fantastico! Ti farebbe bene
staccare un
po’ la spina da tutto questo.»
«Già,»
asserii.
Strinsi
con forza le dita attorno a quei documenti. Di sicuro avrei fatto delle
copie
per portarmeli dietro fino a Tivoli. Non avevo alcuna intenzione di
staccare
completamente dal lavoro.
«E
Simone cosa ha detto?» mi chiese lei, d’improvviso.
Mi
morsi a sangue il labbro inferiore. Avrei dovuto aspettarmelo, anche
perché
Sofia era sua sorella – tanto per cambiare. Mi ritrovavo circondata
dalla
famiglia Sogno, e non potevo fare altro che mentire.
«Non
lo sa,» affermai sicura, senza che la voce mi tremasse.
«Capisco,»
soffiò Sofia, torturandosi le mani in grembo. «In fondo non sei tenuta
a dirgli
niente, visto che non c’è nulla tra di voi…»
Non
sapevo se quello fosse un patetico tentativo di farmi ammettere che,
dopo
tutto, qualcosa c’era stato – e forse anche di più –, oppure fosse
davvero
sincera.
Sofia
era un enigma ed io mi sentivo sempre più strana a parlare con lei.
Alle volte
la sua sincerità sembrava finta, quasi fittizia e volta unicamente ad
ottenere
qualcosa di molto più radicato. Avevo quasi la sensazione di essere
solamente
un burattino nelle sue abile mani.
Una
Mangiafuoco dai capelli biondi e gli occhi chiarissimi.
«Diciamo
che non è esatto,» ammisi, con riluttanza.
Gli
occhi di Sofia s’illuminarono. «Vuoi dire che...?»
Alzai
le mani per tranquillizzarla. Per fortuna Simone era uscito con
Leonardo e
Celeste si stava facendo una doccia in previsione della serata.
«Calma
i bollenti spiriti. Questa cosa è morta prima ancora di cominciare e
non ho
intenzione di parlarne. Inoltre, credo che questa vacanza mi farà bene
anche
per staccare da… sì, ehm… per allontanarmi da lui,» ammisi.
Sofia
annuì e si fece più vicina. «Tranquilla, non lo difendo. So com’è fatto
mio
fratello e so che può raggiungere dei livelli di idiozia incredibili.
Non ti
chiedo di spiegarmi tutto, lo farai quando sarai pronta e se lo vorrai.
Solo
che…» e s’interruppe.
«Solo
che?» la incalzai.
Sbuffò
e si spostò i capelli biondi dalla fronte. «Niente, fai finta che non
abbia
detto nulla.» E sorrise.
Cercai
di non crucciarmi sulla strana reazione avuta da Sofia. Per fortuna,
qualche
minuto dopo i ragazzi rientrarono, accompagnati da Ruben. Subito la
biondina
gli gettò le braccia al collo, cercando le sue labbra sotto lo sguardo
schifato
di Simone.
Mi
alzai e andai a tirargli platealmente un orecchio perché non si
meritava di
giudicare le persone con cui sua sorella desiderasse stare.
«Ahi,
ahi, ahi!» si lamentò.
«Te
lo meriti, antipatico!»
Il
pomeriggio trascorse organizzando cosa avremmo dovuto preparare per
pranzo il
giorno dopo con quelle quattro cose contate che eravamo riusciti a
saccheggiare
al supermarket. Alla fine fummo costretti a telefonare a casa di Rose,
dove si
era trasferita nonna Annunziata, e invocare il suo sommo aiuto
culinario.
Una
volta terminato, noi ragazze ci chiudemmo nella mia stanza, barra
quella di Cel
e Leo, per svuotare i nostri armadi metaforici e cercare qualcosa di
decente da
indossare per Capodanno. Sofia optò per un bel vestito color verde
acqua, di
chiffon, abbastanza corto da lasciarle scoperta la caviglia e quel
meraviglioso
sandalo che aveva trovato scontato su e-bay.
«Mi
sono innamorata di queste scarpe!» trillò estasiata.
L’oro
del sandalo riprendeva meravigliosamente il colore dei suoi capelli,
così da
renderla quasi una sacerdotessa del passato.
«Sono
stupende, davvero. Ti sta tutto benissimo,» le disse Cel sorridendo.
«Anche
tu sei stupenda,» rispose la piccola Sogno.
In
effetti, persino la mia migliore amica era lungi da come la ricordavo.
Aveva
finalmente dismesso i jeans sdruciti da studentessa universitaria e
aveva
optato per un paio di pantaloni neri a vita alta, con la gamba larga,
quasi a
palazzo.
Le
stavano divinamente con la camicia di pizzo, da cui uscivano dei
merletti.
Entrambe
parevano delle modelle ed io mi sentii particolarmente fuori luogo. Ci
sarebbe
mancata solo la fidanzata puzza-sotto-al-naso di quel cretino di Robbeo
per
completare il quadretto di Ven la sfigata.
Quella
sera a Cambridge non eri
male…
Caso
fortuito.
«Ora
dobbiamo occuparci di te,» ridacchiò Sofia.
Alzai
le mani in segno di resa. «La mia idea era quella di riciclare il
vestito della
sera a Cambridge, visto che non posso permettermene altri,» ridacchiai.
Sofia
sorrise. No, non sorrise, ghignò. «E a cosa ti servo io? Per fortuna ho
dei
negozi che mi mandano sempre dei “campioni” gratuiti affinché li
indossi a
qualche festa famosa, al fine di pubblicizzarli,» spiegò, andando verso
uno
degli armadi di quella stanza che non avevo mai aperto. «Li lascio qui
da Simo
perché altrimenti io e Ruben non avremmo tanto spazio.»
Aprì
quella specie di tempio dell’alta
moda e rimasi completamente intorpidita.
«Devi
solamente scegliere,» disse sorridente.
«I-Io…»
soffiai, allungando le dita verso della stoffa rossa che aveva
particolarmente
attirato la mia attenzione.
Celeste
si avvicinò e mi posò le mani sulle spalle. «È l’ultima notte
dell’anno. Per
una volta potresti lasciarti andare.»
Lasciarmi
andare.
Quelle
due parole erano di troppo per me. Ci pensai per il resto del
pomeriggio,
mentre mi ero provata decine di vestiti e di scarpe, senza mai smettere
di
credere che la mia occasione l’avevo già avuta.
Mi
ero già lasciata andare. Fin troppo.
Prima
con James, nonostante il rapporto inter-ufficio fosse proibito, poi con
Simone,
il che era ancora più grave perché era mio cliente. Entrai in bagno
solo per
sciacquarmi il viso. C’erano ancora troppi interrogativi cui avrei
dovuto
rispondere.
James
mi aveva appena mandato un text:
sto
arrivando. ti aspetto al portone.
L’idea
di passare la prima parte di Capodanno nella grande villa degli Abbott
non
aveva allettato nessuno, soprattutto Sofia che aveva creduto sino in
ultimo di
avermi tutta per sé.
Purtroppo,
o per fortuna, non aveva detto nulla riguardo alla mia imminente
partenza per
Roma.
Nemmeno
Ruben sembrava sapesse.
Avevo
passato quasi tutta la notte in bianco a chiedermi se fosse giusto
farlo sapere
a Simone oppure comunicarglielo il giorno stesso. Cosa doveva
importargli in
fondo? Non sarei nemmeno partica con James, lui mi aveva comprato solo
un
biglietto e non mi avrebbe accompagnata.
Era
stato altruista. Un gesto che sicuramente uno come Simone non avrebbe
compreso.
Il
suono del citofono mi riscosse dai miei pensieri.
«Veeeen!
James ti aspetta di sotto con la macchina.»
Finii
di truccarmi, se quell’affare che avevo sul viso si poteva definire
“trucco”,
poi uscii dalla porta del bagno, trovandomi davanti Simone.
Rimasi
totalmente pietrificata, con tanto di pochette in mano.
«Devo
andare,» tagliai corto.
Lo
sguardo di Simone mi sondò da capo a piedi. «Non sentirai freddo
vestita così?»
sibilò.
Dalla
piega che aveva preso il suo tono di voce, credetti fosse infastidito.
Mi
osservai. «Staremo al chiuso, grazie per esserti interessato alla mia
salute.»
Lui
ghignò. «L’ho fatto solo perché voglio evitare che mi smoccioli per
tutta
casa.»
Lo
fissai come a volerlo incenerire. Possibile che dovesse farmi incazzare
pure la
sera di Capodanno? Sarebbe passato un giorno senza che riuscissimo ad
evitare
di litigare?
«Non
preoccuparti, non ci sarà questo problema. Si dia il caso che domani
pomeriggio
parto insieme a Leo e Cel, vado a trovare i miei per qualche giorno.
James mi
ha fatto un regalo davvero gradito.»
Forse
quello non era stato né il luogo né il momento adatto per confessargli
tutto
quanto, eppure quel suo sguardo mi aveva infastidita. Come si
permetteva di
giudicarmi in quel modo?
Simone
arricciò le labbra quasi in un ringhio. «Divertiti pure con Mr.
Scopa-nel-culo
a Roma.»
Cominciai
a ridere. «Ci andrò da sola! James mi ha pagato soltanto UN biglietto.
Non
tutti hanno secondi fini come te, testone!» e me ne andai indignata,
spingendolo da una parte.
Sofia
si affacciò alla porta e mi fissò esterrefatta.
«Scusami,
è che non lo sopporto,» mi giustificai, indossando il cappotto e
salutando
tutti il più velocemente possibile.
Volevo
andarmene da quella casa, da quella famiglia, da quella persona che
stava
infrangendo ogni mia difesa. Riusciva sempre a strappare ogni briciolo
di buon
senso e raziocinio che avevo, frantumava la persona che ero sempre
stata e mi
trasformava in qualcosa che odiavo dal più profondo del cuore.
Voglio
andarmene via da qui.
Voglio
andarmene via da lui.
Aprii
il portone, augurando buon anno al portiere del palazzo che mi sorrise,
poi
vidi James e tutte le preoccupazioni volarono via.
«Sei
bellissima,» mi disse, facendomi arrossire e accompagnandomi alla
macchina.
Per
tutto il viaggio, sino alle brughiere attorno Londra, pensai allo
sguardo di
Simone. Era furioso e non ci voleva un genio per capirlo. Questa volta
l’avevo
fatta grossa e non sapevo se fosse mai stato in grado di perdonarmi
quell’affronto.
In
fondo era meglio così, avevamo tagliato i ponti anche se lui continuava
a farsi
sotto, probabilmente solo per gioco.
Era
tutto un immenso parco giochi per Simone Sogno. Io ero soltanto una di
quelle
fantastiche giostre su cui, almeno una volta nella vita, chiunque
avrebbe
voluto farsi un giro. Ma appena il Luna Park avesse inaugurato una
nuova
giostra, ecco che sarei subito passata in secondo piano.
Ero
la novità, nient’altro.
Per
uno abituato a frequentare soltanto modelle, non poi tanto sveglie,
tentare un
approccio con una donna con un po’ di spessore, e una laurea in legge,
doveva
essere stato stuzzicante per lui.
«Sei
nervosa?» mi chiese James, cercando la mia mano senza timore.
La
strinsi nella mia e sospirai. Come potevo dirgli che il mio nervosismo
non era
causato affatto dall’imminente incontro con tutto il parentato Abbott,
bensì da
un calciatore da strapazzo che non avrei nemmeno mai dovuto considerare.
«Un
po’,» ammisi, senza sapere cosa dire.
Rimanemmo
in silenzio per il resto del viaggio, mano nella mano. Ci sarebbero
state
troppe cose da dire, eppure non riuscivo a scollarmi quelle parole dal
palato.
Avrei potuto iniziare con un semplice “Grazie” per quel biglietto
d’aereo e per
quelle ferie concesse soltanto perché James aveva detto di amarmi. Ed
io cosa
avevo fatto per lui?
Lo
avevo tradito con Simone e avevo messo a rischio il caso andando a
letto con il
nostro cliente. Ero solo una persona orribile, niente di più, niente di
meno.
Arrivammo
proprio quando i miei pensieri stavano lentamente logorando le pareti
della mia
testa, grattandone via la superficie e scavando fino a quando non mi
avrebbero
svuotata del tutto.
James
mi tese la mano per aiutarmi ad uscire dall’auto ed io l’accettai
sorridendo.
Non
si accorse di quanto quel mio gesto fosse stato sforzato. Ormai ero
costretta
persino a sorridere pur di nascondere l’amarezza che serbavo dentro.
Ero solo
una doppiogiochista, una persona infima che approfittava della sua
benevolenza
e si aggrappava, con gli artigli degni di una chimera, con forza alle
sue
braccia pur di non sprofondare verso quella verità che altrimenti mi
avrebbe
annientata.
Mentre
salivo le scalinate di una vecchia casa in stile vittoriano, rimanendo
rapita
dagli alti finestroni e dall’immensità di quella struttura, finalmente
capii di
non essere più la Venera che era arrivata lì a Londra con il primo
volo, dopo
aver vinto la borsa di studio per Cambridge.
No,
non ero più lei. Mi ero lentamente trasformata in una di quelle donne
che avevo
sempre disprezzato, che anteponevano il loro guadagno a tutto e in
questo caso
mi riferivo alla bellezza e all’affabilità di Simone.
Dopo
tutto quello che avevo studiato e visto nella mia carriera di avvocato,
nonostante tutte le liti a cui avevo assistito durante le simulazioni
in
tribunale, a dispetto di tutto quello che mi ero ripromessa dopo la mia
ultima
“relazione”, se così si poteva chiamare, avevo finito per comportarmi
come una
qualsiasi adolescente in piena crisi ormonale.
Neanche
avessi quindici anni.
«Sei
pronta?» mi domandò l’avvocato, stringendomi a sé.
Il
freddo pungente di quella serata mi fece rabbrividire, perciò pensai di
avvicinarmi ancor più a lui e comunicargli silenziosamente che
apprezzavo quel
suo gesto. James pensava fossi nervosa a causa dell’incontro con la sua
famiglia, e se non avessi avuto altri problemi per la testa,
sicuramente
sarebbe stata la principale causa di una mia nevrosi, eppure pensavo
solamente
allo sguardo furioso di Simone quando lo avevo lasciato a casa.
Di
sicuro non si sarebbe fatto vedere al locale.
Ero
più che certa che avrebbe aspettato un’ora al massimo, poi se ne
sarebbe
tornato a casa, probabilmente a ubriacarsi fino a quando non si fosse
addormentato.
«Sono
pronta,» gli comunicai.
La
porta ci venne aperta dal classico maggiordomo in smoking, sulla
cinquantina e
di bell’aspetto, che con un sorriso bonario ci chiese se potevamo
dargli i
cappotti. Era evidente che quell’uomo conoscesse Jamie, perché i due si
scambiarono uno sguardo di muta complicità.
«Sono
felice di rivedere il signore,» disse sorridendo.
«Alfred,
ne è passato di tempo dall’ultima volta che sono stato qui,» rispose
tranquillamente James.
Dedussi
da quella breve conversazione che l’avvocato, come Simone, non
frequentasse
spesso la propria famiglia. Ma che avevano tutti? Soltanto la
sottoscritta non
vedeva l’ora di montare sul primo aereo per tornare a Tivoli?
Ti
ricordo che anche tu sei
scappata da lì.
Ne
ero conscia, non avevo certo bisogno che la mia coscienza me lo
ricordasse. Per
quanto odiassi quel paese, quel piccolo buco di mondo che mi aveva
sempre
tarpato le ali, impedendomi di volare alto, sentivo innegabilmente la
mancanza
della mia famiglia, delle persone che mi avevano cresciuta rendendomi
la
persona che ero oggi.
«Non
ti piace molto stare qui,» dissi a James, sorridendo.
Lui
mi guardò con comprensione, poi sorrise. «Diciamo che i miei genitori
sono un
po’ all’antica e hanno un modo di pensare che io non condivido. Zio
August è
diverso, e nonostante sia il fratello di mio padre, mi ha sempre
trattato come
un suo pari,» mormorò.
Compresi
subito il suo punto di vista e lo condivisi. Non appena lasciai che
Alfred
prendesse il mio cappotto, rimasi piacevolmente colpita dai soffitti a
volta
che aveva quella villa, mentre un piccolo corridoio ci conduceva verso
la sala
principale dove si sarebbe svolta la festa.
James
era rapito da tutt’altro.
Trovai
il suo sguardo azzurro, lievemente scurito dalle iridi che si erano
piacevolmente allargate quasi come quelle di un gatto immerso
nell’oscurità,
che mi fissavano.
«Che
c’è?» chiesi imbarazzata.
L’avvocato
si mordicchiò il labbro quasi inconsapevolmente. «Questo vestito ti sta
divinamente,» soffiò, con un filo di voce.
Arrossii
d’istinto e per un nanosecondo la mia mente mi giocò il brutto scherzo
di
rivivere per un attimo il ricordo di Simone ed io che uscivo dal bagno.
Lo
stesso identico sguardo, solo che gli occhi del calciatore erano da
sempre
stati due pozzi neri in cui annegare e non avevo potuto distinguere il
desiderio.
«G-Grazie…»
risposi, sentendomi lusingata.
Non
ero abituata ai complimenti, soprattutto perché ero cresciuta insieme a
quella
testa di zucchina che era Robbeo. I nostri battibecchi sul mio aspetto
esteriore mi avevano portata ad essere cinica e acida, e le mie
aspettative
avevano sempre rasentato il fondo.
Diciamo
che non mi ero mai soffermata davanti allo specchio dicendo “sono
carina”.
Ci
era voluto James a ricordarlo.
«Dovrei
conoscere la tua stilista,» sorrise, strizzandomi l’occhiolino.
«Se
te lo dicessi, dopo dovrei ucciderti,» ridacchiai.
James
si chinò e mi sfiorò la fronte con le labbra. Il cuore fece una
capriola nel
mio petto e rabbrividii. Anche se il mio corpo si protendeva sempre più
verso
Simone, incapace di resistere al suo fascino magnetico, James era
capace di
farmi rimanere senza respiro.
Un
perfetto principe moderno.
Mi
prese sottobraccio e insieme ci avviammo verso l’ingresso della sala
addobbata
con decorazioni rosso e oro. C’era un immenso lampadario di cristallo
che
troneggiava al centro del soffitto a cassettoni, affrescato
probabilmente
durante l’età della regina Vittoria.
Ai
lati della sala erano disposte delle grandi tavolate con sopra ogni
tipo di
vettovaglia. Ad un angolo, era disposta l’orchestra che suonava musica
classica
dal vivo mentre gli invitati erano sparsi ogni dove e chiacchieravano
senza
curarsi del nostro arrivo.
Soltanto
una signora molto elegante, fasciata in un lungo abito nero di pizzo,
ci si
avvicinò e posò una mano sull’avambraccio di James.
«Sono
contenta di vederti, Jamie,» sorrise, poi spostò gli occhi azzurrissimi
su di
me.
Quelle
erano le iridi degli Abbott.
«Mamma,
ti presento Venera, una mia collega,» disse James, facendo le classiche
presentazioni.
Tesi
la mano allarmata. Il panico era arrivato tutto insieme, anche perché
durante
il viaggio ero stata rapita da ben altri pensieri.
Ero
sempre stata accolta a braccia aperte dal parentato dei miei precedenti
ragazzi, ma in questo caso non sapevo come comportarmi. Punto primo,
James non
era il mio fidanzato, anche se ci eravamo andati molto vicino; Punto
secondo,
quella donna apparteneva ad una classe sociale elevata ed io mi sentivo
parecchio fuori luogo.
«Molto
piacere, Mrs. Abbott,» mormorai, nervosa.
Lei
mi sorrise e si avvicinò per salutarmi alla classica maniera italiana,
ovvero
con baci schioccanti sulle guance.
Anche
James rimase piacevolmente sorpreso.
«Non
sei inglese, vero?» mi chiese la donna benevola.
Scossi
la testa. «No, vengo da Tivoli,» risposi.
Mrs.
Abbott spalancò quegli zaffiri che aveva al posto degli occhi. «Dove ci
sono le
terme! Ma è meraviglioso!» cinguettò.
«Già,»
sorrisi anche io.
Sinceramente
era la prima persona che conoscesse il mio paese così bene. C’era
Viterbo che
aveva molta più popolarità visto che era stata da sempre la città dei
Papi.
Mrs. Abbott mi parve immediatamente una donna molto socievole e
gentile, pensai
subito che James avesse preso da lei quel suo meraviglioso carattere.
«Credo
che Venera abbia sete, ci puoi scusare mamma?» tagliò corto lui.
La
donna lo guardò intensamente. «Non dimenticare di salutare tuo padre,»
gli
ricordò.
Jamie
mi strappò quasi letteralmente da quella conversazione, avvicinandosi
al tavolo
dove un altro cameriere ci servì due flute di champagne.
Sulle
prime non riuscii a capire il perché James fosse così nervoso e
riluttante a
frequentare quel luogo così meraviglioso.
«Tua
madre è molto simpatica,» dissi, per rompere quel silenzio che stava
diventando
asfissiante.
James
cercò il mio sguardo e lo incatenò al suo. «Non diresti così se la
conoscessi
bene,» sibilò.
Feci
un’espressione piuttosto perplessa, ma non riuscii ad indagare oltre
perché un
uomo barbuto ci si avvicinò sorridente.
«Il
figliol prodigo è tornato!» ridacchiò, colpendo forte la schiena di
James con
delle pacche energiche.
Per
poco non si strozzò con lo champagne. «P-Papà!» tossì, infatti,
cercando di
respirare di nuovo.
«Oh
scusa, caro,» sghignazzò, rivolgendomi un sorriso genuino. «Non sei più
abituato a ricevere le patte dal
tuo
vecchio, eh?»
«Patte?»
chiesi allibita. Ero più che sicura di sapere qualsiasi termine
inglese, anche
perché avevo fatto un corso preparatorio con una madrelingua pur di
acquisirne
anche l’accento. Ma quella parola mi era sfuggita.
James
intervenne. «Diciamo che il termine “patta” è di invenzione di papà,
significa
quando dai delle pacche sulle spalle energicamente, mozzandomi quasi il
respiro,» ridacchiò.
«Eh,
ma quanto siamo esagerati, Jamie!» lo ammonì bonariamente.
Rimasi
sorpresa dal conoscere finalmente l’altro Abbott socio dello studio.
Sinceramente me lo ero sempre immaginato come il signor August: gentile
ma
tutto d’un pezzo. Il papà di James, invece, sembrava quasi italiano,
per quanto
il suo carattere allegro e mattacchione mostrasse.
«Lei
è la ragazza di cui Gugu parla tanto, vero?» chiese al figlio.
Gugu?
James
annuì. «Sì, lei è la mia collega Venera, direttamente dall’Italia. Zio
August
dice sempre che ha un grande potenziale.»
«Piacere
di conoscerla,» dissi, allungando la mano.
Gli
occhi azzurri di Mr. Abbott mi sondarono, con una luce negli occhi che
feci
fatica a riconoscere. Sembrava che mi stesse analizzando, quasi come se
fossi
su un letto d’ospedale, sottoposta alla macchina dei raggi X.
«Credo
proprio che prenderò in parola August e ti terrò d’occhio, signorina,»
sorrise,
stringendomi energicamente la mano. «Beh, divertitevi ragazzi!» e ci
lasciò al
nostro champagne mentre andava a salutare gli altri ospiti distribuendo
“patte”
energiche sulle schiene di tutti i poveri malcapitati.
James
sospirò. «Mio padre è un po’ strano,» ridacchiò.
«Perché
non hai conosciuto il mio…» smozzicai, quasi senza pensare.
Il
livello d’imbarazzo che riusciva a farmi raggiungere Alberto, il mio
caro e
vecchio papà, non aveva limiti. Celeste ne sapeva qualcosa quel giorno
che era
entrata in bagno senza bussare. Le si era bloccata la crescita.
«Mi
piacerebbe incontrare la tua famiglia,» soffiò, quasi in un sussurro.
Spostai
lo sguardo verso di lui e lo trovai tremendamente sincero. Alla fine io
ero
stata ospite dei suoi genitori, avevo conosciuto gran parte della sua
famiglia
– così come quella di Simone – invece la mia vita rimaneva ben
sigillata
all’interno del mio cuore.
Soltanto
Celeste era riuscita a connettere il resto del mondo con il mio passato.
Non
che mi vergognassi della famiglia Donati, anzi. Mio padre era stato un
uomo che
si era fatto da solo, che aveva tirato su un’azienda tutto da solo,
iniziando
col seminare, arare e innaffiare fin da quando aveva quindici anni.
D’accordo,
forse i miei genitori non avevano nessuna laurea, non possedevano una
villa
come questa e non organizzavano feste memorabili per la notte di San
Silvestro,
ma erano riusciti a crescermi nonostante tutte le difficoltà.
«Sicuro
che non vuoi venire anche tu domani?» chiesi, quasi senza riflettere.
James
rimase sorpreso da quella proposta, poi sorrise. «Ne sarei davvero
onorato, ma
per adesso devo pensare al nostro caro Mr. Sogno,» ridacchiò.
Avrei
voluto scomparire in quel preciso istante. Non solo avevo chiesto ad
uno
sconosciuto, o quasi, di prendere il primo aereo con me per andare a
conoscere
i miei genitori dall’altra parte d’Europa, ma addirittura mi ero
totalmente
dimenticata che Simone non ne sapeva ancora assolutamente nulla.
«Vado
un secondo alla toilette,» dissi, sentendo le gambe tremare.
«Certo,
è in fondo a destra,» mi disse, indicando un piccolo corridoio.
Camminai
instabilmente su quelle scarpe che non ero abituata a portare, però
riuscii a
raggiungere il bagno senza cadere rovinosamente per terra.
Mi
chiusi la porta alle spalle e cominciai a respirare affannosamente.
Avrei
voluto vomitare. Sentivo chiaramente il conato crescere, la pancia
ribollire e
mi sentivo profondamente debole. Non sapevo da cosa fosse causato tutto
quello,
ma non riuscivo ad evitarlo.
Calmati
Ven, sei soltanto
ansiosa.
Ansia.
Paura. Mi sentivo in colpa.
In
colpa verso Simone.
Perché?
Per quale assurdo motivo continuavo a struggermi per una persona che
non aveva
mostrato il minimo interesse, che alla prima richiesta di interrompere
tutto,
aveva accettato senza combattere. Senza nemmeno lottare.
Tutto
questo quando avevo James al mio fianco, quando avevo di fronte
un’opportunità
irripetibile che chiunque avrebbe preso al volo. Cosa me ne facevo di
un
ragazzino, per giunta più piccolo di me, famoso e arrogante, con una
causa per
dubbia paternità che gli pendeva tra capo e collo quando potevo avere
un famoso
avvocato trentenne, affascinante e ricco?
Il
cellulare vibrò rumorosamente nella mia borsetta.
Lo
afferrai sperando si trattasse di Celeste che richiedeva immediatamente
la mia
presenza alla festa, in modo da poter lasciare quel bagno senza che la
paura si
prendesse ancora gioco di me.
Si
trattava di un tweet.
@TermoSifone:
@SourLawyer: Ti
si è gelato il polo sud?
Rimasi
a fissare allibita quel tweet. Possibile che di tutti quanti i follower
che
avevo al mondo (non fare la
melodrammatica che hai 35 follower e 30 sono tuoi parenti),
doveva
capitarmi proprio Simone che rompeva, tanto per cambiare?
Mi
sedetti sulla tavoletta del water e risposi. Tanto non sarei uscita di
lì tanto
presto.
@SourLawyer:
@TermoSifone: Pensa
al tuo di Polo. Ho conosciuto la
famiglia di James. Gente molto educata, inglese.
Certo,
su twitter, per quanto fosse comodo e tutto quanto, non si poteva
sforare.
@TermoSifone:
@SourLawyer: Il
mio Polo sta benissimo, anzi, è da quando sei uscita dal bagno che sta
aspettando di scongelarsi.
Arrossii.
Possibile
che riuscisse ad essere così estremamente volgare e maniaco anche
scrivendo dei
semplici tweet ambigui su un social network?
Dio
quanto lo odiavo.
Eppure
vorresti essere lì,
adesso.
@SourLaywer:
@TermoSifone: Vedi
di rimetterlo nel freezer, perché non ci sarà nessun scongelamento,
tranne
forse a causa dell’effetto serra.
Lapidaria
e geniale. Dovevo ammettere che il mio sarcasmo riusciva ad essere
trasmesso
perfettamente anche via chat. Mi sentii molto soddisfatta di me stessa.
A
quel punto non giunsero più tweet e rimasi a fissare il telefono con il
cuore
in gola. Non che mi importasse se Simone aveva di meglio da fare
piuttosto che
rimanere incollato al cellulare. Sbuffai e chiusi gli occhi.
Prima
o poi sarei dovuta uscire da quel bagno, altrimenti James avrebbe
pensato che
mi sentivo male. In effetti, il capogiro mi era passato ma la nausea
rimaneva.
Non avevo toccato cibo, solo un po’ di champagne.
Possibile
che fossi già andata fuori di testa?
D’improvviso
il mio BlackBerry cominciò a vibrare nelle mie mani e sul display notai
il nome
di Leonardo che lampeggiava insistente. Da quando il ragazzo della mia
migliore
amica mi chiamava? D’accordo, c’eravamo scambiati i numeri nel caso
servisse,
ma quello mi pareva troppo.
Decisi
di rispondere.
«Pronto?»
«Ce
l’hai fatta, dannazione! Qua non si sente un cazzo!» ringhiò una voce
ovattata
dal rumore della musica tecno in sottofondo.
Ovviamente
era Simone.
«Vai
in bagno, tonto,» gli urlai, quasi.
«Non
c’è bisogno che tu me lo dica, ci arrivavo da solo. Cretina!»
Dopo
un po’ sentii la musica farsi meno forte e dedussi che il calciatore
era
riuscito a rinchiudersi da qualche parte in modo da poter parlare.
«Ho
fregato il telefono a quel demente di mio cugino,» ridacchiò. «Il mio
si era
scaricato. Quei cazzo di cellulari non valgono niente.»
«L’avevo
intuito quando mi è comparso il nome di Leonardo,» bofonchiai.
Seguì
un attimo di silenzio in cui nessuno dei due seppe cosa dire. Per quale
motivo
mi aveva chiamato? Perché io gli avevo risposto? Per quale assurda
ragione ce
ne stavamo rinchiusi nel bagno, quando tutti gli altri si divertivano
la notte
di Capodanno?
Perché
siete due anime separate
che sperano soltanto di incontrarsi.
«Perché
mi hai chiamato?»
Fui
io a rompere il ghiaccio. Tanto valeva fare un tentativo.
«Mi
annoiavo,» rispose lui. Sincero.
«E
il fatto di annoiarti ti autorizza ad interrompere la mia serata con
James?»
chiesi, senza puntualizzare il fatto di essermi isolata da un bel po’.
«Se
ti stessi divertendo con l’avvocatuncolo, non avresti risposto,»
sentenziò.
Cazzo.
Quello
stupido ragazzino era più furbo di quanto pensassi e un moto di rabbia
e fastidio
cominciò ad aggrovigliarmi le viscere.
«Pensavo
fosse urgente,» mentii, pur di non dargli alcuna soddisfazione.
Lo
sentii ridere dall’altro capo del telefono. «Sappiamo entrambi che non
è vero,
anzi. Se ti conosco bene ora sei in bagno, seduta sul copri-water, con
i piedi
doloranti e un forte mal di testa. Ovviamente non vedi l’ora di
tornartene a
casa,» disse, analizzando la situazione.
Odiavo
quando aveva ragione. Anzi, lo odiavo e basta.
«Ti
sbagli, caro,» sibilai. Mi alzai ad aprire la finestra, in modo che i
suoni
della notte confondessero le idee che si era fatto su di me. «Sono
nell’enorme
giardino della tenuta, avvolta dalle stelle che questa notte si vedono
benissimo e aspetto James che è andato a prendermi da bene. Come un
vero
gentleman.»
«Stai
mentendo.»
«Credi
quello che ti pare, ti ho risposto solo perché pensavo fosse Leonardo.»
Il
silenzio intervallò quella conversazione che si stava trasformando in
una lite
via aere. Riuscivo ad incazzarmi con lui pure tramite cellulare, era
incredibile.
«Vieni
qui,» disse dopo un po’, dopo che quasi credetti avesse abbandonato la
conversazione.
Lo
sentii respirare forte.
«Cosa?»
chiesi, credendo di aver capito male.
Simone
sospirò spazientito. «Ti sto chiedendo di venire qui, di raggiungermi,»
ripeté.
«Tra
un po’. L’ho detto a Sofia, nella seconda parte della serata vi
raggiungiamo.
Non ti preoccupare,» sbuffai.
Continuò
ad esserci solo silenzio all’altro capo del telefono. «Io ti voglio
qui.
Adesso.»
Un
brivido rotolò giù lungo tutta la colonna vertebrale e s’infranse nella
pancia.
Quella dannata voce mi avrebbe mandato al manicomio, ne ero più che
certa.
La
cosa più sconvolgente, poi, era il fatto che avessi davvero preso in
considerazione l’idea di lasciare il party per raggiungerlo. Quasi come
un pifferaio
che mi aveva incantato col dolce suono della sua voce.
«Cresci,
Dio santo!» sbuffai. «Non sono una delle tue sciacquette che risponde
ai tuoi
ordini come un cane ben addestrato. Hai capito che abbiamo chiuso?
Anche tu
c’eri quando l’ho detto e hai subito accettato. Cos’altro vuoi da me?»
Dovevo
sottolineare il fatto che aveva rinunciato a quel “noi” malato e
ingiusto
troppo presto. Anche se non avrei mai aggiunto che mi aveva fatto
soffrire, e
tanto.
«Ho
mentito.» disse infine, quasi sussurrandolo.
Il
cuore mi salì fino in gola e se non avessi deglutito in quel preciso
istante,
ero più che sicura che avrebbe fatto capolino.
Subito
si corresse. «Scusami, devo andare. Fai come ti pare. Ciao.» eMi chiuse
il
telefono in faccia.
Rimasi
a fissare lo schermo del BlackBerry con uno sguardo assorto, quasi
sperando che
squillasse di nuovo. Non sapevo se la mia mente mi stesse giocando dei
brutti
scherzi, se quello che aveva detto Simone corrispondeva alla realtà o
meno.
Avevo
soltanto un forte desiderio di vederlo. Ora.
Non
riuscivo a resistere. Mi faceva male il cuore ad immaginarlo chiuso in
uno
degli stanzini di quel locale, magari seduto sul pavimento, con le mani
nei
capelli a maledirsi per essere stato così debole.
Come
facevo a saperlo? Perché lui era come me ed io avrei reagito allo
stesso modo.
«Tutto
bene lì dentro?» domandò la voce di Mrs. Abbott.
Mi
riscossi dai miei pensieri e corsi alla porta. Chissà da quanto tempo
ero
rimasta lì dentro, probabilmente James si era preoccupato.
«Mi
scusi tanto,» dissi, uscendo dal bagno.
Gli
occhi della signora mi squadrarono. C’era qualcosa nascosto dentro
quello
sguardo, avevo una strana sensazione riguardo a quella donna, anche se
mi era
sembrata molto socievole a primo avviso.
«Ero
preoccupata, cara. Non uscivi più di lì. Ti senti bene?» mi chiese
benevola.
Annuii.
«Ho avuto solo un giramento di testa,» dissi.
In
parte era vero, togliendo la nausea e la conversazione terribile che
avevo
avuto con Simone al telefono. Ero scossa, dovevo ammetterlo.
Non
sapevo se quel “Ho mentito” che aveva detto, si riferiva al fatto che
mi
volesse lì con lui o all’ammissione da parte sua di interrompere quella
nostra
specie di relazione malsana.
Perché
era dannatamente ambiguo?
«Torno
di là, mi scusi.» Cercai di raggiungere James.
La
donna, però, mi afferrò un polso. Cercai il suo sguardo e compresi che
quel
sospetto che avevo avuto su di lei fosse reale.
«Senti,
ho capito qual è il tuo piano e fin da subito ti avverto: stai lontana
da
James,» intimò.
«Come,
scusi?» domandai allibita.
Mrs.
Abbott si avvicinò, stringendomi il polso in una morsa. «Le conosco
bene le
ragazzine come te. Lascia in pace mio figlio, da lui non otterrai né
una
carriera né tantomeno il permesso di soggiorno. Sei soltanto
un’immigrata.
Tornatene da dove sei venuta e lascia in pace James!» minacciò.
Quella
donna era completamente fuori di testa!
«Se
non mi lascia immediatamente, la denuncio,» sibilai.
Poteva
trattarsi pure della Regina Elisabetta in persona. Nessuno mi si
sarebbe
rivolto in questi termini, soprattutto se mi si accusava di essere solo
un’opportunista.
Mrs.
Abbott mi lasciò subito andare, senza mai smettere di linciarmi. «Ti
avverto…»
«No,
l’avverto io,» la interruppi. «Ci sono gli estremi per far scattare una
denuncia, ma lascerò correre. Per sua informazione, ho la carta verde
come
studentessa e presto richiederò di avere la doppia cittadinanza. Non ho
certo
bisogno di suo figlio per rimanere in Inghilterra, signora. Né
tantomeno per
avanzare di carriera,» le risposi, lasciandola senza fiato.
Mi
diressi verso il salone principale, cercando di rimuovere la rabbia che
quella
donna mi aveva fatto montare senza riuscire poi a placarla. Ma che
razza di
persona pensava che fossi? Ma soprattutto, quali tipi di ragazza aveva
frequentato James per indurre la propria madre a comportarsi così?
Desideravo
andarmene. Al più presto.
Trovai
James che conversava con un altro signore, riguardo ad un vecchio caso
di
sfratto nelle campagne Londinesi, e attirai la sua attenzione
sfiorandogli il
braccio.
«Dov’eri
finita?» si preoccupò.
Gli
sorrisi. «Non mi sento molto bene, vorrei andare dai miei amici,» dissi
sincera, senza mezzi termini.
James
comprese subito che qualcosa non andava. Si scusò con il suo
interlocutore e mi
accompagnò a prendere i cappotti. La macchina era ancora fuori e ci
sarebbe
stata per tutto il resto della notte. La premura con cui l’avvocato mi
posò il
giaccone sulle spalle, la apprezzai molto.
Non
mi chiese la fonte di quel mio strano comportamento, ma lo sentivo che
si stava
comportando in modo cauto. Forse aveva effettivamente immaginato che mi
fosse
accaduto qualcosa, che mi sentissi male, ma non aveva insistito per
sapere.
Anche
questo era ciò che più amavo di lui.
Ci
sedemmo nell’auto e James gli comunicò il nome del locale dove il resto
della
famiglia Sogno ci avrebbe aspettati.
Rimanemmo
in silenzio per il resto del viaggio, io che ancora stringevo
nervosamente in
BlackBerry tra le dita tremanti. Non sapevo se essere più scossa per il
comportamento di Mrs. Abbott, oppure per ciò che mi aveva detto Simone.
James
non c’entrava nulla con quella famiglia, e adesso intuivo il motivo per
cui gli
faceva visita di rado. Magari un giorno gli avrei parlato di quello
spiacevole
incontro con la madre, ma per ora non me la sentivo.
Era
stato un episodio poco rilevante, almeno per la sottoscritta.
Strinsi
ancora più forte le dita attorno al telefono, sentendolo scricchiolare.
James
se ne accorse e afferrò una delle mie mani e la cullò tra le sue.
«Mi
dispiace,» disse, senza sapere veramente di cosa scusarsi.
«Non
devi dire così,» sussurrai. Non sapeva il vero motivo per cui mi
sentivo così
frustrata. La ragione che mi aveva ridotto uno straccio.
«Sì,
invece!» insistette. «L’idea di portarti qui è stata pessima. Avremmo
dovuto
raggiungere i tuoi amici direttamente, senza venire in questa specie di
casa degli orrori.»
Lasciai
andare il BlackBerry nella borsetta e mi voltai verso di lui. Cercai il
suo
viso e lo accarezzai con il palmo della mano.
«James,
non devi scusarti di nulla. Mi ha fatto piacere conoscere la tua
famiglia,
vedere la casa in cui sei cresciuto. Davvero…» mormorai. «È solo che
non sono
ancora pronta, tutto questo non fa per me.»
L’avvocato
mi sorrise. «Ecco perché sono innamorato di te, Spaghetti Girl.»
Quella
confessione mi colpì al cuore come un mazzo di pugnalate. Avrei dovuto
dirgli
la reale ragione per cui me n’ero andata di corsa da quella casa, il
vero
motivo per il quale sentivo un bisogno quasi morboso di vedere Simone.
La
verità è che rimanere separata da lui per più di un’ora mi faceva star
male.
Era dura ammetterlo, soprattutto dopo avergli chiesto di chiudere
tutto, ma era
la verità.
C’era
qualcosa che mi teneva incatenata a lui, che rendeva le nostre due
essenze
legate in un modo indissolubile.
«Non
dire così, ti prego,» lo implorai e mi scostai da lui.
Lui
mi spostò un ciuffo di capelli davanti al viso. «È la verità, non posso
farci
nulla. Per quanto questo lavoro mi divida da te, ormai è troppo
difficile
offuscare i miei sentimenti, Ven,» continuò.
Doveva
smetterla. Finirla di essere così tremendamente dolce e perfetto.
Sarebbe stato
tutto più semplice se, come in una commedia americana, si fosse
rivelato lo
stronzo di turno, se nella realtà dei fatti avesse frequentato altre
mille
donne oltre la sottoscritta.
Invece
sapevo che diceva la verità, che il suo sguardo era puro.
La
badass di questa storia ero
solamente
io, Venera Donati. L’unica che il pubblico avrebbe dovuto odiare perché
prendevo in giro una persona meravigliosa come quella.
Ma
con una madre adoratrice del
Diavolo.
Sono
d’accordo.
«Vorrei
che questo caso fosse già concluso, così avrei una scusa più che valida
per
baciarti,» mi disse, imbarazzato.
Ed
io mi sentii ancora più male. «Nessuno verrà mai a saperlo,» soffiai,
quasi
senza pensarci.
Mi
avvicinai a lui e così fece James. I nostri volti si cercarono e si
trovarono
quasi subito, come se avessero stampato nella mente una mappa.
Lo
baciai nel sedile posteriore di quella macchina, viaggiando a tutta
velocità
per raggiungere il disco-pub dove mi aspettava Simone. Schiusi le
labbra e
accolsi la sua lingua curiosa, il sapore di James era come un
Earl-Green
sorseggiato in un giorno di pioggia, davanti ad un camino scoppiettante.
Sapeva
di campagne verdeggianti, di pascoli e di vite d’altri tempi. James
aveva
racchiusa in sé l’essenza dell’Inghilterra e assaporando quella sua
bocca era
come tuffarmi in un mondo che ancora non mi apparteneva.
«Scusami,»
disse lui, scostandosi. «Forse dovrei smetterla di sostenere di
rimanere solo
colleghi, e poi saltarti addosso,» ridacchiò.
«Non
è solo colpa tua,» arrossii.
Guardai
d’istinto l’orologio e mi accorsi che erano già le 23.30. Mancava
soltanto
mezz’ora all’inizio del nuovo anno ed io temetti di passare lo scoccare
della
mezzanotte in quella macchina.
«Arriveremo
in tempo,» mi tranquillizzò James.
Sorrisi
riconoscente. Sapeva sempre quando e cosa dire per rendermi serena. Con
lui non
riuscivo ad arrabbiarmi, anzi. Era rarissimo che litigassimo noi due.
L’avvocato
era sempre pronto a spalleggiarmi, a confortarmi e a rendere le mie
giornate
più rilassanti.
Tutto
il contrario di Simone.
Fissai
lo sguardo fuori dal finestrino, mentre l’Audi nera imboccava
l’autostrada che
ci avrebbe condotti di nuovo nella metropoli. Un senso d’ansia mi
attanagliò lo
stomaco, facendomi risorgere quel senso di nausea ma tentai di
ignorarlo.
Ero
nervosa, ma non sapevo il motivo.
Decisi
di preoccuparmi in seguito di cosa avrei dovuto dire o fare una volta
che
avessi raggiunto Simone. Per adesso dovevo godermi il resto del viaggio
senza
vomitare alla prima occasione.
Arrivammo
davanti all’Headen quando mancavano
dieci minuti esatti alla mezzanotte.
«Scendiamo,
cercare il parcheggio non è un problema,» mi disse James, facendomi
cenno di
uscire dalla vettura.
Scesi
nel freddo di quella notte di Dicembre, anzi, quasi Gennaio ormai, e
sentii i
brividi scuotere il mio corpo intorpidito. Subito fui abbracciata dalle
forti
braccia dell’avvocato che mi condussero verso l’ingresso del locale.
Il
bodyguard all’ingresso ci chiese i nostri nomi, poi controllò sulla
lista.
Ci
fece passare senza alcun problema non appena notò che eravamo associati
al
cognome “Sogno”. James si accigliò parecchio, ma non disse nulla.
Sapevo
quanto fosse difficile per lui passare una nottata come quella in
compagnia di
uno dei suoi clienti, quando avremmo dovuto intrattenere un rapporto
puramente
professionale. Non era colpa mia se, però, la mia migliore amica
Celeste era
fidanzata con una di loro e se Sofia, mia nuova confidente, fosse la
sorella
del nostro assistito.
Di
certo, i Sogno stavano lentamente conquistando il mondo.
«Finalmente
ce l’avete fatta!» mi urlò quasi nell’orecchio Sofia, corsa ad
abbracciarmi.
Era
un po’ accaldata, lo dimostravano i lunghi capelli biondi scarmigliati
e
incollati al viso. Ruben non era in condizioni migliori.
«Abbiamo
ballato fino adesso!» gridò, nel tentativo di sovrastare la musica
assordante.
«Noi
siamo andati via dalla festa poco fa,» le dissi all’orecchio, poi
tentai di individuare
la mia migliore amica in quel groviglio di corpi che si strusciavano
l’uno con
l’altro.
«Celeste
è laggiù che balla con Leonardo, credo sia un po’ brilla,» ridacchiò
Sofia.
Notai
che anche lei non era in condizioni migliori, ma in fondo era la notte
di
Capodanno e ci si poteva lasciare andare almeno per una volta. «Venite
qui al
centro della pista, tra un po’ fanno il count-down.»
La
seguimmo, cercando di farci spazio tra i corpi sudati di ballerini
improvvisati
per quella serata di festa. Con lo sguardo vagai per il locale dalle
luci al
neon, cercando qualcuno che ovviamente non voleva farsi trovare.
James
di tanto in tanto mi osservava, senza però aggiungere nulla.
Non
sapevo se avesse intuito chi stavo cercando così ossessivamente, oppure
se fosse
semplicemente preoccupato che potessi sentirmi male. La calca era quasi
insopportabile, ma dopo qualche secondo la musica s’interruppe e lo
speaker
prese la parola.
«Gooooooodnight
to everybody!» gridò, poi un urlo seguì quell’intro da discoteca.
«Are
you ready for the count-down… for 2013 year?»
urlò ancora.
Un
boato si levò dalla sala. «YES!»
«I
don’t hear you, guys. EVERYBODY SCREAM!»
«YEEEEEEEEES!»
Lo
speaker sorrise divertito da quel giochetto, e sentii James avvolgere
un
braccio attorno alle mie spalle.
«And
now…» cominciò, mentre si levò il rullo dei tamburi. «TEN… NINE…!» urlò
ancora,
imitato dal resto delle persone che affollavano il locale.
Notai
Celeste poco più avanti, con lo sguardo rivolto verso di me. Mi
sorrise. Era
felice che fossimo tutti lì, come se il tempo non fosse passato per
nulla.
Anche
Sofia e Ruben sorridevano, stretti l’uno all’altra.
Eravamo
tutti felici, accoppiati, uniti a coloro che ormai erano diventati una
parte
importante della nostra vita.
Non
dire cazzate.
«EIGHT…
SEVEN…!»
Sondai
il locale per l’ennesima volta, senza riuscire a scorgere Simone. Come
avevo
sospettato, di sicuro aveva lasciato il locale per andare a sbronzarsi
a casa,
o magari rimorchiare qualcuna in un bar. In fondo, non ero lì con lui a
controllare che non si mettesse ancor più nei guai.
Lo
avevo lasciato solo per stare con James, il suo avvocato.
Mi
sentii una stupida, una vera deficiente. Avrei dovuto capire dal suo
tono di
voce al telefono che aveva fatto il sacrificio di venire a quello
stupido
Capodanno soltanto perché glielo avevo chiesto, perché Sofia ci teneva.
Ed
io gli avevo fatto la stupida promessa che sarei stata lì, almeno prima
della
mezzanotte.
E
adesso, mentre aspettavo che i secondi passassero, mentre James mi
stringeva
ancora di più al suo petto, aspettando la mezzanotte per potermi
baciare, per
poter coronare quella specie di superstizione durante l’ultimo
dell’anno,
Simone non c’era.
«SIX…
FIVE… FOUR…!»
Ed
io mi sentivo completamente sola, nonostante fossi circondata da tutta
quella
gente. Facevo fatica a respirare lì dentro e il desiderio di tornare a
casa era
forte. Ma non potevo. Sarei rimasta almeno per Celeste e Sofia.
«Potrei
baciarti di fronte a tutta questa gente? Tu che dici?» mi sussurrò
James
all’orecchio.
Arrossii,
nonostante me l’aspettassi.
«D’accordo.»
Tanto
di Simone non c’era traccia, per cui non avevo alcun motivo per
sottrarmi a
quel gesto che per un momento mi avrebbe fatto dimenticare lui.
L’avvocato mi
sorrise e continuò a stringermi, mentre dai maxischermi distribuiti nel
locale
il pubblico era rapito dall’immagine del Big Ben in attesa che
scoccasse la
mezzanotte per salutare il 2013 in arrivo.
«THREE…
TWO… ONE…!»
E
tra l’ultimo secondo, tra l’attesa di gridare al nuovo anno, tra lo
sguardo di
James che puntava le mie labbra, sentii una mano stringersi forte e
cercare la
mia. Non ebbi nemmeno il bisogno di voltarmi per capire a chi
appartenesse.
Già
lo sapevo.
Quel
gesto fu sufficiente a farmi spostare quel tanto perché le labbra del
giovane
avvocato andassero a sfiorare la mia guancia, invece che infrangersi
sulle mie
labbra.
«HAPPY
NEW YEAR!» gridarono tutti in coro, mentre strinsi ancor più la presa
attorno
alla mano di Simone che avevo paura sfuggisse via come un sogno.
La
musica tecno ripartì ancora più assordante di prima, mentre la gente
attorno a
noi ricominciò a muoversi, separando me e James quasi senza volerlo.
L’avvocato
cercò di raggiungermi, ma fu spinto verso un angolo del locale, così mi
mimò
con le labbra “ci sentiamo dopo” e venne inghiottito dal mare di gente
che
affollava l’Heaven.
Io
fui trascinata invece dall’altra parte della struttura, ma non a causa
della
calca. La mano che stringeva la mia continuava a condurmi verso
l’uscita, quasi
come se le mie gambe si muovessero da sole sospinte da una flebile
brezza.
Eppure
faceva caldo in quel locale. Troppo.
D’improvviso
mi trovai il muro davanti agli occhi e vi posai le mani con i palmi
aperti,
mentre il corpo di Simone si schiacciava contro il mio, alle mie
spalle.
Sentivo il suo odore dappertutto, mi soffocava.
Il
suo petto caldo a contatto con la mia schiena seminuda e le sue mani
che si
erano strette con bramosia attorno alla mia vita. La sua presa era
sinonimo di
possesso ed io singhiozzai.
«Sei
venuta…» mi soffiò contro l’orecchio.
Gemetti
senza vergogna, tanto la musica era talmente assordante che non mi
avrebbe
sentito nessuno. I capelli mi si erano appiccicati al viso, così come
la mia
pelle… la sentivo scivolosa.
«H-Ho
dovuto,» smozzicai, mentre mi voltai quel tanto da scorgere il viso di
Simo
attraverso i capelli talmente disordinati da coprirmi la visuale.
Simone
ne approfittò per baciarmi e non ci fu nulla dell’amichevole gesto che
James aveva
fatto poco prima. C’era urgenza, bisogno, desiderio di rimediare a
quell’assenza e a quell’odio che in quei giorni ci aveva allontanati.
Simone
spinse violentemente la lingua nel mio palato, facendomi mugolare dal
fastidio
ma anche dal piacere. Ero ancora schiacciata contro il muro, con il
volto quasi
premuto su quelle fredde mattonelle ma non mi importava.
Potevo
sentire tutto il suo corpo schiacciato su di me, potevo sentire il modo
in cui
mi desiderava.
«Non
voglio nemmeno sapere cosa hai fatto con quell’avvocatucolo…» Portò le
mani
verso il basso e sollevò di poco il mio vestito. «Ucciderò mia sorella
per
averti fatto indossare una cosa del genere,» insistette, con la voce
roca e
frammezzata. «Lui ti ha visto con questo addosso. Ti hanno guardata e
desiderata
a causa di questo vestito…»
Gli
scostai gentilmente le mani e mi voltai, per prendergli il viso. Tolsi
i
capelli sudati che gli nascondevano quegli occhi talmente scuri da
sembrare
quelli di un demonio. Lo accarezzai per tranquillizzarlo, per
comunicargli
silenziosamente che nonostante tutto ero tornata da lui.
Alla
fine dovevo ammettere a me stessa di essere quel cane scodinzolante che
tanto
denigravo.
«Non
dovevo dirti quelle cose… al telefono,» mi sussurrò all’orecchio.
«Abbiamo
fatto un accordo io e te,» aggiunse.
L’accordo
cui si riferiva era ovviamente quella mia richiesta di interrompere
quella
specie di “relazione” clandestina che continuavamo a portare avanti
nonostante
tutto.
Cercai
la sua mano e la strinsi. «Andiamo a casa,» dissi solamente,
conducendolo verso
l’uscita. La macchina di James ci aspettava dall’altro lato della
strada e
vedendomi arrivare con un altro uomo, l’autista s’indispettì.
«Si
sente male, lo accompagno a casa,» mentii.
L’uomo
sembrò credermi e mi sorpresi di quanto stesse diventando naturale per
me dire
le bugie. Certo, la mia professione spesso e volentieri mi obbligava,
ma adesso
stavo sfiorando l’incredibile.
Oramai
mentivo a James, a Sofia, persino alla mia migliore amica Celeste con
una
naturalezza che mi spiazzava.
L’unico
che ancora si salvava – o quasi, visto che ancora non sapeva che
l’indomani
sarei partita per Roma – era Simo.
L’autista
ci accompagnò a casa e dopo averlo ringraziato, cominciai a rovistare
nella
pochette in cerca delle chiavi di casa. Entrammo nell’ascensore e non
feci in
tempo a sollevare lo sguardo che Simone mi fu addosso. Mi prese il
mento tra
pollice ed indice, inducendomi a schiudere le labbra.
Succhiò,
morse, dilaniò le mie labbra come a rimarcare quanto fossimo stati
lontani. Poi
posò la fronte sulla mia, incatenando il mio sguardo.
«Cosa
diremo agli altri?» soffiò.
«Ho
mandato un SMS a Sofia,» risposi. «Credo che le ci voglia poco per fare
due più
due, ma sono sicura che sarà discreta,» dissi, poi cercai di nuovo le
sue
labbra.
L’ascensore
si fermò con un ‘plin’ che sorprese entrambi e ci ritrovammo subito sul
pianerottolo di casa Sogno. Mi avvicinai con le chiavi in mano mentre
Simo mi
seguiva come un’ombra, senza mai smetterla di fissarmi.
«Mi
consumi a forza di squadrarmi in questo modo,» dissi maliziosa, aprendo
il
portone.
Feci
per accendere la luce ma lui mi bloccò. «Devi indossarlo più spesso,
mette in
mostra delle doti che non sapevo
avessi…» sussurrò malizioso.
Ridacchiai
come una quindicenne.
«Anzi
no, non lo indossare. Non voglio che Jacob ti veda ancora vestita così,
non
voglio abbia altri pretesti per desiderarti.»
«James,
si chiama James.»
«Non
m’importa.»
Fui
guidata dalle sue mani attraverso il buio di quella stanza che
evidentemente
Simone conosceva a memoria. Ero felice che l’oscurità ci avvolgesse,
non ero
ancora pronta a vedere fino a quanto gli occhi di Simone sarebbero
stati in
grado di assuefarmi.
Non
avevo nemmeno voglia di pensare a quante altre ragazze avesse riservato
lo
stesso trattamento, a quante scene di sesso avesse assistito quella
casa. I
muri impregnati dei gemiti delle ragazze che soleva portarsi a casa,
gli
specchi riempiti dell’immagine dei loro corpi uniti.
Ripresi
a respirare.
Ero
ancora in tempo per fermarmi, per recuperare quel poco di dignità che
mi
rimaneva.
L’odore
di Simone era forte, mi annebbiava il pensiero. Ebbi l’egoistica idea
che se
avessi continuato a strusciarmi addosso a lui, forse un po’ di
quell’odore si
sarebbe trasferito anche su di me, così da renderci l’uno parte
dell’altro.
Poi
mi diedi della sciocca.
Sentii
le mani di Simone stringersi attorno alle mie cosce e sollevarmi in un
sol
colpo per posarmi sopra il bancone della cucina, per rimediare alla
differenza
d’altezza.
«Altrimenti
divento gobbo…» ridacchiò contro il mio collo, prendendo a
mordicchiarlo.
«Scemo!»
sorrisi.
Alla
fine era riuscito a prendersi gioco di me rimanendo pur sempre gentile.
La
verità era che quella telefonata mi aveva sconvolta, mi aveva ridotta
uno
straccio e soltanto ora, dopo che il nuovo anno era arrivato ed ero
stretta tra
le sue braccia, potevo sentirmi bene.
Senza
più un brutto pensiero ad attraversarmi la mente.
«D-Dicevi
sul serio…» smozzicai, gemendo non appena sentii le sue mani sollevarmi
d’impeto la gonna del vestito.
Ringrazia
Sofia che ti ha
costretta ad indossare un intimo decente, e non il pannolone di zia
Argia.
Simone
si staccò dal mio collo, per guardarmi serio, attraverso l’oscurità. I
suoi
occhi bruciavano forse ancora di più quando erano avvolti dal buio, il
suo
elemento naturale.
«Quando?»
chiese, con voce strozzata dal piacere.
Nel
frattempo mi sentii un po’ inutile mentre avvertivo le sue mani
viaggiare
bramose su tutto il corpo, così strinsi con forza le gambe attorno alla
sua
vita e presi ad armeggiare con la cintura dei suoi pantaloni.
Lo
sentii sospirare forte.
«Al
telefono… quando hai detto di aver mentito. Su cosa? Sul fatto che non
mi
volevi qui?» chiesi ingenuamente.
Sapevo
di non avere alcun diritto di chiederglielo, non dopo aver sostenuto di
chiuderla lì. Eppure sentivo lo strano bisogno di chiarire quella
faccenda,
almeno per non aver capito fischi per fiaschi.
Simone
rimase in silenzio, con le mani immobili.
Io
invece non mi fermai, anzi. Riuscii a togliergli la cintura e a
sbottonare il
jeans, facendo calare la zip con un rumore intenso che mi fece venire i
brividi.
Lo
desideravo con un’intensità mai provata prima.
«Dimmelo,»
gli intimai, stringendo con forza la sua intimità ancora coperta dal
sottile
tessuto dei boxer.
Simone
affondò il viso nell’incavo del mio collo.
Avevo
come il bisogno di certezze, dovevo sapere se non mi ero immaginata
tutto.
Sentivo la necessità di ricevere conferme.
«Ven
io…» tentò di dire, mentre la mia manco continuava a muoversi su di
lui. I suoi
occhi continuarono a sostenere il mio sguardo, anche se il suo labbro
inferiore
era intrappolato tra i denti per sopperire al piacere che dilagava
lento dentro
di lui.
«Devo
sapere…» lo implorai, cominciando a solleticare la porzione di pelle
vicino
l’elastico dei boxer.
Simone
gemette e inspirò forte. Strinse con forza le mani attorno alle mie
cosce,
spalancandole senza alcuna grazia. C’era soltanto il desiderio a fare
da
padrone in quella cucina, su quel bancone di marmo freddo, scaldato
soltanto
dall’unione dei nostri corpi accaldati.
Mentre
in lontananza si udivano gli scoppi dei fuochi artificiali, io venivo
rapita da
quelli che il tocco esperto di Simone mi faceva scorgere dietro le
palpebre
chiuse e la testa reclinata all’indietro a cercare il piacere.
«Ho
mentito, sì…» Strattonò con forza il mio intimo. Avevamo bisogno,
entrambi, ed io mi sollevai quel poco per permettergli di
togliermi l’ultimo indumento che ci separava. Simone si scosto quel
tanto da
sfilarlo, poi, senza alcuna vergogna, se lo infilò in tasca.
Cos’era?
Una specie di premio?
«Te
lo riconsegno dopo… non sia mai che quel coglione di mio cugino lo
trovi sparso
in giro,» soffiò contro il mio orecchio.
Fu
il mio turno di abbassargli lievemente i boxer, prendendo a stimolare
lentamente l’erezione che svettava fuori dai jeans semi-abbassati.
«Ven..
ah!» gemette forte ed io cercai di non arrossire.
Lo
desideravo troppo. Misi a zittire persino il mio Cervello che
continuava a
ricordarmi che i miei amici sarebbero potuti tornare in qualsiasi
momento e
trovarci lì.
Strinsi
ancora di più le cosce attorno alla sua vita, poi mi avvicinai
strusciandomi.
I
nostri sguardi si incrociarono proprio nel momento in cui la sua mano
si unì
alla mia, per condurre il gioco. Non mi persi nemmeno la minima
mutazione del
suo viso, quando da sofferente si trasformava in puro piacere intenso.
Dopodiché
affondai il viso nella sua maglia soffocando un grido.
Simone
attese qualche minuti che mi abituassi a quell’intrusione, poi lasciò
che mi
avvicinassi ancora di più a lui, spingendomi verso il bordo e
allacciando le
gambe attorno alla sua vita, in una muta richiesta di iniziare a
spingere.
E
lui spinse. Spinse forte.
«S-Simo…
neAh!» gemetti, quando affondò con accuratezza in modo da mandarmi un
brivido
di piacere che mi spezzò in due.
«Ho
mentito. Ho mentito. Ho mentito,» ripeteva lui, quasi come una
filastrocca nel
mio orecchio, a ritmo con quei movimenti mirati che mi spedivano sempre
di più
in orbita.
C’eravamo
caduti ancora una volta e ormai non ero più sicura che sarebbe stata
l’ultima.
Lo desideravo. Per quanto ripetessi a me stessa che tutto quello fosse
sbagliato, non riuscivo a resistergli.
Simone
incarnava tutto ciò che mi era proibito, e appunto per quello lo
desideravo.
Gli
afferrai con forza i capelli, posando la fronte contro la sua e
respirando
affannosamente mentre i suoi movimenti intensi venivano proiettati
dalle luci
dei lampioni di fuori sulle pareti della cucina e del salotto. Era come
se
fossimo circondati da specchi ed io mi eccitai ancora di più.
Più
del possibile.
Sentivo
che ormai mancava pochissimo e dal modo in cui Simone si muoveva
meccanicamente, senza un ritmo preciso, compresi che eravamo al limite.
Eravamo
durati poco entrambi, perché il desiderio ci aveva consumati.
Ma
lui si fermò, si immobilizzò solo per un attimo. «Ho mentito,» sussurrò
sulle
mie labbra. «Non credo di poter smettere. Ci ho provato, ma ti voglio.
Sei come
una cazzo di droga ed io ormai sono fottuto,» poi imprecò,
nascondendosi al mio
sguardo.
Lo
riportai verso di me, catturando la sua attenzione con un lungo bacio.
«Fanculo
il patto,» dissi, poi ricominciai a muovermi da sola su di lui e lo
sentii
sibilare forte perché non si aspettava questo tipo di disinibizione da
parte
mia.
Oh,
ancora deve sapere di cosa
sei capace.
Lo
strinsi più forte e lui mi artigliò le natiche seppellendosi sempre di
più
dentro di me, aumentando il ritmo, conducendomi verso luoghi che
nemmeno
riuscivo ad immaginare.
La
soglia del piacere era vicina.
Fu
allora che affondai le unghie nella sua schiena, sotto la maglietta,
graffiandola e raggiungendo il suo orecchio con disperato bisogno.
«Vieni
con me…» gli urlai, quasi.
Simone
si agitò sorpreso, così decisi di spiegarmi. Non ce la facevo più, non
sapevo
quanto avrei resistito ma sentivo soltanto che fosse giusto.
In
un malsano e malato modo di vedere le cose, io e Simone eravamo
destinati a
stare insieme.
«Domani
torno a casa… a Roma, fino al sei Gennaio,» sussurrai, mentre lui
continuava a
muoversi più lentamente dentro di me. Voleva sapere ed io ero stata
codarda ad
aspettare sino a quel momento prima di dirglielo.
«Devo
essere sempre l’ultimo a… mh… sapere le cose…» sibilò, imponendosi di
non
accelerare.
Lo
strinsi forte, lo avvicinai a me e lo accolsi tutto quanto. Accolsi
tutto ciò
che aveva da darmi.
«Vieni
con me, ti prego,» lo implorai, ferendolo.
Lui
gridò di dolore, di piacere. Gridò un’affermazione che non seppi se si
riferiva
alla mia proposta di condividere quella vacanza oppure al fatto che
fosse
venuto.
Che
avessimo finalmente raggiunto il piacere, entrambi.
I
respiri affannati riempirono le pareti di quella cucina ed entrambi ci
prendemmo il nostro tempo per regolarizzare i battiti.
In
seguito Simone mi sollevò dal bancone della cucina senza nessuno sforzo
ed io
mi aggrappai a lui come se fosse l’ultima speranza rimasta. La speranza
di non
precipitare verso un vuoto che mi avrebbe annientata.
Non
insistetti. Non gli chiesi se sarebbe venuto con me a Roma, se mi
avrebbe
accompagnata in un viaggio che sentivo di dover fare da tempo.
Avevo
fatto la stessa domanda a James, ma lui aveva rifiutato.
Sentii
la forte voglia di piangere, perché come al solito avevo lasciato che
Simone
fosse solamente la ruota di scorta, fosse secondo all’avvocato che
reputavo
perfetto in tutto.
«D-Dove
stiamo andando?» chiesi, accoccolandomi contro il suo corpo.
Simone
mi accarezzò i capelli. «A scambiare i nostri sogni, soltanto per
questa
notte,» disse ed io non seppi mai se avesse detto o meno la verità.
Sorratemi (?) il ritardo di questa pubblicascìon ma ho avuto
i miei perché (tra cui l'immancabile voglia di non fare un tubo).
Mi prendo un pochino di tempo per ringraziare quella povera (e santa)
Tonna di Wife che si è dovuta betare 24 pagine di capitolo per 2 volte,
perché nella prima occasione il file word si era volatilizzato dal suo
piccì.
Credo che Simo gliel'abbia requisito. Cmq, che ne dite?
So che è il 15 Aprile e che Capodanno è passato da un pezzo, ma questo
capitolo lo scrissi proprio a Gennaio e mi sentivo abbastanza ispirata
e in tema. Dunque, come procede la storia tra questi due poracci? Gli
lascerò mai un po' di pace?
La risposta è ovviamente NO.
Diciamo che questa storia, come l'avevo pensata all'inizio, già era
abbastanza lunga e intricata e vi avverto che non siamo nemmeno entrati
nel clou. Io che sono un tipo che si impegna poco, mi sono andata ad
impelagare proprio bene! Siete fortunate/i che ho le mie Crudelie che
mi spronano (col fucile) con i pon pon tutti i giorni, così da non
lasciare che mi 'adagi' troppo :3
Bene, bene!
Ho pubblicato di Lunedì perché Mecoledì parto e vado a Londra a
rapire Simone con i parents per cui sarò abbastanza impegnata
per tutto il fine settimana! Ci volevo tornare da tanto tempo, la amo
quella città!
Chissà che al mio ritorno non mi senta nuovamente ispirata per una
carrellata di nuovi capitoli :3
Un bacione!
//marty
|
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Capitolo 21 *** Capitolo 19 ***
CAPITOLO
19
La
vibrazione del cellulare sul comodino mi destò da un sonno totalmente
privo di
sogni. Ricordavo unicamente di essere crollata non appena avevo messo
la testa
sul cuscino, ed ero sicura che il complice di quella stanchezza fosse
stato quello
strano Capodanno di cui ricordavo poco o niente.
Una
cosa però mi appariva stranamente chiara: il mio corpo appiccicato a
quello di
Simone nella cucina.
Mi
svegliai di soprassalto, mettendomi a sedere con uno scatto, simile a
quello
dei vampiri risvegliatosi dalle proprie bare, e per poco non persi
l’equilibrio
rotolando rovinosamente giù dal letto.
Lo
evitai soltanto perché qualcuno riuscì ad agguantarmi in tempo.
«È
mai possibile che ogni volta tenti sempre di sgattaiolare via dal mio
letto?»
mi rimbeccò Simone, facendo capolino dalla nuvola di coltri con quei
capelli
neri perennemente spettinati.
Un
lieve velo di barba sfatta gli adombrava il viso, rendendolo
“leggermente” più
maturo ai miei occhi.
Leggermente, s’intende. Aveva
pur sempre quattro anni in meno della sottoscritta.
«Se
non l’avessi notato, stavo cadendo… idiota.» sibilai, liberandomi dalla
sua
presa.
Ovviamente
mi accorsi soltanto in ultimo di essere completamente nuda, e solo
quando il
lenzuolo si abbassò del tutto e mi ritrovai uno sguardo di fuoco di
Simone
addosso, caddi nel più completo imbarazzo.
Immediatamente
mi schiacciai le mani al petto, indignata. «La smetti di fissarmi come
un
maniaco?» Tentai di coprirmi alle bell’è meglio.
Simone
sghignazzò divertito da tutta quella mia pantomima.
«Che
hai da ridere, eh? Ti diverte mettermi in imbarazzo?»
Ero
stufa di essere presa per i fondelli, soprattutto da un ragazzino
impertinente,
viziato – stupendamentebravoaletto
–
e immaturo.
Simone
scosse la testa. «Mi diverte il fatto che tu stia facendo tanto per
coprirti,
quando ieri notte mi hai mostrato più di quanto tu voglia ammettere…»
sussurrò
malizioso, avvicinandosi.
A
quel punto, la vecchia Venera gli avrebbe rifilato un bel ceffone
sonoro e
avrebbe rimesso il ragazzino in riga, al suo posto, dove avrebbe dovuto
essere.
Ma
la vecchia Ven non c’era più, ormai era un dato di fatto.
La
sera prima, nonostante fossi andata al party con James, avessi
condiviso un
ballo e una limousine con lui, avevo pensato solo ed esclusivamente a
Simone. A
quanto mi mancava, a quel vuoto che lentamente si allargava come una
voragine
nel mio stomaco, a causa della sua lontananza.
Simone
continuò ad avvicinarsi lentamente, fermandosi ad un soffio dalle mie
labbra.
Con
una mano scostò i capelli arruffati che avevo davanti agli occhi,
incastrandoli
dietro l’orecchio poi mi guardò intensamente.
I
suoi occhi bruciavano come la prima volta che lo avevo visto.
«S-Sme-Smettila…»
soffiai, stringendomi il cotone del lenzuolo al petto e sentendo le
guance
tingersi di rosso.
Riusciva
sempre a farmi uno strano effetto, a far sì che le mie difese
crollassero come
un castello di carte. Lui riusciva sempre a trovare l’asso di cuori,
alla base
della piramide e, sfilandolo, rompeva il muro che mi ero così
faticosamente
costruita attorno.
«Di
fare cosa?» continuò lui, sfiorando con il pollice la mia guancia e
cominciando
ad accarezzarla.
Una
cascata di brividi mi percorse la pelle, increspandola. Era odiosamente
strano
il modo in cui, con un gesto così semplice, Simone riuscisse a rendermi
innocua.
Afferrai
saldamente il suo polso e lo bloccai. Mi era rimasto ancora un barlume
di
lucidità dalla sera precedente e avrei dovuto sfruttarlo.
«Di
fissarmi come se fossi una bistecca e tu un lupo affamato da giorni!»
Gli
scostai bruscamente la mano.
Simone
non si offese, né sembrò arrabbiarsi. Sorrise, anzi.
«Auuuuuuuuuuuuuuu!»
ululò, rovesciando la testa all’indietro, spiazzandomi completamente.
Un
accenno di sorriso affiorò alle mie labbra. Anche se tentavo in tutti i
modi di
mantenere una maschera di serietà, controllo, di maturità nei suoi
confronti,
non riuscivo a resistere. Per quanto Simo si comportasse da ragazzino
immaturo,
certi suoi comportamenti mi facevano sentire più leggera.
«Stai
sorridendo,» disse, indicandomi l’angolo delle labbra.
«Chi?
Io? No, ti sbagli!» mentii subito, anche se stentavo ancora a
trattenermi dal
ridere.
«Eccolo!
Lo vedo!» ridacchiò felice lui.
Era
da tempo che non lo vedevo così spensierato. L’ombra che in quegli
ultimi
giorni aveva coperto il suo sguardo si era lentamente dissolta.
«Ti
sbagli.» Incrociai le braccia al petto. «Magari sto solo ridendo di te,» puntualizzai.
Lui
si accigliò giusto un attimo, poi continuò il suo assalto mirato. «Beh
allora
meriti una punizione…»
E
a quel punto mi si avventò letteralmente addosso, imponendo il suo
corpo sul
mio e costringendomi a “soccombere” sotto di lui.
«Lasciami
andare,» gli intimai, seria.
Nessuno
mi aveva mai sottomessa in quel modo, soprattutto perché mi reputavo
una donna
di carattere e capace di tenere i maschietti nel proprio pugno – seppur
piccolo.
«No.»
Simone era dannatamente serio e quegli occhi non la finivano di sondare
il mio
corpo con una bramosia che ci mise ben poco a scaldarmi.
Eravamo
così noi due, ormai non potevo più negarlo. Due scintille che al primo
contatto
prendevano fuoco e sarebbero riuscite ad incendiare interi ettari di
terreno
attorno a loro, facendo terra bruciata di tutto.
Così
saremmo finiti noi due, con solo il deserto attorno a noi.
«Simo…»
soffiai, sulle sue labbra che lentamente scendevano e si avvicinavano
alle mie.
«Ho
pensato a quello che mi hai chiesto…» mormorò, fissandomi intensamente.
Sgranai
gli occhi rendendomi conto di ciò che gli avevo chiesto la sera prima,
quando,
nell’ebbro della passione, lo avevo quasi implorato di venire a Tivoli
con me.
Ti stai proprio rammollendo…
Avrei
voluto scavarmi la fossa da sola e sprofondarci dentro, perché avevo
servito a
Simone il coltello dalla parte del manico ed ora avrebbe potuto
incidermi il
petto e cavarne fuori il mio cuore senza alcuna difficoltà.
La
mia forza si stava trasformando in una debolezza sin troppo evidente e
controproducente.
«…ah
sì?» cercai di fare l’indifferente, ma arrivati a quel punto non sapevo
quanto
ancora sarei stata credibile.
Infatti,
Simone mi lanciò subito un’occhiata di rimprovero.
Ormai
non riuscivo ad ingannare più nessuno, nemmeno me stessa. Bastava
ammetterlo,
essere coerenti: mi ero presa una sbandata per un calciatore, nonché
mio
cliente. Per Simone.
Una
cosa che andava contro tutti i miei principi e ciò che avevo sempre
sostenuto.
Mi eri persa nel mio stesso bicchiere d’acqua.
«Guarda,
non hai nessun obbligo verso di me… se non v-» ma lui mi zittì con un
profondo
e umido bacio. Mi costrinse a schiudere le labbra, ad accogliere la sua
lingua
calda e a giocarci maliziosamente, cominciando a mugolare di piacere.
Perché
era tutto istinto con Simone. Il cervello poteva benissimo essere messo
da
parte.
Ci
staccammo solo dopo alcuni lunghi minuti di coccole. Mi sentivo bene,
stranamente bene, come non mi sentivo da anni ormai.
«Dovresti
pensare di meno e agire di più,» commentò lui, con un sorriso.
«Me
l’hai già detto,» precisai.
I
suoi occhi scuri non mi abbandonarono mai e mi sentii leggermente in
soggezione
sotto quello sguardo così intenso. A dirla tutta, avevo paura. Timore
che, come
James, Simone avrebbe potuto rifiutare quel mio invito, facendomi
tornare a
casa da sola.
Non
che un ritorno del ‘figliol prodigo’ mi mettesse qualche pressione,
solo che
avrei preferito affrontarlo con qualcuno accanto. C’era sempre mio
padre che
non condivideva quella mia scelta di vivere all’estero, lontano dalla
famiglia
quasi come se lo avessi fatto apposta.
Loro
non avevano colpe, era solo che avevo sempre desiderato lasciare
l’Italia per
qualcosa di più grande, qualcosa che avrei potuto gestire a modo mio.
«Verrò.»
Se ne uscì di punto in bianco Simone, stendendosi su di me e
appoggiando la
testa sul mio petto. Il calore del suo corpo era piacevole contro il
mio, così
cominciai distrattamente ad accarezzargli i capelli.
«Ti
dico subito che se lo stai facendo per pietà, preferisco che tu non
venga…»
precisai.
Simone
alzò di poco la testa, posando il mento nell’incavo del mio seno e mi
fissò.
«Possibile che non possa mai far qualcosa senza un secondo fine? Mi
credi così
subdolo?» sorrise.
Feci
finta di pensare qualche secondo. «Uhm… sì,» conclusi, ridendo anche io.
Simone,
allora, per vendicarsi, cominciò a baciarmi il seno, facendomi
rabbrividire e
tentai in tutti i modi di scrollarmelo di dosso, ma la verità era
un’altra. Ero
felice che avesse deciso di accompagnarmi, forse lo ero ancora di più
di quanto
lo fossi stata se anche James lo avesse fatto.
Non
sapevo ancora spiegare cosa provassi per il calciatore, mi sentivo
confusa.
Eppure
ero sicura che qualcosa c’era. Qualcosa di bello, che mi faceva
sorridere, e
questo a me bastava.
«Si
può sapere dov’è finito Leonardo?» sbraitò Celeste per la
quattordicesima
volta.
Sbuffai
e tentai di calmarla. «Ha detto che andava a vedere qualcosa al negozio
di
souvenir, al centro dell’aeroporto. Tornerà presto…» la rassicurai.
La
mia migliore amica sembrava una pazza. Aveva i chiari segni del
nervosismo a
fior di pelle e in quel caso era sempre meglio starle alla larga: punto
primo,
capelli in disordine e completamente arruffati, punto secondo, occhi
spiritati
come quelli di Gollum; punto terzo, la voce stridula che raggiungeva
gli
ultrasuoni.
«Manca
un quarto d’ora all’imbarco! Possibile che dobbiamo sempre farci
riconoscere?
Come se già non sapessero chi siamo!» sbraitò, per l’ennesima volta.
«Celardo?» suggerì Simone, riemergendo
dall’imbacuccamento di quel freddissimo primo Gennaio.
Sia
io che Cel gli lanciammo uno sguardo di fuoco.
«Ma
tua nonna dov’è?» gli chiesi, notando che alle sue spalle, oltre ai
bagagli a
mano che avevamo accumulato in un angolo, non c’era nemmeno l’ombra
della
signora Annunziata.
Simone
mi restituì uno sguardo abbastanza confuso. Poi fece spallucce.
Celeste
non la finiva di andare avanti e indietro lungo tutta la sala
d’aspetto. «Eh,
ma quando ritorna, mi sente! Stavolta lo lascio di sicuro… anzi, gli
lascio
l’orma del mio stivale sulla faccia!» borbottava tra sé e sé.
In
quello stato, se le avessi fatto presente che anche la nonnina Sogno
mancava
all’appello, le sarebbe venuto un esaurimento. Mi sedetti sbuffando
sulle
poltrone, accanto a Simone di cui s’intravedeva unicamente un ciuffo di
capelli
castano scuro e un paio di occhi. Aveva la sciarpa dell’Arsenal tutta
avvolta
attorno alla faccia e il cappello con le orecchie ben calcato sulla
testa.
«Ti
rendi almeno conto di essere quantomeno ridicolo?» gli domandai,
cercando di
ignorare i borbottii della mia migliore amica.
Simone
sbuffò, o almeno credetti lo facesse. Non si vedeva nulla a parte gli
occhi e
quel dannato ciuffo di capelli.
Sorrisi.
Anche
se era la situazione più strana che avessi mai vissuto, lì a Heathrow,
aspettare il volo 28671 Londra – Roma era qualcosa che mi riempiva il
cuore di
gioia e di aspettativa. Erano sei mesi che non tornavo a casa.
Un
po’ avevo paura, dovevo ammetterlo. Avrei rivisto i miei genitori dopo
così
tanto tempo, dopo averli sentiti unicamente con delle fredde
telefonate, anche
durante gli auguri di Natale. Avevo sempre detto loro di avere troppo
lavoro da
sbrigare per poter scendere, eppure adesso mi ritrovavo qualche giorno
libero
da poter passare in famiglia.
E allora cosa c’entrava Simone?
Il
mio cuore fece una lunga capriola all’indietro ed io rimasi con la
bocca
asciutta.
In
effetti, non era sbagliato quel pensiero. Avevo conosciuto il
calciatore quasi
cinque anni prima, quando con Celeste e Robbeo eravamo volati a Londra
per
riuscire a ricucire quella specie di relazione tra lei e Leonardo, ma
non era
successo nulla tra di noi.
Anche
perché lui era ancora più immaturo di adesso, pensa te…
Simone
era quasi uno sconosciuto, un ragazzo che avevo incontrato per caso
dopo tanti
anni e con cui mi ero ritrovata costretta a condividere la casa, il
lavoro e
ogni minuto libero del mio tempo. Di certo non faceva parte della mia
famiglia.
«Il volo 28671 procederà con l’imbarco al
gate 9, ripeto, il volo 28671 procederà con l’imbarco al gate 9»
trillò la
voce metallica dell’altoparlante.
L’unica
cosa che sentimmo io e Simo, invece, fu lo strillo nevrotico di Celeste
che
avrebbe mandato giù tutte le Madonne del cielo, se nonna Annunziata non
fosse
spuntata in fondo al corridoio, tenendo suo nipote per un orecchio
mentre lo
trascinava verso di noi.
«Te
l’ho riportato, raggio di sole,» sorrise la vecchina, imbacuccata tanto
quanto
il nipote più giovane.
Celeste
la abbracciò. «Grazie, grazie!» sospirò felice, poi rivolse un’occhiata
gelida
al povero Leonardo. «Con te facciamo i conti dopo,»
ringhiò.
Mi
alzai dalla poltroncina e afferrai il bagaglio a mano, con il
biglietto. Mi
misi in fila insieme agli altri, seguita dall’omino
della michelin – aka Simone – che sembrava dovesse partire
per il Polo Nord.
«Ma
non ti sei coperto un po’ troppo? A Roma non fa così freddo…» osservai,
lanciandogli un’occhiata scettica.
Lui
tentò di rispondermi, ma ne uscì unicamente un farfugliamento ostruito
da
quella sciarpa avvolta attorno alla faccia una quindicina di volte.
Dentro di
me mi chiesi quanto potesse essere lunga…
«Lo
fa per nascondersi dalla “folla”,» intervenne per lui Leonardo,
massaggiandosi
l’orecchio destro che la nonna prima, e la fidanzata dopo, gli avevano
massacrato. Era diventato più rosso di un pomodoro maturo e
sospettosamente
gonfio.
«Ha
paura che tutti gli chiedano un autografo, che lo fermino al rullo dei
bagagli,
che lo assalgano con le foto… non si rende conto che per gli italiani è
quasi
uno sconosciuto.» ridacchiò.
Simone
tentò invano di protestare, ma quello che uscì dalla sua coltre di
indumenti fu
solo una serie di borbottii attutiti dalla lana e dagli strati del
piumino che
aveva addosso.
«Come
volere tu, uomo delle nevi!» lo derise Leonardo, massaggiandosi ancora
l’orecchio dolorante e raggiungendo Celeste che non mancò di rifilargli
un’occhiataccia.
Rigirandomi
la carta d’identità tra le mani, pensai a ciò che aveva appena detto
Leo. Non
avevo minimamente pensato alla reazione che gli altri avrebbero potuto
avere
vedendo Simone, a cosa, un paese piccolo come Tivoli, avrebbe potuto
fargli una
volta scoperta la sua identità.
Non
ci avevo pensato, perché per me lui era prima di tutto Simone, poi il
resto.
Ormai
non era più Mr. Sogno, oppure il calciatore di fama mondiale che
giocava in uno
dei club più esclusivi della capitale inglese. Avevamo condiviso troppe
cose
insieme, perché potesse ridursi tutto a quello.
Lo
guardai con la coda dell’occhio, pentendomi per un attimo per averlo
costretto
a seguirmi. Lui non mi doveva niente, non eravamo nulla noi due: né
fidanzati,
né innamorati… forse amanti e basta.
Simone
vedendomi pensierosa si abbassò leggermente due dei dodici strati della
sciarpa
che gli copriva il volto. «Ti sta frullando qualcosa qui dentro…»
insinuò,
abbassandosi e picchiettando l’indice insistentemente sulla mia tempia.
«Piantala per un attimo di pensare, okay? Lo so che ti stai pentendo di
avermi
chiesto di venire, te lo leggo negli occhi,» sospirò.
Mi
vergognai come una ladra per essere così facilmente leggibile da uno
come
Simone, eppure ormai era come se fossimo sulla stessa lunghezza d’onda.
Mi
capitava sempre più spesso di intuire il suo umore e lui il mio.
Si chiama “essere anime gemelle”,
ciccia.
Scossi
la testa violentemente. NO! C’era una bella differenza tra lo scopare
come
conigli giorno e notte e in ogni luogo di quell’appartamento, ed essere
anime
gemelle. Un’enorme differenza. Io e Simone avevamo chimica, ormai era
innegabile, ma non ero innamorata di lui.
Nossignore.
Anche
perché, se ciò fosse stato vero, avrebbe segnato la mia condanna a
morte.
Venera Donati non poteva permettersi nessun tipo di relazione fino a
quando non
fosse diventata socia della Abbott&Abbott, e per far ciò avrei
dovuto
vincere la causa di dubbia paternità di Simone.
A
proposito della causa…
«Ma
il test di paternità?» domandai di punto in bianco a Simo, cambiando
abilmente
discorso.
Lui
mi sorrise. «Rimandato,» sghignazzò. «Ho detto che avevo degli impegni
che non
potevo assolutamente saltare… degli impegni che mi costringevano a letto per qualche giorno…» e mi
sorrise malizioso, soltanto con gli occhi visto che spuntavano solo
quelli
dalla sciarpa e dal cappello.
«Sei
un maiale,» lo apostrofai.
«Ronf!»
ridacchiò lui, manco avesse cinque anni.
«Prego,»
mormorò la signorina, così le porsi il biglietto aereo e la carta
d’identità.
Controllò i miei dati, poi mi congedò con un sorriso augurandomi buon
viaggio.
Oltrepassai
il tornello e aspettai Simone. Non seppi nemmeno il motivo per cui
avrei dovuto
farlo, mi sembrava di essere tornata al liceo, quando attendevo Celeste
in un
angoletto perché dovevamo fare tutto insieme.
La
hostess controllò i documenti di Simone, poi gli sorrise melliflua.
Alzai
un sopracciglio quando il suddetto calciatore si abbassò la sciarpa con
fare da
dongiovanni e le sussurrò qualcosa che non riuscii a capire. In ultimo,
soltanto mezzo secondo prima che lo liquidasse, Simone si accorse che
lo stavo
fissando ed impallidì.
A
quel punto mi diressi a cercare il mio posto a sedere. Che si fottesse
lui e
quella sciarpa di merda.
Sentii
i suoi passi goffi dietro di me, ma non rallentai. Anzi, la mia bassa
statura e
l’assenza dell’ingombro del piumino che aveva il calciatore, mi
permisero di
zigzagare tra la folla dei passeggeri che posizionavano i loro bagagli
nello
stipetto sopra i sedili.
Avvistai
il numero “48” proprio vicino all’uscita di emergenza e mi ci fiondai
prima che
Simone potesse raggiungermi. Per fortuna vidi che nonna Annunziata
occupava uno
dei tre sedili, quello vicino al finestrino. Almeno avrei avuto una
“testimone”
che avrebbe cucito la bocca a Simone senza che io stessi lì a sentire
tutte le
sue stupide scuse puerili.
Non
stavamo insieme, d’accordo, ma almeno avrebbe potuto evitare di fare il
coglione con tutte le creature di sesso femminile presenti sulla faccia
della
terra!
Sei troppo esagerata, gli stai
soltanto gettando benzina sul fuoco. Così si sentirà ancora più
importante e
ciò gli darà il diritto di trattarti a pesci in faccia.
Dov’è finita la Venera di
ghiaccio?
Aveva
ragione il mio Cervello. Il mio buon caro e vecchio Cervello che per
buona
parte delle vacanze invernali si era assopito, forse zittito dai
quintali di
dolci che avevo ingurgitato in baffo alla dieta.
«Sei
emozionata per il rientro a casa, cara?» mi domandò la nonna.
Annuii
sorridendo. «Sono sei mesi che non li vedo…» sospirai.
Lei
a quel punto mi strinse la mano e mi sorrise, facendomi forza. Anche se
dall’esterno potevo sembrare una donna forte, capace di sopravvivere a
tutto e
ignorare le proprie emozioni, persino una vecchina era riuscita a
capire come
mi sentissi nervosa in quel momento.
«Andrà
tutto bene, poi ci sarà Pisellino
al
tuo fianco,» insinuò, strizzando l’occhiolino.
Rimasi
a fissarla basita, incapace di capire se dovessi sorridere o meno. In
quel
momento, avrei voluto volentieri prenderlo a badilate sui denti, ma
tentai di
trattenermi.
Il
diretto interessato arrivò con un po’ di ritardo, riuscendo a mettersi
seduto
nonostante l’ingombro di quel cappotto e di quella sciarpa
chilometrica.
Finalmente, dopo quasi due ore che era imbacuccato in quel modo, si
tolse il
cappello e si sbottonò il giubbino.
«Caaaaaldo!»
sospirò, esausto.
Nemmeno
gli risposi, anche se avrei voluto infierire.
Dovevo
stare calma. Il Cervello mi aveva ben suggerito di fregarmene di tutta
quella
faccenda, altrimenti gli avrei unicamente dato una soddisfazione in
più. Già si
sentiva Mr. Ho-l’ego-più-grosso-di-uno-stato-indipendente, figurarsi se
avesse
saputo di rendermi gelosa della prima hostess che gli fosse ronzata
attorno.
Giammai!
«Tesoro,
non ti fa bene coprirti così. Poi ti ammali,» lo rimproverò la nonna.
Simone
sbuffò e agitò le mani. «Devo mantenere l’incognito, altrimenti quando
arriverò
a Roma non potrò nemmeno camminare in pace. Ragazze che mi fermano ad
ogni
angolo… che vogliono una foto con il sottoscritto, o magari un bacio…»
e lì mi
lanciò un’occhiata per vedere la mia reazione.
Il
nulla.
Rimasi
impassibile afferrando uno dei miei libri da leggere – Storia
del diritto medievale e moderno – ma non feci una piega.
Notai con soddisfazione che rimase leggermente deluso da quella mia
freddezza,
ma decisi di continuare a non dargliela vinta.
«Buongiorno a tutti, qui è il comandante che
vi parla. Siete sul volo 28671, con partenza da Heathrow Londra e
diretto a
Roma Fiumicino. L’equipaggio vi augura un buon volo e un soggiorno
piacevole.»
In
seguito, le due hostess e lo stewart cominciarono a spiegare i
movimenti base
in caso di emergenza. Ero completamente immersa nel capitolo
quattordici del
volume che mi ero portata come lettura leggera in aereo, quando fu il
momento
di allacciare le cinture.
Notai
che nonna Annunziata si era portata qualcosa da fare a maglia, mentre
Simone
era assorto nello studiare la macchia ignota che era sul copri testa
del sedile
di fronte.
I
motori del boeing cominciarono a rombrare, così come l’aereo che iniziò
a
muoversi lungo l’aeroporto, raggiungendo la pista che gli spettava. Non
ero
nervosa, anzi. L’aereo non mi aveva mai dato problemi, più che altro
ero ancora
intenta a non fare passi falsi con Simone.
Pensava
davvero che mi desse fastidio il fatto che ci provasse con metà della
popolazione femminile? Ancora non sapeva con chi avesse a che fare.
Venera
Donati non si era mai fatta mettere sotto da nessuno!
Non in senso letterale… visto che
stamattina…
Non
nel senso strettamente letterale.
Dopo
due giri di pista a vuoto, il boeing si posizionò sulla pista nove e
cominciò a
rullare più forte. Misi da parte il tomo, giusto per non perdermi la
partenza,
e attesi. Poco dopo cominciò a partire, decollando a poco a poco ed io
sentii
quella familiare sensazione di compressione allo stomaco.
La
pressione che iniziava a salire, le orecchie che si otturavano e il
respiro
sempre più corto.
Simone,
accanto a me, non fece una piega, come la nonna dall’altra parte. In
fondo
erano abituati, pensai. Leonardo aveva accennato a Cel che da piccoli
spesso
erano costretti a viaggiare molto per riunire le due famiglie che
abitavano
così lontane.
Il
papà di Simo e di Leo erano fratelli, e anche se i genitori di Simone
si erano
separati, questo non significava che i cugini non dovessero più
incontrarsi.
Dopo
poco, per fortuna, apparve il segnale di slacciare le cinture e di
poter
accendere gli apparecchi elettronici purché in modalità offline. Con
mia grande
sorpresa, nonna Annunziata tirò fuori l’ultimo modello di lettore mp3
della
Apple e inforcò gli auricolari, cominciando a scegliere la playlist.
Simone
sorrise. «Da quando papà glielo ha regalato, non si scolla più da
quell’affare,» commentò.
Rimasi
basita nel vedere una settantenne così a suo agio con quella
tecnologia,
contando il fatto che per insegnare a mia nonna ad usare il cellulare,
ci
avevamo messo tre o quattro anni.
E
ancora adesso le partivano le telefonate a casaccio.
«È
sorprendente!» dissi.
Ripresi
la mia lettura leggera, ignorando palesemente Simone che tentava di
stabilire
un contatto visivo con la sottoscritta. Nel frattempo, sul sedile
posteriore,
si sentivano gli schiamazzi di Leonardo e Celeste che litigavano
riguardo a
qualcosa.
«Sembrano
una coppia sposata,» sbuffò il piccolo Sogno.
«Chi?»
chiesi distrattamente.
Nel
frattempo, di sottofondo, partì la canzone “Highway to hell” degli ACDC
dall’i-pod della vecchina. Rimasi sempre più sconcertata dai gusti
della nonna
di Simone.
«Quel
carciofo di mio cugino e l’amica tua,» sbottò, come se non ci arrivassi
da
sola. Ero completamente immersa in feudi e acri di terreno!
«Stanno
sempre a battibeccare, a discutere, ad urlare… non li sopporto,»
aggiunse lui,
cominciando a grattare la macchia sul copri testa di fronte.
Lo
fissai disgustata.
«È
normale, quando si sta insieme. Di solito, discutere rafforza il
legame,»
dissi, anche se le mie storie precedenti non erano durate abbastanza,
nemmeno
da essere definite “storie”.
Simone
sbuffò. «Il nostro no,» disse di punto in bianco.
Segnai
il rigo cui ero arrivata con l’indice, poi specchiai i miei occhi nei
suoi.
«Punto primo, stiamo sempre a litigare, anzi, a scannarci, dal primo
giorno che
ci siamo incontrati,» sospirai esausta. «Punto secondo, noi non siamo una coppia,» conclusi.
Colpito e affondato.
Avevo
decido di non concedere terreno a Simone, di non fargli capire che
fosse
importante per me. Anche se la sera prima avrei fatto di tutto pur di
vederlo,
anzi, mi ero quasi sentita male a causa della sua assenza, lui questo
non
doveva saperlo.
Conoscevo
quelli come lui, i ragazzi viziati e belli, quelli che avevano sempre
tutto
dalla vita. Se lo avessi accontentato subito, si sarebbe stufato di me
come di
un giocattolo ormai vecchio, e ne avrebbe cercato uno nuovo,
abbandonandomi in
una vecchia soffitta polverosa.
E
nessuno doveva permettersi di usarmi.
Simone
rimase dieci minuti buoni a fissarmi.
«Che
vuoi?» dissi, continuando a leggere senza nemmeno restituirgli lo
sguardo.
Lui
si affossò nella poltrona e grugnì. «Niente!» con un’espressione
imbronciata.
Lo
lasciai crogiolarsi nella sua rabbia, e continuai ad immergermi nella
lettura.
Ero soddisfatta di come avevo affrontato la questione, anche perché con
Simone
bisognava avere sempre il guinzaglio tirato. Mai dargli corda.
«Caffè
o succo di frutta?»
Mi
voltai distrattamente verso la hostess che si era avvicinata col
carrello delle
bevande, porgendomi un bicchiere di plastica. Simone mi fece cenno di
chiedere
anche a nonna Annunziata se voleva qualcosa.
Le
diedi un colpetto al gomito, interrompendo “Romeo & Juliet” dei
Deep
Purple, ma lei negò subito l’offerta della hostess.
«Io
un caffè, grazie,» dissi, mentre mi veniva versato il solito bibitone – come lo chiamavo io – degli
inglesi che conteneva due grammi di caffeina e dodici litri d’acqua.
La
signorina mi porse il bicchiere, poi rivolse a Simone un sorriso da
gatta in
calore. Roteai gli occhi al cielo. Era mai possibile che esistesse
almeno un
essere dotato di vagina che non ci provasse con quel microcefalo?
«Lei
cosa desidera… Mister…?» e ridacchiò.
Per
Simone, era come se lo avessero invitato a ballare direttamente un
tango
orizzontale nel bagno dell’aereo, così cominciò a flirtare liberamente
con la
hostess, quasi io fossi invisibile.
In
un certo senso, me l’ero cercata.
Avevo
chiaramente detto al calciatore che non c’era nulla tra noi, e che i
suoi
patetici tentativi di abbordaggio non mi facevano né caldo né freddo.
In
verità, mi stava dando un fastidio che rischiava di farmi venire un
forte
prurito alla pelle.
«Se
non le dispiace, anche io un bel caffè… con molto zucchero. Amo le cose
dolci…»
e lasciò la frase in sospeso di proposito.
Che
razza di marpione. Dio mio! Quelle battute patetiche non avrebbero
fatto
effetto nemmeno sulla più stupida delle galline in gonnella, eppure la
hostess
bionda continuava a ridacchiare. Bene, dagli pure la soddisfazione di
essere un
bravo corteggiatore… perfetto!
Ecco
perché i ragazzi d’oggi non sanno più cosa sia la galanteria.
Se
la prima sciacquetta che incontrano è già pronta ad allargare le gambe
con una
simile battuta priva di qualsiasi charme…
Devo ricordarti chi di noi, tra i
presenti, ha “aperto le gambe” nemmeno ventiquattr’ore fa?
Tornai
al mio bel capitolo sui feudi, ignorando palesemente sia le battutine
semi-pornografiche che si scambiavano quei due, sia il Cervello che
cominciava
a fare di testa sua.
Meglio
studiare, prepararsi e continuare a mantenere la mente allenata. Si
trattava di
una vacanza, questo sì, ma sarebbe stata breve.
Passati
quei giorni di “festa” sarei subito rientrata in pista al fianco di
James,
contro St. James e la Cloverfield che voleva unicamente una fetta della
notorietà
di Simone.
«Sentito,
Ven?» mi disse d’improvviso Simone, distogliendomi dalle mie
riflessioni.
«Cosa?»
Lui
sorrise alla hostess. «È sempre nel suo mondo, troppo intelligente la
mia
piccolina!» ridacchiò strofinandomi il palmo sulla testa.
Piccolina?
Mia? Ma da quand’è che mi
apostrofava
con parole che non erano “nanetta” oppure “miss acidona duemilatredici”?
«Siete
proprio una bella coppia,» sorrise la signorina, salutandoci e
proseguendo con
gli altri ospiti del volo.
Mi
ero persa praticamente tutto il discorso. «Che cavolo le hai detto?»
ringhiai,
scostandogli bruscamente la mano che era ancora rimasta artigliata alla
mia
testa.
Simone
sghignazzò. «Nulla che non fosse vero,» disse tranquillo.
Mi
preoccupai di quella sua asserzione. Possibile che mi fossi immersa a
tal punto
nei miei pensieri, da non accorgermi che stesse sparlando di me?
Chiusi
il libro e minacciai Simone con 384 pagine di Diritto medievale. «Cosa.
Le.
Hai. Detto.,» ringhiai minacciosa.
Lui
fissò prima me, poi il tomo dall’aspetto minaccioso ed estremamente
polveroso.
«Vuoi farmi morire d’allergia?» chiese.
Lo
fissai assottigliando lo sguardo. «No, ma posso sempre colpirti con il
bordo e
farti spuntare un bernoccolo al centro della fronte!» sibilai.
Simone
alzò le mani in segno di resa. «Ma niente, la signorina è stata così
gentile da
offrirsi di togliermi questa macchia,» e si indicò i pantaloni con un
evidente
macchiolina di marmellata che si era sbrodolato mangiando una
crostatina, «nel
bagno dell’aereo, ma le ho detto che ci avrebbe pensato volentieri la
mia
fidanzata.»
Sgranai
gli occhi. «L-La t-tua cosa?» balbettai.
«Ma
adesso parli come quel coglione del fidanzato di mia sorella?» sbottò
lui.
Gli
afferrai il polso e strinsi, come se non ci fosse un domani. «Vuoi che
ti ripeta
anche in francese quello che ti ho detto prima riguardo al nostro
“rapporto”?»
ripetei.
Era
qualcosa che dovevo chiarire. Alla fin fine eravamo stati a letto
insieme, ma
trattandosi di Simone, avevo sempre creduto che non ci saremmo spinti
oltre dall’essere
friends with benefits.
Stranamente,
però, il modo in cui Simone aveva liquidato la hostess mi faceva
sentire
lusingata.
Non devi adagiarti sugli allori.
Ricorda, guinzaglio tirato.
Giusto,
non dovevo dargliela vinta altrimenti mi avrebbe rigirato come un
calzino.
Simone
sprofondò ancor di più nella poltrona. «Non sei divertente quando fai
l’acida
in questo modo. Stamattina lo eri molto di più,» brontolò, giocando con
il
laccio del suo cappotto.
Mi
si strinse il cuore a vederlo così afflitto. Come al solito, dando
retta alla
Ven “razionale” avevo spinto da parte e sigillato quella parte umana di
me.
Simone era un dongiovanni, questo lo avevo capito sin da subito, ma per
arrivare fin dove mi ero spinta con lui, avevo visto qualcosa oltre
quella maschera
che ostentava con tutti.
Controllai
che nonna Annunziata fosse ben intenta a finire la sciarpa di lana e
che
nessuno stesse guardando nella nostra direzione. Mentre aprivo il libro
per
finire il capitolo, lo lasciai sulle ginocchia e con la mano cercai
quella di
Simone, intrecciando le nostre dita.
Lui
sussultò a quel contatto ma non si scostò.
Con
la coda dell’occhio lo vidi sorridere e sorrisi a mia volta.
Eravamo
strani, lo ammetto, ma di una stranezza che cominciava a piacermi e a
cui mi
stavo lentamente abituando.
***
Una
volta scesi dall’aereo, raggiungemmo il rullo dove sarebbero stati
distribuiti
i nostri bagagli. Ovviamente, da che mondo e mondo, chiunque
sa che l’aeroporto di Fiumicino è famoso per la
caratteristica dei giorni interi passati a fissare il rullo prima di
avere
indietro i propri bagagli.
Mi
ricordo un anno, forse il viaggio della maturità, in cui attendemmo due
ore e
mezza prima che ci fossero rese tutte le valigie. Una cosa del tutto
inaudita.
Era durato meno il volo aereo, che il ritiro bagagli.
«Mettiti
comodo,» suggerii a Simone, trovando un gradino che sembrava piuttosto
accogliente.
Lui
mi fissò perplesso. «Perché?»
Sorrisi
quasi per la sua ingenuità. «Non lo sai che i nostri bagagli
arriveranno come
minimo tra un’ora? Se ci va bene, poi…» gli dissi.
Simone
stranamente non sembrò sconvolto da quella verità. Mi porse gentilmente
la
mano. «Alzati e vieni con me,» sorrise enigmatico.
Notai
che anche Celeste seguiva Leonardo, così come nonna Annunziata che
procedeva
dietro di loro. Rimasi sconvolta nel constatare che ci stavamo
dirigendo nel
gabbiotto dove c’era la sicurezza. Pensai subito che si fossero
ammattiti, o
peggio.
«Cosa
vuoi fare?»
Simone
non disse nulla, si limitò a farci entrare nella stanzetta dove un paio
di
poliziotti, con cani lupo al guinzaglio, scortavano i nostri bagagli
intonsi.
Anzi, per un nanosecondo pensai li avessero persino lucidati…
«Li
abbiamo controllati, è tutto apposto,» disse il capo della sicurezza a
Leonardo. «Sei pulito, campiò!» orrise, stringendogli la mano.
Capii
quella specie di “mafia” aereoportuale soltanto alla fine di tutta
quella
pantomima. I poliziotti ridevano e scherzavano coi due cugini Sogno,
lasciandosi fare delle foto e degli autografi solo per aver consegnato
loro i
bagagli prima degli altri comuni mortali.
Rimasi
completamente scioccata da tutto quello. Essere famoso ti spianava
delle strade
che altrimenti sarebbero state sbarrate ad un tipo come me, ad esempio.
Celeste
sembrava abituata, infatti, non faceva che sorridere e scherzare con
gli
agenti.
Nel
frattempo accesi il telefono, e scoprii che avevo due messaggi non
letti: uno
di James e l’altro…
hi,
spaghetti girl!
sei
atterrata? come va lì? fa freddo? fammi sapere se va tutto
bene.
xoxo
jamie.
Fissai
quel messaggio come se fossi caduta in trance. Lo avevo liquidato con
un “ci
sentiamo” la sera precedente, ma non mi ero nemmeno ricordata di fargli
una
telefonata o dirgli che fine avevo fatto.
Certo, magari dicendo “ciao
collega, sono andata via dal party per trombarmi selvaggiamente il
nostro
cliente – cosa che faccio ormai da tre settimane”.
Il
mio Cervello era particolarmente sarcastico in quel periodo di vacanze.
L’altro
messaggio non seppi se fosse il caso di leggerlo o meno. Non sentivo il
mittente da quando avevo lasciato Tivoli e la cosa lo avrebbe fatto
arrabbiare
molto. Eppure sapeva del mio arrivo. Di sicuro, mia madre ci aveva
messo lo
zampino.
Decisi
di togliermi quella curiosità.
guarda
te se ho dovuto sapere da tua madre che venivi in questi
giorni!
sei
incredibile, vennie. sappi che te la farò pagare in modi che
nemmeno conosci. intanto verrò a prenderti alla stazione dei pulmann.
sto
qui dalle sette di questa mattina, a congelarmi tra l’altro.
avrai
la mia salute sulla coscienza.
-m.
Già
questa la diceva lunga su chi mi sarei trovata di fronte persino prima
di
mettere ufficialmente piede a Tivoli.
Simone
mi si avvicinò di soppiatto. «Chi è?» chiese, sospettoso. Notò che
mettevo via
il cellulare con una certa fretta e cominciò ad accigliarsi. «Di nuovo
l’avvocatuncolo?
Ma lo sa che ci sono anche io? Sarebbe bene avvertirlo…» ghignò.
Sospirai
sonoramente alzando gli occhi al cielo. «La tua virilità rimarrà
intaccata. Era
Jamie ma voleva solo sapere se fossi atterrata e questo è un altro
messaggio
che non ti riguarda,» tagliai corto, afferrando il mio trolley e
dirigendomi
verso le fermate dei pulmann.
Simone
mi raggiunse con due falcate. «Tutto ciò che c’è su quel telefono mi
riguarda,»
disse serio.
Gli
rivolsi uno sguardo strano. Non sapevo se stesse facendo sul serio o
era
soltanto un modo per vedere se mi arrabbiavo. Davvero era così geloso
degli sms
che ricevevo?
Notai
che i suoi occhi diventavano sempre più scuri, man mano che continuavo
a
nascondergli la verità. Forse quella specie di cosa che c’era tra noi
due, si
stava sempre più allontanando dal modo giocoso con cui era iniziato
tutto.
Cercai
di tagliare la discussione il più in fretta possibile. «È solo
un’amica,»
sospirai, omettendo un particolare un po’ spinoso di cui non avevo
fatto mai
parola con nessuno. «Ci aspetta all’arrivo dei pulmann a Tivoli,» gli
spiegai.
Simone
parve subito ringalluzzito. Aveva tirato su la testa, lucidato la sua
cresta da
gallo cedrone e pettinato il bargiglio che gli penzolava dal mento.
Esibizionista.
«È
carina, questa tua amica?» ammiccò.
Riflettei
sul particolare che gli avevo omesso, poi pensai di divertirmi alle sue
spalle.
«Molto carina, ma non è il tuo tipo,» aggiunsi.
Nel
frattempo, Leonardo e Celeste ci avevano raggiunti con nonna
Annunziata.
Sapevamo bene che le nostre strade, da quel punto in poi, si sarebbero
divise.
Dovevamo salutarci.
«Come,
non è il mio tipo?» protestò subito Simone. «Tutte
le ragazze sono il mio tipo!» disse con ovvietà.
Riuscii
a trattenermi dal ridere a stento. Era troppo facile prendersi gioco di
Simone,
solo che cercai di rimanere nel personaggio il più possibile. Cosa
c’era di
male a prendersi gioco di lui nell’attesa del breve viaggio che ci
avrebbe
aspettato?
Nulla.
Infatti.
«Tesoro,
stammi bene durante questa breve vacanza. Può essere che convinca Leo a
salire
un po’ da te, chissà…» sorrise Celeste, abbracciandomi.
La
strinsi a mia volta. «Mi casa es tu casa,»
ridacchiai.
Lei
mi guardò un po’ apprensiva. Nei suoi occhi blu lessi molto più di ciò
che
voleva dirmi a parole, però si limitò a mettermi in guardia. «Stai
attenta,» e
lanciò uno sguardo esaustivo verso Simone che salutava sua nonna e
prendeva a
cazzotti Leonardo.
Lo
guardai anche io, sospirando. «Lo farò,» le promisi.
Non
sapevo quanto la mia migliore amica avesse intuito, ma era chiaro come
il sole
che ormai c’era qualcosa tra me e il calciatore. Era innegabile. Quegli
sguardi, quegli sfioramenti e le battutine erano inequivocabili ormai.
Avevamo
fatto il “salto” che ci aveva permesso di passare da acerrimi nemici a
focosi
amanti.
Salutai
Leonardo e nonna Annunziata, che mi promise di passarmi presto tutta la
sua
playlist dell’i-pod, poi ci dirigemmo con i trolley al seguito verso la
stazione dei pulmann.
«Dobbiamo
prendere il 547,» dissi, controllando bene il biglietto che avevo fatto
su
internet prima di partire.
Simone
sbuffò e alzò la mano. Il taxi bianco inchiodò di fronte a noi e per
poco non
mi mise sotto le ruote. «Che cazz…?» imprecai.
Simone
aprì la portiera e mi fece cenno di entrare. «Io non prendo i mezzi
pubblici,»
commentò, poi mi strappò la valigia dalle mani e mi spinse
letteralmente dentro
l’abitacolo dell’auto.
Scambiò
due parole col tassista, poi si sedette accanto a me e partimmo.
«Dunque,
un campione come lei cosa ci va a fare a Tivoli? Vuole rilassarsi alle
terme?»
chiese l’autista. Si sa che i tassisti, soprattutto quelli romani, sono
i più
chiacchieroni e impiccioni di tutto l’universo.
Simone
sorrise e mi passò un braccio attorno alle spalle. «Sono stato invitato
a casa
della mia ragazza,» ridacchiò, facendomi arrossire.
Immediatamente
l’uomo cominciò a farmi domande, ad interessarsi alla mia professione e
si
sorprese di sapere che non ero nessun tipo di modella, bensì un
quasi-avvocato.
Mi fece piacere parlare con quell’uomo, rese il viaggio molto più
leggero.
Mi
dimenticai persino che Simone avesse speso quasi un patrimonio per
portarci da
Fiumicino a Tivoli con il taxi. Era una cosa incredibile e se fossi
stata
completamente in me, mi sarei infuriata.
Soprattutto
perché avevo buttato le sette sterline del pulmann che avevo prenotato
tramite
internet.
«Dunque,
da quanto state insieme, se posso chiederlo?» domandò, imboccando
finalmente
l’uscita che dal raccordo conduceva sino a Tivoli.
Cercai
di rispondere per prima, per evitare imbarazzi, ma Simone mi
precedette. «Da
ieri, è stata una cosa piuttosto improvvisa.»
«Oh!
Un amore giovane, allora! Congratulazioni. E mi dica, signorina, com’è
stare
con una star del calcio come il signor Sogno?» domandò ancora.
Sembrava
di stare sotto interrogatorio. Stavolta sentii gli occhi di Simone
addosso,
come due calamite d’onice. Aspettava che rispondessi, il maledetto.
«Non
più strano di quanto sembri. Alla fine, la fama non è poi tutto questo
granché,» commentai, con la mia solita inflessione di acidità.
Il
tassista sorrise, Simone no.
Intravidi
un’ombra di broncio fanciullesco sul suo viso e mi compiacqui. Voleva
il gioco
duro? Allora doveva essere abituato anche ai colpi bassi come quello.
Si
vantava a destra e a manca che fossi la sua fidanzata, quando nessuno
aveva
deciso questo, così mi divertivo anche io alle sue spalle.
«Com’è
che siete diretti alla stazione dei pulmann?» s’informò il tassista.
«Un’amica
ci viene a prendere, che cara…» sorrise Simone, fissandomi.
Assomigliava
stranamente a Jim Carrey nel “Il grinch” con quel suo aspetto malvagio.
Ridacchiai
a mia volta. «Già, un’amica.»
«Beh,
allora siamo quasi arrivati,» annunciò il tassista.
Simone
mi si lanciò completamente addosso, spalmandosi sul finestrino opposto
per
sbirciare se riusciva ad intravedere la mia famosa “amica” dell’sms.
«Spostati!»
gli urlai, soffocando da tutti gli strati di stoffa che si era messo
addosso.
Sembrava addobbato come un albero di natale!
«È
quella biondina laggiù? O la moretta lì in fondo? Spero per te che non
si
tratti di quella laggiù perché è un mostro…» cominciò a criticare.
«Levati
di dosso, maledetto idiota!» sbraitai, poi finalmente il tassista
parcheggiò e
mi concesse di scendere e di riacquistare la capacità di respirare.
Simone
lo pagò e smontammo i bagagli dal lato posteriore della vettura,
dopodiché il
calciatore mi si affiancò, vedendo che sondavo le persone presenti
nell’ampio
parcheggio.
«È
lei?» mi disse, quasi accecandomi per indicare una ragazza bionda e
alta.
«No!»
ringhiai, afferrando il cellulare dalla tasca per sicurezza.
«Lei?»
chiese di nuovo, indicandomene un’altra.
«No,
te lo dico io quando si avvicina,» lo rassicurai.
Sondai
bene tutti i dintorni, cercando di riconoscere tra la gente chi avrebbe
dovuto
“scortarci” fino a casa e mi sorpresi di incrociare il suo sguardo
subito dopo.
Sorrisi.
«Andiamo,»
comunicai a Simone e cominciai a camminare verso un punto preciso del
grande
parcheggio. Era lì, avvolto in quel vecchio pastrano che avevo visto un
milione
di volte, con quella kefiah da anticonformista che si addiceva proprio
al suo
personaggio.
«Ehi,
‘spetta!» si lagnò Simone, seguendomi. Cominciò a notare con disappunto
il
particolare che fino a quel momento gli avevo saccentemente nascosto.
«Guarda
che in quella direzione ci sta solo un coglione con le basette di
Barbossa,
eh…» osservò piccato.
Ignorai
la sua protesta e mi avvicinai al suddetto ragazzo, che mi restituì un
sorriso
lungo da orecchio a orecchio. Allargò le braccia ed io lasciai andare
la
valigia per tuffarmici dentro e affondare in quel vecchio cappotto che
ancora
odorava delle prime sigarette che ci eravamo fumati insieme.
«Sei
arrivata, finalmente,» mormorò sorridente.
«E
tu hai mantenuto la parola e mi sei venuto a prendere.»
Lo
sguardo del ragazzo si spostò perplesso da me a Simone, poi di nuovo
sulla
sottoscritta. Simone mi fissava come se avessi appena fatto sesso in
pubblico
con il mio migliore amico. Era nero, cupo, arrabbiato e deluso.
«Sarebbe
lui la tua amica?» indicò il
ragazzo
con un indice.
Feci
spallucce. «Lo avevo detto che non era il tuo tipo…» gli feci notare.
«Comunque
lui è Mario, Mario, questo è Simone,» feci le dovute presentazioni nel
più
breve tempo possibile.
Via il dente, via il dolore.
Simone
e Mario si lanciarono un’occhiataccia gelida e si squadrarono, come due
cervi
pronti a prendersi a cornate per il territorio.
Mario
allungò la mano per primo. «Tu sei quel calciatore dell’Arsenal…
giusto? Mi
pare di averti visto in televisione…» sorrise.
Simone
gli strinse la mano, forte. Forse un po’ troppo
forte. «Sono io, peccato che non possa dire lo stesso di te,
visto che mi
sei sconosciuto.»
Inspirai
forte.
Cominciamo
bene, quei due si conoscevano da meno di due secondi e già tirava aria
di
tempesta. Mario era il mio migliore amico da sempre, da quando ne avevo
memoria.
Non ne avevo mai parlato con Simone, perché ormai non ci sentivamo da
mesi, da
quando ero partita. Soltanto Celeste sapeva quanto io e lui fossimo
legati.
Era
come mio fratello maggiore.
Sarebbe
stato meglio che avessi fatto una premessa a Simone, dicendogli che tra
me e
Mario non c’era mai stato nulla – nonostante ci avessimo provato,
davvero –
eppure ci avevamo riso sopra, perché il legame che si era instaurato
tra di noi
era del tutto fraterno e inscindibile.
Ma
chi ero io per privarmi di uno spettacolo simile?
Divertirmi
alle spalle di Simone per quasi una settimana, vedendolo rodersi il
fegato e
facendosi chissà quali filmini mentali su me e Mario che ci davamo
dentro come
conigli… imperdibile.
«Bene,
bando alle ciance. Andiamo a casa, sono esausta,» sospirai.
Veloce
come un fulmine, Mario afferrò il trolley e mi scortò verso la sua
auto,
ridacchiando.
«Posto
davanti? Come sempre?» sorrise ed io ricambiai.
«Come
sempre!»
Dietro
di me, giurai di aver sentito Simone cominciare a fare il verso,
borbottando un
“Come sempre” piuttosto infastidito.
Oh,
quella sarebbe stata una vacanza memorabile!
*si prostra ai piedi delle sue fanzzzzz*
Avete tutto il diritto di picchiarmi/legarmi/seviziarmi/frustarmi
*sembra una scena di 5O sfumature* perché non ho scusanti stavolta!
Avrei dovuto rispondere alle recensioni, ma non l'ho fatto. SONO PIGRA!
T_T
E' grasso che cola che mi metta a scrivere di tanto in tanto #fugge.
Comunque, è stato di recente il mio compleanno - per non dire
"comple-vecchiaggine" visto che ormai (alla veneranda età di
diciott'...ehm ventidu... ehm... VENTICINQUE anni) non riesco
minimamente ancora ad organizzarmi. No, no.
Vi giuro che mi ci metto, visto che fuori piove. Debbo recuperare il
tempo perso e mandare avanti questa storiella *w*
Come ringraziarvi per le 15 recensioni dello scorso capitolo??? *BALLA
LA CONGA* il record!
Ora non mi siedo assolutamente sugli allori, ma vado avanti per la mia
strada! -ESAMI PERMETTENDO - TT_TT
Bai bai gente! Al prossimo capitolo! :3
//marty
Ah! Ieri ho pubblicato la prima OS partecipante alla challenge che
abbiamo indetto io e wifuccia [x],
ovviamente su Arrow.
Non c'è scadenza né premi. Libertà totale! :3
|
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Capitolo 22 *** Capitolo 20 ***
Non
avrei mai e poi mai creduto di poter vedere Simone in quello stato. Con
l’aiuto
dello specchietto retrovisore, notai il suo sguardo cupo e
l’espressione
imbronciata.
Era
davvero insolito trovargli una smorfia diversa da quella pre-stampata
sulla sua
faccia da viziato arrogante, e la cosa mi fece parecchio sorridere.
Avevo il
sospetto che Mario c’entrasse qualcosa, soprattutto il fatto che avesse
scoperto che non si trattava di un’amica,
bensì di un ventiquattr’enne alto un metro e ottanta, con barba,
capelli e
spalle da giocatore di rugby.
Gli
è andata male, eh?
Concordo.
«Avete
fatto buon viaggio?» ci chiese Mario, sorridendo con i suoi soliti modi
affabili. Anche se propriamente gli abitanti di Roma ci definivano
“campagnoli”
soltanto perché abitavamo in provincia, Mario era diverso.
Non
aveva studiato; cioè, si era limitato a finire i cinque anni
all’istituto
agrario più vicino e poi si era soltanto lasciato rapire dalla sua
passione
infinita per la musica. Per mantenersi, lavorava con il padre, nel
caseificio
di famiglia, e giorno dopo giorno si prendeva cura anche dei capi di
bestiame
con cui facevano delle deliziose forme di formaggio.
A
parte questo, Mario non aveva quella tipica cadenza di paese nel
linguaggio.
Quel tipo di persona dura di comprendonio e attaccata visceralmente
alle
proprie origini, era ben lontana dalla sua persona.
Da
Mario, che metteva i soldi da parte per comprarsi uno stereo, una
chitarra, un
amplificatore, da quello stesso ragazzo che per Natale o per il
compleanno mi
chiedeva sempre di regalargli un disco di vinile molto raro.
«Sì,
non ci sono state turbolenze,» risposi tranquilla, sorvolando
accuratamente su
tutta la parte in cui io e Simone ci eravamo accidentalmente
sfiorati le mani.
«Anche
il tuo amico là dietro, mh?» domandò, fissando lo sguardo nello
specchietto e
cercando gli occhi del calciatore che, senza mezzi termini, lo
incenerirono.
Sì.
Se Simone fosse stato Ciclope, quello degli X-men per intenderci, di
Mario non
sarebbe rimasto altro che un mucchietto di polvere da raccogliere in un
sacchetto di plastica.
«Mpf!»
sbuffò in risposta, incrociando le braccia al petto e cominciando a
fissare la
sua attenzione fuori dal finestrino.
La
strada sterrata che portava a casa mia cominciò in quell’esatto
istante, ed
avendo una semplice Panda un po’ arrugginita, Mario dovette sterzare un
paio di
volte in più per evitare le voragini presenti su quella strada
malandata.
«Chi
ti ha dato la patente, un ubriaco?» disse Simone, dopo aver battuto la
testa
sul tettuccio dell’auto perché era troppo alto per quella macchina.
«Simone!»
ringhiai, rimproverandolo.
Mario
ridacchiò. «Sei un topo di città, amico. L’aria di campagna è un po’
troppo
pulita per i tuoi polmoni pieni di smog, right?»
Fissai
malamente pure Mario. Cos’era? Una guerra al testosterone?
«Evidentemente
l’aria rarefatta qui sui monti di lillà ti ha assottigliato quel poco
cervello
che avevi, man,» sibilò subito
Simone. «Sarai abituato a trattare con le pecore e le mucche, ma non
con gli
esseri umani.»
«Simone,
taci!» gli urlai, prima di dover litigare sia con l’uno che con l’altro
Mario
però sembrava averla presa con filosofia. «Ven, ma davvero stai con
questo
tizio? Cioè, d’accordo che è un calciatore e tutto il resto… ma non ti
ci
facevo…» mi rimproverò, sogghignando.
Ovviamente
aveva riconosciuto il mitico Simone Sogno senza che gli spiegassi che
diavolo
di lavoro facesse il mio quasi-ragazzo-barra-amante-barra-cliente.
«Non
stiamo insieme!» rispondemmo prontamente all’unisono io e Simo.
Il
mio migliore amico si voltò, senza mai perdere la concentrazione alla
guida, e
i suoi occhi blu incrociarono prima i miei, poi quelli dell’altro
presente
nell’auto.
Okay,
magari io e Simone stavamo tentando di darla a bere a chiunque, persino
a noi
stessi, ma Mario aveva una sorta di superpotere, ce lo aveva sempre
avuto, sin
da quando eravamo piccoli, ed ovviamente ci aveva sgamati.
«Viennetta,
vuoi mentire a me? Sul
serio?» ridacchiò.
«Viennetta?»
Sbuffai.
«È il soprannome che mi ha affibbiato quando avevamo cinque anni,
perché il mio
nome era troppo difficile, vero Mammio?» lo presi in giro anche io.
Ridemmo
per i successivi cinque minuti, mentre sentivo lo sguardo di Simone che
mi
sondava la nuca. La sua aura aveva creato una sorta di alone nero
attorno a lui,
quasi come quello dei cartoni di animazione.
«Le
piaceva tanto quel gelato. Ti ho chiamato Viennetta, Ven, perché una
volta te
ne sei finita una confezione intera!» infierì ancora.
«Perché
la cosa non mi stupisce?» disse sarcastico Simone.
«Zitto
tu!» lo fulminai, imbarazzata.
La
conversazione stava raggiungendo vette davvero imbarazzanti, e se non
avessi
voluto finire a ricordare gli anni del liceo insieme a Mario, sarebbe
stato
meglio cambiare discorso, e alla svelta!
«Hai
composto qualcosa di nuovo in tutto questo tempo?»
Inversione
di rotta completa!
E
così Mario cominciò un excursus sui progressi che aveva fatto col suo
gruppo e
alle serate che aveva in programma in quel lungo week end nei dintorni
del
Lazio.
«Stasera
suoniamo al NewPort, che ne dici di venirmi a sentire, mh?» mi propose,
mentre
svoltò una curva un po’ insidiosa per mostrarci finalmente le mura
della mia
vecchia casa.
«Vedremo,»
gli sorrisi, poi Simone si sporse violentemente tra i due sedili come
se
volesse uscire fuori dal parabrezza.
«M-Ma
che…?» blaterai, indignata.
«Quella
è casa tua?»
Simone
vide la tenuta dei miei genitori che era piuttosto, sì, abbastanza
grande in
effetti, se paragonata ai miseri appartamenti di Londra.
«È
casa dei miei genitori,» puntualizzai.
Mario
sogghignò. «Pensavi di esserti messo con una campagnola che viveva in
una
vecchia soffitta sudicia e polverosa?»
Ovviamente
frenai Simone prima che potesse strozzare Mario con le sue stesse mani.
Parcheggiata
la Panda sul vialetto di casa Donati, scendemmo per recuperare le
valigie.
Simone perse parecchio tempo ad osservare intorno.
Era
una bella giornata, nonostante la temperatura rigida di Gennaio, ma il
sole di
quella mattina illuminava i vasti campi arati per la semina che sarebbe
arrivata di lì a qualche mese.
«Ma
non finisce più?» mi chiese lui, chinandosi a raccogliere il manico del
trolley.
Sorrisi
ingenuamente. Alle volte pareva così puro e bambino che mi spiazzava
questo suo
comportamento.
Mi
avvicinai e gli presi un braccio, facendogli indicare l’orizzonte.
«Vedi
quella macchia di alberi laggiù?»
Simo
annuì, così gli spostai il braccio sino al confine opposto. «Ecco,
conta anche
quel pezzo di terra laggiù e quelli sono all’incirca i confini della
tenuta.»
Gli
occhi di Simone si allargarono più del possibile, diventando così scuri
da
riflettere il cielo limpido nelle sue stesse iridi.
«Sorpreso,
topo cittadino?» ridacchiò Mario, facendo strada all’interno della casa.
Notai
come Simone lo fissò con un certo fastidio.
«Certo,
ormai è abituato a fare da Cicerone.»
«Cosa
intendi?»
Scrollò
le spalle con indifferenza. «Nulla. Si comporta come se questa fosse
casa sua.
E non lo è. È la tua, dei tuoi genitori, non di un perfetto sconosciuto
con le
basette alla motociclista di Harley Davidson.»
Gelosia
portami via.
«Ma
smettila!» sbottai.
L’idea
che in quel momento mi terrorizzava di più, in realtà, era l’incontro
tanto
atteso con i miei genitori. Ero certa che avrebbero preso d’assalto la figliol prodiga tornata a casa per
passare il resto delle vacanze con la famiglia, ma ero anche più che
sicura che
avrebbero assalito, non metaforicamente, il povero Simone.
Entrai
in salotto, lasciando la valigia nell’ingresso e mi diressi subito in
cucina.
Sapevo
di trovare mia madre lì. Lei era sempre
ai fornelli, sia che cucinasse il pranzo o la cena, che facesse le
marmellate,
la conserva per l’inverno, che scaldasse il sego per i formaggi…
Il
suo intero mondo ruotava attorno alla cucina.
E,
infatti, la trovai proprio lì, con mestolo e pentola tra le mani,
mentre Mario
sorrideva e le raccontava qualcosa di estremamente divertente.
«TE.SO.RO!»
trillò non appena mi vide.
Lanciò
tutto all’aria, schizzando di sugo perfino il povero Mario, e mi corse
in
contro stritolandomi in uno dei suoi abbracci brevettati che toglievano
l’ossigeno.
Eh
sì. Mia madre non era proprio una persona esile, diciamo. Lo era stata,
certo,
alla mia età di sicuro, ma con gli anni aveva acquistato qualche chilo
in più,
favorito soprattutto dalla sua favolosa cucina.
«M-Mamma…
s-sto soffocando…» le dissi, coi polmoni completamente svuotati d’aria.
Subito
si scostò. «Oh, sì, sì, scusami! Com’è andato il viaggio? È atterrato
in
ritardo? Sei stanca? Vuoi andare a riposare?»
Ovviamente
quelle erano le domande a raffica post-arrivo che soleva rifilarmi
tutte insieme
in un nano-secondo.
Pretendeva
una risposta a tutte queste domande.
«Il
viaggio è andato bene, sì. Non ha fatto ritardo l’aereo per fortuna e
forse
andrò a riposare più tardi. Che stai cucinando?» tergiversai.
Mia
madre scrollò le spalle e agitò il mestolo. Evitai le macchie di sugo
come Neo
aveva evitato i proiettili in Matrix.
«Solo
una cosetta per pranzo… a proposito!» se ne uscì. «Il tuo ospite mangia
tutto?
Non è che è uno di quei tizi strambi venuti dalla città che non
mangiano roba
vivente o uccisa, vero?»
«Vegetariani,
mamma. No, Simone mangia tutto.»
Soprattutto
i biscotti al
cioccolato,
pensai ma frenai la lingua altrimenti
mia madre ne avrebbe sfornati per un esercito intero.
«Si
può?»
Ed
eccolo. Simone fece la sua entrata trionfante con il metro e novanta di
altezza, per poco non sfiorava il soffitto a botte della cucina.
Gli
occhi di mia madre divennero grandi come piattini da caffè.
Ammetto
che messi vicini, io e Simone sembravamo formare una sorta di “Io”. La
“I” era
lui, magro e alto come un palo della luce, mentre, ahimé, la “o” era la
sottoscritta. Bassa, un po’ morbida ma soprattutto minuscola se messa a
confronto con il calciatore.
«C-Certo!
Caro, entra pure!» si rinsavì mia madre, per fortuna. «Piacere, io sono
Francesca, la mamma di Venera, ma questo tu già lo sai. Hai fame? Posso
prepararti un po’ di porchetta se vuoi…»
«Mamma,
sono le dieci del mattino!» sbottai, imbarazzata.
Possibile
che mia madre risolvesse tutto con del buon cibo servito ad orari
improbabili?
Lei
mi fissò incredula. «E allora? Hai sempre mangiato la porchetta di
mattina,
tesoro. Ricordi? Tuo padre ti chiamava Oink-Poink.»
Ed
ora potevo anche prendere la vanga in giardino e cominciare a scavarmi
la
tomba.
Mario
ridacchiava come uno scemo.
«Mamma!»
gridai, all’apice dell’imbarazzo.
Promemoria
per il futuro:
dire a tutti quelli che conosco che sono orfana, non ho genitori, e
soprattutto
non ho una madre che riesce a metterti in imbarazzo di fronte ad un tuo
cliente, nonché amante provvisorio.
«Ammetto
di essere tentato…» ridacchiò Simone, fissandomi divertito. «Solo che
preferirei aspettare, ho ancora un po’ di mal d’aereo.»
Sì,
certo, come no!
Ci
sedemmo attorno al tavolo della cucina, mentre mia madre continuava
imperterrita a preparare il sugo.
«Dunque,
che lavoro fai caro? Studi?» gli chiese, ovviamente invadendo la
privacy senza
alcun riserbo.
Simone
cercò prima il mio sguardo, poi s’imbatté in quello di Mario.
Mia
madre, che di calcio sapeva poco o niente, non si accorse nemmeno di
avere di
fronte uno dei calciatori italiani più famosi all’estero.
«Diciamo
che Simone è uno sportivo…» ridacchiò il mio migliore amico, beccandosi
un’occhiataccia dal calciatore.
«E
come vi siete conosciuti? Da quanto state insieme?»
«Whoa!
Mamma, vacci piano con le domande. Primo, non tartassare le persone
come tuo
solito; secondo, dagli tempo di respirare.»
Simone
sorrise. «Tranquilla, non mi dà fastidio,» mormorò. «Dunque, gioco a
calcio per
vivere e mi riesce piuttosto bene, devo ammetterlo,» qui ci fu
l’occhiata di
gelo tra lui e Mario, con tanto di sbuffo da parte mia. «Ho conosciuto
Venera
perché mi serviva un avvocato per un piccolo disguido giudiziario, e il
suo
studio mi ha assegnato lei…»
«Veramente
siamo in collaborazione, io e James.»
«Chi
è ‘sto James?» domandò subito mia madre, che appena udiva un nome
straniero
andava in allarme preventivo.
«Un
pallone gonfiato,» rispose subito Simone.
Gli
diedi una forte gomitata nel costato che lo fece lamentare. «Zitto tu!»
«Venera!»
«Mamma!»
«Dio
che male!»
«Venni-Anna
tutta panna!»
La
voce di mio padre sovrastò tutte le altre e ci voltammo all’unisono.
Vedere mio
padre dopo tutto quel tempo passato lontano dalla famiglia, mi fece
salire un
groppo in gola.
«Papà!»
e corsi verso di lui, abbracciandolo.
Mi
sentii sollevare da terra, proprio come quando faceva da bambina, e
girare
attorno alla cucina come una trottola.
«Come
stai?» mi chiese infine, mettendomi giù.
«Benissimo,»
gli sorrisi.
«Caro,
tua figlia ha portato un ospite. Fa il giocatore di pallacanestro, o
qualcosa
del genere…» disse, ma fu quando gli occhi di Alberto Donati e Simone
Sogno
s’incontrarono, che ebbe inizio la più bella storia d’amore mai
raccontata.
«Tu
sei…» e non riuscì a completare la frase.
Mio
padre, a differenza mia e di Celeste, amava follemente il calcio. Aveva
fatto
installare un mega-schermo in una sala adibita solo alla sua passione
folle per
quello sport. Da giovane aveva anche giocato nelle giovanili della
Roma, ma per
un infortunio al ginocchio aveva smesso.
Quando
si trovò davanti uno dei giocatori più famosi del mondo, rischiò di
avere un
infarto.
«Piacere
signore, mi chiamo…»
Corse
subito a stringergli la mano. «Dio mio non posso crederci!» sbottò,
quasi come
se Simone fosse improvvisamente diventato suo figlio. «T-Tu… T-Tu sei
Sogno…
Simone Sogno! Il più grande centro-avanti dell’Arsenal… in casa mia!
FRANCESCA!
Dio mio, guarda chi c’è nella nostra cucina!»
Mia
madre annuì poco convinta.
Finalmente
mio padre tornò a guardarmi, ed indicò Simone. Era troppo emozionato
per
chiedermi a parole com’era finito in casa sua un personaggio del genere.
Sbuffai
infastidita da tutto quel successo.
Mio
padre era mio, appunto. Non di
Simone, ma mio! «È una storia lunga…» tentai, un po’ malamente.
«Caro,
questo ragazzo è cliente di nostra figlia. Lei è il suo avvocato!» si
pavoneggiò la mamma.
Alberto
per poco non strabuzzò gli occhi. «D-Davvero?»
«Perché
lui ha qualche causa in corso… magari calcio-scommesse…» s’intrufolò
Mario,
solo per il gusto di prendere Simone per i fondelli.
Ovviamente
il calciatore abboccò all’amo. «Non gli dia retta, c’è dell’altro oltre
il
fatto che sua figlia è il mio avvocato…» disse.
Lo
pregai con lo sguardo, cercai di fargli cenno di “no” con la testa, che
non era
necessario spiattellare tutta la verità in un solo momento, anche
perché non
sapevo come avrebbe reagito mio padre.
«Io
e sua figlia usciamo insieme, adesso,» sentenziò, passandomi un braccio
attorno
alle spalle e spiaccicandomi la faccia sul suo petto, fissando di
sbieco Mario.
Simone
geloso non era per nulla
divertente!
Mio
padre prima spalancò gli occhi per la sorpresa, poi sorrise, poi quasi
pianse,
ed infine si decise a parlare. «Ben venuto a casa, figliolo!»
e si prese sotto braccio Simone portandoselo dietro
quasi come se fossero diventati improvvisamente migliori amici.
«F-Figliolo?»
balbettai.
«Tuo
padre aspettava da tanto un genero degno di questo nome, tesoro,»
rispose
distrattamente mia madre, che non capiva cosa ci fosse di così speciale
in
Simone oltre l’altezza smisurata.
«Sarà
una vacanza piuttosto divertente…» ridacchiò Mario, con piacere.
Ora
mi trovavo ufficialmente tra due fuochi: da una parte dovevo tenere a
bada
Mario, che sapevo ne avrebbe combinata una delle sue per “testare” se
Simone
fosse adatto o meno alla sottoscritta, e dall’altra dovevo controllare
che mio
padre non mi mettesse in imbarazzo più del necessario.
Come
se fosse possibile dopo la
storia della porchetta…
«Ci
credi che tuo padre ha il pallone originale dei mondiali dell’82?»
disse Simone
tutto eccitato.
Era
seduto sulla sponda del letto, anche perché mio padre aveva insistito
tanto a
farci dormire nella stessa stanza, la mia vecchia
stanza poi.
«Mh-mh,
interessante…» gli diedi corda, piegando con accuratezza i vestiti
prima che si
sgualcissero rimanendo in valigia.
«E
il gagliardetto del 1929? Te l’ho detto?» continuò.
«Tipo
per la ventesima volta…»
«Oddio,
se soltanto mio padre fosse così appassionato di calcio come lo è il
tuo!»
disse tutto emozionato. «Abbiamo parlato per ore. Ore, ci credi?»
Cercai
il suo sguardo per un attimo e lo vidi tremendamente sincero. Forse
quella fuga
da Londra avrebbe giovato più a lui che a me, di questo ne ero sicura.
«Vedo
che non è poi così male l’aria di campagna, eh?» ridacchiai.
Simone
subito sfoderò il sorriso arrogante che mi faceva sempre rabbrividire.
«E come
la metti col fantastico piano di rientrare nelle grazie del tuo
meraviglioso
papà per farci dormire insieme, mh?»
Roteai
gli occhi. «Certo, perché era un tuo piano sin dall’inizio…»
«No,
però quando ha acconsentito, diciamo che mi sono venute certe idee in
mente…»
Frenai
subito i suoi bollenti spiriti. «Non lo faremo sotto lo stesso tetto
dei miei
genitori, intesi?»
Simone
mi guardò perplesso. «Vuoi farlo fuori? Io non monterò più sulla
sudicia
macchina di quel tuo amico, che tra l’altro non sopporto per niente…»
«Ma
davvero? Non me ne ero accorta… comunque, no, in questa vacanza non lo
faremo.
Per niente, non voglio rischiare di essere scoperta dai miei genitori.
Ho già
avuto la mia dose di imbarazzo in una sola giornata,» sentenziai.
Simone
mi restituì uno sguardo divertito. «I tuoi sono davvero simpatici,»
sorvolò
sull’argomento castità-durante-il-soggiorno-a-casa-di-Venera.
«Mh,»
borbottai, ripiegando le camicette. «Ne riparliamo quando dovrai
viverci per
ventiquattro anni a stretto contatto…»
Il
calciatore rotolò, letteralmente, sul materasso fino a raggiungermi e
mi fissò
dal basso verso l’alto con due occhi languidi. «È una muta richiesta?»
insinuò.
Per
poco gli occhi non mi rotolarono fuori dalle orbite. «Richiesta di
cosa, scusa?»
Si
stava sfiorando il ridicolo adesso?
Simone
prese a stiracchiarsi sul letto come un gatto, occupando tutto il
materasso e
rischiando di farmi cadere la valigia per terra. «Ehi!» lo redarguii.
«La
richiesta di passare il resto della vita insieme a te,» propose, furbo.
Ci
mancò davvero un soffio all’infarto. «Tu sei tutto suonato! Figurati se
io e te
potremmo sopportarci più dello stretto necessario.»
«Eddai,
che un po’ mi vuoi bene…» ridacchiò, punzecchiandomi con una mano come
avrebbe
fatto un gatto, per l’appunto.
«No,
per niente,» risposi sicura.
Lo
faceva di proposito a punzecchiarmi in quella maniera. Voleva che
ammettessi la
mia dipendenza da lui, il fatto che, volente o nolente, il suo
bell’aspetto mi
costringeva a comportarmi come una qualsiasi delle giraffone che si era
portato
a letto.
Con
l’unica differenza che io avevo un master.
Non
si scompose, anzi.
Si
alzò a sedere e cercò il mio sguardo serio, notando che proprio in quel
momento
stavo togliendo la biancheria intima dalla mia valigia. I suoi occhi
divennero
ancora più scuri ed io arrossii. Ci provai, davvero, a rimanere
impassibile di
fronte a quel Simone che diventava predatore, ma ormai avrei mentito
soltanto a
me stessa.
Dopo
che ci hai fatto sesso per
chissà quante volte…
Tre!
O forse quattro… non sapevo se quella volta nella vasca da bagno
contasse.
«Smettila,»
lo ammonii.
«Di
fare cosa? Stai facendo tutto da sola…» puntualizzò.
Sì
certo, come se non conoscessi ormai quello sguardo. «Ti ho detto che è
proibito, punto. Io avrò la mia stanza, tu avrai la tua e tutti vivremo
questa
“vacanza” nel migliore dei modi, per poi tornare tranquillamente a
Londra e
continuare a lavorare al tuo caso
di
dubbia paternità,» precisai.
Simone
sbuffò. «Guarda, sei talmente noiosa che me l’hai fatto ammosciare…»
«Dio,
come sei volgare!»
Simone
tirò fuori quel ghignetto che utilizzava soltanto i primi giorni di
convivenza,
quelli in cui cercava di farsi odiare per liberarsi della sottoscritta.
«Di
sicuro, so essere più gentleman di quel campagnolo…»
Roteai
gli occhi al cielo. «Possibile che tu non riesca a fare a meno di vedere cose dove non ci sono?» sbuffai.
Lui
fece spallucce. «Vorresti dire che non avevo ragione su James?»
«Cosa
c’entra James, adesso?»
Dovevamo
finire per litigare, ormai non c’era alcuna via di scampo. Quando
insinuava
cose che non esistevano, arrivavo ad un limite della sopportazione
inaudito.
L’avrei ucciso, era questione di millisecondi.
«L’avvocatuncolo
c’entra sempre,» concluse.
Posai
la pila di maglioni sul comodino e misi le mani sui fianchi. «Senti,
non puoi
paragonare Mario a James. Con lui è diverso,» poi mi corressi quasi in
automatico. «Con lui è stato
diverso,
ma Mario è il mio migliore amico, è come un fratello, perciò smettila
di
continuare ad insinuare cose che non esistono e che non stanno né in
cielo né
in terra.»
Simone
si alzò dal letto a sua volta, imboccando la porta. «Sappi solo che tu
non
c’entri nulla, io lo faccio perché quel tipo mi ha sfidato, ha
chiaramente
messo in dubbio la prestanza di Simone Sogno ed io non posso
tollerarlo. Non lo
permetto nemmeno a mio cugino, sangue del mio sangue, figurarsi a
quella
sottospecie di contadino.»
«È
un musicista,» precisai.
«Pifferaio
dei miei stivali,» detto questo uscì dalla mia stanza e si chiuse la
porta alle
spalle, sparendo chissà dove, visto che non sapevo nemmeno se i miei
gli
avessero davvero preparato una stanza a parte.
Conoscendo
mio padre, gli avrebbe
concesso la mia mano anche se fosse stato un serial killer. Se era in
grado di
far rotolare un pallone, era di famiglia.
«Ultima
precisazione,» disse Simone, tornando a fare capolino nella camera.
«Mh?»
Alla fine non ero riuscita nemmeno a svuotare completamente la valigia
per
colpa di quel calciatore da strapazzo e le sue assurde fisime mentali.
«Con
o senza permesso dei tuoi genitori, stanotte sgattaiolerò nel tuo
letto.» Ed
aggiunse uno di quei sorrisi furbi in cui alzava soltanto uno degli
angoli
delle labbra.
Nemmeno
ebbi la forza di lanciargli un cuscino dietro, perché ormai ero
abbastanza
sicura che avrei fatto lo stesso se fossi stata al suo posto.
Scacco
matto.
La
sera ci riunimmo tutti a cena, salvo “Mister calciatore dei miei
stivali”, che
arrivò con ritardo principesco perché aveva bisogno di calmare i nervi
sotto la
doccia.
«Scusate,
ma il jet-lag mi ha distrutto,» commentò.
«Ma
quale jet-lag, deficiente!» lo rimbeccai subito. «Tra Roma e Londra non
c’è
manco un’ora di differenza e tu tiri fuori la storia del fuso orario?»
Mia
madre mi fissò scandalizzata.
A
mio padre venne quasi un infarto, tant’è che si posò una mano sul
cuore. «Non
sa quello che dice, scusala,» gli sentii sussurrare piano a Simone.
Dio,
che odio!
Simone
mi sorrise beffardo. «Sarà, ma io mi stanco facilmente. Non posso
permettermi
di tornare a Londra non al pieno delle mie forze. Insomma, c’è un
girone di
ritorno del campionato che è abbastanza tosto…» sostenne, come se fosse
una
scusa plausibile.
«La
prima è contro il Manchester, se non sbaglio.»
«Papà!»
ringhiai.
Invece
di essere dalla mia parte, la mia famiglia sembrava non fare altro che
pendere
dalla parte di Simone, ignorandomi completamente.
«Tesoro,
potevi dircelo che il tuo fidanzato era così cagionevole…» cinguettò
mia madre
preoccupata.
Dire
che avevo gli occhi ridotti a due misere fessure sarebbe stato solo un
eufemismo. Finii di mangiare i miei piatti in silenzio, tanto qualsiasi
cosa
avessi detto sarebbe stata ribattuta senza darmi il minimo di sostegno.
«Non
è il fio fifanfafo!» sbottai, addentando una patata al forno intrisa di
olio.
Calorie,
uccidetemi pure prima che lo faccia quel cretino di Simone!
«Tesoro…»
mia madre era rivoltata dal fatto che stessi mangiando come un
camionista
disperso nel Sahara per una settimana. Non m’importava!
Quel
ritorno a casa per le feste natalizie si stava trasformando in un
incubo.
«Stasera
dove lo porterai di bello?» mi domandò mio padre, con sincero
interesse. «C’è
il campetto comunale, di notte è illuminato e dicono sia un posto molto
romantico…» sospirò.
Simone
sorrise. Sembrava sincero questa volta.
«E
pensare che ancora ricordo il primo appuntamento con suo padre,»
cominciò a
raccontare la mamma. Roteai gli occhi al cielo soltanto perché avevo
sentito
ripeterle quella storia un milione di volte. «Mi ha portato ad una
partita di
pallone, pensa!» ridacchiò.
«Come
se ci fosse posto più romantico dei sedili sporchi dello Stadio
Olimpico…»
borbottai.
«Gli
stadi di Londra sono più puliti,» aggiunse mio padre, come se il
problema fosse
davvero l’igiene dei seggiolini.
Simone
ci fissava l’un l’altro molto divertito e soddisfatto. «Anche il nostro
primo
appuntamento, si può dire, è avvenuto in uno stadio. Ricordi, mh?»
Divenni
paonazza. Non c’era altro modo per descrivere il io colore in quel
momento.
Rossa,
bordeaux, color pomodoro maturo? Tutti sinonimi perfetti. Dovetti
abbassare lo
sguardo, tossire e fingere di bere una sorsata d’acqua per riuscire a
cambiare
discorso.
Ovviamente
fallii.
Mia
madre era fuori di sé dalla gioia. «Oddio, Vennie, racconta, racconta!»
Cercai
di riacquistare una normale respirazione, poi guardai Simone di sbieco.
«Punto
primo, non era un appuntamento…» sibilai.
«Punto
secondo,» mi interruppe lui. «Sei venuta a guardarmi giocare e mi hai
fatto un
discorso incoraggiante a metà partita. Non era un appuntamento
ufficiale, ma è
come se lo fosse stato…» insinuò.
Sentii
un gridolino acuto provenire alla mia sinistra e pensai si fosse rotta
la
valvola del termosifone, oppure che si fossero dimenticati un bollitore
del the
sul fuoco… invece era mia madre che produceva quella specie di suono
assordante.
«Oddio,
che cosa romantica!» cinguettò entusiasta.
In
quel momento desiderai con tutto il cuore di avere l’anello di Bilbo
Beggins e
poter sparire da quella cucina in un battito di ciglia.
Potevo
umiliarmi più di questa mattina con la storia della porchetta?
Ovviamente sì.
Mi
alzai di scatto facendo strusciare sonoramente la sedia dal pavimento.
«Okay,
andiamo o faremo tardi!»
Simone
mi fissò confuso. «Tardi per co-che… ahi!»
Lo
afferrai prepotentemente per la maglietta e tentai di farlo alzare, ma
il suo
metro e novanta mi impediva la maggior parte dei movimenti.
«Ricordi?
Dobbiamo uscire o ti perderai le magnificenze di questa città di
notte!» dissi
con ovvietà, ma il mio tono era palesemente sarcastico.
«Vennie,
ma Simone deve ancora finire il pasto…» protestò mia madre.
Simone
sfoderò uno sguardo da cucciolo. «Non ho nemmeno assaggiato le patate…»
Fissai
furente prima lui, poi mia madre ed infine le patate. Presi il
cucchiaio e con
forza lo caricai di tuberi per poi schiacciare le guance di Simone,
facendogli
aprire la bocca, e rimpinzandolo di patate quasi stessi riempiendo il
tacchino
per il Ringraziamento.
«Finirai
per soffocarlo!»
«Dio
mio, Alberto, ferma tua figlia!»
«Contento?»
sibilai, vedendo il volto Simone tutto sporco d’olio e lievemente
terrorizzato
da quello che avrei potuto fargli se avesse protestato ancora. «Vuoi
qualcos’altro?»
Lui
scosse violentemente la testa.
«Mamma.
Papà,» dissi solennemente. «Io e Simone usciamo, non aspettateci
alzati.»
Praticamente
ci scapicollammo fuori dalla porta di casa, uscendo nel portico
illuminato
debolmente dai lampioni che costeggiavano il giardino.
Simone
era palesemente imbronciato.
«Scusa,
ma non ce la facevo più a reggere tutta quella tensione. Mi sembrava
stessero
facendo il terzo grado,» mi giustificai.
«Volevano
soltanto sapere cosa avevi fatto tutto questo tempo lontana da casa,
non mi
sembrava chiedessero molto.»
Odiavo
da morire quando mi prendeva in giro, ma ancora di più detestavo l’idea
che
avesse ragione. Quando succedeva – di rado, s’intende – il mio
inconscio faceva
di tutto per trovare un escamotage, una qualsiasi scusa valida per
vanificare
le sue teorie.
«Sono
solo impiccioni, soprattutto mia madre. Non hanno il diritto di
intromettersi
nella mia vita privata, e soprattutto in quella del mio cliente.»
«…che
casualmente, almeno per metà, combacia con la tua,» si sentì in dovere
di
aggiungere.
Non
dissi altro.
Come
al solito anche con quelle quattro parole messe in fila a stento,
riusciva
comunque ad essere dalla parte della ragione.
«Dovremmo
pensare seriamente a risolvere questo caso,» gli ricordai.
«Direi
che se non ci riesci tu, sono completamente fottuto,» ridacchiò. «Io?
Padre? Mi
ci vedi davvero con un neonato tra le braccia?»
«Un
ragazzino che cresce un altro ragazzino… la fine del mondo,» ironizzai.
«Ah.
Ah. Ah,» finse lui. «Dunque, dobbiamo congelarci oppure hai intenzione
di
andarlo a vedere davvero quel campetto da calcio?»
«Ma
non ci penso neppure!» esclamai. «Basta calcio, ho un’idea migliore…»
E
l’idea migliore ovviamente non
rientrava nei gusti del bel calciatore, e quando mise piede nell’unico,
sperduto, pub del paese per poco non gli prese un infarto. Considerato
che al
bancone del bar ci fosse Mario, con tanto di canottiera scollacciata a
causa
del caldo del locale, macchie d’acqua sparse sulla maglia e capelli
ricci e
fluenti completamente scompigliati, sentii chiaramente i denti del
calciatore
stridere l’un l’altro.
«A
questo punto penso sia meglio tornare a casa, o faremo impensierire i
tuoi,»
tentò.
«Simo’,
sono le dieci di sera… non le due!» lo rimproverai.
«Eddai,
prima che ci veda! Altrimenti mi toccherà passare quasi dodici ore in
compagnia
di quel tuo amico primitivo, sommandoci anche la mattinata,» si lagnò.
«Come
sei scorbutico, Mario è fantastico!»
«E
allora potevi evitarmi questo supplizio e lasciarmi a Londra.»
«Nessuno
ti ha obbligato a venire.»
Simone
sfoderò un sorrisetto furbo. «Davvero? Vuoti che ti ripeta le esatte
parole di
quella notte?»
«Stronzo.»
Per
fortuna proprio Mario venne a salvarmi da quella situazione che sarebbe
potuta
precipitare da un momento all’altro.
«Ehi!
Ven!» urlò, dall’altro capo del pub.
«Adiamo
a salutarlo, su. Non fare il cafone…» puntualizzai.
Ovviamente
sentii una serie di imprecazioni indirizzate al mio migliore amico ma
cercai di
non dar loro peso. Ci sedemmo sugli sgabelli proprio di fronte alla
postazione
di Mario.
«Che
si dice? Cosa c’era per cena?» s’informò subito, sorridendo sprezzante
a Simone
che gli rifilò unicamente un’occhiataccia.
Feci
spallucce e sbuffai, soprattutto ripensando a ciò che era successo.
Altro che
terzo grado, mi chiedevo se i miei genitori, in una vita passata,
fossero state
delle spie del KGB.
«Le
solite cose… sai, mia madre fa sempre da mangiare per un esercito,»
commentai.
«Sì,
peccato che non abbia avuto il piacere di assaggiare tutto,» protestò
subito
Simone.
Mario
lo guardò sorpreso. «Lascialo perdere, è arrabbiato perché l’ho
“strappato” dal
suo degustare le patate al forno,» dissi, con ovvietà.
Il
mio migliore amico scoppiò a ridere. «Le patate al forno di Carla
Vanoni sono
qualcosa di sublime, ti rimangono attaccate al palato quasi fossero
farcite di
burro caldo e denso…»
Il
che non era da escludere, visto il vizio di mia madre di stra-condire
qualsiasi
pietanza avesse davanti agli occhi. Mi ricordo di una cappuccina che di
verde
alla fine non aveva più nulla, visto che nell’insalatiera c’erano
finite olive,
mais, carote, cetrioli, sedano, olio quasi a far galleggiare il tutto e
aceto
da farti strizzare gli occhi e tossire.
Mi
accorsi di Simone che pasteggiava mentre sentiva Mario descrivere
quella
pietanza con tanta accuratezza. Gli scorsi persino un rivolo di bava
all’angolo
delle labbra…
Poi
il suo sguardo inquisitorio si posò su di me. «La prossima volta non mi
trascinerai via così facilmente da tua madre!» minacciò, puntandomi il
dito
contro.
Incrociai
le braccia al petto. «Sposatela, allora,» lo rimbeccai.
Mario
nel frattempo si godeva i nostri battibecchi mentre preparava alcuni
cocktail
per i clienti del pub.
Simone
mi fissò di sbieco. «Lo farei se non avesse sposato tuo padre,
quell’uomo ha la
maglietta autografata di Roberto Baggio quando sbagliò il rigore nei
mondiali
USA del ’94!»
E
qui intervenne il mio migliore amico. «Dio, quanto gliela invidio!»
Forse
avevano trovato una passione in comune: quel benedettissimo gioco che
io tanto
detestavo.
«Certo,
interessante,» dissi, fingendo uno sbadiglio.
«Vennie,
con tutto il rispetto, ma è come se tuo padre possedesse la penna con
cui fu
firmata la dichiarazione d’indipendenza americana!» mi suggerì Mario,
ma la
cosa mi parve alquanto esagerata.
«Per
una volta potrei darti anche ragione,» gli rispose Simone, fissandolo
per la
prima volta come se non volesse mangiarselo per colazione.
Mario
gli restituì uno sguardo altrettanto neutro. «Io ho sempre ragione,»
gongolò.
Ecco
il nocciolo della questione, il nodo a cui sarei dovuta arrivare
nell’immediato. Il fatto che quei due non si sopportassero era chiaro,
come lo
era il motivo per cui Mario fosse il mio migliore amico fin da quando
avevamo
un anno ciascuno.
Si
somigliavano troppo quei due: nei comportamenti, nel modo di parlare,
in quello
di atteggiarsi. L’uno era un calciatore, l’altro un musicista, ma per
il resto sarebbero
stati come due gemelli separati dalla nascita.
«Bene,
cosa vi posso offrire, ragazzi?» chiese Mario, stemperando
quell’atmosfera di
calma che sembrava quasi irreale. «Aspettate, siete venuti a piedi
vero?»
s’informò.
«Mi
ci ha costretto,» brontolò subito Simo.
«Dannazione,
sono due isolati… DUE. Io non so come tu possa definirti uno sportivo,
se ti
lamenti di un chilometro a piedi,» sbuffai contrariata.
Mario
ridacchiò.
«Direi
due birre, grazie. Comunque non è il fatto di essere sportivi o meno,
solo che
ormai sono abituato ad un certo tipo di comodità,»
puntualizzò Simone, fissandomi serio.
«Certo,»
rincarai la dose. «Dormi fino alle dieci del mattino, non pulisci e
mandi in
giro per casa le tue giraffone mezze nude.»
Le
birre per poco non caddero di mano a Mario. «G-Giraffone?»
«Fattelo
spiegare dal ragazzino qui…» sbuffai.
«È
storia vecchia, e lo sai,» intervenne subito Simone. «Odio quando mi
chiami
così, piantala.»
Arrivò
il momento adatto per punzecchiare Simone. Era da un po’ di tempo che
non mi
divertivo a burlarmi di lui, e adesso avevo anche Mario dalla mia parte.
«È
la verità.»
Mario
servì le birre in due bei boccali di vetro, così iniziai a sorseggiarla
senza
staccare lo sguardo da quello cupo di Simone.
«Fatemi
capire bene,» s’intromise il mio migliore amico. In seguito indicò il
calciatore. «Tu quanti anni hai, scusa?»
La
questione dell’età di Simone era qualcosa di cui non andava
estremamente fiero.
Seppur fosse uno dei calciatori più giovani e più famosi d’Inghilterra,
questa
cosa di essere etichettato come “ragazzino” lo faceva infuriare.
«Fatti
i cavoli tuoi, lavapiatti,» sputò fuori.
Sperai
che Mario non reagisse troppo d’impulso, e per fortuna lo giudicai
bene.
Sorrise furbo al calciatore, poi cominciò a lucidare alcuni boccali.
«Da questa
risposta, presumo che la cara Vennie si sia fatto un toy-boy.
Giusto?» si rivolse alla sottoscritta.
Beh,
forse avevo fatto male i miei calcoli.
«Non
è il mio ragazzo, chiariamo questa cosa una volta per tutte. Simone è
qui come
mio cliente, mi sto occupando del suo caso, condividiamo l’appartamento
perché
gli affitti erano troppo cari… tutto qui,» tagliai corto.
Mario
mi sorrise beffardo. «E allora cosa ci fa qui?»
«Mh?»
domandai stranita.
«Il
pastore vorrebbe sapere per quale motivo sono qui se non in veste di
tuo “non
ufficiale” uomo di letto,» rincarò la dose l’altro.
Già,
quello che di sicuro avrebbe dormito in un’altra stanza, se non
addirittura in
un’altra casa!
«Uomo
di cosa? Ma voi siete entrambi fuori!» sbottai.
Sia
Mario che Simone sembrarono abbastanza soddisfatti di avermi messo in
completo
imbarazzo. Ero stufa di essere il giullare di ogni situazione, sia a
casa, con
i miei, sia qui con gli amici. Continuai a sorseggiare la birra e a
linciarli
entrambi.
«Dunque,
cosa avete da fare domani mattina?» chiese Mario, servendo due Sex on the beach alla ragazza che subito
li andò a servire ai tavoli.
Guardai
prima Simone, poi Mario. «Dormire.» «Lavorare.» dicemmo all’unisono io
e il
calciatore. Due risposte ovvie da due personaggi altrettanto ovvi.
Mario
sorrise. «Bene, allora non vi dispiacerà accompagnarmi a fare una
corsetta in
giro per il paese, almeno così avrò la scusa di fare da Cicerone.»
«Io
lo conosco già, il paese,» brontolai. L’idea di andare a correre era
totalmente
fuori discussione, soprattutto perché non facevo un po’ di moto da
quando avevo
superato il master a Cambridge.
«Io
voglio dormire…» si lagnò Mr. Attività.
Il
mio migliore amico adottò il ricatto, come sapeva ben fare da tempo.
Non c’era
modo di trattare con due tipi ostinati come me e Simone.
«Vorrà
dire che dovrò spargere voce tra il paese di un certo calciatore e una
certa
avvocatessa che intrattengono una specie di relazione semi-illegale?»
«Sei
un traditore, altro che migliore amico!» sbottai.
«Fortuna
che te li sai scegliere gli amici, eh?» mi apostrofò Simone.
Mario
si godette la scena, quasi come se avesse appena vinto alla lotteria.
«Allora
vi aspetto domani alle 7. Passo sotto casa di Vennie.»
«Ma
la sera non fa buio presto, qui?» s’informò Simone.
«Alle
sette del mattino, idiota!» gli urlai addosso.
Simone
sgranò gli occhi quando ebbe realizzato che ciò comportava alzarsi
prima che il
sole fosse completamente sorto.
«Voi
due siete dei pazzi, io a quell’ora non mi sveglio nemmeno per andare
agli
allenamenti!»
Lo
fissai con un sopracciglio alzato. «Non avevo dubbi.»
«Allora
è fatta, a meno che Simone non si tiri indietro. Non so, magari non
regge il
ritmo di noi “gente di paese”,» gli disse, provocandolo.
Simone
assottigliò lo sguardo. «Il ritmo lo detto io. Domani alle 19 in punto.»
«Sono
le sette del mattino, porca miseria!»
Quella
notte rincasammo sul tardi. Alla fine avevamo passato quasi tutta la
serata al
pub di Mario, ed io ero rimasta pressoché tutta la sera a sorseggiare
birra
mentre vedevo quei due ringhiarsi a vicenda come se si stessero
litigando
l’ultimo pezzo di carne avanzato.
In
verità, sospettavo la ragione per cui il calciatore si comportava
guardingo nei
confronti di tutto l’universo maschile che mi girava intorno, alla fine
la
dinamica di pensiero degli uomini era piuttosto limitata.
È
geloso.
Per
quanto Simone potesse essere diverso da tutti i ragazzi con cui ero
uscita,
uomini che avevo conosciuto a Cambridge, oppure a Roma durante il
periodo
universitario, c’era quella caratteristica comune un po’ a tutti i
possessori
del cromosoma Y.
Celeste
una volta mi aveva detto di associare gli uomini a degli animali, e
proprio
come in natura essi si comportano in modo possessivo verso ciò cui
appartiene
loro: che siano cuccioli, territorio o compagne di vita.
E
così ero rimasta a sbuffare tutto il tempo in attesa che quei due
finissero di
linciarsi.
Premettendo
che Mario stuzzicava Simone di proposito, di tanto in tanto gli
lanciavo delle
occhiate espressive per suggerirgli di farla finita, almeno sarei
potuta andare
a dormire prima della “scampagnata” mattutina a cui avevo aderito
contro il mio
volere.
«Bene,
si è fatta una certa ora,» aveva annunciato d’improvviso il mio
migliore amico
e così finalmente ero scattata in piedi dallo sgabello su cui mi stavo
addormentando
tipo gufo di Bambi, e avevo
afferrato
Simone per il collo del maglione trascinandolo fuori dal locale senza
nemmeno
salutare Mario.
«Ehi,
aspetta!» mi brontolò dietro il calciatore, cercando di infilarsi il
cappotto e
camminare contemporaneamente.
Gli
rifilai un’occhiata gelida anche attraverso il buio di quella nottata.
«Muoviti,» ringhiai.
Simone
si vestì in fretta e furia seguendomi. Gli bastarono quattro lunghi
passi per
raggiungermi con quelle sue gambe chilometriche e mi fu subito al
fianco.
Rabbrividii
per l’umidità che circondava la zona, in aperta campagna, così di punto
in
bianco avvertii la sua mano posarsi sulla spalla e avvicinarmi a sé.
Scattai
subito sulla difensiva fissandolo torvo.
Simone
alzò un sopracciglio. «Oh, ma andiamo!» sbottò stanco. «Siamo andati a
letto
insieme fino a ieri pomeriggio ed ora ti scandalizzi se cerco di
tenerti al
caldo?» mi rimbeccò.
Cominciai
a mordicchiarmi il labbro nervosamente. Era una di quelle rare volte in
cui mi
trovavo a corto di parole nonostante fossi un’avvocatessa in erba.
«Ti
ho detto che non voglio che ci scambiamo effusioni in casa dei miei,»
precisai,
sicura.
Continuammo
a camminare fianco a fianco, ma ebbi la netta sensazione che con Simone
non era
ancora finita. «Teoricamente non siamo ancora dentro casa…» sussurrò
malizioso,
fissandomi con quegli occhi neri che riuscivano persino ad inghiottire
il buio
di quella notte.
Stavolta
il brivido che mi serpeggiò lungo la schiena non fu di freddo.
«Smettila,» gli
intimai. «Siamo venuti qui soltanto per svagarci, per far passare un
periodo di
tempo prima del processo che sono sicura ci impegnerà entrambi. Non
voglio
allarmarti, ma la tua cara Lizzie è
decisa a chiedere la tua mano pur di non far scoppiare lo scandalo sui
tabloid.»
Simone
si irrigidì. Mi accorsi soltanto allora che era una delle rare volte in
cui
parlavo con lui di Elizabeth Cloverfield. Era la controparte nel mio
primo caso
da assistente alla Abbott&Abbott ma con Simone non ne avevo mai
realmente
parlato.
Lui
aveva sempre sostenuto di averla sì abbordata quella notte, ma che
fosse finita
lì.
«Non
dovevo essere così diretta, scusa,» dissi, rimangiandomi l’ultima frase
detta.
Certe
volte la vecchia e cara acidità di Venera usciva fuori senza che
riuscissi a
controllarla pienamente, ma vidi Simone scrollare le spalle e infilarsi
le mani
nel cappotto lungo.
«Non
devi scusarti,» borbottò, sbuffando fiato caldo dalle labbra carnose.
«Hai
detto soltanto la verità, in fondo. Per quanto possa ricordarmi di
quella
notte, sono piuttosto sicuro di aver preso precauzioni, ma spesso e
volentieri
mi lascio prendere dalla passione e…»
Qui
i puntini di sospensione lasciarono cadere un silenzio che mi fece
arrossire.
Era ovvio che si riferiva a noi due, a quello che era successo la notte
di Natale
e a quello che sarebbe ancora dovuto succedere. Deglutii a fatica,
perché per
quanto avessi predicato bene all’inizio di tutta quella storia, alla
fine ci
ero caduta con tutte le scarpe.
Relazione
con il proprio collega, relazione con il proprio cliente e nessuna di
queste
due cose mi aveva minimamente fermata. Soprattutto la seconda.
«A…
A proposito di questo,» tentai di dire, ma ci trovammo inaspettatamente
sotto
il portone di casa Donati.
Simone
mi fissò aspettando che aprissi l’uscio per poi rifugiarci dall’umidità
che ci
aveva praticamente aggrediti quella notte.
Trafficai
con le cose che avevo dentro la borsa, facendo più rumore di quanto
avessi
previsto. Ero nervosa, sia perché il discorso che volevo intraprendere
era
sempre lo stesso, sia perché sapevo che non avrebbe portato da nessuna
parte.
«Eccole!»
dissi trionfante, mostrandogli il mazzo di chiavi.
Lui
mi restituì un sorriso che riuscì ad accartocciarmi il cuore come un
pezzo di
carta straccia. Mi afferrò la mano prima che potessi inserire la chiave
nella
toppa e mi fissò con quegli occhi neri.
Gli
occhi di un demone.
Mia
nonna mi ripeteva sempre da piccola i significati del colore negli
occhi delle
persone, ed ogni volta che giungeva il momento del colore “nero” lei mi
metteva
sempre in guardia.
“Mia
cara, gli occhi neri sono sintomo di coraggio, di forza e di sicurezza.
Essi
rivelano un grande desiderio di autoaffermazione e un forte bisogno di
mettersi
in mostra per paura di passare inosservati. Talvolta è sintomo di
durezza
d’animo e di freddezza.”
Ed
era proprio quella la descrizione che corrispondeva a Simone. Troppo
impegnato
a mettersi in mostra per poter lavorare davvero sulla propria
personalità,
troppo attento a compiacere gli altri, ad essere il migliore, a
cogliere le
sfide laddove si presentavano.
«Aspetta,»
disse serio, fissandomi.
Non
forzai la sua presa, perché dentro di me volevo sapere cosa aveva da
dirmi. Ora
ogni sua parola mi appariva piena di significato, quando prima tentavo
in tutti
i modi di non ascoltarlo. Lui che era stato la mia opportunità e adesso
era la
mia condanna.
Si
chinò senza dire nulla e catturò le mie labbra in un bacio casto,
appena
accennato. Mi sorrise, forse un po’ impacciato. «Adesso possiamo
entrare,»
aggiunse.
Per
quanto odiasse il mio continuo ciarlare e ripetere regole su regole,
aveva
ascoltato. Non volevo che ci fossero scambi di effusioni tra di noi
dentro casa
dei miei genitori, un po’ per rispetto verso di loro, e lui mi aveva
baciata
sulla soglia di casa.
Non
aveva infranto la mia regola.
Senza
pensarci due volte, mi aggrappai ai lembi del suo cappotto scuro,
alzandomi in
punta di piedi e cercando ancora le sue labbra. Un’ultima volta, per un
bacio
più profondo.
Continuavo
a ripetermi di essere devota al suo corpo, alla bellezza che
innegabilmente
Simone aveva, come tutta la famiglia Sogno, ma per quanto queste parole
continuavano a ronzarmi in testa, dentro di me sentivo che le carte
stavano
cambiando.
All’inizio
di quella partita avevo in mano una coppia di picche. Contavo di poter
bluffare,
vincere la mano utilizzando l’astuzia oppure passare quando ne avrei
avuta
l’occasione. Ora, invece, alla coppia di picche si erano aggiunte tre
carte di
cuori.
Full.
La
mattina seguente fui svegliata dal suo no sordo di qualcuno che bussava
insistentemente alla porta della mia stanza. Pensai si trattasse di un
incubo,
così mi voltai dalla parte opposta sotterrando la testa sotto il
cuscino.
Inservibile.
Il
rumore si fece più intenso e martellante.
«Che
diavolo vuoi!» ringhiai, e dopo nemmeno due minuti mi ritrovai Simone
già
vestito e pettinato nella mia stanza.
Avevo
gli occhi gonfi dalla sera prima, nonostante fossi abituata a
svegliarmi presto
per andare a lavorare, invece il calciatore sembrava fresco e profumato
come
una rosa. Eppure la mattina dormiva sempre fino a tardi.
«Ancora
non sei vestita?»
Guardai
l’orologio digitale che segnava le 06.55. In quel momento avrei
volentieri
soffocato Simone con il cuscino e se fosse avanzato del tempo, avrei
ucciso
anche Mario, perché no.
«Sai
a quante ferie ha diritto un tirocinante?» gli chiesi sbadigliando e
scendendo
dal letto controvoglia.
Simone
arcuò il labbro e fece spallucce.
«A
nessuna! Diciamo che questa breve pausa mi è stata concessa per grazia
divina e
tu e quel cretino di un musicista dovete togliermi delle preziose ore
di sonno
di bellezza per andare a lisciarvi il piumaggio!»
Sbattei
la porta del bagno con forza, in modo che potesse capire quanto fossi
infuriata.
«Non
l’ho proposta io questa cosa,» aggiunse lui dall’altra parte
dell’uscio. «E poi
a te non serve il sonno di bellezza…» sussurrò malizioso.
Schiusi
la porta soltanto per sorridergli. «Perché?» lo incitai.
Perché
sei già bellissima così.
Perché
non ti serve.
Perché
ti amerei anche se
passassi le notti in bianco a fare l’amore con me.
Simone
mi accarezzò il viso. «Perché quelle occhiaie ti si vedranno comunque,
e poi
l’età avanza. Ti suggerirei di cominciare ad usare la crema
anti-rughe,»
sentenziò obiettivo.
Si
allontanò gongolando prima che potessi lanciargli addosso tutto il
contenuto
del mio beauty-case.
Mi
preparai in fretta e furia, indossando un paio di pantaloni da
ginnastica che
risalivano al mio periodo da liceale. Preferii un giubbino impermeabile
alla
felpa che avevo trovato nel cassetto, visto che raffigurava una Hello
Kitty
enorme e spaventosamente rosa.
Scesi
in fretta, trovando Mario e Simone che si squadravano in silenzio.
«Buongiorno,
principessa!» ridacchiò il mio migliore amico e subito l’altro
“maschio” drizzò
la cresta in segno di sfida.
«Vacci
piano, bello,» ringhiò. «Siamo qui per correre o per chiacchierare?»
Posai
una mano sul petto di Simone, cercando di frenare i suoi spiriti
battaglieri.
«Calma, Mario mi chiama così da quando abbiamo visto insieme “La vita è
bella”,» gli spiegai.
Il
calciatore parve poco convinto.
«Senza
ulteriori indugi, partiamo?» propose il mio migliore amico.
Annuimmo
entrambi, io un po’ meno convinta in effetti.
Quella
giornata iniziò nel peggiore dei modi, e forse si concluse anche
peggio. Se
quello fosse stato uno dei capitoli della mia vita lo avrei intitolato Le dodici fatiche di Ven: la prima
sarebbe stata “sopportare Simone e i suoi attacchi di gelosia”.
Girammo
subito a destra, imboccando la piccola salita che conduceva al cimitero
del
paese. I due ragazzi schizzarono letteralmente in avanti, correndo
l’uno di
fianco all’altro e squadrandosi da capo a piedi. Nessuno di loro si
voltò a
sincerarsi delle mie condizioni.
Decisi
di acquisire un ritmo costante, lento certo, ma costante. Altrimenti
sarei
spirata dopo nemmeno due metri. Visto e considerato che non facevo
sport dal
lontano 2011, mi meravigliai quando, passata mezz’ora, avvertivo
soltanto un
po’ di stanchezza.
Davanti
a noi si stagliava una lunga salita irta di sassolini che rendevano la
corsa
più pesante e soltanto dopo averla superata avremmo svoltato sulla
destra per
proseguire lungo il Viale delle more.
Era chiamato così perché c’erano rovi di more ovunque e verso la fine
di
Settembre si vedevano tutte le anziane del paese che le raccoglievano
per poi
farne una deliziosa marmellata.
Non
potei nemmeno raccontare quell’aneddoto a Simone, perché lui e Mario
avevano
oltrepassato il viale continuando a correre come dei forsennati.
Rallentai
un po’ il passo fissando il sole. Dovevano essere le otto e mezza
ormai, a
giudicare dall’altezza dell’astro e al periodo dell’anno in cui ci
trovavamo.
Quelli
erano piccoli trucchi che mio nonno mi aveva insegnato da piccola.
Verso
la metà della salita, quando avevo ormai il fiato corto ed ero rimasta
completamente sola e abbandonata a me stessa, mandai mentalmente a quel
paese i
due ragazzi e cominciai a camminare.
Mi
presi alcuni momenti per riflettere, mentre il calore piacevole del
sole mi
scaldava le membra ancora intorpidite dalla corsa.
Cosa
conti di fare una volta
tornata a Londra?
Di
tanto in tanto, nei momenti di maggior stimolo, anche il mio Cervello
tornava a
farsi sentire con le sue domande ben poco mirate.
Direi
di ricominciare da dove ho
interrotto. Ho deciso che passerò molto più tempo in ufficio e molto
meno a
casa, in modo da rallentare questa cosa con Simone e non destare
sospetti.
Era
un piano perfetto. Sapevo che una volta tornati, sarebbe anche arrivato
il
risultato degli esami che Simone aveva fatto prima di partire. Esami
del DNA.
Davvero
credi ancora di non essere
completamente assuefatta?
Quella
domanda mi fece trasalire.
Se
il mio cervello avesse avuto un paio di occhi – e nella mia mente era
vestito
come Margaret Thatcher – a quest’ora li avrebbe roteati spazientito.
Sono
mesi che ti ripeti questa
cosa, che dici di lasciarlo, di prenderti una pausa, che sei devota
unicamente
al lavoro. Guarda in faccia la realtà, Venera. In fondo, io sono parte
integrante del tuo corpo e so come funzioni.
Continuai
a camminare, a passo più sostenuto.
L’adrenalina
della corsa aveva evidentemente surriscaldato il mio cervello che non
faceva
altro che inviarmi immagini ben poco piacevoli. Una verità con cui
dovevo fare
i conti da tempo.
Perché
non ne avevo parlato con Celeste? Per quale motivo continuavo a tenermi
tutto
dentro, nonostante ormai fosse chiaro pure ai sassi che mi stavo
lentamente
innamorando di Simone.
Innamorando.
Quella
era una parola pressoché sconosciuta nel mio vocabolario.
Di
Simone.
Quest’altra
era addirittura in arabo.
Mi
fermai un attimo per riprendere fiato, poggiandomi al tronco di un
albero.
Posai una mano all’altezza del petto, sentendo come il cuore galoppava
forte
battendo contro la gabbia toracica. Lì per lì pensai di avere un
infarto, ma
poi mi diedi della sciocca.
L’unico
dolore del cuore dei ventenni è il mal
d’amore.
Odiavo
quando le parole di mia nonna mi ridondavano nella mente insinuandosi
nelle
pieghe del tessuto come dei parassiti. E odiavo ancor di più il fatto
che
avesse maledettamente ragione.
Altro
che allontanamento, altro che separazione… ieri notte ne era stata la
prova.
Oltre quel corpo muscoloso e atletico c’era dell’altro, c’era un
ragazzo
cresciuto inseguendo un sogno a dispetto di ciò in cui credeva la sua
famiglia.
Un
ragazzo con un padre che non lo rispettava pienamente, che non gli dava
gioie e
soddisfazioni, un ragazzo che non aveva mai amato nessuno al di fuori
di sé
stesso.
«Venera?»
Una
voce femminile mi sorprese ed io mi voltai di scatto.
Riconobbi
una mia vecchia amicizia, prima di Celeste, di quando ero bambina.
«Elisa,
ciao!» sorrisi, avvicinandomi alla mia coetanea che, con un bastone
alla mano e
un carrello nell’altra, portava la spesa a casa.
Ci
salutammo e ci scambiammo i soliti convenevoli.
«Come
va? Tutto bene?» mi chiese. «Ho saputo che ti sei trasferita in
Inghilterra e
che sei un avvocato. Complimenti!»
Arrossii,
anche perché non ero abituata a sentirmi così al centro
dell’attenzione. «Non
sono ancora avvocato, ma faccio tirocinio in uno degli studi più
importanti di
Londra. Conto di diventare socia un giorno.»
Elisa
mi sorrise radiosa.
Ricordavo
ancora i nostri pomeriggi insieme a fingere di cucinare, di portare i
bambolotti dal dottore e a rassettare case invisibili.
«Tu,
invece? Che mi racconti?» le domandai, notando la spesa. «Aspetta, ti
do una
mano a portare almeno un sacchetto.»
«Grazie.»
E me ne porse uno.
Ci
incamminammo fianco al fianco risalendo il pendio per poi girare lungo
il viale
delle more. Elisa mi raccontò che al terzo anno dell’istituto agrario
aveva
incontrato Tommaso, e che dopo aver finito la scuola si erano sposati.
Lui
mandava avanti l’azienda casearia del padre, allevando le bufale da
latte. Lei
si era sempre occupata della casa, soprattutto dei loro figli.
«Figli?»
le chiesi stupita.
Elisa
mi sorrise. «Ne ho tre, due maschi e una femmina.»
Il
mio cervello fece rapido qualche calcolo e mi resi conto che a
ventiquattro
anni avere già tre figli faceva molto anni '20.
«Complimenti,»
aggiunsi nervosa.
Non
avrei mai voluto ammettere che forse era un po’ troppo giovane per
avere già
una famiglia così numerosa e lei parve intuire i miei pensieri.
«So
cosa stai pensando, Ven. Ti capisco,» asserì sincera. «Tu hai fatto le
tue
scelte, hai preso un aereo, hai studiato, sei andata in un altro paese
ad
inseguire i tuoi sogni d’indipendenza e di una carriera redditizia,»
snocciolò,
apparendo molto più saggia della maggior parte dei laureati di
Cambridge.
«Anche io ho fatto la mia. Amo Tommaso e ho amato ogni singolo bagliore
di vita
che lui mi ha donato, compresi i bambini che sono venuti dal nostro
matrimonio
forse un po’ forzato dal destino.»
«Non
avevo alcuna intenzione di giudicarti,» le dissi subito, per paura di
averla
offesa.
Elisa
mi sorrise, tranquillizzandomi. «Non preoccuparti. Siamo nel 2014 ed è
normale
che la gente si sposi più tardi, che metta su famiglia alla soglia dei
trent’anni, visto tutto il tempo che ci si impiega per laurearsi e poi
cercare
lavoro. Qui siamo rimasti un po’ indietro, e forse è anche un bene,»
commentò.
Arrivammo
al paese limitrofo, dove si trovava la casa di Elisa.
«Mi
ha fatto molto piacere rivederti,» disse, prendendo l’altro sacchetto.
«Spero
che un giorno tornerai qui per farmi conoscere la tua famiglia.»
«S-Sicuro,»
smozzicai.
Io
che alla famiglia non avevo
minimamente pensato.
Camminai
ancora per qualche chilometro, prima di intravedere Simone che mi
veniva in
contro correndo. Pensai che era del tutto instancabile, nonostante
fosse zuppo
di sudore.
«Ehi!»
mi raggiunse. «Pensavamo ti avessero rapita,» disse sorridente.
Dal
modo in cui si pavoneggiava intuii che aveva vinto la corsa. «Mario?»
gli
chiesi.
«Ad
un certo punto mi ha detto che doveva prepararsi per andare a lavoro,
così ha
mollato,» ridacchiò.
Lo
fissai divertita. «Quindi hai vinto per abbandono?»
Simone
subito mi fissò di sbieco. «Ero comunque in vantaggio,» sibilò
contrariato.
Infilai
le mani nelle tasche della giacca a vento. «Ciò non toglie che hai
vinto per
abbandono,» ripetei.
L’euforia
con cui mi aveva raggiunto si era smorzata del tutto. «Possibile che tu
non mi
dia mai alcuna soddisfazione?» brontolò offeso.
Fu
allora che un pensiero galeotto sfuggì alla mia mente sempre rigorosa.
Come
sarebbe stato Simone come padre?
Lui
mi restituì uno sguardo carico d’aspettativa nell’attesa che io gli
dicessi
qualcosa in merito al fatto che avevo smontato il suo ego. L’incontro
con Elisa
mi aveva turbata in un modo che non avevo previsto. L’idea di avere una
famiglia non mi si era mai presentata, anche perché mi era sempre
mancata una
materia prima valida.
Simone
non era certo l’esempio di maturità, di responsabilità, da ciò che
avevo letto
sul dossier stilato da James, di certo non era candidato come padre
dell’anno,
vista la causa con Miss Cloverfield.
Eppure
per una frazione di secondo vidi me e lui davanti al fuoco, come quella
famosa
notte di Natale. C’era un'altra persona accanto a noi. Un bambino.
Scossi
violentemente la testa e diedi colpa alla stanchezza.
Mi
strinsi al braccio di Simone accerchiandolo, e cercando un contatto più
profondo che mi mancava da un po’. Lui abbassò lo sguardo sorpreso.
«Per
te mi sono sorbita novanta minuti di calcio, uno sport che odio. No ti
basta?»
gli sorrisi.
Simone
cercò di trattenere una risata e si voltò addirittura dalla parte
opposta pur
di non farmi scorgere quel barlume di felicità che inconsapevolmente
gli avevo
donato.
Oh
sì, quello era proprio amore.
***
I
giorni passarono in fretta lì a Tivoli. Mio padre insisté per farci
fare una
passeggiata a cavallo nei boschi, per farci fare un’escursione nei
monti lì
vicino, mentre la sera eravamo sempre ospiti del gruppo di Mario.
Alla
fin fine lui e Simone avevano fatto amicizia.
In
paese lo avevano riconosciuto e subito era corsa la voce della presenza
di uno
dei calciatori d’oltreoceano in casa Donati. I bambini che incrociavano
Simone
per strada gli chiedevano un autografo o una firma sul loro pallone da
calcio.
Si
prestò perfino a farsi fare delle foto con la squadra del paese.
«Sono
molto diversi dagli hooligans inglesi,» mi confessò un pomeriggio,
spaparanzato
sul mio letto mentre io riguardavo gli appunti del caso. «Mi ero
dimenticato
che aria si respirasse qui in Italia.»
«Non
sei nato qui, scusa?» gli chiesi, incuriosita.
In
fondo, Simone non si era mai scucito in merito alla sua infanzia. Le
cose che
avevo scoperto, o me le aveva raccontate Sofia oppure le avevo intuite
dai loro
discorsi in famiglia.
Simone
mi guardò serio. «Mio fratello Gabe è nato qui, e anche io. Ma ci siamo
trasferiti quasi subito, infatti Sofia è nata a Londra,» disse.
«Conosco
l’italiano soltanto perché mio padre lo parlava e anche quel cazzone di
Leonardo. Mia madre, invece, odiava il fatto che lui ce l’avesse
insegnato.»
«E
perché?»
Misi
da parte gli appunti e lo raggiunsi nel grande letto ad una piazza e
mezza.
L’idea di sapere di più sul suo passato mi faceva morire di curiosità.
Simone
allargò le braccia ed io mi accucciai contro il suo petto, posando
l’orecchio
al centro di esso. Mi piaceva sentire la vibrazione della sua voce
attraverso
la stoffa del maglione blu.
«Lei
è inglese di nascita e per quanto abbia amato mio padre, è cresciuta
con una
rigida educazione che le ha impedito di continuare ad essere sposata ad
un uomo
che ha lasciato il proprio lavoro, redditizio e di buon nome, per
ritirarsi a
fare l’agricoltore dall’altro capo del mondo. Non lo ha mai perdonato.
Inoltre,
non sopporta il modo “allegro” con cui gli italiani storpiano la sua
lingua,»
disse.
D’improvviso
mi resi conto di quanto si era trattenuta quando aveva sentito il mio
accento,
accurato ma evidentemente non di madre lingua.
«Chissà
che orribile impressione le ho fatto,» dissi mogia.
Lui
prese ad accarezzarmi i capelli distrattamente. «Scherzi? Pendeva dalle
tue
labbra. Sofia mi ha detto che quando siamo andati via, ha continuato a
tessere
le tue lodi e a ripetere quanto fosse fiera che suo figlio stesse con
una donna
di cervello.»
Già,
quando c’era stata quella riunione di famiglia tutti avevano pensato
che fossi
la ragazza di Simone.
E
in seguito lo ero diventata davvero.
Mi
voltai appena per guardarlo in faccia. I capelli un po’ più lunghi
sparsi sul
cuscino, la barba leggermente incolta. In quelle occasioni sembrava
addirittura
più grande dei suoi vent’anni e per un attimo mi crogiolavo a pensare
come
sarebbe stato se ci fossimo incontrati in ben altre circostanze.
«Hai
mai pensato cosa sarebbe successo se non ci fossimo incontrati così?»
gli
chiesi, senza timore che mi ridesse in faccia.
Si
portò una mano dietro la nuca per rialzarsi e guardarmi meglio. «Se tu
non
fossi stata il mio avvocato?» chiese.
Annuii
pensierosa. «Probabilmente non mi avresti degnata di uno sguardo,»
riflettei.
«Probabilmente,»
constatò, ed io subito gli pizzicai il fianco per punirlo. «Ahi!»
«Colpa
mia!» e sorrisi birichina.
Simone
per vendicarsi mi afferrò per i polsi e mi sovrastò con il suo corpo,
bloccandomi contro il materasso. I miei erano usciti per delle
commissioni e la
casa era silenziosa. Dovevo ammettere che il suo corpo mi era mancato,
e tanto. L’averlo a così poca
distanza dal
mio non faceva altro che aumentarne il desiderio.
«Ma
sarebbe stata solo questione di tempo,» disse, avvicinandosi lentamente.
«D-Di
cosa?» arrancai, troppo eccitata.
Simone
si lasciò andare completamente sul mio corpo, schiacciandomi
piacevolmente con
tutto il suo peso. Sì, decisamente ne avevo decisamente sentito la
mancanza.
«Uhm,
sono convinto che prima o poi mi sarei accorto di te. Magari al
compleanno di
Leonardo, oppure di qualcuno dei nostri amici in comune. Direi che mi
sei
rimasta impressa quattro anni fa, in positivo,» smozzicò, roco anche
lui.
«Ora
che ne dici se rompessimo una delle regole di questa casa?» mi sussurrò
malizioso.
Intrecciai
le braccia dietro il suo collo e lo tirai giù. «Battezziamo anche
questa camera
da letto,» ridacchiai.
Sorratemi il ritardooooo!!!
Dunque, come scusa principale dirò che sono in periodo esamoso (seh,
come no!) oppure dovrei mettermi a scrivere i nuovi capitoli - anche -
e vi faccio dannare per questi rimasti. SONO IMPERDONABILE!
Frustatemi se volete :3 #sadomaso.
Detto ciò, devo ancora rispondere alle recensioni degli scorsi
capitoli. Praticamente su EFP non ci entro quasi mai puLLtroppo T_T
Infine, la moglie di Chicuccio ha partorito, sfornando quell'ammmmore
di Milo che assomiglia tutto alla mamma (spero cambi, crescendo). Il
prossimo pargolo lo sfornerà la mia wifuccia :3
Infine, ma quanto è dolce la famiglia di Ven?? *.*
Personalmente li adoro, perché sono un po' matti come la mia stessa
famiglia. Devo dire che papà Donati è più fanghérl di tutte noi messe
assieme e gli aggrada parecchio avere un genero così famoso!
E di Mario che mi dite?
Maaaaaaaaaaaaaaaaaarioooooooooooooo! :3
Lo amo!
Mi rimetto ai vostri giudizi!
Intanto se ve lo siete perso, qui
c'è l'epilogo di Come in un Sogno, il prequel di questa :3
|
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Capitolo 23 *** Capitolo 21 ***
Capitolo 21
Mi
ero appena abituata alle lamentele di mia madre e al fatto che
cucinasse per un
esercito in preparazione di una battaglia, che per noi arrivò il
momento di
tornare a Londra. Simone quasi non volle credermi.
«Ma
dobbiamo proprio?» mi chiese con il broncio.
Annuii
decisa, cominciando a preparare la mia valigia. Sapevo perfettamente
che dopo
mi sarebbe toccato preparare anche la sua, visto che Mr. Fatichello non
si
sarebbe scomodato nemmeno se gli avessi messo delle braci ardenti sotto
il
deretano.
«Sì
che dobbiamo. Forse tu non ricordi, ma io sono il tuo avvocato e dovrei
guadagnarmi il posto come socio dello studio risolvendo il tuo caso di dubbia paternità. O sbaglio?»
puntualizzai.
Simone
abbassò la testa mogio, torturandosi le labbra con i denti.
A
dirla tutta, rifugiarsi per qualche giorno a casa non era stato così
terribile.
Mia madre a parte, avevo rivisto Mario ed ero riuscita ad evadere un
po’ da
quella realtà londinese che mi soffocava.
Diciamo
che James mi aveva fatto un grande regalo.
James.
Scacciai
via quel nome dalla mia mente come una vespa fastidiosa. Cercavo di
fuggire da
quella realtà ormai da tempo, eppure più mi si ripresentava davanti e
più mi
comportavo da codarda. La notte di Capodanno era ancora vivida nei miei
ricordi, ed anche il discorso che mi aveva fatto la madre di James.
Io
non appartenevo a nessuno dei due mondi, né a quello ricco e altolocato
di
James, con le loro feste, i loro incontri e i loro saloni da ballo; né
a quello
di Simone, fatto di fama, di paparazzi e di continue fughe verso una
realtà che
non facesse il giro del mondo su dei giornali da qualche sterlina.
«Hai
preso tutto, tesoro?»
Fu
mia madre a svegliarmi da quei brutti pensieri, chiedendomi – ancora
una volta
– se fosse tutto a posto. Da quella stessa mattina si era chiusa in
cucina per
prepararci un pranzo a portar via, dato che quello sull’aereo, per sua
convinzione, era poco salutare e sicuramente non appetitoso come
qualcosa
cucinato con otto chili di burro…
«Certo,
ho quasi finito,» le risposi.
Simone
era seduto sul mio letto, con le gambe che stranamente ciondolavano dal
materasso. Sorrise a mia madre e lei parve quasi arrossire.
«È
un vero peccato che dobbiate andare così presto…» insistette, rimanendo
sulla soglia.
«Purtroppo
Ven deve tornare a lavoro,» rispose il calciatore, anticipandomi.
Rimasi
sorpresa dal suo tono piuttosto deciso, avevo contato che mi implorasse
di
rimanere lì, magari facendo leva sui miei genitori.
Per
quanto amasse Londra e la sua squadra, sapevo bene come ci si sentiva
così
lontani dalla propria casa, dai doveri e dalle responsabilità che
avrebbe
dovuto affrontare una volta tornati nella capitale inglese.
Mia
madre annuì. «Capisco,» e si asciugò le mani sul grembiule. «Spero
proprio che
quest’estate abbiate qualche giorno libero per tornare. Io e il papà di
Ven vi
aspettiamo anche senza preavviso. Prendete il primo aereo e venite qui.
Le
stanze non ci mancano in questa grande casa sempre troppo vuota.»
Mi
si strinse il cuore a vedere mia madre così. Le avevo sempre detto di
desiderare altro nella vita, di stabilirmi in un’altra città, una
metropoli,
così da costruirmi una carriera degna dei miei studi, e lei non si era
mai
opposta a questo mio desiderio. Eppure, adesso capivo quanto lei e mio
padre si
sentissero soli nella magione. Essendo figlia unica, li avevo lasciati
da soli
per inseguire la mia carriera altrove.
Non dovresti sentirti in colpa…
stai inseguendo il tuo sogno.
Sì,
era vero. Ma stavo anche sbagliando, visto che frequentavo uno dei miei
clienti
senza alcun riserbo per l'etica professionale.
La
mia vita stava diventando sempre più ingarbugliata e di certo Simone
non mi
aiutava a mantenere quel compito piuttosto facile. Il fatto che mi
fossi invaghita di lui, era
piuttosto strano,
dato il mio difficile gusto in fatto di uomini.
Purtroppo
Simone non era uno dei tanti, e prima facevo i conti con questa cosa,
prima mi
sarei messa il cuore in pace.
«Certo,
verremo di sicuro,» la rassicurò Simone con un sorriso.
Mia
madre tornò ai suoi impieghi canticchiando, piuttosto allegra, ed io
lanciai
uno sguardo eloquente a quel ragazzino dalla lingua troppo lunga.
«Che
c’è?» sbottò infastidito, allungandosi sul materasso come una pelle
d’orso.
Sbuffai.
«Non puoi promettere una cosa che non sai mantenere…» gli dissi
piccata. «Così
illudi solamente le persone, ed è quello che sai fare meglio,
dongiovanni.»
Simone
assottigliò quei grandi e intensi occhi neri. «Non so chi sia questo
Giovanni…
però non sto illudendo nessuno. Sono stato davvero bene qui dai tuoi, e
vorrei
tornarci.»
In
quel momento il mio cuore fece una dolorosa capriola in avanti e fui
costretta
a prendermi qualche minuto per riordinare le idee. Mancavano sei mesi a
Giugno,
all’estate, e alla promessa di tornare giù a Tivoli, eppure lui non si
era
posto minimamente il problema del “saremmo stati ancora assieme”. Aveva
acconsentito, punto.
Non
sapevo se prenderlo come un buon segno, una dimostrazione di impegno
per il
futuro, oppure semplicemente una cosa detta senza pensare.
Opterei più per la seconda…
«Mh,»
commentai. «Sai già che da qui a sei mesi noi ci vedremo ancora?» gli
chiesi,
forse un po’ troppo bruscamente.
Avevo
tirato fuori di nuovo il mio “tono da avvocato”, quello inquisitorio
che in
genere faceva fuggire tutte le persone che interloquivano con me. Non
era colpa
mia, in fondo quella professione mi calzava a pennello.
Simone
mi guardò serio, stringendo le labbra in una linea dura. «Non lo so,»
ammise, e
quella confessione mi fece più male di quanto avessi programmato in
precedenza.
«Però magari farò un salto qui, giusto per salutare i tuoi genitori.»
Rimasi
sorpresa, tanto che mi si smorzarono tutte le parole in bocca. Da una
parte mi
ero aspettata una risposta del genere, dall’altra mi ero così abituata
ad
averlo intorno notte e giorno che immaginarmi di nuovo nel mio
mini-appartamento subaffittato mi stringeva il cuore in una morsa.
Finii
di preparare la valigia senza rispondergli, ma intanto pensavo a come
avrei
affrontato la cosa una volta che quel caso giudiziario fosse stato
risolto.
Avrei lasciato l’appartamento di Simone, sarei tornata alla mia vecchia
vita di
prima, senza tutto quello, ai miei impegni, al mio libro del sabato
sera e a
quella segreteria abbandonata sul comodino.
Anche
se era dura ammetterlo, la convivenza forzata con Simone aveva riempito
le mie
giornate da cinquantenne single prematura, sostituendo cene fredde
riscaldate
al microonde con pasti non troppo elaborati ma consumati in cucina, con
il
rumore di sottofondo della televisione e la sua voce che imprecava
contro il
telecronista di turno.
Eventi
quotidiani che a dirla tutta mi sarebbero mancati.
«Bene,
sei pronta?»
Riemersi
dai miei pensieri scuotendo la testa. «Per cosa?» gli chiesi.
Simone
sorrise e indicò il corridoio. «Ti aspetta un’altra bella valigia da
preparare,
su!» gongolò soddisfatto.
Per
poco non gli lanciai una delle mie scarpe. «Non sono la tua schiava!»
sibilai
contrariata.
Il
calciatore mi si avvicinò malizioso, gattonando sul letto. «Ammettilo
che non
vedi l’ora di rovistare tra le mie mutande…»
Roteai
gli occhi al cielo e lasciai la stanza, cercando di sopprimere la
voglia che
avevo di ucciderlo.
I
posti che ci avevano assegnato sul volo di ritorno, erano piuttosto
scomodi e
stretti. Anche se l’aereo era di linea, e non uno di quei voli low-cost
dove
avevi le ginocchia in gola, mi sentii scomoda comunque.
Avevamo
salutato i miei genitori prima di pranzo, e mia madre ci aveva
consegnato una
valigia di manicaretti che avrebbero sfamato metà della popolazione del
terzo
mondo.
«Pensi
che al ceck-in ce li faranno passare?» mi aveva domandato Simone
dubbioso.
Io
avevo guardato prima lui, poi il trolley stra-colmo di roba da
mangiare.
«Questa è una bomba batteriologica, altro che cibo.»
E,
infatti, il poliziotto che ci controllò il bagaglio a mano rimase
piuttosto
perplesso riguardo al carico. Ci fece un po’ di domande e lo vidi
parlottare
ridacchiando con i suoi colleghi. Ovviamente mia madre non la smetteva
di farmi
fare figure di merda anche quando non era presente.
Continuai
a muovermi senza trovare pace sul sedile del boeing.
«La
finisci? Sto traballando da dieci minuti, nemmeno fossi
nell’idromassaggio…»
borbottò subito Simone, che poi finse di ignorarmi quando la hostess di
volo
giunse per assicurarsi che avessimo le cinture allacciate.
Il
comandante annunciò la partenza in perfetto orario, dall’aeroporto di
Fiumicino
in direzione di Heatrow, Londra.
A
dire al verità, ero un po’ nervosa.
Sentivo
come una pressione all’altezza del petto, un peso che ero riuscita a
spostare
durante quei giorni di “vacanza” ma che adesso dovevo tornare a
sollevare.
Si tratta di lavoro.
Oppure di James.
Magari
del lavoro e di James, conclusi.
«Non
avevi gli allenamenti in questi giorni?» chiesi, una volta superato il
momento
del “allacciare le cinture di sicurezza”.
Simone
scrollò le spalle e sbocconcellò alcune noccioline. «Più o meno.»
Roteai
gli occhi al cielo. Era impossibile ottenere una risposta coerente da
uno come
lui, eppure avrei dovuto farci l’abitudine, oramai.
«Ho
sentito dire che il campionato inglese non si ferma per le vacanze,»
chiarii
subito.
Era
un’informazione che avevo assorbito per osmosi.
Una
di quelle notizie che non mi interessavano minimamente e che avrei
fatto meglio
a dimenticare al più presto, ma che mi era entrata nel cervello magari
ascoltando una radio, oppure leggendo il giornale distrattamente.
«Mh,»
risposte il calciatore, ignorandomi.
Era
stranamente interessato a lanciare sguardi ammiccanti verso la hostess.
Sia
all’andata che al ritorno, aveva fatto lo scemo con le assistenti di
volo…
E tu continui a smollargliela.
Non
era mia la colpa se avevo una Iolanda dotata di vita propria!
«Almeno
datti un po’ di contegno, cielo!» sbraitai inacidita, aprendo la
rivista che
era in dotazione nell’aereo e sbatacchiandola rumorosamente.
Eravamo
tornati all’odierna routine. La fuga dalla realtà mi aveva fatto bene,
dovevo
ammetterlo, ma era come se avesse trasformato Simone ai miei occhi,
facendolo
apparire diverso dal solito. Avevo dimenticato quanto potesse essere
irritante.
«La
gelosia è una brutta cosa,» commentò lui, sghignazzando.
«Non
sono gelosa,» precisai. «Solo dovresti evitare di fare piazzate di
questo tipo.
Sei pur sempre una persona famosa, dovresti dare il buon esempio.»
La
cazzata del secolo.
Non
me ne fregava un accidenti di cosa pensasse la gente di Simone Sogno,
mi
importava solamente che la smettesse di civettare con quella arpia
ossigenata.
Ovviamente non lo avrei ammesso nemmeno sotto corte marziale.
«Come
vuoi…» tagliò corto lui. «Stasera ho voglia di frittelle, me le
prepari?»
chiese, di punto in bianco.
Lo
fissai furente. «Sei almeno consapevole di sfidare la mia pazienza, o
lo fai di
proposito? Non ti cucinerò niente, né stasera, né mai. Devo lavorare,
perciò
conta pure su te stesso, mio caro, oppure muori di fame!» e incrociai
le
braccia al petto, stizzita.
Quel
gesto decretava la fine della conversazione.
Simone
sbuffò e tirò fuori il telefono, giocando con qualche applicazione.
Dopo
un po’ lo vidi sghignazzare.
«Che
c’è?» ringhiai, furiosa.
Ridacchiò,
poi si lasciò scivolare lungo la poltrona, fino a che le ginocchia non
toccarono il posto di fronte. Soltanto in quel modo il suo viso si
trovò
pericolosamente vicino al mio.
Il
suo naso si fece sempre più vicino, strusciandosi dolcemente sulla mia
tempia.
Non
avevo la forza di guardarlo. Dovevo mantenere la “facciata” arrabbiata.
«Adoro
vederti gelosa di me…» soffiò malizioso, facendomi rabbrividire.
«Ti
ho detto ch-…»
«Lo
so, ma adoro lo stesso questo tuo non-essere-gelosa.»
Riabituarsi
all’andirivieni londinese non fu affatto facile i primi giorni.
Premesso che
ero abituata a svegliarmi più tardi delle 7.30, la mattina sembravo
sempre uno
zombie.
«Le
chiavi!» mi avvertì Simone, prima che uscissi dimenticandomele.
«Grazie,
a stasera!» gridai uscendo.
Mentre
mi incamminavo verso la fermata della metro, mi venne da ripensare a
ciò che
gli avevo detto. Gesù, suonava così scontato.
Una
frase da coppietta sposata o convivente.
Tesoro, a stasera!
Rabbrividii.
Sul
lavoro andò meglio. Yuki a parte. Era sempre pronta a stuzzicarmi e a
rigirare
metaforicamente il dito nella piaga in qualsiasi occasione le capitasse
a tiro.
Soprattutto
in presenza di Mr. Abbott.
«Jamie
mi ha detto che ti ha quasi costretta a tornare a casa per le vacanze.
Come sei
stata? Ti confesso che amo l’Italia, ma non sono mai andato…» mi
sorrise
l’uomo.
Arrossii,
soprattutto perché James gli aveva parlato di me. In privato.
«Sono
stata bene. Diciamo che ci voleva una vacanza,» risposi cordiale.
Mr.
Abbott mi sorrise e mi strinse una spalla, delicatamente. «Ora sarai
pronta a
rimetterti in carreggiata.»
Dovevo
ammettere che tutto sommato non mi dispiaceva essere tornata. Per
quanto quella
gita a Tivoli mi avesse fatto capire che la mia famiglia sarebbe sempre
rimasta
parte della mia vita, così come Mario, ormai quella era la realtà in
cui
vivevo.
Avevo
il mio capo, il mio partner e i miei colleghi. Simpatici o meno che
fossero.
«Dunque
sei sparita per una settimana,» constatò Yuki.
Mi
voltai fulminandola. «Vedo che sai contare.»
SDANG!
Colpita e affondata.
Gli
occhi a mandorla si assottigliarono ancora di più. «Ovvio. Spero
soltanto che
anche tu ti sia fatta due conti, perché non potrai essere una
tirocinante a
vita.»
Mi
lasciò a rimuginare su quella sua insinuazione, riguardante soprattutto
il mio
futuro che era appeso ad un filo. Se non avessi risolto il caso di
dubbia
paternità, la possibilità di essere assunta in quello studio legale
svaniva
come fumo tra le dita.
Dovevo
impegnarmi al massimo in quegli ultimi mesi.
«Sono
felice di rivederti.»
Quello
che davvero non mi aspettavo, o meglio, con cui non avevo ancora fatto
i conti
mentalmente, era rivedere James.
Lo
stesso uomo che era diventato prima mio collega, nonché mentore,
dopodiché si
era instaurato una sorta di legame tra di noi, ma destinato ad
assopirsi,
mentre adesso ci ritrovavamo a condividere qualcosa che stava nel mezzo.
Una
cosa a cui ancora stentavo a dare un nome.
«Anche
io,» ammisi imbarazzata.
Jamie
era forse ancora più bello di quanto ricordassi.
«Sei
stata bene? I tuoi come stanno?» s’informò, cordiale come sempre. Era
meraviglioso il modo in cui domandava discretamente le cose, cercando
sempre di
essere poco invadente.
Sorrisi
spensierata. «Tutto bene. È stata una vacanza perfetta.»
Quando
mi aveva dato quel biglietto d’aereo, assicurandosi che staccassi la
spina per
un po’, gli avevo chiesto di venire con me. Non lo avevo implorato,
certo, ma
lui aveva rifiutato.
Poi
ero andata da Simone.
Quel
pensiero mi fece tremare impercettibilmente.
«Ho
provato a contattare Mr. Sogno, ma suo fratello mi ha comunicato che
era
partito per qualche giorno. Tu ne sai qualcosa? Spero solo non si sia
messo in
qualche altro guaio…» rimuginò.
Non
sapevo se si trattasse di una sorta di test o meno. Mi sembrava
parecchio
strano che James fosse così ingenuo e non avesse pensato a farsi due
conti.
Decisi
che era meglio optare per la verità. «Mr. Sogno è venuto con me, a
Tivoli. L’ho
tenuto d’occhio tutto il tempo, non preoccuparti,» sorrisi.
Cercai
di farla apparire come una gita normale e innocente, ma James rimase
perplesso.
«Ti
sei portata il lavoro a casa, dunque,» ironizzò, tornando
apparentemente alla
normalità.
Mi
sentivo dannatamente in colpa, anche se non avrei dovuto esserlo.
C’era
un confine netto tra ciò che io, James e Simone rappresentavamo l’uno
per
l’altra, in questo triangolo strano e incasinato. Nessuno di noi
l'aveva messo
in conto.
Anzi,
tra me e James si era risolto tutto piuttosto chiaramente.
«Non
pensare male…» tentai di dissuaderlo, ma Jamie mi sorrise.
«Tranquilla,»
mormorò. «Mi fido di te.»
Diciamo
che quella fu la stangata finale. Se qualcuno avesse dovuto sentirsi un
pezzo
di merda, quella era la sottoscritta.
La
casa senza Celeste e Leonardo appariva sempre un po’ vuota. Era come se
tutta
l’energia che la mia migliore amica aveva impiegato per rendere quelle
vacanze
sempre più incasinate, fosse volata via improvvisamente, lasciando una
casa
anonima e vuota.
Simone
era lo stesso di sempre.
«Come
vanno gli allenamenti?» gli chiesi una sera, tre giorni dopo il nostro
ritorno.
Lui
lasciò andare il cucchiaio sorpreso. «Davvero ti interessa?»
Magari
ero una persona un po’ acida, che si alterava per un nonnulla e spesso
andava
in escandescenze anche se non c’era un vero motivo di fondo, ma non ero
mica
un’arpia!
«Anche
se il calcio fondamentalmente non mi interessa, questo non vuol dire
che me ne
debba fregare della tua giornata,» sibilai un po’ offesa.
Lo
vidi sorridere. Sorridere veramente, stavolta. Senza alcuna ombra di
malizia
oppure di scherno.
«Bene,»
commentò, riprendendo a mangiare la zuppa di fagioli. «Sebastian è
convinto che
qualcuno stia portando il malocchio alla squadra, e così se ne va in
giro con
cinque collanine al collo, vari cornetti della fortuna e si butta il
sale
dietro le spalle ad ogni occasione. Il mister pensa che sia esaurito, poraccio.»
Non
potei fare a meno di sogghignare.
Avevo
conosciuto il suo compagno di squadra in altre circostanze, quando
ancora la
storia tra me e Simone non poteva affatto definirsi tale. Non c’era
nulla se
non l’odio e il fastidio che provavo per lui, ancora presente
dopotutto, ma
affievolito da qualcos’altro.
Amore?
Che
idiozia.
«E
perché questo malocchio?» chiesi, senza bisogno di fingermi interessata.
Era
da un po’ di tempo a quella parte che il silenzio di quella casa mi
stava
asfissiando, così ogni scusa era buona per fare un po’ di conversazione.
Simone
finì la zuppa, tintinnando rumorosamente il cucchiaio sul fondo del
piatto.
«Alcuni nostri compagni si sono infortunati, poi metti anche gli errori
arbitrali e le traverse che abbiamo preso… Sebastian ha subito pensato
a
qualcosa che ha a che fare con il karma, ma io non do peso a queste
stupidaggini,» disse convinto.
In
effetti, nemmeno io avevo mai dato peso al “destino”, anche se più
volte mi era
capitato di pensare a quante possibilità ci fossero che Simone
diventasse il
mio primo cliente.
Davvero
poche.
«E
l’avvocatuncolo?» chiese lui, di rimando.
Non
capivo dove volesse arrivare. «Che vuoi sapere?»
Simone
si alzò e posò il piatto nel lavello, afferrando la prima scatola di
biscotti
che gli capitasse sotto mano e trangugiandola, senza pensare a farmi
vedere
tutta la sua arcata dentaria.
«Fe
fi fa ancora foffo!» borbottò.
Premesso
che non erano affatto affari suoi, non avevo nulla da dire. Oltre il
lavoro, io
e James continuavamo a vivere un’esistenza separata. Forse ammettere di
essermi
portata via Simone aveva allentato maggiormente quel legame già
lesionato.
«Siamo
solo colleghi. Punto,» insistei, seria. «E poi non sono cose che ti
riguardano.»
Mi
alzai a mia volta, posando le stoviglie nel lavello e passando un po’
di sapone
su una pezzuola.
Di
punto in bianco avvertii le sue mani solleticarmi i fianchi e tentai di
scacciarlo, con scarsi risultati ovviamente.
Il
suo corpo si adagiò contro il mio, schiacciato sul lavello della
cucina. Ogni
sua forma combaciava perfettamente con la mia, come pezzi di un puzzle
che si
incastravano al primo tentativo.
Le
sue dita lunghe e affusolate mi scostarono una ciocca di capelli da una
parte,
mentre le sue labbra si avvicinarono pericolosamente all’orecchio.
«Mi
riguardano eccome,» soffiò, facendomi rabbrividire.
L’unico
rumore nella stanza era lo scrosciare dell’acqua nel lavello e le mie
mani
completamente insaponate che non potevano muoversi senza imbrattare
tutto di
schiuma.
«Smettila,»
lo pregai, ma con poca enfasi.
La
realtà era che ormai la sua presenza non era più un fastidio. Mi ero
abituata
ad averlo intorno, a contatto, non mi infastidiva più il fatto che mi
sfiorasse
anche senza alcun secondo fine. Ed era la cosa che mi terrorizzava di
più.
L’abituarsi
ad una persona, era come ammetterlo nella propria quotidianità. Quando
e se
sarebbe andato via, la mia vita non avrebbe avuto più lo stesso sapore.
«Fino
a prova contraria, stiamo insieme…» insistette, lasciando una piacevole
scia di
baci lungo il collo.
La
pelle d’oca salì sugli avambracci, facendomi rabbrividire.
«Questo
chi l’ha deciso?» lo provocai.
Alla
fine nessuno di noi aveva messo dei paletti. Quello che era successo,
era
accaduto senza cognizione di causa, tanto perché doveva accadere. Non
avevamo
parlato, non avevamo deciso, non c’erano etichette nella nostra storia,
se così
si poteva chiamare.
Simone
mi strinse i fianchi con possessione, strusciandosi piacevolmente sul
mio
sedere.
Potevo
sentire la sua eccitazione crescere.
«Non
c’è bisogno di decidere, è così e basta,» tuonò, forse un po’ troppo
autoritario. Fu allora che decisi di chiudere l’acqua, asciugarmi le
mani e
allontanarlo.
«Sai
che non è una buona idea, vero?» gli feci, mettendo una certa distanza
tra di
noi.
Sapevo
bene che nella maggior parte dei casi, erano i nostri ormoni a parlare.
Quella
cosa dello “stare insieme” avrebbe funzionato a stento, tanto valeva
chiarirsi
prima.
Simone
sbuffò sonoramente. «Con te è tutto un enorme problema, eh? Possibile
che non
possiamo goderci la vita e basta?»
Mi
prese in contropiede questo suo accanimento. «Scusami, Mr. Padre
Dell’Anno, se
sono un po’ dubbiosa riguardo il tuo problema di “impegnarti”!»
ringhiai
furiosa.
Il
calciatore mi fissò arrabbiato. Scosse la testa. «Sono stanco di
provarci,
basta. Tanto con te è sempre un rifiuto. Mi fai credere che ci sia una
speranza, poi ti tiri indietro. Bene, allora vai da quell’avvocato da
strapazzo
e fatti scopare da lui invece di usarmi.»
Bene,
da una conversazione tenera e amorevole si era passati alla litigata
del
secolo.
«James
non è il tipo che pensi tu. Inoltre, io non ti ho usato! Semmai è
successo il
contrario, visto che dovevi tenere a bada gli ormoni,» precisai.
Lo
vidi gettarsi di peso sul divano e accendere la televisione, quasi
fossi
trasparente.
«Molto
maturo, davvero,» ringhiai.
Simone
puntò quei grandi occhi neri, scuriti forse ancora di più dalla rabbia
che
provava nei miei confronti.
«Io
non ti ho mai usata, che sia chiaro. Di te non posso dire la stessa
cosa, dato
che hai due piedi in una scarpa,» precisò, rigirando il dito nella
piaga.
Quell’affermazione
non fece altro che farmi infuriare ancora di più.
«Con
te è inutile ragionare, buonanotte!» tagliai corto, fuggendo nella mia
stanza.
Finalmente
potevo sbattere la porta senza che orecchie indiscrete potessero
giudicarci.
Celeste non mi aveva detto nulla riguardo a Simone e all’impressione
che le
avevo fatto, ma di certo non era stupida. Persino i muri avevano capito
che tra
me e il calciatore c'era qualcosa.
Il
problema era proprio quello: cosa c’era?
Mi
stesi sul letto supina, guardando il soffitto e interrogandomi sugli
eventi
trascorsi. Era cominciata come una banalissima storia fatta di sesso e
fin lì
potevo anche starci.
Il
vero problema era giunto dopo.
Avevo
avuto molte scelte davanti a me, come James, la carriera, concentrarmi
unicamente sul mio obiettivo di diventare socio dello studio… eppure,
avevo
sempre scelto Simone. In ogni singola occasione che mi era capitata a
tiro,
alla fine ero corsa da lui.
Non
sapevo se questo si poteva tradurre in amore, o altro. Di sicuro era
qualcosa
che mai avevo provato prima, perché mi rendeva vulnerabile, confusa e
arrabbiata più del solito. Era irritante il modo con cui Simone voleva
necessariamente definirci.
A
me bastava quello che eravamo, senza etichette.
Fidanzati?
Amanti? Amici? Clienti? Non m’importava.
L’unico
mio vero interesse, per quanto stupido fosse ammetterlo, era chiedergli
ogni
sera com’era andata la sua giornata. Aspettare con pazienza che
arrivasse la
Domenica oppure il Sabato per vederlo giocare alla televisione, anche
se quando
rientrava gli mentivo, dicendogli di essermi chiusa in stanza a
lavorare oppure
di aver visto un film scadente.
Sofia
che mi telefonava quando suo fratello faceva un goal, infilandosi la
mano sotto
la maglia e imitando un cuore che batte, convinta che non fossi
sintonizzata
sul canale di Sky.
…e
invece avevo esultato molto tempo prima.
Ti sei fregata, lo sai questo?
Forse
sarebbe stato meglio ammetterlo a sé stessi, come primo passo. I
problemi – gli
altri – li avrei affrontati a tempo debito.
Mi
raggomitolai su me stessa, dopo aver avvertito un brivido di freddo.
Cinque
secondi dopo sentii il materasso inclinarsi da un lato e le braccia
grandi e
forti di Simo che cercavano di incastrarsi sui miei fianchi,
attirandomi a lui.
All’inizio
cercai di fare un po’ l’offesa, tanto per non dargliela vinta subito,
poi però
cedetti.
«Sei
ancora arrabbiata per il fatto che non dovremmo stare insieme?» mi
chiese,
affondando il viso nell’incavo del mio collo e inspirando forte l’odore
della
pelle.
Ero
di schiena ancora, e non mi sarei voltata per nulla al mondo. Troppo
imbarazzo.
«Sai
che non è per quello che mi sono arrabbiata.»
Lo
sentii ridacchiare. «D’accordo, allora da oggi in poi non cercherò di
etichettare quello che siamo. Ai miei amici dirò che vado a cena fuori
con la
mia coinquilina, che festeggerò San Valentino con l’amica della ragazza
di mio
cugino scemo, che faccio regolarmente sesso con il mio avvocato… quale
scegli?»
La
stupidità di Simone era contagiosa, così come la sua risata.
A
quel punto mi voltai, perché era inutile resistere a quello sguardo da
cucciolo
che sicuramente aveva dipinto in faccia.
Simone
allargò le braccia per farmi più spazio, stringendomi a sé. Lo guardai
come se
lo vedessi per la prima volta, dopo tutto quello che ci era successo.
«Non
mi sei mai piaciuto, sai? Dalla prima volta che ti ho visto. Eri troppo
presuntuoso, pallone gonfiato e immaturo. Tutto ciò che odiavo in un
ragazzo,»
cominciai, ricordando la prima volta a Londra con Celeste.
«Nemmeno
tu mi sei stata simpatica,» aggiunse lui, baciandomi a tradimento.
«Spocchiosa,
acida e permalosa. Non sopportavo il modo in cui giudicavi la gente
dall’alto
in basso, solo perché eri laureata e saccente.»
In
effetti, detta così non ci sarebbe proprio dovuta essere alcuna
interazione tra
di noi.
«Eppure…»
cominciai.
«Eppure
eccoci qui,» concluse Simone. «Non so cosa diavolo mi hai fatto, ma
adesso ti
trovo quasi sopportabile,» ridacchiò.
Gli
mollai un bel pizzicotto sul braccio. «Solo quasi?»
«Ahi!
Okay, okay, diciamo che sei sopportabile.» Si massaggiò la parte lesa.
Rimanemmo
a fissarci per qualche minuto, incapaci di aggiungere altro. I tratti
di Simone
nel buio della stanza parevano ancora più elfici. La sua pelle bianca e
liscia
era come fatta di porcellana e cominciai a sfiorarla senza nemmeno
accorgermene.
«Perché?»
mi ritrovai a chiedere, scostandogli i capelli scuri dagli occhi.
«Cosa?»
Scossi
la testa, sentendomi stupida. Avrei voluto chiedergli perché un
calciatore di
fama mondiale come Simone Sogno, che una volta risolto il caso avrebbe
potuto
avere ogni donna ai suoi piedi, perdeva tempo con me. Inoltre, mi
odiava, lo
aveva detto lui.
«Niente.
Rimani qui stanotte,» gli dissi invece, sperando non insistesse
sull’altro
discorso.
Ero
ancora troppo insicura di tutto quello per espormi, c’erano troppi
“forse” che
dovevano tramutarsi in certezze prima o poi.
«Va
bene,» mi rispose.
Mi
voltai di nuovo tra le sue braccia, dandogli la schiena. Ci incastrammo
in modo
quasi perfetto, infilandoci sotto la calda trapunta e chiudendo gli
occhi.
C’era ancora qualcosa di sbagliato che aleggiava nell’aria, come se
avessi un
qualche presentimento distruttivo, ma non sapevo dire cosa.
Ovviamente
ancora doveva succedere il peggio.
***
«Ven,
dobbiamo parlare.»
La
voce di James quella mattina non era squillante come al solito, anzi.
Appariva
piuttosto preoccupato e mogio. Stritolai malamente i documenti che
avrei dovuto
fotocopiare, anche perché sentivo che c’era qualcosa che doveva dirmi.
Si
trattava forse di Simone? Aveva scoperto la nostra tresca? Avrebbe
detto tutto
a suo zio per vendetta?
Che idee stupide.
Infatti,
James era un galantuomo e sicuramente non avrebbe adottato queste
bassezze per
liberarsi di me. Mi avrebbe parlato, fatto ragionare e magari indotto a
lasciare il lavoro di mia spontanea volontà.
«Siediti
pure,» disse ed io mi preoccupai davvero.
«Cosa
c’è? Ho fatto qualcosa di sbagliato?» chiesi nervosa, forse un po’
troppo. Le
parole mi uscirono a raffica dalla bocca, senza passare prima per il
cervello.
Dovevo
stare molto attenta a ciò che dicevo, ne valeva la mia integrità morale.
James
stiracchiò un sorriso. «Non si tratta di te, tranquilla,» mormorò,
tirando
fuori un plico di fogli con lo stemma di una clinica ospedaliera
privata.
«Dobbiamo parlare del nostro cliente.»
Ero
nel panico più totale.
Forse
in quei giorni post-vacanza non avevo ancora recuperato del tutto. Mi
erano
sfuggite parecchie cose in ufficio, forse per distrazione o perché ero
sovrappensiero…
…o perché il tuo cervello era
rimasto attaccato agli addominali di un calciatore.
«Ci
sono novità?» chiesi, intimorita.
L’avvocato
sfilò uno dei fogli, voltandolo sulla scrivania e porgendomelo.
«Purtroppo non
sono buone come speravo,» concluse.
Fissai
il foglio pieno di segni colorati, di sbarrette con diverse colorazioni
poste
in due tabelle differenti. Appariva molto come uno di quei documenti
visti
nelle serie televisive poliziesche.
«Leggi
sotto,» mi indicò.
Velocemente
i miei occhi arrivarono alle indicazioni finali, ma quando lessi il
cognome
“Cloverfield” associato a quello di Sogno, con un segno POSITIVE
MATCH vicino, mi sentii svenire.
«C-Che…»
balbettai, senza capire.
James
si accorse che non mi sentivo tanto bene, così si avvicinò preoccupato.
«Calmati, Ven, non è niente. Prima di Capodanno ho fatto fare a Mr.
Sogno il
test di paternità a questa clinica di fiducia, visto che non mi fidavo
dei
risultati portati in aula da St. James,» spiegò con calma e chiarezza.
«Diciamo
che mi sarei aspettato un risultato diverso, però non è stato così.»
Tornai
ad osservare il foglio col desiderio di sparire seduta stante.
Non
ci voleva un biologo o un medico per capire cosa significasse quel
documento. «Il…»
tentai di articolare le parole, ma non volevano uscire fuori.
James
mi guardo costernato. «Il bambino è suo, sì. Il test di paternità è
corretto e
Miss Cloverfield
ha tutte le ragioni
per citare in giudizio il nostro assistito. Fino a prova contraria, se
non
troviamo una strategia adatta per lenire al minimo i danni, lei ha
tutti i
diritti del caso.»
Volevo
morire.
A
quel punto non mi importava nulla del caso, del mio tirocinio, del
fatto che
avremmo risolto o meno il caso. Volevo andarmene da lì e sparire.
Adesso
sarebbe cambiato tutto…
«Non
ci ha detto la verità…» sussurrai, più a me stessa che a James.
Lui
scosse la testa. «Non puoi dirlo. Mr. Sogno ha detto di non essere
sicuro di
come si erano svolti gli eventi quella sera. Si è confuso, può
succedere,»
mormorò in sua difesa.
Cercai
i suoi occhi cerulei con disperazione. «È finita,» deglutii.
L’avvocato
non riusciva a capire. «Troveremo un modo, vedrai. In fondo, ci saranno
sicuramente dei cavilli giudiziari a cui potremmo appellarci per
limitare i
danni. Non permetteremo a St. James di avere la meglio, non può
costringere il
nostro assistito ad adempiere ai suoi doveri verso il bambino con il
matrimonio.»
Il
problema era uno solo: io non stavo parlando del
caso.
«D-Devo
riflettere…» mormorai confusa, sentendo dei giramenti di testa troppo
forti.
«Attenta!»
mi disse, vedendo che barcollavo.
Caddi
tra le sue braccia con la sola voglia di piangere a dirotto, ma mi
trattenni.
Sapevo che non era colpa di Simone, che non avrebbe mai fatto una cosa
del
genere e poi sostenuto il contrario soltanto per pararsi il sedere. Era
evidente che ci si era messo il destino di mezzo.
Eppure
non potevo pensare ad altro che a noi. A come sarebbe cambiato tutto
adesso.
«Scusami,
vado a fare due passi,» dissi a James, che non la smetteva di fissarmi
preoccupato.
«Vuoi
che ti accompagni?» mi chiese, sempre gentile.
Scossi
la testa e mi avviai verso il portone.
Sentivo
il bisogno di stare per conto mio, senza nessuno che mi gironzolasse
attorno.
Lasciai il documento incriminante sulla scrivania di James e mi diressi
lungo
Regent Street a passo svelto.
Avrei
voluto sedermi ovunque, anche sui gradini di una tavola calda, per poi
scoppiare a piangere. Era strano che mi sentissi in questo modo, in
fondo avrei
dovuto aspettarmelo.
Un
momento volevo urlare, quello dopo ridere istericamente. Per tutto il
tempo che
ero stata con Simone, in quella bolla di sapone chiusa al mondo
esterno, era
come se avessi vissuto in una terra parallela, dove non c’erano i
problemi di
tutti i giorni da affrontare.
Non
mi era passato minimamente per la testa che il test di paternità
potesse
risultare positivo. Non mi ero posta alcun problema e, di conseguenza,
nemmeno
nessuna soluzione.
Presi
il mio Blackberry e lo fissai come si fissa il vuoto.
Continuai
a camminare fino a quando non raggiunsi Hyde Park, sedendomi sulla
prima
panchina disponibile e osservando le persone che pattinavano sulla
pista
ghiacciata al centro del parco.
Faceva
ancora troppo freddo.
Mi
rannicchiai su me stessa cercando calore, mentre i piccioni
becchettavano qua e
là alla ricerca di alcune molliche di pane.
Cosa
avrei fatto adesso? Come mi sarei comportata con Simone?
L’idea
di tornare a casa mi metteva ansia. Sentii vibrare il telefono e notai
subito
che il diretto interessato mi stava chiamando.
Lo
ignorai.
Il
mio monolocale era ancora in sub-affitto, anche se vuoto, ma l’idea di
tornarmene lì da sola era ancora più triste che dover affrontare il
calciatore.
Avrei potuto anche chiamare Sofia, spiegarle tutto, farmi consigliare
da lei…
ma non ne avevo la forza.
Un
bambino.
Simone
sarebbe diventato padre. Avrebbe avuto un figlio da una donna la cui
gamba
sinistra era lunga tanto quanto la sottoscritta.
Il
mio cervello si proiettò subito in un futuro immediato, dove la mia
vita con
Simone prendeva una piega quotidiana, nonostante lui dovesse dividersi
tra me,
il suo lavoro e il figlio a cui doveva badare.
O
il matrimonio dell'anno tra Simone Sogno e giraffona
Cloverfield.
No,
non ci sarebbe stato alcun futuro per loro due.
«Dovevo
aspettarmelo…» borbottai tra me e me, incastrando la testa tra le mani.
Hai chiuso fuori i tuoi problemi
per paura di doverli affrontare.
Già,
non ci vuole un genio per capirlo.
Era
come se avessi accantonato quei particolari scottanti in un cassetti,
lo avessi
chiuso a chiave e mai più aperto, fino a quando non era esploso
riversando
tutto il contenuto su di me, quasi come un’onda in piena.
Il
telefono squillò di nuovo. Stavolta si trattava di un sms.
ehi!
che fine hai fatto?
sto
preparando una specie di torta, ma credo somigli
più ad un vulcano in eruzione. mi aiuteresti?
ps.
mi manchi.
simonator.
Avrei
volentieri schiantato il telefono contro un albero, ma mi trattenni.
Sarei
davvero stata capace di dividere Simone? Di lasciarlo andare? Ne ero in
grado?
Anche se la causa di dubbia paternità fosse stata risolta al minimo
danno,
ovvero con visite stabilite e gli alimenti pagati adeguatamente, sarei
davvero
riuscita a digerire tutto quanto?
Come
sarebbe cresciuto questo bambino, poi?
Aveva
una mamma – gnocca tra l’altro – un papà (anch’esso appetibile), e la
fidanzata
del padre che somigliava ad uno gnomo da giardino.
Volevo
morire.
Non
appena girai la chiave nella toppa, vidi Simone che mi attendeva nel
salotto
con un’espressione piuttosto sconsolata.
«Che
è successo?» gli chiesi, tentando di rimanere impassibile.
Lui
scrollò le spalle. «Si è ammosciata.» Indicò la torta che aveva assunto
una
forma concava piuttosto brutta.
«Hai
aperto il forno durante la cottura?» mi informai, togliendomi sciarpa e
cappotto.
Simone
mi fissò come se mi avesse vista per la prima volta. «Hai pianto?»
chiese
preoccupato.
Non
seppi davvero come fece ad accorgersene, ma il mio primo istinto fu
quello di
mentire. «Ma cosa dici?» ridacchiai, avvicinandomi alla torta. «Si può
ancora
recuperare. Basta tagliarla a metà e spalmarci della cioccolata. Vedrai
che è
buona lo stesso.»
Simone
però non si fece distrarre, anzi, mi raggiunse e mi strinse forte.
«Smettila
di dire cazzate,» mi ammonì severo. «Che è successo?»
Fu
allora che sentii un groppo alla gola esplodere. Tentai di fermare le
lacrime,
davvero, ci provai. Feci appello a tutte le mie forze, ma una riuscì a
rotolare
giù lungo la guancia, bagnandogli le dita.
«S-Sono
arrivati i risultati del test…» smozzicai, insicura.
Non
volevo farmi vedere così debole da lui, soprattutto perché significava
che mi
importasse davvero tanto quello che c’era tra di noi.
Furono
sufficienti quelle parole per Simone, che fece soffocare i miei
singhiozzi nel
suo maglione.
«Mi
dispiace,» disse, stringendomi forte. «Sono stato un coglione, un
deficiente…
se potessi tornare indietro…»
E
lo allontanai da me. «Ma non puoi!» urlai, stanca.
Forse
mi stavo comportando in un modo troppo infantile, ma non riuscivo a
controllare
i mei ormoni. «Avresti dovuto pensarci prima di scoparti qualsiasi
cosa, anche
quella giraffona! Un figlio, Cristo Santo!»
Simone
non sapeva cosa dire. Continuava a guardarmi contrito, dispiaciuto,
senza
aggiungere altro che “Mi dispiace”, ripetuto come una nenia fastidiosa.
Tentò
di sfiorarmi un braccio, ma io mi ritirai. «Ti prego…» mi disse,
dispiaciuto.
Come
avrei dovuto comportarmi a quel punto?
Lo
fissai disperata. «Sai che non possiamo… non più, ormai.»
«Non
dire così, smettila!» stavolta fu il suo turno di gridare. «Cazzo, non
sto mica
morendo! Sai quante persone convivono con una famiglia allargata?»
Lo
sapevo, certo. Ovviamente si riferiva anche alla sua.
«Non
è la stessa cosa,» lo fermai subito. «Abbiamo sbagliato a cominciare
qualsiasi
cosa questa sia, perché non doveva accadere. Ora ho capito il motivo. È
arrivato il momento che tu ti prenda le tue responsabilità… per quanto
sia
successo ingenuamente, ormai il dado è tratto.»
«Falla
finita!» ringhiò, arrabbiato. «Possibile che per ogni minima cosa ti
tiri
indietro? È evidente che non ti importa nulla di tenere a galla questa
relazione, altrimenti avresti lottato!»
«Non
dare a me la colpa per una cosa che hai fatto tu!»
sbraitai. «Come
dovrei sentirmi? Felice? Al settimo cielo perché il mio ragazzo avrà un
figlio
da un’altra?»
Stavo
facendo una tragedia greca, e lo sapevo.
Ero
il suo avvocato in fondo, ero sempre stata al corrente di ciò che
sarebbe
potuto succedere eppure, venire a patti con la realtà era stato
devastante.
«Perché
mi fai sentire come se ti avessi tradita?» mi accusò, con gli occhi che
lentamente si arrossavano. «Non stavamo insieme quando è successo tutto
questo,
e non so nemmeno se stiamo insieme adesso… pensi che io sia felice di
vederti
così? Se potessi tornare indietro, cancellerei tutto, va bene?
Rinuncerei a
tutte le donne del mondo se questo servisse a farti smettere di
soffrire…»
L’aveva
detto quasi senza pensare, e, infatti, fu come se si rendesse conto di
quello
troppo tardi.
«Io…»
tentò di rimediare.
Ero
stata stupida ed egoista. Non avevo minimamente fatto i conti con
quello che
avrebbe provato Simone sapendo della notizia. La sua carriera e la sua
vita
sarebbero cambiate per sempre, cambiamento che io avrei subito solo in
parte.
Avere
un figlio era una grossa responsabilità. Enorme, direi.
Ero
stata idiota a mettere al primo posto i miei bisogni, a pensare
soltanto a me
stessa, quando a Simone era piombata addosso una verità che lo aveva
distrutto.
«Mi
dispiace,» dissi, sinceramente colpita.
Invece
di sostenerlo, lo avevo attaccato.
Simone
sgranò gli occhi e tentò di avvicinarsi. «Non dirmi che vuoi rinunciare
così
presto, senza combattere…» chiese preoccupato.
Davvero
volevo mollare tutto? Dopo aver quasi mandato a quel paese la mia
carriera,
preso in giro James, raccontato bugie persino alla mia migliore amica,
avrei
rinunciato a tutto quello?
Mi
fiondai tra le braccia di Simone, stringendolo forte, facendogli
mancare il
respiro.
«Non
credo di potercela fare…» ammisi.
Lui
mi accarezzò i capelli dolcemente. «Shhh, vedrai che ce la faremo. In
qualche
modo supereremo anche questa cosa. Insieme.»
Avrei
voluto piangere, ma sarebbe stato da deboli. Non era la fine del mondo,
almeno.
Avrei dovuto fare di tutto, impegnarmi al massimo perché a Simone
fossero
riconosciuti tutti i diritti sul bambino.
Alzai
lo sguardo asciugandomi gli occhi. «Vuoi riconoscerlo?» gli chiesi,
forse
troppo direttamente.
Forse,
dentro di me, speravo che rinunciasse e si lasciasse quella storia alle
spalle.
Un pensiero egoista, lo ammetto. Poi però, con cognizione di causa, mi
sentii
una stupida ad averglielo chiesto.
«Ovviamente,»
mi rispose lui, sorridendo. «So che non sarò eletto padre dell’anno, ma
almeno
voglio provarci. Così la finisci di chiamarmi 'ragazzino',» mi rimbeccò.
Sorrisi,
anche se sentivo una profonda tristezza dentro.
Sapevo
che da quel giorno in avanti le cose sarebbero radicalmente cambiate.
Sarebbe
stato tutto diverso, per quanto ci sforzassimo di rendere la realtà
quotidiana.
Ci
sedemmo sul divano, ancora abbracciati.
«Lo
dirai ai tuoi genitori?» gli chiesi, indagando.
Gabe
non aveva voluto divulgare la notizia all’interno della famiglia,
troppo
preoccupato della reazione di Marco. Adesso le carte in tavola erano
cambiate,
forse sarebbe stato opportuno affrontare la verità.
Simone
annuì, senza smettere di accarezzarmi un fianco. «Sarò io a dirlo a mio
padre.
Devo farlo.»
«Almeno
non è la prima volta che diventa nonno…» ironizzai, pensando a Susy.
Era da
Natale che non sentivo quella bambina, e un po’ mi mancava.
Simone
ridacchiò, poi s’incupì di nuovo. «Hai fame, preparo qualcosa?» chiese
stranamente, senza ordinarmi di fare nulla.
Strizzai
un occhio. «Non ti ci vedo così servizievole… non sembri più tu.»
Lui
si stiracchiò come un gatto. «È arrivato il momento di crescere…»
disse, come
se non avesse compiuto appena ventun’anni.
«Te
ne sei accorto presto…» lo presi in giro, poi lui mi tirò ancora più
contro il
suo corpo.
Allargò
le gambe e mi fece accoccolare nel mezzo, con l’orecchio destro sul suo
petto.
«Credi
davvero che riuscirò ad essere un buon padre?» se ne uscì, serio.
Soppesai
i diversi modi in cui ci eravamo scontrati e a quante volte gli avessi
dato
dell’immaturo, testone e arrogante. La verità era che ancora non lo
avevo
conosciuto abbastanza, mi ero basata soltanto su come appariva.
Sorrisi,
disegnando cerchietti immaginari sulla sua T-shirt. «Credo che tu ci
possa
lavorare.»
Orsù
buon pomeriggio a tutte/i!
Premetto che il ritardo nel postaggio-capitolo è dovuto al fatto che
dal 22 luglio non sono tornata a Roma per niente, per cui - volente o
nolente- non potevo proprio postarlo XD
Appena sono tornata, ho messo sotto torchio la mia wifuccia che mi ha
betato il chap a tempo di record ed eccolo qui per voi! :3
E' un capitolo di svolta, niente più passaggi. Ora si affronta la
verità dei fatti e ci si scontra con i problemi che sorgeranno dal
fatto che il test di paternità è positivo. Reale. Che non si tratta più
di una macchinazione, bensì della nuda e cruda verità.
Che fareste voi al posto di Venera?
Lascio questa domanda in sospeso U_U
Attendo risposta mentre rispondo, pian piano, alle recensioni... sono
una marea e sono rimasta indietro T_T PEDDONO!! Cmq ce la farò, tra un
impegno e l'altro :3
//marty
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Capitolo 24 *** Capitolo 22 ***
Quella
mattina, in ufficio, fu un vero disastro e, da quando il risultato del
test del
DNA era stato reso noto anche a Mr. Abbott, io e James passavamo la
maggior
parte del tempo chiusi in ufficio a cercare di studiare una strategia
per il processo.
«Anche
se Simone è il vero padre,» esaminai i documenti. «Questo non vuol dire
che
Miss Cloverfield abbia certi diritti su di lui…» azzardai.
James
alzò lo sguardo dai fogli.
Un
paio di occhi azzurri curiosi mi squadrarono. Ancora non avevo
esattamente
spiegato bene la relazione che si era instaurata tra me e Simone, ma
avevo il
sospetto che Jamie avesse intuito qualcosa. In fondo, era un uomo
estremamente
intelligente e arguto.
«Ven,»
sospirò, contrito. «Per quanto possiamo
arginare questo enorme danno, il Giudice non darà mai ragione a Mr.
Sogno.
Essere padre comporta delle responsabilità, come tu ben sai. Mr. Sogno
dovrà
assumersi le responsabilità delle sue azioni, pagare eventualmente gli
alimenti
a Miss Cloverfield ed essere presente per il bambino. Saranno stabilite
delle
visite, magari durante il week-end, ma il massimo che possiamo fare e
tenere a
bada la stampa fino alla data del processo.»
Volevo
morire.
Sebbene
avessi fatto capire a Simone che ero ben disposta ad aiutarlo, anche se
sarebbe
diventato presto un ragazzo-padre, tutto ciò ancora mi sconvolgeva. Già
era
difficile tenere in piedi una relazione “clandestina” tra avvocato e
cliente, e
ora c’era di mezzo definitivamente Elizabeth.
Cosa
avevo fatto di male per immischiarmi in una situazione del genere?
Ti
sei innamorata.
«Tutto
bene?» mi chiese James, vedendo che scuotevo la testa come un puledro
con la
sua criniera.
«Certo!»
risposi di fretta, per non sembrare stupida più del necessario. «Sto
solo
cercando di riacquistare la concentrazione…»
James
allora si alzò dalla sua scrivania, e andò a sedersi sul bracciolo
della mia
poltroncina. Ci guardammo negli occhi per secondi che parvero
interminabili,
poi lui mi posò una mano sul braccio. Delicatamente.
«So
quanto tu ci tenga al nostro cliente e so che tra di voi c’è un qualche
legame
speciale, anche se tu lo negherai,» mi fissò serio. «Purtroppo mio zio
è stato
abbastanza chiaro. Dobbiamo arginare i danni il più possibile, visto il
risultato del test del DNA. Per cui ti pregherei di mettere da parte i
sentimenti.»
Suonava
molto come un rimprovero, ma lo presi con professionalità. «Hai
perfettamente
ragione, scusami,» dissi mortificata.
Dov’era
finita la Ven che pensava soltanto al lavoro?
Simone
l’ha gettata nel
water.
«In
questi giorni sono stata distratta e confusa, ma prometto che da adesso
in poi
le cose cambieranno. Devo rimanere concentrata,» affermai.
James
sorrise e mi lasciò una carezza leggera sui capelli. «Brava la mia
spaghetti-girl.»
La
data del processo era fissata per il 4 Febbraio 2013 e ci arrivò la
comunicazione qualche tempo dopo, in ufficio. Yuki cominciò a
starnazzare come
un’oca in preda al panico, portando comunicati a destra e a manca pur
di
tenersi occupata.
Non
era il suo caso, questo è vero, ma quello mio e di James era forse il
processo
più “atteso” dell’anno. La notizia non era ancora stata divulgata, ma
parecchi
tabloid e notiziari gossip avevano ipotizzato qualche turbamento
nell’ordinaria
vita sociale di Simone Sogno.
Si
diceva che la stella dell’Arsenal rimanesse quasi tutto il tempo in
casa, senza
più farsi vedere in giro per i locali di Londra. Cercavo sempre di
tenermi
informata il più possibile, ma per fortuna, i giornalisti pensavano
solamente
ad una nuova fiamma dell’atleta che voleva rimanere nascosta al
pubblico
inglese.
E
in parte avevano ragione.
«La
lista dei testimoni è stata stilata?» urlò James dal corridoio.
Era
la prima volta in assoluto che lo vedevo così agitato. Mancavano pochi
giorni
all'udienza, per cui il clima nello studio era totalmente caotico.
«Eccola!»
gli risposi, correndo. Per fortuna in ufficio avevo sempre un paio di
scarpe di
ricambio, al posto del tacco dodici che ero obbligata ad indossare in
qualsiasi
aula di Tribunale. Sia Mr. Abbott che James non avevano trovato nulla
da ridire
sulle mie “ballerine da ufficio”, almeno per ora.
Da
un mese a quella parte, di frequente mi ritrovavo a rincasare dopo
l’ora di
cena, con immenso disappunto da parte del mio
coinquilino-barra-fidanzato-barra-concubino. Simone sapeva che rimanevo
tutto
il tempo a lavorare, ad esaminare fogli su fogli per un salario minimo,
da
tirocinante, eppure il suo sguardo scuro sembrava rimproverarmi.
Inoltre,
erano un paio di mattine che mi svegliavo con lo stomaco in subbuglio e
andavo
al lavoro cercando di trattenere uno spiacevole senso di nausea.
È
lo stress.
Quella
sera, rincasai verso le 21.30, trovando la cena preparata da Simone che
mi
aspettava sul tavolo della cucina. Ovviamente fredda.
Posai
le chiavi sul tavolinetto, nell’apposita ciotola, e notai un certo
silenzio. Il
calciatore era sdraiato sul divano, completamente esausto dagli
allenamenti
avuti quello stesso giorno. Addirittura non si era neppure spogliato e
indossava la tuta dell’Arsenal.
A
mio malgrado, sorrisi. Per quanto fosse anti-igienico che non avesse
nemmeno
aperto l’acqua della doccia, quella scena mi fece scaldare il cuore.
Simone
assomigliava sempre di più ad un eterno bambino, un ragazzo cui dovevi
stare
sempre dietro, come una madre amorevole col proprio figlio.
E
presto anche lui avrebbe avuto un bambino di cui occuparsi.
Mi
avvicinai al divano e chiusi il televisore, rimasto acceso sul canale
dello
sport. Accarezzai lentamente il suo viso, scostandogli delle ciocche di
capelli
troppo lunghe sul davanti. La vecchia Ven si sarebbe sentita una
stupida
rimanendo lì imbambolata a fissare un ragazzo, eppure a quella nuova
piaceva…
Prima
di andare a lavoro, la mattina, rimanevo a fissare Simone che dormiva
nel mio
letto – nostro – e alle volte
finivo
addirittura col fare tardi.
Se
avessi vissuto in un film d’animazione della Disney, a quest’ora
Tamburino mi
avrebbe detto di essere rincitrullulita[1].
Simone
mugugnò qualcosa nel sonno, poi di scatto aprì gli occhi e mi sorrise.
Rimasi
allibita da quel suo gesto, perché appena aveva aperto gli occhi e mi
aveva
vista, l’istinto gli aveva suggerito di sorridermi.
Sono.
Fottuta.
«Buonasera,
bell’addormentato…» scherzai, facendo riferimento anche all’orario,
piuttosto
presto per coricarsi.
Per
tutta risposta, Simo si stiracchiò, diventando addirittura più alto di
quanto
non fosse già. «Volevo aspettarti, ma mi sono abbioccato,»
ridacchiò. «Oggi il mister ci ha massacrati. Ho
bisogno assolutamente di coccole!» si lagnò, allungando le braccia in
una muta
richiesta di stringermi accanto a lui.
Avrei
sicuramente storto il naso se si fosse trattato di qualsiasi altro
ragazzo,
eppure Simone mi faceva un effetto completamente diverso. Quel suo
essere
ancora immaturo, gli conferiva un fascino che non avevo mai
sperimentato prima,
troppo fredda e cinica per relazionarmi con qualsiasi persona non fosse
al mio
stesso livello di maturità.
«Forse
dovresti prima farti la doccia, non credi?» lo punzecchiai, riferendomi
all’odore.
Simone
tirò fuori un broncio degno di sua nipote Susy. «Dopo! Prima coccole!»
e si
allungò ancora, con quelle braccia che avrebbero potuto stringere due
Ven.
Sbuffai.
«Va
bene, ma io dovrei anche mangiare ti faccio presente.» Così mi
posizionai tra
le sue gambe, accoccolata
al suo petto.
Rimanemmo
in silenzio, mentre Simone mi accarezzava lentamente i capelli. Avrei
voluto
parlare un po’ dell’imminente udienza, ma non sapevo davvero come fare
per
introdurre l’argomento.
«Come
va lo stomaco?» mi chiese lui, interrompendo il silenzio.
Scrollai
le spalle. «Per adesso, bene. Secondo me è lo stress di questi giorni
in
ufficio. Stanno diventando tutti pazzi, tranne Yuki che già lo era,»
ridacchiai.
Anche
Simone sorrise. «E l’avvocatucolo, che dice?»
Sapevo
che quando si entrava in territorio “James” era pericolosa qualsiasi
risposta.
Ormai era pressoché evidente che Simo fosse geloso dell’avvocato, del
tempo che
passavamo insieme e dei precedenti che c’erano stati tra di noi.
Nonostante lo
avessi rassicurato più volte, visto quello che ormai sussisteva tra me
e
Simone, lui non demordeva.
«Nulla,
stiamo impazzendo per via del 4 Febbraio…» e lì mi stavo avventurando
in un
terreno fragile.
Sentii
Simone irrigidirsi. «È già ora, vero?» mi chiese, preoccupato.
Annuii.
«L'udienza è fissato per quel giorno. Dovrai presentarti in aula, dove
ci sarà
anche Elizabeth e St. James.»
Lui
si alzò leggermente e mi prese il viso tra le mani. «Tu ci sarai?»
domandò.
Avrei
voluto rassicurarlo, ma la verità era che non mi sentivo affatto
sicura. Dopo
l’esito del test del DNA, tutte le mie ricerche riguardo soluzioni da
casi
precedenti si erano rivelate solo un enorme buco nell’acqua.
«Sarò
seduta appena dietro di te,» dissi, tranquilla.
Simone
fece un’espressione perplessa. «Quindi dovrò affidarmi a quello
lì…» mugugnò offeso.
Cercai
il suo sguardo infilandomi prepotentemente nel suo campo visivo.
«Ascolta, per
quanto tu non lo sopporti, James è un avvocato fantastico, mentre io
sono solo
una tirocinante. Vuoi passare il resto della tua vita incatenato a
quella giraffona?»
gli chiesi.
Sembrò
riflettere sulle mie parole, poi mi sorrise. «È da un po’ di tempo a
questa
parte, che preferisco le tartarughine…»
Mi
ci vollero meno di cinque secondi per comprendere il paragone.
«Un
altro soprannome? Davvero? Quanti me ne hai affibbiati da quando ci
conosciamo?» sbottai, fingendomi offesa.
Simone
si divertiva troppo a punzecchiarmi. «Ma sono nomignoli d’affetto, non
soprannomi…» si giustificò.
«E
immagino che “tartaruga” stia per il fatto che sono bassa, lenta e
goffa?»
«Non
è colpa mia se sei addirittura più lenta di quel tuo amico paesano…»
commentò,
alzandosi dal divano.
Ovviamente
aveva insultato anche Mario, in modo indiretto. «Ti conviene sparire
sotto la
doccia, oppure ti lancio addosso le mie scarpe d’avvocato!» sibilai.
Oramai,
litigare per queste quisquilie era diventata una routine che rendeva la
nostra
convivenza sempre interessante. Diciamo che la nostra non sarebbe mai
stata una
coppia di quelle che si tenevano per mano e si baciavano in ogni
occasione.
Certo,
il sesso c’era… forse anche troppo.
«Vieni
con me?» aggiunse lui, malizioso. Ecco, per l’appunto.
«C’è
la cena…» mi giustificai, tentando di non fissarlo negli occhi. Avevo
scoperto
che lo sguardo scuro di Simone era un afrodisiaco fin troppo efficace.
Lui
mi tirò per il braccio, facendomi alzare e obbligandomi a seguirlo.
«Aspetterà.»
***
Uscii
dall’ufficio per la pausa pranzo, constatando che, nonostante fossero i
primi
di Febbraio, c’era un tiepido e piacevole sole.
«Io
rimango a rivedere queste carte,» mi disse James assorto. «Tu vai pure.»
Avrei
voluto chiedergli di unirsi a me per il pranzo, ma da un po’ di tempo a
quella
parte avevo notato che il nostro rapporto si era parecchio allentato.
Tutto era
andato a rotoli dalla festa di Capodanno, e da quel giorno sempre
peggio.
Con
James avevo un rapporto di lavoro, d’accordo, ma essere fianco a fianco
con una
persona che sì era gentile, ma distaccata, mi infastidiva. In fondo, la
colpa
era soltanto mia. Avevo voluto osare, intraprendere una relazione con
lui, e
poi con Simone.
Come
se fosse una cosa facile.
«Okay…»
mormorai, uscendo dalla Abbott&Abbott.
Subito
dopo avvertii dei passi dietro di me e mi voltai. Yuki era in cima alle
scalette dell’ufficio, con un sorriso fiero stampato in volto.
«E
così te la intendi con un tuo cliente, eh?» sputò fuori subito, quasi
come
veleno dalla bocca di un serpente.
Rimasi
allibita. «Come, prego?» chiesi, incredula.
La
giapponese si spostò una ciocca di lunghi capelli corvini dalla spalla,
con
nonchalance. «Non fare la finta tonta, Vennie cara,» sibilò, con un
tono sempre
più accusatorio. Cominciò a scendere le scale con una lentezza
estenuante,
senza mai staccarmi gli occhi di dosso. «All’inizio non riuscivo a
capire cosa
ci fosse di diverso in te, e soprattutto tra te e Abbott Jr. Dopo un
paio di
conti ho capito. Non sono mica stupida, sai? Tutti questi tuoi strani
comportamenti, le apparizioni di Mr. Sogno qui allo studio, senza alcun
apparente motivo giudiziario… state insieme, non mentire!» urlò.
Okay,
non bastava il primo appello contro St. James tra pochi giorni… ora ci
si
metteva anche la bomba atomica di Hiroshima.
«Non
so di cosa tu stia parlando, Yuki,» tagliai corto. Avevo una pausa
pranzo
breve, e non avevo alcuna intenzione di passarla a difendermi dalle
accuse di
una pazza.
Anche
se c’era del vero nelle sue parole.
Lei
si mise a ridere istericamente. «Forse non ho le prove, questo è vero,
ma lo
so. Un avvocato non può intrattenere una relazione con un cliente. Se
riesco a
smascherarti, Ven, il posto alla Abbott&Abbott sarà mio. È una
promessa.»
Dopo
quella minaccia alla “Il Padrino”, rimasi inebetita a fissare la porta
automatica richiudersi.
Yuki
aveva ragione, ma non possedeva delle prove, lo aveva ammesso lei
stessa.
Quanto tempo le sarebbe occorso per procurarsele e farmi fuori?
Dentro
di me avevo sempre saputo che con Simone stavo rischiando, mandando
all’aria
una carriera che era iniziata nel migliore dei modi… eppure avevo
provato a
separarmi da lui. Era stato tutto inutile, per cui decisi di stare
molto più in
guardia.
«Ven?»
Una
voce femminile alle mie spalle, mi riscosse dai miei pensieri. Mi
voltai e
trovai il viso dolce e luminoso di Sofia, che mi sorrise.
«Qual
buon vento!» ridacchiai, andandole incontro. Notai che c’era anche la
moglie di
Gabe con lei, Rosie si chiamava.
«Io
e Rose stavamo passeggiando qui per Regent Street e casualmente ti
abbiamo
vista! Che coincidenza, non credi?» trillò entusiasta.
«Che
ne dici di unirti a noi per pranzo?» mi propose Rose.
Annuii
volentieri. «Ho giusto una mezz’ora di pausa.»
Andammo
in uno di quei ristoranti fai da te, con il vassoio da riempire e alla
fine
c’era la cassa a cui potevi pagare il tuo pranzo. C’era parecchia
confusione,
ma trovammo un tavolo abbastanza tranquillo e appartato.
Scartai
la mia insalata e la condii.
Sofi
mi sorrise. «Allora, come va con Simo?» chiese, andando subito al
dunque.
Tentai
di sviare. «Il caso va per il meglio, tra due giorni abbiamo l'udienza
e Simone
dovrà prepararsi ad una specie di tortura psicologica,» le spiegai,
sorvolando
l’altro argomento.
Ovviamente
la piccola Sogno era tutt’altro che stupida. «Certo, certo, ma io
intendevo
come va con mio fratello… a letto.»
E
lì mi strozzai. Tossii e sputacchiai pezzi di insalata per dieci minuti
buoni,
tracannando acqua dalla bottiglietta come se fossi una naufraga.
«P-Puoi
ripetere?»
A
quel punto, Rosie mi venne in aiuto. «Almeno falla finire di mangiare,»
sorrise.
Constatai
che le donne della famiglia Sogno, che fossero consanguinee o meno,
erano
dotate di una furbizia contenuta nel
secondo cromosoma X. Non c’era altra spiegazione.
Mi
chiesi perfino se lo possedessi anche io.
«Non
c’è nulla tra me e Simone, se non sul piano professionale…» mentii.
Potevo
darla a bere a Yuki, forse, ma non di certo a Sofia che mi fissò come
se avessi
appena ammesso che il sole girava attorno alla Terra.
«E
questo “nulla” sta prima o dopo l’esserci andata a letto?» rincarò la
dose lei.
Ormai
era del tutto inutile continuare ad insistere su quel piano. «Va bene,
lo
ammetto,» sbuffai. «Ma è una cosa temporanea e… strana. Insomma, è la
prima
volta che mi capita una cosa del genere, in più non posso nemmeno farne
parola
con nessuno.»
Rose
e Sofia mi ascoltarono con attenzione. Con la partenza di Celeste, loro
erano
la cosa più vicina ad un’amica o confidente che potessi avere. Inoltre,
Rosie
era sposata per cui aveva una marea di consigli da poter dispensare.
Raccontai
loro di come mi ero ingarbugliata in quella storia, di come avevo
tentato di
liberarmene senza successo e, infine, del viaggio a Tivoli. Ovviamente
non
menzionai particolari riguardanti nel dettaglio la nostra vita privata,
ma loro
parvero intuirli senza che nemmeno li nominassi.
«Quindi
Simo ti ha addirittura portato dalla nonna?» chiese conferma Sofi,
riferendosi
all’altra anziana donna.
Annuii
e presi dell'altra insalata.
Le
due donne di fronte a me si guardarono, complici. È come se
comunicassero
tramite gli sguardi.
«Potrei
essere coinvolta in questa silenziosa conversazione?» chiesi loro,
sentendomi
esclusa. La pausa pranzo era quasi finita, ed io avevo già ingurgitato
l’insalata, il taco con le verdure, un pezzo di pizza, una bottiglietta
di coca
cola e stavo puntando una fetta di torta al cioccolato come un
avvoltoio.
Sofia
dispiegò il tovagliolo sul tavolino come se fosse un fazzoletto
pregiato,
stando attenta ad assottigliare ogni piega. «Questa situazione non è
facile…»
cominciò. Vedere Sofia Sogno senza la sua solita aria spensierata, mi
mise in
agitazione. «La verità è che tu e Simone avete qualcosa di speciale,
sicuramente. Qualcosa che nessuno dei due si aspettava.»
Rose
intervenne. «So quanto sia difficile condividere la propria vita con
una
persona di rilievo. Gabe alla fine è solo un manager, ma questo è
sufficiente a
tenerlo lontano da casa anche per una settimana intera,» spiegò.
Sofi
mi strinse la mano. «Quando tutto questo sarà finito, dovrai prepararti
ad una
vita non facile. Io lo vedo con Ruben, e lui era già abituato con mio
cugino
Leonardo.»
Tutto
questo… intendevano il
processo.
Di
punto in bianco, mi resi conto che nessuno di loro sapeva del test
positivo del
DNA. Né Sofi e neppure Rose erano a conoscenza del risultato, del fatto
che
Simone sarebbe diventato padre a soli ventuno anni.
La
mia vita poteva riassumersi benissimo in una stagione di Beautiful.
«Me
ne rendo conto,» risposi mogia. E non so
come affrontare quello che mi aspetterà.
«Dai,
su con la vita!» esultò Sofia, ritrovando il sorriso. «E festeggiamo la
nostra
nuova “sorella” con una mega-fetta di dolce al cioccolato. L’ho visto
come lo
guardavi,» ridacchiò complice.
Mi
abbuffai di cioccolata, quasi fosse l’ultimo pasto, poi salutai le mie
due
nuove amiche e tornai in ufficio, abbastanza appesantita.
Il
giorno del processo ero un fascio di nervi.
Mancavano
circa quattro ore, ed io ero ancora chiusa in bagno a vomitare. Mi ero
svegliata con il forte senso di nausea e non riuscivo più ad alzarmi
dal water.
Simone
mi era seduto accanto, mezzo vestito.
«Tieni,
è camomilla. Vedrai che ti senti meglio,» mi disse, porgendomi una
tazza.
Avevo
un aspetto stravolto, eppure lui non sembrò farci caso. «Cazzo, sarò
uno
straccio oggi.»
«Vedrai
che andrai alla grande nel supportare coso.»
«James,»
lo corressi.
Simone
storse il naso. «Sì, quello lì.» Se ne andò stizzito.
Non
potei fare a meno di sorridere. Per quanto il mio aspetto fosse
moribondo e
avessi lo stomaco in subbuglio, mi sentivo in via di guarigione.
L’aula
sarebbe stata aperta alle due del pomeriggio, ma il manipolo di
avvocati si
sarebbe presentato almeno con mezz’ora di anticipo. Io, James e Simo ci
ritrovammo
in perfetto orario, vestiti eleganti.
Mi
specchiai contro la porta a vetri, notando quanto sembrassi pallida ed
emaciata.
«Tutto
bene?» mi domandò Jamie preoccupato, sfiorandomi il braccio.
A
quel contatto, Simone scattò quasi come uno scorpione pronto a
difendere la sua
tana. «Sta bene,» sibilò.
La
tensione e il nervosismo erano alle stelle, e non sapevo quanto avremmo
retto
senza dare di matto. Per fortuna, Yuki non era presente. Non credo
avrei potuto
sopportare anche gli sguardi inquisitori della mia collega di tirocinio.
«Il
Giudice Simmons ci vuole in aula alle 13.50. Ci sarà pochissima gente,
e
abbiamo tentato di sviare i giornalisti. Purtroppo c’è il rischio che
domani
troverete il caso sulle prime pagine dei quotidiani,» ci avvertì subito
James.
«Sono
pronto a prendermi le mie responsabilità,» rispose Simo, dando prova di
grande
maturità.
James
lo guardò serio. «Non so quanto questo fatto danneggerà la tua
carriera, ma
possiamo benissimo appellarci ad altri casi, quali quelli di Cristiano
Ronaldo
e Mario Balotelli, per cui puoi stare tranquillo che ciò non influirà
sulla tua
carriera calcistica.»
Purtroppo
io avevo ben capito cosa preoccupasse realmente Simone.
La
paternità non rappresentava davvero un ostacolo per la sua carriera, ma
il danno
psicologico sarebbe stato più rilevante. Diventare padre a ventuno
anni, per
l’errore di una notte… avrebbe condizionato chiunque.
Quando
James si recò dal giudice per chiedere informazioni, d’istinto strinsi
la mano
di Simone. Fu più un gesto per rassicurare me, piuttosto che lui. Parve
funzionare.
«Andrà
tutto bene,» gli dissi sincera.
«Lo
so,» mi sorprese lui.
Non
mi era mai capitato di essere così nervosa per un processo. Sin da
quando avevo
iniziato a frequentare l’università, mi ero sempre sentita
elettrizzata. Avrei
affrontato qualsiasi difficoltà a testa alta, me l’ero sempre ripetuto,
giorno
dopo giorno, eppure, adesso che c’era il futuro di Simone in gioco, mi
sentivo
terribilmente insicura.
«Possiamo
entrare,» ci disse James e fu allora che inspirai forte.
Ci
dirigemmo nell’aula di tribunale senza ancora sapere cosa ci avrebbe
aspettato.
Vidi immediatamente Elizabeth seduta in fondo all’aula, con un vestito
piuttosto ampio per nascondere la gravidanza. Accanto a lei, in un
completo
gessato, c’era Carl St. James.
«Benvenuti
e salve,» disse cordialmente, stringendo la mano a tutti i presenti con
un tono
professionale.
Anche
la stenografa si aggiunse, prendendo poi posto alla sua scrivania.
Il
giudice chiamò entrambi gli avvocati alla sbarra. James mi fece cenno
di
avvicinarmi, in quanto sua partner, ed io mi emozionai ancora di più.
Trattenni
a stento un altro conato di vomito.
Il
Giudice Simmons era un uomo rotondetto sulla settantina, ma conservava
ancora
una mente brillante a quanto si diceva. I suoi occhi azzurri e vispi mi
osservarono compiaciuti, poi si rivolse a Carl e Jamie.
«Bene,
oggi è la prima udienza, vorrei da voi un comportamento professionale.
La
giuria terrà conto di entrambe le parti, dei testimoni e di tutte le
prove che
porterete,» spiegò. «Ho saputo che avete il risultato del test di
paternità,
quello che ho approvato tempo addietro.»
Entrambi
gli avvocati annuirono.
Simmons
assentì. «Bene, mi direte l’esito durante il processo. Vi premetto che
ho
vietato l’ingresso alla stampa, ma non sono del tutto sicuro che non
invieranno
delle “talpe”.»
«Ne
sono consapevole, Vostro Onore,» affermò subito James. «Il mio cliente
ha
ammesso che non è un problema la stampa.»
«Anche
Miss Cloverfield è d’accordo,» aggiunse St. James.
Ovvio.
Quella gallina spennacchiata non aspettava altro che aggiungere una
nuova
stella al suo già famoso curriculum. Madre del primogenito di Simone
Sogno, il
calciatore più brillante del campionato inglese.
L’uomo
sulla sessantina sembrò notare la mia espressione corrucciata. «Lei
cos’ha da
aggiungere, avvocato?» mi chiese.
Avrei
voluto rispondergli che ero ancora una tirocinante, ma la vecchia Ven
ebbe il
sopravvento.
«Lo
aggiungerò a tempo debito, Vostro Onore. Ho le mie teorie che
riguardano le
argomentazioni che muoverà la controparte,» mormorai, in modo altamente
professionale.
Sia
Simmons che Jamie rimasero sorpresi, infatti.
Tornammo
al tavolo, dove Simone aveva preso posto.
Lo
vedevo scostante e nervoso, nonostante mi avesse detto di stare bene.
Di tanto
in tanto, lanciava occhiate ad Elizabeth, la quale rispondeva
unicamente con un
sorriso. In apparenza, quella donna aveva tutte le ragioni per citare
in
giudizio Simone, per mancate responsabilità nei suoi confronti, eppure
c’era
qualcosa sotto.
Me
lo sentivo.
Era
come una sensazione sotto pelle, quasi di pericolo. Un sesto senso,
ecco.
Poteva
trattarsi di una semplice coincidenza, quella di trovarsi nello stesso
bar
frequentato da Simone Sogno e riuscire ad intrattenerlo sotto
le lenzuola, rimediandoci anche un biglietto di prima classe
per una fama a vita.
Ora
sì che ragioni da avvocato.
Da
parte mia, era piuttosto insensibile paragonare una vita ad un piano
così ben
architettato, purtroppo avevo avuto tempo a sufficienza per studiare
casi
simili. E non era la prima volta che una donna aveva fatto questo.
«L'udienza
inizierà tra poco,» gli comunicò James, tranquillo. «Vedrai che passerà
velocemente, anche perché bisognerà esporre i fatti d’accapo e si
tratterà
unicamente di un grosso e lungo riepilogo.»
«Capisco,»
mugugnò, ma era ben lungi dall’essere tranquillo.
Provai
a mettermi nei suoi panni, ma l’idea fu pessima. Pensare a quanto
sarebbe stata
difficile la sua vita una volta raggiunta la sentenza, mi faceva venire
i
brividi. E pensare che bastava così poco per mettere al mondo un
figlio, per
donare la vita, ma quell’attimo avrebbe avuto ripercussioni su tutta la
nostra
esistenza.
La
giuria entrò poco dopo, prendendo posizione alla nostra destra.
Esaminai
gli onesti cittadini di Londra, ma era difficile capirne l’indole
unicamente da
uno sguardo. C’era chi poteva sembrare irascibile o fortemente
impressionabile,
ma invece nella realtà era un pezzo di pane.
Chi,
invece, era paragonabile ad una serpe in seno.
Notai
che anche James li stava osservando. In fin dei conti, entrambi avevamo
il gene
dell’avvocato dentro di noi ed eravamo acuti osservatori. St. James,
invece,
sembrava totalmente sicuro di sé ed assorto nel ridacchiare insieme a
Simmons,
quasi fossero amici di vecchia data.
«Cos’hanno
da parlottare, quei due?» chiesi al mio collega, insospettita.
James
sospirò. «Simmons è un grande amico del padre di Carl Mason St. James e
sicuramente staranno parlando dei tempi andati. Non sono l’unico che ha
un nome
importante nel mondo dell’avvocatura,» disse contrariato.
«Sì,
ma a differenza sua tu cerchi di non farti strada attraverso di esso,»
osservai.
James
mi sorrise sincero, e non feci troppo caso allo sguardo assassino che
gli
lanciò Simone. Sapevo che da quel momento in poi, tra me e James
sarebbe nata una
profonda e bellissima collaborazione.
Non
appena l’aula si fu riempita, il Giudice Simmons richiamò i presenti
all’ordine
dando l’inizio ufficiale della seduta giuridica. Mi guardai intorno
alla
ricerca di qualche giornalista infiltrato, magari con un telefono o un
taccuino
in mano.
Il
problema era che tutti ormai avevano un cellulare. Chi per lavoro, chi
per
svago, ed era quasi impossibile capire quale di loro lo stesse usando
per una
funzione o per l’altra. Avrebbero potuto registrare l’intero processo a
nostra
insaputa e poi scriverne un dettagliato articolo.
«Avremmo
dovuto richiedere la sentenza a porte chiuse,» suggerii a James,
sporgendomi
oltre la sbarra di legno.
Lui
scosse la testa. «Ci vogliono dei permessi e delle motivazioni speciali
per una
cosa del genere,»
E
addio alla privacy.
«Ordine
in aula,» disse Simmons, indossando la parrucca e la toga richieste
dalla legge
inglese. «Oggi presentiamo il caso Cloverfield contro Sogno. Avvocati
presenti
sono Mr. Carl St. James, dello studio Covent&Finnick e Mr.
James Percival
Abbott, dello studio Abbott&Abbott, con la partecipazione di
Miss Venera
Donati.»
Era
la prima volta che un giudice dicesse il mio nome e mi sentii
emozionata.
Il
mio primo caso, finalmente.
St.
James partì subito in quarta, esponendo più o meno i fatti alla giuria
che
aveva giusto una sommaria infarinatura del caso. Parlò bene della sua
cliente,
di come fosse una modella di fama mondiale, quasi una “top”, e di come
questo incidente le avrebbe
condizionato la
carriera.
Simone
osservava silenzioso.
Strinsi
forte una mano contro l’altra, per reprimere la voglia di intervenire.
Chiamare
“incidente” un bambino non ancora nato era un abominio, persino per una
serpe
come quella. Se lo reputava un ostacolo alla sua carriera, mi chiesi
per quale
motivo non fosse ricorsa all’aborto.
Segnatelo!
E
così feci, infatti. Sarebbe stato un altro punto interrogativo da porre
qualora
fosse salita sul banco dei testimoni.
«Ebbene,
Vostro Onore, Giuria, e persone qui presenti in aula,» concluse. «La
mia
cliente chiede soltanto un certo impegno da parte di Mr. Sogno, nel
provvedere
a lei e al bambino appena nato.»
Simmons
lo interruppe. «Che genere di impegno St. James, si spieghi.»
Carl
sorrise mellifluo. Quella sua espressione viscida e calcolatrice mi
metteva i
brividi addosso.
«Sicuramente,
la mia cliente dovrà mettere da parte il lavoro per un tempo
indeterminato.
Avrà bisogno di denaro per il sostentamento suo e del bambino, inoltre
dovrebbe
esigere la presenza del padre, quantomeno tre giorni la settimana…»
«Obiezione,
Vostro Onore!» intervenne subito James.
Quello
era proprio fuori di testa. Come poteva pretendere tutto questo da
Simone,
quando quei due non avevano null’altro da spartirsi se non una notte di
sesso!
Simmons
lo guardò. «Accolta.»
James
si sistemò meglio la cravatta. «Il mio cliente ha sicuramente delle
enormi
responsabilità verso Miss Cloverfield,» iniziò, stoico come sempre. «Ma
ha
anche una responsabilità verso i suoi datori di lavoro, in quanto deve
essere
disponibile quasi tutti i giorni della settimana, soprattutto i
week-end per le
preparazioni delle partite. Ora, posso comprendere il dolore di
crescere senza
un padre accanto, ma Mr. Sogno non ha chiesto questo…»
«Nemmeno
io!» urlò Elizabeth, alzandosi in piedi con le lacrime agli occhi.
Subito
Simmons batté il martelletto, richiamando all’ordine. «St. James, calmi
la sua
cliente per piacere.»
Carl
andò subito da Elizabeth, tranquillizzandola. Da una parte, la sua
reazione mi
era parsa abbastanza realistica, eppure non riuscivo a fidarmi del
tutto.
«Dunque,
abbiamo ascoltato l’accusa, ora lascio lo spazio a Mr. Abbott che
rappresenta
la parte citata in giudizio.»
James
affrontò la giuria con maturità e calma. Esplicò il punto di vista di
Simone,
parlando del suo lavoro, della fama, delle responsabilità nei confronti
del
club e tanto altro. Si riferì soprattutto alla giovane età, agli
“errori” che
si commettono in quegli anni e i giurati sembrarono comprendere dove
fosse il
nocciolo del problema.
Tuttavia,
per quanto l’esposizione di Jamie fosse accurata, non era molto solida.
Il
problema era soprattutto nel tempo che Simone avrebbe dovuto dedicare
alla
Cloverfield, che sarebbe stato necessariamente sottratto alla sua vita
privata
(cioè io) e a quella lavorativa (cioè la squadra).
Sarebbe
stato decisivo il test del DNA, qualora fosse risultato negativo.
«Bene,»
lo interruppe Simmons. «Cinque minuti di pausa, poi riprendiamo.»
Uscimmo
dall’aula rifugiandoci nel fresco corridoio esterno. Simone si gettò di
peso
sulla panchina più vicina, allentandosi con stizza la cravatta.
«Io
non voglio passare nemmeno un minuto con quella lì,» mormorò stanco.
Avrei
voluto urlargli “potevi pensarci mesi fa”, ma non mi pareva il caso,
almeno non
in quel contesto.
«Vado
a prendere un caffè, volete qualcosa?» chiese cordialmente James.
Scuotemmo
la testa all’unisono. Quando il giovane avvocato svoltò l’angolo, mi
lasciai
sedere accanto a Simone. Non sapevo cosa dire per tranquillizzarlo,
avrei
soltanto potuto prepararlo al “dopo”.
«So
che questa donna in qualche modo ti ha incastrato, me lo sento,»
iniziai,
attirando la sua attenzione. «Eppure quel test di paternità è una prova
schiacciante contro cui potremmo solo patteggiare ora come ora. Per
cui, anche
se odi Elizabeth e quello che ti ha fatto, non puoi odiare il figlio
che porta
in grembo.»
Quei
discorsi seri non mi si addicevano, ma dovevo fare qualcosa per
risollevarlo.
«Ha
comunque la metà dei tuoi geni, e gli devi un po’ del tuo tempo…»
Simone
pareva poco convinto. Ne avevamo parlato in quei giorni, eppure non
riusciva
ancora a rientrare nell’ottica del padre.
«Ci
proverò…»
James
tornò con un bicchiere di caffè fumante e caldo. Lo bevve scostandosi
la
cravatta, senza rischio di sporcarsi. Rivedemmo insieme alcuni dati, e
gli feci
notare l’appunto sull’aborto. Ormai eravamo in ballo, tanto valeva
ballare.
Non
appena fummo di nuovo in aula, St. James ci fissò come se fossimo degli
scarafaggi sul suo cammino. Scarafaggi da voler schiacciare…
Il
Giudice Simmons prese posto e picchiò il martelletto. «Bene, veniamo al
dunque.
So per certo di aver autorizzato un test di paternità prima
dell’appello, e mi
è stato comunicato dell’arrivo per tempo dei risultati,» disse.
Era
arrivato subito al dunque.
«Mr.
Abbott, Mr. St. James, potreste illustrare alla
Giuria?»
Avrei
voluto avere occasione di inserire il discorso sull’aborto, ma
evidentemente
Simmons andava di fretta per chissà quale motivo personale.
Carl
si posizionò al centro della sala con dei documenti, seguito da Jamie.
«Secondo
la clinica ospedaliera St. Margaret, Mr. Sogno ha il 90% di
compatibilità
cromosomica con il feto preso in esame. Per cui, direi che il riscontro
è
quantomeno lampante.»
Simmons
ascoltò con cura tutta l’esposizione del genoma, anche se io ne capii
la metà,
e fece altrettanto la Giuria. Mi torturai le mani in grembo per tutto
il tempo,
senza staccare gli occhi da Simone.
James
mi aveva detto del test, certo, ma sentire con le proprie orecchie come
quella
prova fosse inconfutabile, mi fece sprofondare nella depressione.
Come
avremmo fatto a risolvere questa incresciosa situazione?
«Dunque,
Signor Giudice, signori della Giuria…» concluse St. James. «Credo che
ormai sia
inconfutabile la paternità di Mr. Sogno e la controparte potrà
concorrere in un
patteggiamento sulle condizioni indette dalla mia cliente.»
Odioso!
«Obiezione,
Vostro Onore. L’accusa trae conclusioni affrettate,» intervenne subito
James,
cercando di non farsi scavalcare. «Ammesso che quel test del DNA sia
vero, cosa
che non posso confermare essendo il Saint Margaret una clinica privata
sul
libro paga di Miss Cloverfield, ci sono da esaminare ancora molti
elementi
prima di giungere ad una tale e inconfutabile constatazione.»
Jamie
era proprio un avvocato con i fiocchi.
St.
James si sentì subito in dovere di intervenire. «Cosa vorresti
insinuare,
Abbott?»
Il
giudice, per fortuna, anticipò una qualsiasi rissa verbale. «Silenzio
in aula!»
gridò, infastidito. «Mr. St. James, lasci parlare il suo collega per
piacere.
Ha già avuto il suo turno.»
La
strategia di Jamie non era male.
Non
ci avevo affatto pensato, eppure poteva funzionare. Almeno ci avrebbe
fatto
guadagnare tempo. I test di paternità venivano effettuati da cliniche
private,
con tempi più o meno brevi. Noi avremmo puntato sulla strategia del
“falso”
test.
Essendo
il Saint Margaret una clinica di cui Elizabeth era cliente da anni, di
sicuro
avrebbero potuto prendere degli accordi, oppure alterare i risultati.
Mi
meravigliai che St. James non avesse previsto una tale possibilità.
Andava
accordata una struttura previa richiesta del test, o almeno era quello
che
avrebbe fatto la sottoscritta.
James
si prese del tempo. «Non dico che le prove presentate dall’accusa siano
prive
di fondamento, ma il mio cliente esige che il test venga effettuato
nuovamente
in una clinica scelta da entrambi, senza alcun condizionamento delle
parti.»
«È
una cosa inaudita!» sbottò St. James, scatenando il rumore del
martelletto.
«Calma,
avvocato!»
Per
un momento, nell’aula si era creato il panico. Era bastata una piccola
svista
da parte dell’accusa, e il processo si era quasi rivoltato in nostro
favore. Quasi.
Il
nuovo test sarebbe risultato positivo, ne ero più che certa. Il
problema era
come utilizzare al meglio il tempo che il giudice ci avrebbe concesso.
«Avvocati,
avvicinatevi al banco,» ordinò Simmons, piuttosto offeso.
James
mi fece cenno di seguirlo. In fondo, ero stata presentata come avvocato
– o
assistente – e il giudice mi volle accanto a James.
«Vi
prego un po’ di contegno, siamo in un’aula di tribunale.»
St.
James era paonazzo. «Signor Giudice, qui si mette in dubbio la
autenticità del
test, ridicolizzando davanti alla corte la mia cliente. Non è possibile
prendere in considerazione queste fandonie!»
«Vostro
Onore…» tentò James, ma Simmons lo bloccò.
Posò
quegli occhi vecchi e stanchi sulla sottoscritta. «Voglio sentire cosa
ha da
dire l’avvocato della parte di Mr Sogno. L’altro
avvocato.»
Era
arrivato il mio momento.
Dalla
risposta che avrei dato al giudice, sarebbe dipeso gran parte del
processo.
Avrei potuto appellarmi sicuramente alla poca veridicità di un test
fatto in
una clinica privata, magari convenzionata dalla stessa famiglia
Cloverfield.
Eppure
continuava a lampeggiarmi in testa il problema “aborto”.
«Vostro
Onore,» tentai, arrancando. Sentii gli occhi di James posarsi su di me
e tentai
di riacquistare sicurezza. «Non ho potuto fare a meno di notare
l’enfasi con
cui Miss Cloverfield ha sostenuto che il mio cliente non le avesse dato
alcuna
scelta per quanto riguardasse la gravidanza. Comprendo perfettamente
cosa
voglia dire sacrificare la propria carriera per un figlio, eppure mi
sono
chiesta per quale motivo non sia ricorsa a metodi… drastici.»
Era
un azzardo.
Non
sapevo se Simmons fosse cattolico o meno, se credesse in qualche modo
ai valori
della Chiesa. Parlare di aborto era forse come camminare su una sottile
lastra
di ghiaccio, col rischio di spezzarsi da un momento all’altro.
Simmons
sembrò soppesare attentamente le mie parole. «Avvocato Donati,»
mormorò,
assottigliando le labbra. Era giunto il momento della verità. «Credo
che
sarebbe più appropriato tenere questo dettaglio per sé, e magari
aggiungerlo ad
un’eventuale arringa.»
In
seguito puntò il suo sguardo su St. James. «Lei dovrebbe stare più
attento ai
particolari e a gestire la sua cliente. La seduta è stata rinviata alla
prossima udienza. La data vi verrà comunicata a breve.»
E
sbatté il martelletto.
Quei
tre forti suoni sul legno, furono come un canto di libertà.
Ci
ritrovammo quella sera stessa ad un pub, per “festeggiare”.
Simone
aveva insistito per portarci fuori, compreso James. Il colpo fu
talmente duro
da digerire, che per sicurezza glielo chiesi quattro volte.
Sei
sicuro?
Sì.
Ma
sicuro sicuro?
Ven,
smettila.
E
così bevemmo da classici boccali di birra londinesi, facendoci caldo
l’un
l’altro stipati in uno stretto spazietto.
«A
Ven, che ha saputo guardare nel dettaglio!» intonò James.
Subito
Simone gli andò dietro. «A lei che mi ha salvato il culo, un’altra
volta.»
Mi
sentii in dovere di aggiungere “per poco”, visto che comunque si
trattava di un
rinvio ad un altro appello successivo. Ci aveva dato più tempo, tutto
qui.
Una
volta che Simo avesse fatto nuovamente il test, avremmo ricominciato
tutto
d’accapo.
Difatti,
il buonumore calò quasi subito.
«Credo
che alla fine mi converrebbe accettare subito il patteggiamento, senza
farvi
sprecare tempo,» mormorò Simone, sconfitto.
James
sospirò. «Per quanto voglia ottenere la vittoria di questo caso, debbo
arrendermi all’evidenza. Il test potrebbe anche essere contraffatto, ma
se
risultasse positivo di nuovo, rischieremmo credibilità.»
Come
potevo spiegare loro che quella Elizabeth non me la raccontava giusta?
A pelle,
diciamo?
«Sarà…
ma io sono fissata con questa storia dell’aborto. Se fossi nei panni di
una
modella famosa, che lavora con il corpo, e trovassi i “risultati” di
una notte
brava… non ci penserei due volte a fare una visita ospedaliera.»
I
due ragazzi alzarono lo sguardo incuriositi.
«Non
tutti reagiamo allo stesso modo, Ven,» spiegò James. «Per quanto tu
possa immedesimarti,
se non ti trovi nella stessa, identica situazione, non potrai mai
sapere come
reagire. Certo, dalla tua parte c’è stata la reazione della
Cloverfield…»
«Almeno
il giudice ha rinviato,» aggiunse Simone.
…
già, ma non sapevamo se questo fosse un bene oppure un male.
*ATTENTION*
Mi scuso profondamente per questo ritardo. Diciamo che prima avevo
molti capitoli già pronti, per cui postavo con più frequenza, mentre
ora li ho finiti *sob* e devo iniziare a scrivere i capitoli, sperando
di trovare un po' di ispirazione/tempo tra tutto quello che debbo fare.
E' l'ultimo anno di università, ho un po' di casini per le mani e sto
quasi sempre là. In più debbo studiare.. e_e (compatitemi!)
Cercherò di aggiornare prima, e di scrivere il più velocemente
possibile. La storia nella mia testa è praticamente conclusa, l'unico
problema è trasporla su carta ah.ah.ah.
Chi mi fa da scribacchina? XD
Bene, spero mi perdoniate nonostante io sia una persona orribile v_v
In qualche modo riuscirò a concluderla così come ho concluso CIUS
*pugno in alto nel cielo* ISPIRAZIONE AMMéé!
Ringrazio tutti i fans che mi supportano nel gruppo
e le mie amate Crudelie che ogni giorno mi ricordano che dovrei anche
scrivere, oltre che cazzeggiare all day!
Mi raccomando iscrivetevi in tante e soprattutto non abbandonate Simo :3
#campagnacontrol'abbandonodiSimonuccio**
//marty
|
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Capitolo 25 *** Capitolo 23 ***
Direi di iniziare con un "Nelle
puntate precedenti di ILWY" oppure ''Previously on ILWY" perché è
passato un bel po' di tempo da quando ho lasciato l'ultimo capitolo in
sospeso.
Rimando il resto delle note a fine capitolo, comunque riassumiamo ciò
che è successo:
C'è stata l'udienza preliminare per il caso di dubbia paternità
Cloverfield - Sogno, e il giudice Simmons lo ha rinviato grazie a Ven,
la quale ha avuto la brillante idea di far notare le vacillanti
motivazioni di Elizabeth nel ricorrere all'aborto, visto che per lei
questo bambino sarebbe stato un grande impegno per la carriera.
Venera e Simone continuano a frequentarsi, nonostante la quasi-sicura
paternità del calciatore. Jamie si è fatto da parte e per ora continua
a rimanere accanto a Ven, come mentore e collega. Insieme intendono
scagionare il nome della famiglia Sogno, senza far trapelare nulla ai
giornali inglesi.
Diciamo che più o meno è tutto, almeno la parte rilevante.
A dopo! :3
CAPITOLO 22
La
mattina era sempre piacevole svegliarsi nel tepore di una bella
giornata di
riposo. La domenica era un giorno sacro per la sottoscritta, anche se
ultimamente ne passavo la maggior parte china sulle scartoffie,
lavorando al
caso. Il rinvio a giudizio indetto da Simmons era solo un colpo di
fortuna, una
soluzione temporanea, ma James era stato chiaro sin dall’inizio:
bisognava
rimboccarsi le maniche in qualche modo. Mi alzai dal letto infilandomi
pantofole e vestaglia. Rimasi sorpresa non trovando Simone che dormiva
al mio
fianco e, devo ammettere, ne fui anche un po’ delusa. Oramai era nostra abitudine svegliarci assieme,
darci il primo “buongiorno” della giornata. Allungai la mano nella sua
metà del
letto e la trovai fredda.
Forse
dovrei abituarmi, mi dissi. L’idea che Simone potesse allontanarsi
dalla mia
vita cominciava lentamente a farsi spazio nella mia testa. Un figlio –
riconosciuto o meno – gli avrebbe totalmente stravolto la vita.
Lasciai
la stanza da letto ma avvertii subito un forte giramento di testa,
quasi come
un mancamento. Respirai e stabilizzai l’equilibrio, pensando subito ad
un
aumento di temperatura. Cercai il termometro e mi diressi in cucina,
scansando
l’idea di potermi ammalare. Non potevo concedermi quel lusso, non in
quel
periodo così delicato. Sia James che Mr. Abbott contavano sulla
sottoscritta e
dovevo rimboccarmi le maniche fin oltre le spalle per venire fuori da
quella
situazione ingarbugliata. Mi diressi in cucina, accompagnata dal
piacevole
odore di caffè che si avvertiva in tutta la stanza. C’erano anche
numerosi
biscotti disposti sul tavolo, come se fossero lì a darmi la dolce
accoglienza
che era mancata. Notai infine anche un biglietto, scritto di fretta.
Era quasi
impossibile evitare di lasciarsi sfuggire un sorriso quando vedevo la
calligrafia infantile ed essenziale di Simone:
sono
uscito prima per andare agli allenamenti.
il
mister ci ha convocati per la partita di questo pomeriggio. ti
ho lasciato i biglietti sotto la tazza per la colazione.
spero
ci sarai :)
Se
non fossi stata un completo fascio di nervi da quando mi ero alzata,
sempre a
causa di quella giraffona rinsecchita della Cloverfield, mi sarei
perfino
emozionata per quella premura. Era da un po’ di tempo che mi sentivo
piuttosto
strana, quasi meno… acida.
Non
ero abituata, poi, a ricevere tutte quelle attenzioni, ad essere parte
di un
“qualcosa” che andava oltre un caffè freddo consumato sui sedili della
Tube. Mi
ero persino dimenticata come ci si sentisse a vivere da soli,
nonostante
fossero passati solo quattro mesi o poco più da quando avevo
abbandonato il mio
monolocale.
Scaldai
un po’ di latte nel microonde, mentre misuravo la temperatura corporea.
L’idea
di prenotare una visita di routine dal dottor Ross mi solleticò la
mente. Il
mal di stomaco giornaliero e quei capogiri improvvisi non presagivano
nulla di
buono. Magari un controllo preventivo sarebbe stato utile, il dottore
avrebbe
potuto prescrivermi qualche tisana o rimedio naturale contro lo stress.
Tolsi
il termometro e notai con sollievo che si trattava soltanto di una
normale
alterazione, niente di più. Accesi il telefono cellulare, controllando
subito
la posta elettronica e i vari SMS. Uno in particolare attirò la mia
attenzione:
James mi comunicava che la clinica pubblica St. Charles Bradbury aveva
accettato la sua richiesta per il test di paternità. Era sarebbe
bastato
solamente fissare un appuntamento e attendere i risultati.
Rabbrividii
fissando quel semplice messaggio lampeggiare sul display, perché per la
sottoscritta aveva una quantità infinita di significati.
Sorseggiai
il caffè-latte ricordandomi solo in quel momento dei biglietti per lo
stadio. Spero ci sarai :) aveva
scritto e l’idea
di passare l’intero pomeriggio a rileggere deposizioni su deposizioni
mi sembrò
abbastanza stupido e banale. In fondo, cosa avrei potuto trovare che
già non
avessi esaminato minuziosamente?
D’improvviso
mi saltò alla mente l’idea di chiamare James. Non era geniale come
mossa, visti
i nostri trascorsi sentimentali e i successivi attriti con Simone, ma
avevo il
bisogno di sentire e vedere qualcuno che subiva le mie stesse
condizioni di
stress.
Composi
il numero e lasciai squillare.
Era
una di quelle domeniche uggiose, quando le nuvole grigie si trovavano
sospese
tra l’arrivo di un nubifragio e una schiarita. Era una giornata tipo
londinese,
per cui non mi sentii nemmeno in colpa a sottrarre l’avvocato da
qualche
impegno mondano di maggior rilievo.
Potrebbe
essere a casa con
un’amica… suggerì
arguto il mio subconscio.
«Pronto?»
Mi
riscossi immediatamente dai miei pensieri. Assorta com’ero nelle mie
riflessioni, non avevo nemmeno fatto caso agli squilli del telefono.
«Buongiorno!» esultai. Che ore erano? Lo avevo svegliato, per caso?
Possibile
che nemmeno mi era passato per la mente che potesse dormire fino a
tardi la
domenica mattina? «Ti ho svegliato?» chiesi mortificata.
Dall’altro
capo del telefono giunse un sorriso sbuffato. «Be tranquil,
spaghetti-girl!»
rise, facendomi tirare un sospiro di sollievo. «Ero già in piedi a
rivedere
alcune cose. Hai letto il messaggio del St. Charles?»
Risposi
affermativamente ma non c’era alcuna nota allegra nella mia voce. James
prontamente se ne accorse, anche senza guardarmi negli occhi. «Vedrai
che da
qualche parte c’è una soluzione, anche se ben nascosta,» mormorò,
tranquillizzandomi,
poi decise di cambiare discorso: «come mai questa telefonata?»
In
poche parole gli spiegai che Simone mi aveva lasciato due biglietti per
la
partita di quel pomeriggio e implicitamente gli chiesi se fosse o meno
opportuno andarci insieme – da amici, si intende.
«Cara
Ven, ti confesso un piccolo segreto,» mormorò. Non avevo alcun secondo
fine, lo
ammetto, ma la paura che James potesse equivocare la nostra situazione
cominciò
a farsi strada dentro di me.
«Q-Quale?»
«Anche
se l’Arsenal non è la mia squadra del cuore, penso comunque di
accettare il tuo
invito!» disse eccitato. Sorrisi perché, nonostante tutto, era riuscito
a farmi
dimenticare i miei problemi con un semplice gesto gentile.
«Ti
passo a prendere verso le 14.30, così abbiamo tutto il tempo di
raggiungere lo
stadio, che ne dici?» mi propose, svelto.
«D’accordo,
perfetto!» acconsentii.
Prima
di chiudere la chiamata, aggiunse: «Comunque grazie di aver pensato a
me per
l’invito.»
E
in quell’istante non trovai altre parole da dirgli se non un “Prego”
stiracchiato e pronunciato a labbra socchiuse.
***
Segnai
sull’agenda l’appuntamento dal medico, che avevo prenotato per quello
stesso
lunedì. La segretaria del dottor Ross era parsa piuttosto infastidita
dalla mia
telefonata domenicale, soprattutto perché non si trattava di
un’emergenza, ma
poco importava. Sentivo che c’era qualcosa di diverso nel mio fisico,
come se
non fossi al cento per cento delle mie facoltà, e sperai con tutta me
stessa di
non aver contratto qualche virus stagionale.
Ci
mancava solo l’influenza a completare quel quadro di sfiga colossale.
Simone
mi telefonò verso metà mattina, chiedendomi come stavo e se avessi
intenzione
di raggiungerlo allo stadio il pomeriggio per vederlo giocare. La sua
premura
per le mie condizioni di salute mi fece un po’ arrossire, soprattutto
perché la
nostra “relazione” alternava momenti di tenera vita di coppia – come
quelli – a
litigate furiose per le più grandi sciocchezze.
«Con
chi vieni?» mi domandò, sul finale della telefonata.
Temporeggiai,
pensando se fosse o meno il caso di dirgli che sarei andata con James.
Sinceramente pensai ci fossero fin troppe bugie che vorticavano attorno
alla
mia vita, per cui preferii essere sincera. «James mi passa a prendere
dopo
pranzo.»
Come
avevo immaginato, dall’altro capo del telefono ci fu silenzio. «Simo?
Ci sei?»
chiesi, pensando mi avesse appena riappeso in faccia. Giurai a me
stessa che
nel caso lo avesse fatto davvero, quella sarebbe stata la volta buona
che gli
avrei impedito di diventare padre per il resto della sua esistenza.
«Mhm,
bene. Vi ho messi vicino a Sofia e Ruben, spero non vi dispiaccia,»
mugugnò.
Se
dovevo essere estremamente sincera, il saperlo geloso di James non mi
disturbava affatto. Significava ci tenesse alla sottoscritta e al
nostro “qualcosa”,
privo ancora di una definizione. D’altra parte, però, mi dispiaceva
arrecargli
ulteriori preoccupazioni. Già aveva abbastanza pensieri suoi per la
testa con
tutta quella storia della paternità.
«Tranquillo,
l’ho invitato anche perché ci hanno appena confermato il test
all’ospedale St.
Charles e volevo discuterne bene a quattr’occhi. Due piccioni con una
fava,»
dissi.
Lo
sentii sospirare pesantemente dall’altro capo del telefono. «Okay,
scusami ma
ora devo andare. Il mister ci chiama.»
Nessuno
ci fornisce le istruzioni per vivere una vita di coppia, per essere
genitori o
per affrontare al meglio un nuovo lavoro. Non è come leggere una
ricetta, dove
ti vengono fornite le dosi e ti basta seguire il procedimento per dar
vita ad
una vera delizia, un capolavoro per il palato. A me nessuno aveva detto
come si
gestisse una relazione e le mie mancate esperienze contribuivano a
farmi
annaspare nell’acqua sempre più alta.
Conciliare
vita private e lavoro non era facile, soprattutto se bisognava lottare
con le
unghie e con i denti per un salario minimo in attesa di una qualche
risposta da
parte dei piani alti.
Sospirai,
posando il Blackberry.
Lavai
i piatti nel lavello e decisi di mettermi un po’ a lavoro, riordinando
le
scartoffie che popolavano il salotto di casa Sogno. Accesi il portatile
e lo
posai in grembo, decisa a rileggere una serie di vecchi articoli e casi
passati
che presentavano più o meno le stesse situazioni giuridiche.
Lo
schermo LCD mandava una piacevole luce azzurrina, mentre i fogli
cominciavano
ad accumularsi sul divano e sul tavolinetto da caffè. Passai l’intera
mattinata
a leggere. Appuntai tutto il necessario su un block-notes giallo
limone,
riempiendolo di notizie apparentemente interessanti, ma rileggendo in
ultimo le
mie scoperte non avevo racimolato granché.
Lessi
di una giovane donna e della sua relazione con un musicista. Lui non
aveva
riconosciuto il bambino nato da questo amore per cui erano finiti in
tribunale.
L’idea di un simile suggerimento mi pietrificò. Anche se poteva essere
una
strategia utile e dal punto di vista legale sarebbe stato lecito,
sapevo che
Simone non era codardo a tal punto da tirarsi indietro.
Era
un puro atto di codardia.
Scartai
a priori quella soluzione e passai avanti. Di figli indesiderati ne era
pieno
il mondo – a dimostrazione che a farli ci voleva davvero poco, poi il
resto era
tutt’altra storia – e internet straripava di casi analoghi. Filtrai la
ricerca
come meglio potevo, rifacendomi ai suggerimenti del professor
Richardson:
“limitatevi ad una sola parola chiave a cui ricondurre il nocciolo
della vostra
indagine, solo così potrete focalizzare l’attenzione sul colore,
ignorando le
sfumature.”
E
constatai per l’appunto che il fulcro del caso era proprio in quel test
del
DNA.
L’unica
e vera prova inconfutabile su cui faceva perno l’accusa era la
convinzione che
Simone fosse il padre del bambino, e fino ad ora avevano avuto loro le
redini
del caso. Indagai se ci fosse un modo per contraffarli e il metodo più
accreditato era quello dello scambio di provette prima dell’analisi.
Certo,
sarebbe stata necessaria una collaborazione dall’interno e fornire una
prova
falsa in tribunale era un reato gravissimo.
Cercai
di mettere da parte questo sospetto. Ammettendo che il test fosse vero,
non
c’era alcun modo di contraffarlo artificialmente, perché era quasi
impossibile
far combaciare gli alleli di entrambi i genitori, fornendo un campione
falso.
Enorme
buco nell’acqua,
mi ripetei.
Alla
seconda tazza di caffè della mattinata, decisi di cambiare metodo di
ricerca. Afferrai
la cartella con alcuni dei vecchi casi presi in esame dalla
Abbott&Abbott e
li riguardai uno alla volta, anche quelli che avevo precedentemente
messo da
parte. Alcuni erano addirittura stati archiviati da August in persona e
mi
sentii in soggezione a “spiare” il suo modus operandi.
Trovai
un esempio piuttosto curioso, ma non ebbi tempo di esaminarlo a fondo
perché
non mi ero minimamente accorta di che ore fossero. Non avevo nemmeno
pranzato
ed ero vestita per metà.
Cucinai
qualcosa al volo, finendomi di vestire mentre ancora trangugiavo una
fetta di
pane tostato con la marmellata. Entrai in camera di Simone come una
furia –
ormai era la camera in cui mi costringeva
a dormire ogni notte, ma mi faceva strano chiamarla “mia” – e arraffai
la prima
cosa dell’Arsenal che mi capitò a tiro.
Presi
una delle sue magliette, probabilmente una del set con cui faceva gli
allenamenti, che sembrava più piccola delle altre, e la indossai sopra
il
maglioncino rimanendo piacevolmente sorpresa dall’odore che sprigionò
sulla mia
pelle. Rimasi ferma a crogiolarmi nel suo profumo quando il telefono
iniziò a
squillare. Riattivai in pochi secondi le mie facoltà mentali e capii
che
effettivamente ero in ritardo.
Afferrai
chiavi e borsa, senza realmente guardare ciò che c’era dentro, ma
riuscii
prontamente ad afferrare il fascicolo da sottoporre all’attenzione di
James.
Avrei approfittato della sua presenza per parlargli e chiedergli
consiglio,
perché ogni attimo era prezioso a quel punto del caso. Il successo o
meno di
quella sentenza non valeva soltanto più il mio posto alla
Abbott&Abbott, ma
molto di più. Significava la libertà di Simone e la speranza di
costruire
qualcosa che non partisse già con il freno a mano tirato.
Scesi
di corsa le scale caracollando come una forsennata, tant’è che il
portiere
tentennò a darmi il buongiorno, impaurito da una mia possibile
reazione. James
mi aspettava al portone d’ingresso, stranamente abbigliato in modo
molto casual
per i suoi standard. Il cappotto di tweed era stato sostituito da una
giacca a
vento sportiva e al posto del completo gessato, portava un paio di
jeans che
gli fasciavano le gambe nei punti giusti.
E
che punti…
intervenne Cervello.
Taci
o è la volta buona che mi ubriaco fino a spappolarti!
A
completare quell’outfit casual, c’era l’immancabile sciarpa bianca e
rossa
dell’Arsenal.
«Sono
in ritardo?» chiesi, pronta a scusarmi.
Lui
mi sorrise raggiante. «No, sono in anticipo. Ho fatto presto per
assicurarmi di
non essere in ritardo, pensa te,» ridacchiò. «Sono stato invitato e non
è cosa
buona presentarsi ad un orario non consono per un appuntamento.»
Alla
parola “appuntamento” sbiancai leggermente, ma dall’espressione
tranquilla
dell’avvocato era più che evidente quale fosse il vero significato di
quella
parola. C’erano stati dei trascorsi, questo è vero, però avevo tutta
l’intenzione di recuperare la nostra amicizia.
«I
biglietti ci sono, le chiavi le ho prese, il telefono c’è…» elencai,
facendo
mente locale e constatando di aver preso almeno le cose essenziali per
tornare
a casa. «Direi che possiamo anche andare!»
«Forza
Gunners!» esultò lui, prendendomi
sottobraccio e uscendo dal portone.
***
Una
delle più grandi comodità di Londra era proprio la Tube. Le linee
coprivano
molte zone della città, compresa la periferia. La Black Line, ad
esempio,
raggiungeva persino la zona di Greenwich e l’osservatorio, disposti
fuori la
City.
L’Emirates
si trovava lungo la Piccadilly Line, in direzione nord. Bastava
scendere alla
fermata “Hollywood Road”, fare una decida di passi a piedi e trovarsi
subito
l’ingresso davanti agli occhi. Prendere la macchina non era un crimine
per i
cittadini inglesi, ma sia io che James eravamo più che propensi ad
usufruire
della Oyster Card. Inoltre, sul treno diretto allo stadio già si
percepiva
l’aria festaiola degli hooligans.
Il
nostro primo incontro, poi, non avrei potuto dimenticarlo. Il mio primo
giorno
di tirocinio e ci eravamo incontrati nello stesso vagone diretto a
Oxford
Street, quasi fosse un segno del destino.
«Cos’hai
in quella cartella?» mi domandò curioso, riscuotendomi dai ricordi. Il
vagone
si muoveva a tutta velocità, con i tifosi che inneggiavano già i cori
della
loro squadra. La voce metallica che annunciava le fermate si riusciva a
percepire a mala pena.
Cercai
di superare il frastuono avvicinandomi. «Ho trovato una cosa
interessante
frugando tra i casi di tuo zio August,» dissi gongolando. «Mi ci sono
messa
d’impegno stamattina.»
James
spalancò i grandi e luminosi occhi azzurri. «Dimmi, sono tutto orecchi!»
Utilizzai
quei quindici minuti di viaggio per esporgli brevemente le mie
scoperte: in
pratica, diversi anni addietro scoppiò uno scandalo a Cambridge, quando
un noto
professore – giovane e dal futuro promettente – un certo Gary Chauser
che
scoprì di essere stato citato in giudizio da una sua studentessa.
«Il
professor Chauser aveva da poco ottenuto la cattedra di Lettere
antiche, uno di quei concorsi del ’98 che permisero a molti
giovani promettenti di rimanere tra le mura dell’università e
insegnare, ma
questa ragazza – Sally Clarckson – a fine semestre mise in giro la voce
che
l’aitante professore, oltre ad averle dato la lode nel suo corso di
studi, le
aveva anche “lasciato” qualcos’altro.»
James
era immobile, attento anche al più piccolo particolare. «Mi domando
come mi sia
potuto sfuggire un’analogia del genere. All’epoca fu abbastanza seguito
dai
media.»
Annuii
convinta. «Tuo zio ottenne subito il caso e si incaricò della difesa
del
professor Chauser, il quale rischiava di perdere la cattedra appena
ottenuta e,
più importante, di vedere la sua reputazione completamente infangata.»
L’altoparlante
annunciò la nostra fermata, così mi alzai e mi diressi alle porte
automatiche.
«E
come andò a finire?» domando l’avvocato, completamente a corto di
memoria.
Sorrisi
perché la peculiarità di quel caso stava proprio nella sua soluzione.
Mi ero
presa la briga di indagare soltanto sui casi risolti, sperando in
qualche
illuminazione da parte di qualcuno che prima di me aveva avuto più
fortuna,
invece non avevo ampliato i miei orizzonti.
Stavolta
ho dato importanza alle
sfumature, professor Richardson.
«Tuo
zio non ha mai risolto questo caso, ha perso la causa,» ammisi, con un
po’ di
rammarico. «Fu una delle rare volte in cui lo studio dovette farsi
carico delle
proprie responsabilità e arginare il più possibile i danni. Si scoprì
che il
professore aveva avuto davvero una relazione clandestina con quella
studentessa, dunque finì col perdere tutto ciò per cui aveva lavorato
sodo.»
Scendemmo
dal vagone e ci dirigemmo ai tornelli, inserendo nuovamente la tessera.
James
mi guardava dubbioso. «E tutto questo come potrebbe tornarci utile?»
Era
il motivo per cui avevo scartato di netto i casi irrisolti, impilandoli
in una
serie di carte che non erano degne della minima attenzione. Invece, al
loro
interno, nascondevano ben altro in serbo per noi.
«Beh,
è semplice,» rivelai. «Sally Clarckson non è stata sempre incinta.»
L’Emirates
Stadium era sempre uno spettacolo per chi non era abituato a vedere
tutta
quella gente seduta sugli spalti. La sottoscritta, poi, non conosceva
proprio
il concetto di “tifo”, o meglio, credevo si potesse tradurre in una
pratica
tribale e quasi incivile.
Urlare
e spintonarsi come pazzi per dieci uomini che correvano dietro a un
pallone…
Alla
fine, però, mi ero fatta influenzare in qualche modo. L’atmosfera di
allegria e
coinvolgimento che si respirava era stimolante,
riusciva stranamente a distrarmi dai pensieri e ad aprirmi la mente.
«Ehi,
Vennie!» mi sentii chiamare.
A
qualche fila di sedili più in basso notai la testa bionda e riccioluta
di
Sofia. Accanto a lei, l’immancabile Ruben dallo sguardo sveglio e
vigile: una
triglia in pratica.
«Arriviamo!»
le dissi, facendomi largo tra i tifosi che se ne stavano in piedi senza
decidere cosa fare. Alla fine sbottai un “Permesso” molto infastidito,
rivolgendomi a James e sbuffando: «Possibile che nessuno trovi i propri
posti a
sedere qui? Eppure sono numerati!»
James
sorrise divertito.
Allora
lo fulminai con lo sguardo. «Cosa c’è da ridere?»
Dovevo
ammettere di essere più acida del solito in quel periodo. L’avvocato
prontamente si scusò, da vero gentleman e poi aggiunse: «Sugli spalti,
tra gli
abbonati, si crea una sorta di “legame familiare”. Avere una passione
in
comune, ritrovarsi ogni maledetta
domenica [1] seduti allo stesso posto… è come
se fossero riuniti in
un grande salotto in attesa del brunch.»
Soppesai
le sue parole, tentando di dargli un senso, ma mi arresi alzando le
spalle.
Non
avrei mai capito il calcio, c’era poco da fare. Magari avrei potuto
anche
vederlo, sopportarlo, ma impiegare più del 5% del mio intelletto era
già un
grande regalo.
Alla
fine raggiungemmo Sofia e Ruben.
«Ce
l’avete fatta! Sono contenta,» ammise, lanciandomi uno sguardo
perplesso quando
si accorse effettivamente di chi fosse il mio accompagnatore. Le
sorrisi, rimandando
possibilmente la questione a un “ne parliamo dopo”. Per mia fortuna,
l’inno
della squadra di casa riempì gli altoparlanti dello stadio, seguita dal
coro di
tifosi agguerriti.
«Eccoli,
stanno entrando!» esultò la biondina, indicando dei piccoli puntini in
maglia
rossa e calzoncini bianchi che si disponevano in campo per il
riscaldamento.
«Simo dovrebbe partire da titolare.»
Mi
sorse spontanea una domanda. «Di solito non lo è?»
Sapevo
che Simone Sogno era una specie di ragazzo prodigio, per cui mi parve
piuttosto
strano che il suo allenatore non lo sfruttasse sin dai primi minuti di
gioco.
Sia
Ruben che Sofia si scambiarono uno sguardo dubbioso, ma fu Jamie ad
intervenire. «Mi sono tenuto informato. Ultimamente i quotidiani
sportivi hanno
penalizzato di molto il rendimento in campo di Mr. Sogno. Non avendo
alcun
indizio sul caso giudiziario di cui è protagonista, i giornalisti hanno
ipotizzato ad una pessima condizione fisica e nelle ultime due partite
è stato
sostituito.»
Rimasi
allibita. Passavo ogni momento della mia giornata al suo fianco, sia
per
questioni di lavoro che di piacere, ma non si era mai preso la briga di
parlarmi dei suoi problemi.
…e
tu nemmeno glielo hai
domandato.
Un
conto era condividere il letto e la casa, un altro era affrontare i
propri
problemi anche quando esulavano dalla questione della paternità.
«Quindi…
è una buona cosa?» chiesi, titubante.
Mi
rimproverai mentalmente per non essere stata in grado di accorgermi dei
suoi
problemi, troppo concentrata su quelli che pensavo fossero fondamentali.
Sofia
mi sorrise. «Significa che in allenamento ha dimostrato qualcosa e gli
hanno
dato un’occasione per riscattarsi, penso.»
Spostai
lo sguardo sul campo da gioco e fissai gli omini al centro del campo.
Anche se
sapevo poco o niente delle regole del gioco non m’importava, ero decisa
a fare
il tifo. Sapevo che non avrebbe fatto la differenza tra tutte quelle
urla, che
Simone non avrebbe mai sentito l’urlo d’incitamento della tribuna,
eppure
durante tutto il match gridai con quanto più fiato avessi in corpo.
James
mi supportò in tutto e per tutto, lasciandomi meno sola.
Alla
fine dei primi quarantacinque minuti di gioco, il risultato era ancora
fermo
sullo zero a zero, ma c’erano state numerose azioni da ambo le parti.
Due, in
particolare, mi avevano addirittura fatto venire le palpitazioni per
quanto
fossi in ansia.
Dovevo
ammettere che la sensazione era piuttosto piacevole, dopotutto. Una
specie di
antico furore battagliero che si risvegliava prepotente dalle mie
viscere
contorte dallo stress. Fui quasi tentata di dare ragione a mio padre,
ma tornai
sui miei passi ricordando l’imbarazzo che mi suscitava quell’uomo.
Durante
l’intervallo, Ruben tornò con qualche bel panino farcito e biscotti di
varia
natura che arraffai il più velocemente possibile. Non era da me
quell’aria
famelica, ma avrei pensato alla linea più tardi, verso l’estate magari.
Attribuii
tutto quell’appetito alla foga con cui mi sbracciavo per migliorare la
mia
tifoseria.
«Sofi,
posso farti una domanda?» dissi infine, alla sorella del mio
quasi-ragazzo. «In
che settore ci troviamo esattamente?»
Avevo
notato la presenza attorno a noi di giovani donne con tanti bambini.
Avevo
pensato all’inizio che si trattasse di una specie di camping, un evento
sportivo che prevedeva una gita allo stadio, ma Ruben intervenne. «In
questo
settore, in genere, vengono ospiti le famiglie e gli amici dei
giocatori,»
spiegò, senza alcun tentennamento. In presenza di Sofia era quasi
impossibile
sentirlo balbettare, quasi si trattasse di un’altra persona. «I bambini
che
vedi sono i figli oppure i nipoti dei calciatori.»
Mi
guardai meglio attorno, ma ne rimasi delusa. Nessuno di loro sembrava
realmente
interessato alla partita, come se si trovassero al campetto
parrocchiale. Le
ragazze passavano quasi tutto il tempo al telefono, o anche utilizzando
tablet
per farsi foto indecenti che poi avrebbero postato in qualche social
network
solo per farsi ammirare. Ridicole.
I
bambini venivano lasciati a loro stessi: alcuni piangevano, altri si
annoiavano, nessuna delle mamme che si prendeva la briga di ricordare
loro
quale fosse il papà che aveva appena fatto un’azione da gol.
«A
cosa stai pensando, Ven?» mi chiese James, vedendomi assorta.
Scrollai
le spalle, fingendo indifferenza. «A niente. In televisione sembra
sempre che
le vite private di questi personaggi famosi siano tutte rose e fiori,
invece
qui noto soltanto menefreghismo e falsità.»
L’avvocato
sorrise. «Oh, spaghetti-girl,» mormorò sincero. «Sei una ragazza unica.
Penso
che chiunque riesca ad acchiapparti,
deve tenerti davvero stretta per non lasciarti andare.»
Un
brivido mi corse lungo la spina dorsale, ascoltando quelle parole. Alla
fine,
io e James eravamo sempre stati attratti l’uno dall’altra e avevamo
condiviso
anche un certo tipo di legame. Non potevo rimanere indifferente a
quelle sue
parole.
Tentai
di non pensarci e decisi di fare un patto con me stessa: se mai fossi
rimasta
al fianco di Simone, aiutandolo anche a crescere come padre, di sicuro
non mi
sarei comportata come le altre donne lì presenti. Avrei fatto di tutto
per
dimostrare al futuro bambino o bambina quanta meraviglia ci fosse
nell’avere un
papà del genere.
La
partita si concluse con un gol da parte di Simone nei minuti finali di
recupero. Si udì un boato che partì dalla curva dei tifosi più
accaniti, fino
alle tribune dove sedevamo. Fu come una specie di risveglio, perché le
mogli
annoiate e impegnate con i loro dispositivi elettronici parvero
rianimarsi e
trasformarsi improvvisamente tifose di prim’ordine.
Tutta
apparenza per le grandi telecamere e la cronaca rosa.
Tornammo
a casa decisamente più leggeri, dopo quella vittoria personale che
mancava
ormai da tempo per Simone – date le ultime notizie dei giornali
sportivi. Mi
premurai di fare qualcosa, almeno di affrontare l’argomento una volta
che fosse
rientrato, e decisi di passare al supermarket per cucinare qualcosa di
sfizioso
in occasione della grande serata.
James
si offrì di aiutarmi con le pesanti buste di carta.
«Hai
deciso di festeggiare, insomma.»
Annuii
convinta. «O almeno ci provo. Diciamo che non mi sono mai distinta come
cuoca,
a quello ci pensa sempre mia madre.»
Il
ricordo della signora Francesca che in occasione del pic-nic di
Ferragosto
iniziava due settimane prima ad impanare le fettine da friggere, mi
fece
rabbrividire. Che infanzia traumatica che avevo avuto!
«Sono
sicuro che sarà una cena deliziosa,» mi rassicurò l’avvocato.
Pensai
di invitarlo, visto che era stato così gentile da accompagnarmi e da
aiutarmi
con i lavori più pesanti eppure quell’offerta mi si bloccò sulla punta
della
lingua. Rimase lì ad indugiare, quasi come un tuffatore sul trampolino
di
lancio.
Salimmo
nell’appartamento e posammo gli ingredienti sul tavolo della cucina.
«Qui
sembra tutto in ordine,» pronunciò James sorridente. «Il mio compito
qui è finito,
e si è fatto anche tardi. Penso che tornerò a casa a pensare a ciò che
mi hai
detto sul caso Chauser-Clarckson.»
Sorrisi.
«Se vuoi posso farti una copia del fascicolo,» proposi.
Lui
declinò. «Ho tutto salvato nell’hard disk, il mio problema è stata la
negligenza. Ho scartato subito quei casi che non erano stati risolti,
per paura
di perdere tempo e fare un enorme buco nell’acqua,» poi si prese un
momento per
elaborare meglio i pensieri.
Si
avvicinò sicuro, posandomi una mano sulla spalla e chinandosi. Avrei
voluto
chiudere gli occhi d’istinto, più che altro per paura che potesse aver
frainteso qualcosa, ma le sue parole mi frenarono.
«Sono
contento di avere te come comandante in seconda,» mi disse, tranquillo.
«All’inizio pensavo fossi interessata soltanto al posto fisso nello
studio,
come la maggior parte dei tuoi colleghi, eppure adesso vedo l'estrema
passione
che ci metti in quello che fai. Le ricerche fino a notte fonda, la vita
privata
messa da parte per la carriera, ne ho parlato con mio zio August e lui
si
rivede molto in te. Ha detto che gli ricordi lui i primi anni da
avvocato. La passione, in questo
lavoro, è tutto e tu
ne sei piena.»
Infine
si chinò per lasciarmi un casto bacio sullo zigomo. «Con te al mio
fianco, sono
sicuro che riusciremo a venire fuori da questa situazione.»
Sorrisi.
«Ne sono certa.»
E
ne ero davvero sicura, quasi al cento per cento. Quella nuova svolta
nel caso
ci permetteva almeno di sperare, cosa che dopo il risultato del test di
paternità ci era quasi stata proibita. Arginare i danni era tutto ciò
che
eravamo in grado di fare, ma adesso c’era dell’altro.
«Credo
sia meglio che vada, non vorrei che Mr. Sogno mi trovasse nei suoi
appartamenti
a discutere di tutto tranne che di lavoro!» ridacchiò.
Lo
accompagnai alla porta, salutandolo. «Ti ringrazio per avermi fatto
compagnia
oggi, James.» era forse una delle rare volte che usavo il suo nome per
intero,
senza “Jamie” oppure “ehi, collega!”.
Lui
non sembrò rammaricarsene. «Ringrazio io te, per l’invito. Mi sono
divertito
molto oggi, soprattutto perché non ho mai tempo per questo tipo di
svago.
Inoltre, al tuo fianco il tempo passa molto più leggero e mi ha fatto
bene staccare dal ritmo frenetico
del nostro
lavoro.»
«Ogni
tanto ci vuole, infatti.»
L’avvocato
mi sorrise e fece per imboccare l’uscio quando, presa da chissà qualche
ispirazione, lo fermai. I suoi occhi incrociarono i miei, dubbiosi.
«Senti,»
incespicai. Non sapevo nemmeno io la ragione per cui avvertii il
bisogno di
chiederglielo. Forse perché avevamo in comune più di quanto volessi
ammettere,
oppure perché non avevo voglia di creare a Simone ulteriori pensieri,
per cui
lo feci, senza indugiare oltre.
«Domani
avrei una visita di controllo dal mio dottore, niente di che, non
preoccuparti,» lo anticipai, vedendo la sua espressione preoccupata.
«Ultimamente lo stress mi sta uccidendo, così ho pensato di farmi
prescrivere
qualcosa di naturale, come una tisana.»
James
sembrò comprendermi. «Succede anche a me, ma non devi stancarti troppo
per il
lavoro!»
Sorrisi
per la sua premura. «Tranquillo, volevo soltanto chiederti se ti andava
di
accompagnarmi dopo la giornata allo studio, diciamo verso le 18.00. Se
hai
altri impegni, posso capire…»
«Ci
sarò,» disse sincero.
Ci
salutammo definitivamente e mi adoperai subito per preparare un
bellissimo e
gustoso dolce per il rientro di Simone. Non ero il tipo da fare cose
sdolcinate, come la maggior parte delle ragazze quando erano innamorate…
…non
sono innamorata, sia chiaro!
Eppure
sperai che almeno apprezzasse lo sforzo. «“Scaldare il latte in un
pentolino e
poi unirlo al composto poco alla volta, continuando a mescolare, per
non
lasciare grumi.”» recitai, seguendo alla lettera la ricetta che avevo
trovato
su internet.
Notai
che effettivamente si era fatto piuttosto tardi, per cui decisi che
avrei
saltato giusto qualche passaggio della ricetta per sbrigarmi. Era di
vitale
importanza che finissi di cuocere il dolce prima che Simone tornasse
dalla
partita, almeno per fargli una sorpresa. Il composto sembrava avere la
giusta
consistenza, anche se appariva lievemente bitorzoluto per via dei grumi
di
farina che continuavano ad esplodere ogni volta che li toccavo,
sollevando una
nuvola di polvere bianca.
Vennie
cara, vuoi davvero
servirgli quella porcheria?
La
voce di mia madre si fece largo nella mia testa e, come un tarlo,
inserì
lentamente un dubbio dopo l’altro facendo vacillare la mia sicurezza.
Avrei
davvero avuto il coraggio di servire quella roba? Io che non sapevo
nemmeno
cucinarmi un uovo?
Nella
fretta di impastare, avevo perfino dimenticato di aggiungerci il
lievito. Lo
feci in ultimo, mescolando alla bell’è meglio, ma non appena sentii il
rumore
di passi sul pianerottolo schiaffai velocemente la teglia nel forno
lanciandola
come un’atleta delle olimpiadi.
Alzai
la temperatura attorno ai duecento gradi, tanto per velocizzare i
processo.
Sapevo
che la pasticceria era un’arte, che la temperatura del forno non andava
mai
aumentata oltre i 180°, eppure decisi di rischiare.
Conscia
di avere un aspetto terribile, con il grembiule annodato in vita e la
faccia
sporca di farina, tentai di darmi la rassettata dell’ultimo minuto.
Simone
entrò in casa qualche secondo dopo. «Credo che i signori del piano di
sotto
stiano cucinando. Si sente un odorino…»
«Veramente…»
tentennai, asciugando le mani su uno strofinaccio.
Per
poco Simo non ci rimase secco, vedendo la cucina sporca di farina. «Hai
invitato mia madre, per caso?» domandò allarmato.
«No,
perché?» domandai sorpresa.
Lui
alzò le mani. «Spero che tu non abbia detto a qualcuno di venire,
perché sono
stremato e non ho alcuna voglia di mettermi in ghingeri,» sbottò.
Il
nervosismo tornò a tormentarmi. «Senti, non ho invitato anima viva.
Volevo
soltanto fare qualcosa visto che oggi hai segnato, ma evidentemente non
sei
dell’umore giusto per cui ho soltanto perso tempo.»
Gli
occhi scuri di Simone si allargarono come pozze di petrolio
sull’asfalto.
«H-Hai fatto tutto questo per me?» chiese, quasi sbigottito.
Di
certo, detto in quel modo, sembrava quasi un comportamento smielato. Mi
affrettai a negare ogni cosa, tanto per rimanere in territorio
neutrale. «Direi
che l’ho fatto per me, avevo voglia di dolce.»
La
giustificazione del mio egoismo non resse molto, perché ben presto
sentii le
grandi mani di Simo cingermi la vita e schiacciarmi tra il bancone
della cucina
e il suo corpo.
Scostai
il viso, giusto per cercare il suo sguardo, e lo trovai così diverso
dal
solito, così espressivo.
«Potrei
abituarmi ad essere viziato così,» sogghignò.
A
quel punto l’atmosfera scottante si ruppe ed io ebbi il tempo di
rifilargli una
piccola gomitata all’addome per liberarmi dalla sua stretta. «Non ti ci
abituare, dovrei essere io quella viziata.»
Era
quantomeno normale che ogni donna dovesse sentirsi apprezzata e
coccolata.
Simone
ci pensò su. «I biglietti dello stato te li ho regalati, potevo farti
benissimo
pagare…» ipotizzò.
Lo
fulminai con un’occhiataccia. «Ma se te li danno gratis!» sbottai.
Lui
cominciò a ridere della mia reazione, come al solito esagerata, ed io
capii che
stava facendo di tutto per farmi arrabbiare, proprio perché quei
teatrini tra
di noi, per quanto fossero sfiancanti, alla fine riuscivano a toglierci
molti
pensieri.
D’improvviso
ebbi come l’impressione di essermi dimenticata qualcosa di molto
importante.
«Non
senti anche tu una lieve puzza di bruciato?» sorrise il calciatore.
Spalancai
gli occhi in preda al panico, afferrando le presine di corsa e aprendo
il forno
elettrico da cui usciva un filino di fumo nero. La teglia andava
letteralmente
a fuoco e rischiai anche di bruciarmi due dita, ma per fortuna riuscii
a
cavarne fuori ciò che rimaneva del dolce.
Simone
assistette a tutta la scena, con un’espressione particolarmente
divertita.
«Che
hai da ridere?» ringhiai.
«Niente,»
disse lui, facendo spallucce.
Gli
puntai il dito contro, minacciosa. «Sappi che se si è rovinata, è solo
colpa
tua!»
Per
una volta che avevo pasticciato un po’ in cucina, impegnandomi più del
dovuto
in una cosa non necessaria, Simone aveva mandato tutto a rotoli.
«Mia?»
ridacchiò. «E perché mai?»
Riuscii
a trovare un piatto da dolce e guardai rammaricata la torta che
cominciava a
prendere un colorito molto scuro… quasi abbronzato.
Se quel calciatore da strapazzo non mi avesse distratto, avrei
calcolato
benissimo i tempi di cottura. Alla perfezione!
«Ti
sei messo a blaterare e mi hai distratto.»
Non
capivo per quale motivo Simone Sogno trovasse divertente tutta quella
situazione. Era una cosa grave, soprattutto per la puzza di bruciato
che adesso
si stava diffondendo per tutto l’appartamento.
«Ridi
di meno e vai ad aprire le finestre, sennò asfissiamo qui dentro,»
sbottai.
Fece
come gli avevo chiesto, poi fu subito al mio fianco per aiutarmi.
«Faccio io,
altrimenti ti bruci,» disse, afferrando il guanto da forno.
Con
un movimento fluido riuscì a staccare la torta dalla teglia e a
depositarla sul
piatto da dolce. Per fortuna l’impasto non si sgretolò, ma l’aspetto
generale
della torta era pessimo.
Variava
da un colorito giallo oro, al marrone più scuro – quasi nero – ai
bordi. Di
sicuro era dura come un mattone ed io non avevo alcuna voglia di essere
presa
ulteriormente per i fondelli, per cui feci per afferrare il dolce e
lanciarlo
direttamente nella spazzatura.
Simone
però mi bloccò entrambe le mani. «Che fai?» chiese allarmato.
«Dai,
è immangiabile. Siamo realistici,» sbuffai.
Il
suo sguardo sembrava piuttosto serio, irremovibile. «Questo dolce lo
hai fatto
per me o no?» chiese, sorprendendomi con quella domanda.
Annuii.
«Allora,
se permetti, voglio mangiarlo. Lo hai cucinato per me, quindi è mio.
Non puoi
buttarlo,» mormorò convinto. Afferrò il piatto e lo rimise sul bancone,
cercando un coltello abbastanza grande (e resistente, soprattutto) per
affettare la torta.
Quel
suo comportamento mi lasciò di stucco. Mai avrei pensato che un gesto
così
semplice e istintivo da parte mia, riuscisse a far breccia in quel
calciatore
egoista e spocchioso. Mi sedetti al suo fianco e lo osservai dare il
primo
morso.
Sapevo
che aveva un aspetto orribile, ma Simo non lo diede a vedere.
Mangiò
tutta la fetta, fino all’ultima briciola, senza aggiungere una parola.
Non mi
sentii nemmeno di insistere per buttarlo, visto che ci teneva così
tanto.
«Tutto
sommato, è buono,» se ne uscì, alla fine.
«Non
serve mentire, lo so che ha un sapore orribile.»
Simone
allora ne strappò un pezzo con le mani e me lo avvicinò alle labbra.
«Assaggia
e smettila di blaterare per una volta.»
Stavo
per rispondere piccata, quando mi ficcò letteralmente il pezzo di dolce
in
bocca.
Sulle
prime si avvertì subito il sapore forte di bruciato, magari eliminando
la parte
più scura si sarebbe potuto salvare il resto dell’impasto, ma dovevo
ammettere
che aveva un buon sapore vanigliato.
«Allora?»
chiese.
Ammisi
a me stessa che forse, qualche volta, avrei dovuto dargli ragione. «Non
è
male.»
Sorrise
soddisfatto di sé stesso, poi si allungò prendendomi il viso tra le
mani e
cercando subito le mie labbra, ancora sporche di briciole.
Sulle
prime fui sorpresa, poi intrecciai le mani tra i suoi folti capelli
scuri e il
mondo sembrò sparire attorno a me. Simone era capace di farmi
dimenticare
tutto, ogni preoccupazione si dileguava nel momento in cui le nostre
bocche si
sfioravano. Aveva un potere annullatore, quasi annichilente. Percepii
distintamente il sapore di vaniglia, il mio stesso dolce che si
mischiava tra
le nostre labbra e diventava parte di noi ad ogni bacio.
«Grazie,»
disse lui, infine. «Per la torta.»
Risi
come un’ebete. «Capirai... l’ho anche bruciata. Per colpa tua,
ovviamente,»
puntualizzai.
Lui,
per tutta risposta, allungò una mano e mi spettinò i capelli.
«Ehi!»
protestai. Il giorno dopo sarei dovuta andare in ufficio, non potevo
presentarmi come una sciattona, ecco.
«Smettila
di polemizzare su tutto e accetta un complimento, una buona volta,» mi
rimproverò. «Nessuna ragazza ha mai cucinato per me, forse perché le
modelle
erano troppo impegnate a non mangiare per pensare al sottoscritto.»
Non
ci avevo pensato minimamente. Avevo sottovalutato questo aspetto in una
relazione, il piacere di fare un piacere
a qualcuno, un semplice gesto – come un dolce riuscito male – che aveva
un
significato tutto personale. Magari non sarei stata in grado di
partecipare a Masterchef, però
adesso ero sicura di
aver fatto un buon investimento del mio tempo.
«Tecnicamente
anche io sono una donna in carriera,» chiarii subito, specificando i
miei
numerosi impegni. «Inoltre, non avevo mai cucinato un dolce.»
«Sono
felice di essere stato la tua prima volta,» ridacchiò, calcando molto
il tono
quando si parlava di prime volte.
In
quell’occasione mi rifiutai categoricamente di fare la bacchettona,
visto che
la battuta ci stava ed era anche molto carina. Gli sorrisi un po’
complice.
«Insomma?
Ti sei divertita con l’avvocato?»
Ovviamente
quel clima di festosità doveva per forza interrompersi citando la
persona che
più creava disagio tra di noi. Sbuffai. «Sì, ma non è come pensi. Siamo
solo
amici.»
«Colleghi,
vorrai dire,» specificò lui. «Anzi, tecnicamente lui è il tuo capo.»
Odiavo
quando doveva necessariamente mettere tutti i puntini alle i,
sottolineando il
fatto che fosse infastidito enormemente dalla presenza dell’avvocato.
Purtroppo
non potevo semplicemente smettere di frequentarlo, come avrei potuto
fare con
un altro ipotetico ragazzo. James era il mio capo, il mio mentore nel
periodo
di tirocinio alla Abbot&Abbot, era anche una specie di “ex”,
perché ci
eravamo frequentati per un certo periodo ed era il nipote del titolare
dello
studio.
Cosa
avrei potuto fare?
«Smettila
di fare il bambino, lo sai che dobbiamo risolvere questo caso,» gli
ricordai.
«E
dopo?» s’imbronciò lui.
«Dopo
cosa?»
Simone
si alzò dalla sedia per lanciarsi di peso sul divano del salotto. Mi
fissò da
lontano, rimanendo estremamente serio. Alla fine mi fece cenno di
sedermi
accanto a lui.
«Insomma?»
insistetti, aspettando che mi cingesse le spalle con un braccio,
avvicinandomi
al suo corpo.
Aveva
il cuore che batteva forte, anche se il battito era chiaro e regolare.
Quasi
ipnotico. «Mi chiedevo se dopo che tutto questo sarà finito,» disse,
riferendosi ovviamente alla causa Cloverfield-Sogno. «Tu e lui…
insomma,
potresti anche cambiare partner di lavoro. Magari trasferirti in
qualche altro
studio?»
Mi
stava forse chiedendo di rinunciare al mio sogno, soltanto per una
questione di
gelosia? Era forse impazzito?
Tentai
di fare dei grandi e lunghi respiri, giusto per non sbottargli come una
pazza
isterica. «Innanzitutto, è inutile fasciarsi la testa prima di
romperla,»
anticipai. «Ancora non sappiamo nulla di questa causa, e non vorrei
portarmi
sfiga. Essere socia della Abbott&Abbott è stato sempre il mio
sogno più
grande, da quando sono venuta a studiare qui a Londra. È come se io ti
chiedessi di non giocare, o di cambiare squadra perché me ne voglio
tornare a
Roma. Tu lo faresti? Rinunceresti ai tuoi sogni per un’altra persona?»
Lui
ragionò sulle mie parole. «Dipende dalla situazione,» disse infine.
Sapevo
che avevamo un modo di vedere le cose totalmente diverso, soprattutto
in
relazione alla carriera. La storia dell’imminente paternità tornò a
tormentarmi, come un tarlo che continuava imperterrito a scavarsi una
tana
profonda nel mio cervello.
Dipende
dalla situazione.
La
storia con Elizabeth sarebbe stata una ragione sufficiente da farlo
rallentare?
Avere degli obblighi nei confronti di un’altra donna avrebbe potuto
minare
quella nostra strana convivenza?
A
quel punto decisi di espormi.
«Io
non ti chiederei mai di rinunciare ai tuoi sogni per me,» dissi. «Penso
che più
tieni ad una persona e più desideri il meglio per lei, qualunque esso
sia e
qualsiasi sacrificio comporti per te. Almeno è quello che io penso.»
Simone
mi guardò intensamente, recependo il significato delle mie parole, una
per una.
Notai come imparasse giorno dopo giorno ad essere un po’ più adulto, e
ripensai
a quando lo avevo conosciuto, qualche anno fa, insieme a Celeste, e a
quanto
fosse cambiato. Fui orgogliosa dei suoi cambiamenti, soprattutto vista
l’imminente paternità.
Ero
quasi sicura che se la sarebbe cavata egregiamente, in qualsiasi
situazione.
«Hai
ragione, non dovevo chiederti quelle cose,» ammise infine.
Sghignazzai.
«Simone Sogno che ammette che ho ragione! Domani succederà il
finimondo!»
Vedendo
come mi ero aggrappata a quella scusa per prenderlo in giro, si vendicò
con una
massiccia dose di solletico.
Mi
costrinse a sdraiarmi di schiena sul grande divano in salotto, con lui
prepotentemente
schiacciato sopra di me che infieriva senza alcuna pietà. Fui costretta
ad
arrendermi alla fine, anche se il mio orgoglio ne sarebbe uscito
duramente
sconfitto.
«Basta!
Basta ti prego!» riuscii ad implorarlo, tra una risata e l’altra.
Simone
obbedì, senza però alzarsi. «Nessuno è superiore al sottoscritto. Sono
perfetto
e bellissimo.»
Gli
afferrai il viso tra le mani e cominciai a stropicciargli la faccia,
quasi
fosse fatta di pasta modellabile. Ridacchiai ad ogni espressione
demente che veniva
fuori dalle sue boccacce, pensando che nonostante tutto, rimaneva
comunque il
ragazzo più bello che avessi mai conosciuto.
Mi
viene da vomitare,
asserì il mio Cervello, pensando a quanto fossi diventata sdolcinata.
Lo
zitti mentalmente perché non avevo voglia di rimproverarmi per qualcosa
che
ormai sentivo così naturale. Lentamente, giorno dopo giorno, avevo
imparato a
conoscere Simone, a vedere ciò che c’era oltre la superficie, al di là
di
quella maschera spocchiosa e arrogante che si costringeva ad indossare
per
proteggersi dagli altri.
«Non
mi fenfo più le guanfe!» protestò lui, con la bocca a pesce palla.
Sorrisi.
«Esagerato, ti lamenti per qualche buffetto innocente!»
Si
liberò dalla mia presa ferrea, cercando le mie labbra in un bacio
veloce. «Io
con questa ci lavoro,» e si indicò la faccia. «Sai quante pubblicità ho
fatto?
Tsé, meglio di Cristiano Ronaldo.»
«Pensavo
facessi il calciatore, non il modello,» puntualizzai.
Lui
ci pensò un po’ su, poi mi sorrise malizioso. «Ho svariati talenti, a
dire la
verità.»
A
quel punto decisi di assecondare quella situazione equivoca. «E mi
dica, Mr.
Sogno, in quale altro ambito spaziano i suoi numerosi talenti?»
Non
mi rispose, ma vidi le sue grandi mani intente a liberare, una alla
volta, le
asole dai bottoni del mio golfino. Il resto, lo si può tranquillamente
immaginare.
[1]
si riferisce all'omonimo film con Al Pacino.
Bene, eccoci
arrivati a fine capitolo!
Vi devo delle profondissime scuse, in quanto ci ho messo un sacco di
tempo per sfornare sto capitolo, ma non avevo ispirazione. L'ho
iniziato più volte e mai concluso, perché adesso la situazione si sta
infittendo e devo mettere bene in tavola tutte le carte e dare un certo
senso alla faccenda. Mi ci vuole del tempo, poi tra tutti gli altri
impegni ne ho avuto poco.
Comunque ringrazio chi mi ha sostenuto sempre, anche nel gruppo,
postando foto e ricordandomi ogni tanto che c'era da scrivere una nuova
avventura per Simone e Venera, e anche su ask.
Sì, ammetto che anche gli anon sono stati abbastanza utili per
rimboccarsi le maniche :3
Bene, cosa dire? Idee su come possa svolgersi il resto della storia?
Ammetto che non intendo tirarla ancor più per le lunghe. Sono già tanti
capitoli e belli corposi, per cui questo caso si sta trascinando anche
troppo oltre (poi rischiamo di finire in Italia eh!).
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Capitolo 26 *** Capitolo 24 ***
*Tenta invano di evitare il lancio di pomodori e ortaggi di qualsiasi specie*
SALVE!! Sono letteralmente secoli (tipo 2 anni) che non aggiorno più questa storia e sinceramente capisco che alcuni di voi vogliano seriamente linciarmi in questo momento. Meglio tardi che mai!!
Per chi di voi ha perso il filo della storia, meglio che se la vada a rileggere (LOL), ma soprattutto eravamo arrivati ad un risvolto epico della trama. Ven deve capire l'origine di quei suoi problemi fisici, per questo si reca dal Dottor Ross, e allo stesso tempo deve trovare qualsiasi fonte la possa aiutare nel caso di Simone.
Ce la farà? Leggete e lo saprete. MUAHAHAHAH Crudelia is back, bitches! :3
Capitolo 24
La giornata in ufficio era cominciata furiosa come suo solito. Yuki correva su e giù per il corridoio, cercando di adempire alle mansioni che Mr. Abbott le aveva dato, non capendo però che le stava soltanto chiedendo di fare delle fotocopie.
«Fate largo, scusate, toglietevi tutti!!» urlava a squarciagola, sommersa dai fogli che le svolazzavano attorno ai lunghi capelli neri.
Mi sentivo totalmente frastornata. Seduta, insieme a James, nell’ufficio a vetri di Mr. Abbott percepivo ogni suono o rumore attorno a me completamente ovattato. Quella mattina mi ero sentita poco bene, più del solito, ma l’esigenza di andare in ufficio era stata preponderante. Quel pomeriggio avevo anche la visita dal dottor Ross, per cui avevo preso nota di quasi tutti i sintomi che avevo riscontrato in modo da poter porre fine a quelle giornate che iniziavano nel peggiore dei modi.
«Zio, io e la signorina Donati volevamo chiederti delle informazioni in merito a un caso giudiziario che hai seguito tu stesso qualche anno fa ormai,» iniziò James, rivolto all’uomo seduto al di là della scrivania in mogano.
Gli occhi di ghiaccio di Mr. Abbott scrutarono entrambi pensierosi.
«Cosa vuoi chiedermi, James Percival?» gli domandò, ignorando completamente la sottoscritta e rivolgendosi al nipote con aria molto formale.
James era teso. Una raffica di pensieri si intravedevano al di là di quegli occhi azzurri che tanto mi avevano colpito la prima volta, e mi sentii in dovere di intervenire.
«Mr. Abbott,» dissi, catturando l’attenzione dell’uomo che aveva in mano il mio futuro lavorativo. «Ieri mi è capitato di effettuare una ricerca tra i casi irrisolti dello studio, e mi è saltato all’occhio questo.» e gli porsi la cartellina con i documenti risalenti al caso Chauser-Clarckson.
August diede soltanto un’occhiata rapida ai vari fogli, poi si concentrò su di me con aria corrucciata. «Signorina Donati,» iniziò. «Non so dove voglia andare a parare presentandomi queste scartoffie. Qui alla Abbott&Abbott il nostro unico obiettivo è vincere le cause dei nostri clienti, ad ogni costo, e presentare uno dei pochi fallimenti dello studio non può far altro che metterla in cattiva luce ai miei occhi.»
James fece per intervenire, ma lo fermai. Ingoiai il rospo e mi presi il rischio di tutta quella faccenda, che alla fine era partita dalla sottoscritta. «Signor Abbott, mi permetta,» insistei. «Non le ho sottoposto questo caso per mancarle di rispetto, assolutamente. Abbiamo esaminato migliaia di casi simili a quello di Mr. Sogno, cercando una qualche via d’uscita oltre il nuovo test del DNA, ma abbiamo soltanto fatto buchi nell’acqua.»
«Enormi buchi nell’acqua,» aggiunse James.
Gli diedi un’occhiata d’intesa, poi continuai. La soluzione era non permettere a Mr. Abbott di replicare prima di aver sentito tutto ciò che avevamo da dirgli. «Il caso Chauser-Clarckson, che lei stesso ha seguito e di cui si è occupato, presenta delle enormi somiglianze con quello che abbiamo in carico io e il mio collega,» spiegai. Gli occhi di August mi fissavano penetranti. «Siamo venuti questa mattina proprio per chiederle più informazioni possibili su questa causa, in modo da poter evitare eventuali errori che si potrebbero ripercuotere nel presente.»
L’uomo seduto di fronte a me si prese qualche minuto per riflettere, poi rivolse la sua attenzione al nipote. «James tu cosa ne pensi?»
«Credo che Venera abbia in mente qualcosa, ma abbiamo veramente bisogno di una tua consulenza zio. Altrimenti ho paura che non se ne verrà fuori.»
Il responso della clinica di St. Charles poteva essere negativo come positivo, avevamo esattamente il 50% di possibilità di vincere la causa.
Oppure di perderla.
Ci serviva ogni aiuto possibile.
Mr. Abbott aggrottò le sopracciglia, unì gli indici delle mani posandoli sotto il mento e respirò profondamente, fissandoci in maniera alternata.
«Odio parlare di questo caso,» iniziò. «È stato uno dei miei più grandi fallimenti, miei e dello studio, e non vi auguro mai di provare quello che ho passato io stesso. Per tale ragione risponderò a ogni vostra domanda e spero di aiutarvi in qualche modo.»
Finalmente tornai a respirare. Non che avessi troppa soggezione di Mr. Abbott, ma era comunque uno degli avvocati più temuti e rispettati di Londra, trasudava imponenza come fosse il mio sudore all’ora di ginnastica.
«Grazie mille, zio,» esordì James sorridente.
«Ora partiamo con le domande,» disse subito l’uomo, mettendosi alla nostra completa disponibilità. Bisognava perdere il meno tempo possibile, il giorno dell’udienza e del test alla clinica si avvicinava, dopo quella carta non ne avevamo più altre da giocare. Fine della corsa.
«Mr. Abbott,» iniziai, leggendo alcune domande che mi ero preventivamente scritta. «Partiamo subito dalla fine, ci può dire cosa ha definitivamente messo fine alla causa? Qual è stato il verdetto finale e le prove schiaccianti che ha portato l’accusa?»
August sospirò. «Innanzitutto dovete partire dal fatto che non sempre la “difesa” è dalla parte del giusto. Non conosco esattamente le dinamiche del caso di Mr. Sogno, ma posso dirvi con certezza che il signor Gary Chauser aveva effettivamente intrapreso una relazione extra-coniugale con quella studentessa,» e a quel punto arrivò la prima mazzata. Avevo preventivato che la causa era stata effettivamente persa proprio perché non c’era più nulla da fare, se il test del DNA combaciava, se le prove portavano tutte al signor Chauser, la giuria aveva ben poco da decidere.
«Quindi nulla di fatto?» chiese James preoccupato.
Suo zio lo fermò con un cenno della mano. «A quanto mi era stato detto in confidenza dal professor Chauser, la relazione c’era effettivamente stata ma era tutto scaturito proprio dalla stessa ragazza.» Ci fu un momento di silenzio dove tutti metabolizzammo le parole di Mr. Abbott. «C’erano delle attenuanti, insomma. Mr. Chauser teneva il corso di Lettere Antiche, se non ricordo male, e Miss Clarckson ambiva ad essere la prima della classe. Una storia vecchia di secoli, insomma.»
«La classica ragazza che sfrutta la sua bellezza per ottenere ben altro,» dissi sconcertata.
Associare Miss Clarckson a Miss Cloverfield non mi fu tanto difficile. Le storie collimavano più di quanto mi sarei aspettata, solo che nello specifico caso di Simone in mezzo non c’era una bella A+ nel corso di lettere ma tantissime sterline.
«Esattamente,» confermò il signor August. «Inoltre, il professore ammise di essere stato in qualche modo “spinto” ad intraprendere la relazione, in quanto venne fuori che una sera era stato abbindolato con dell’alcol – o droga, adesso non ricordo con precisione – e gli erano state scattate delle fotografie compromettenti che avrebbero mandato all’aria il suo imminente matrimonio.»
«Questo non è scritto da nessuna parte, zio,» intervenne Jamie.
«Mi è stato detto in via confidenziale, non ho potuto nemmeno utilizzarlo in tribunale perché dopo il test di paternità la giuria è stata irremovibile.»
Dannazione.
Tutto veniva ricondotto unicamente alla prova schiacciante del DNA. D’altronde, contro la scienza non si poteva fare nulla. «E come andò a finire?» chiesi.
L’uomo sospirò. «La verità si trova sempre nel mezzo, mia cara Miss Donati,» spiegò Mr. Abbott. «Io conoscevo quella del mio cliente, ma non era detto che fosse la verità come quella affermata dalla signorina Clarckson. Soltanto chi è stato artefice delle sue azioni conosce esattamente come si sono svolte le faccende. Ho fatto del mio meglio con questo caso, ma spesso sono gli stessi clienti – non avendo fiducia nei propri avvocati – che mandano a rotoli l’intero processo.»
«Cosa vuoi dire?» chiese James.
«Caro James,» disse. «Il professor Chauser era stato sincero con il sottoscritto fino ad un certo punto, un punto cruciale se vogliamo essere precisi. Aveva ammesso di essere stato sedotto, magari con l’aiuto di alcol o droghe, ma aveva fatto un giuramento. Ho perso la causa quel giorno e ancora me ne pento, avrei dovuto fidarmi meno ciecamente del mio cliente e basarmi più sui fatti, per questo vi do questo consiglio. Non si era parlato di nessun bambino in quella relazione, è venuto fuori ovviamente troppo tardi e dalle bocche dell’accusa proprio durante il processo. Quella ragazza era rimasta incinta, non so se dalla prima e forse unica notte che avevano avuto insieme o da altri episodi, fatto sta che quando eravamo sul piede di guerra, pronti a denunciare la signorina Clarckson per ricatto e altre imputazioni, l’accusa ha mostrato il test del DNA e lì non si è potuto fare più niente.»
«Purtroppo l’uomo in un caso del genere ha sempre torto,» dissi quasi senza pensare.
«Esattamente.»
Ennesimo buco nell’acqua. Erano stati inutili i nostri sforzi per cercare di ricavare qualcosa da quell’esperienza passata, di imparare dagli errori. Eravamo di nuovo d’accapo. Il bagliore che avevo intravisto in mezzo a quel buio si era trattato soltanto di un futile abbaglio.
«Quindi non caviamo un ragno dal buco,» sbuffò James.
Suo zio si sporse in avanti, posando i gomiti sulla scrivania. «Quello che voglio consigliarvi è di indagare per conto vostro,» spiegò. «Il lavoro dell’avvocato non è soltanto scartoffie e belle paroline, dovete recarvi in strada, parlare con la gente, chiedere a chiunque sia coinvolto nel caso notizie sempre più fresche. L’obiettivo è stare sempre un passo avanti all’accusa.»
Indagare.
Mr. Abbott aveva pienamente ragione. Fino ad ora ci eravamo basati soltanto sui fatti, sulle prove effettivamente scritte su carta, niente di più. Bisognava andare in giro, cercare qualche testimone, qualche notizia che ci potesse far sperare in una vita d’uscita.
Guardai James. «Potremmo andare al locale dove Simone e la Cloverfield si sono incontrati!» dissi trionfante.
Lui mi restituì uno sguardo trionfante.
Entrambi vedemmo Mr. Abbott sorridente e soddisfatto. Non avremmo ripetuto i suoi stessi errori, anzi, avremmo riscattato il buon nome dello studio a tutti i costi, anche andando a bussare porta a porta per tutta Londra.
Il Desire appariva molto più spoglio di giorno, rispetto alle fotografie che io e Jamie avevamo visionato su internet. Non appena entrammo, il locale si presentava molto buio. Soltanto qualche filo di luce filtrava debole dalle finestre intarsiate con vetri colorati, quasi come quelli che si trovano in chiesa.
Il tutto doveva dare un’atmosfera gotica e soft all’ambiente ma lo rappresentava piuttosto squallido a mio avviso. Il mio cervello associò subito Simone a quel posto. Era come se fosse lì con me e l’avvocato, potevo immaginarmelo bene mentre girava attorno al locale, guardandosi circospetto e pavoneggiandosi.
Il solito pallone gonfiato.
Una punta di fastidio mi invase.
Al solo pensiero che fino a qualche mese fa potesse essere davvero lì, in cerca di una qualsiasi ragazza – magari una modella – da portarsi a letto mi creava un profondo senso di disagio. Strinsi i pugni cercando di concentrarmi su altro, ma era del tutto impossibile. Ormai lo conoscevo così bene da immaginarmi perfino un primo approccio, un “ehi bella” sussurrato sensualmente all’orecchio e le mie unghie che lentamente affondavano nelle palme delle mie mani.
«Buongiorno, posso esservi utile?» ci sorrise il barman, mentre lucidava i bicchieri.
James con il suo solito charme si fece avanti per primo. «Buongiorno a lei, io e la mia collega siamo venuti qui per conto di un nostro cliente,» disse, riuscendo a mantenere l’anonimato. «E vorremmo sapere da lei chi fosse di turno la sera del…» ricontrollò gli appunti del caso. «28 Settembre scorso.»
Il giovane barman, di circa una trentina d’anni, sparì dietro il bancone e tornò con un taccuino. «Dunque, è passato un bel po’ di tempo,» disse pensieroso. «Credo ci fossi proprio io quel giorno ma qui teniamo conto di tutti i turni per cui potrò dirvelo con esattezza, attendente un secondo… eccolo! Sì, esattamente il 28 Settembre ho chiuso il locale verso le 5 del mattino più o meno. Cosa vi serviva sapere?»
Ci guardò con curiosità, ma anche con un’aria sospetta. Giustamente non gli avevamo fatto sapere in quale veste ci presentavamo. Poteva pensare fossimo poliziotti, anche se la sottoscritta – alta una mela e poco più – dell’agente in borghese aveva ben poco.
«Che fortuna!» esultò il mio collega. «Dunque, vorremmo sapere con un po’ di discrezione se quella sera si ricorda la presenza di una persona di spicco nel suo locale,» continuò l’avvocato. «Un personaggio del mondo calcistico, per intenderci…»
Mi affrettai ad intervenire. «Ha per caso riconosciuto qualcuno a lei familiare?»
Non potevamo esporci troppo. Era evidente che il barman avrebbe saputo di Simone, avrebbe capito che qualcosa girava attorno al suo nome ma dovevamo tradirci il meno possibile.
«Credo ci fosse Mr. Sogno, il calciatore.»
«Perfetto!» esultai, ma James mi mise subito una mano sul braccio teso, come a spegnere la mia euforia. I suoi occhi azzurri parevano dire “affrontiamo le cose con calma, non far trapelare nulla” e aveva ragione.
Con nonchalance, l’avvocato continuò con le domande. «Si ricorda per caso cosa ha bevuto? Se era da solo oppure in compagnia?»
Ci pensò un po’ su. «Ricordo vagamente. So per certo di averlo visto perché sono un fan sfegatato dei Gunners e non mi sembrava vero, gli ho chiesto anche un autografo. Mi pare sia entrato da solo, ma poi è andato via in compagnia di una ragazza molto alta… e bionda. Ma posso chiedervi il perché di tutte queste domande?»
Io e James ci scambiammo uno sguardo vago. «Domande di routine, nulla di importante,» tagliò corto l’avvocato. «Se si ricorda altro, le lascio il mio numero di telefono così può contattarmi quando vuole. La ringrazio moltissimo.»
Feci un sorriso al barman e seguii James fuori dal locale.
«Potevamo insistere con altre domande,» dissi contrariata.
Lui mi guardò intensamente, spiazzandomi come sempre. Era strano come il mio corpo reagisse ancora così ai suoi sguardi, anche se ormai avevo dedicato anima e corpo a quel disgraziato di Simone.
«Diamo tempo al tempo, spaghetti-girl,» mormorò. «Se avessimo insistito, di sicuro si sarebbe insospettito troppo e magari avrebbe cominciato a spargere la voce in giro. Oltre vincere questa causa, dobbiamo cercare di mantenere il maggior riserbo possibile oppure il nome di Mr. Sogno sarebbe in pasto ai media.»
Aveva pienamente ragione, ma la voglia di conoscere la verità era troppa. Memorizzai il locale in una delle vie adiacenti al quartiere di Soho e mi ripromisi di ritornarci, magari in compagnia di Sofi. Quel barman era il testimone perfetto per l’accusa, aveva visto Simone entrare da solo e uscire con la Cloverfield per cui avrebbe soltanto messo un altro pesante macigno sulla soluzione di questo caso.
O aveva altro da aggiungere alla sua testimonianza, oppure avevamo fatto un ennesimo buco nell’acqua.
«E ora che cosa abbiamo di concreto?» chiesi, sbuffando.
James si stiracchiò. «Abbiamo la certezza che Mr. Sogno ha lasciato il locale in compagnia di una donna che rispecchia l’aspetto della signorina Elizabeth ma dobbiamo appurare se effettivamente sono andati nel suo appartamento. Quindi dove ci porta la nostra indagine?»
«Potremmo fare qualche domanda ai residenti del palazzo,» proposi.
James mi sorrise, soddisfatto che avessi capito subito la prossima mossa. Bisognava ripercorrere quella notte passo dopo passo, ricostruendo la vicenda e non tralasciando nessun dettaglio.
«Quindi andiamo all’appartamento?» domandai.
Lui scosse la testa e mi sorprese. «Hai forse dimenticato di avere una visita dal medico, o sbaglio?»
Avevo completamente rimosso l’appuntamento con il dottor Ross quello stesso pomeriggio, anche perché, dopo i giramenti di testa della mattina, il mio fisico si sentiva abbastanza bene. Anzi, avevo anche piuttosto fame.
«Direi di trovare la fermata della Tube più vicina, dove hai detto che ha lo studio?» chiese.
«Seguimi.»
***
Lo studio si trovava a una delle fermate di Kensington Garden, precisamente a pochi passi da Lancaster Gate. Era ubicato in una delle tipiche palazzine inglesi, quelle strutture strette e alte composte da gradini altrettanto piccoli e piuttosto ripidi. Appena entrammo ci accolse subito la segretaria del medico.
«Buon giorno ragazzi, sono Miss Violet. Vi prego di accomodarvi in sala d’attesa, intanto potete dirmi il cognome così memorizzo l’appuntamento…»
Mi feci avanti. «Donati, Venera Donati. Ho chiamato ieri per una visita di controllo.»
La segretaria riconobbe subito la mia fastidiosa telefonata domenicale e storse il labbro. «Ah, eccovi qui. Prego, accomodatevi pure.»
Ci sedemmo in una piccola stanza con il camino acceso che donava all’ambiente la tipica atmosfera natalizia londinese, con tanto di vecchietta seduta nell’angolo a lavorare a maglia.
«Come ti senti?» mi chiese premuroso James.
Gli sorrisi. «Bene, bene, adesso sono in pienissima forma. Il problema è che appena mi sveglio ho forti giramenti di testa e mal di stomaco. Forse si tratterà di qualche virus stagionale, non saprei. Di solito non mi ammalo mai.»
Sentii la mano di James stringersi attorno alla mia. Un brivido mi corse lungo la schiena e in quell’esatto momento pensai che forse non era stata una buona idea chiedergli di accompagnarmi quel pomeriggio.
Cosa penserebbe il calciatore se entrasse in questo momento e vedesse quella scena?
Come al solito il mio cervello aveva ragione. Forse con quell’innocente invito avevo riaperto uno spiraglio che da parte mia rimaneva completamente sigillato, invece di migliorare la situazione e tenere le distanze, stavo affondando sempre di più.
Sfilai la mano appena in tempo.
«Venera! Prego!» Il dottor Ross fece la sua comparsa nella sala d’aspetto e mi invitò ad entrare. James si alzò solo per cortesia e fortunatamente non diede nessun segno di intenzione a seguirmi.
Il dottore era un uomo di circa sessant’anni, quasi calvo ma dallo sguardo dolce e simpatico. Aveva una barbetta che gli piaceva stuzzicare, soprattutto quando esaminava le cartelle dei suoi pazienti. Era il mio medico di fiducia da quando mi ero trasferita a Londra, ma lo avevo visto circa due volte perché era davvero difficile che mi ammalassi.
«Bene, bene,» disse pensieroso. «Come mai hai chiesto questa visita urgente?» mi domandò.
Gli spiegai in breve i giramenti e tutti i disturbi che si presentavano quasi ogni mattina dall’inizio di questo mese e aggiunsi che con il mio lavoro non potevo prendermi troppi giorni di riposo.
«Io penso sia soprattutto lo stress,» conclusi infine.
«Lasci a me la diagnosi, signorina,» sorrise. «Mi ha detto che ha queste vertigini e queste nausee solo la mattina. Le capita anche di rimettere?»
Ci pensai su. «Sì, anche se non sempre. Le ripeto che sono in un periodo della mia vita piuttosto frenetico e sto affrontando una causa molto estenuante. Forse potrebbe prescrivermi qualche pillola omeopatica o una pastiglia per dormire meglio.»
Avevo fretta di risolvere al più presto quel fastidio che non faceva altro che contribuire al ritardo nei giorni di lavoro. Inoltre, non potevo permettermi di stare male. Quella causa valeva la mia carriera lavorativa e coinvolgeva la persona che avevo scelto per stare al mio fianco. Il carico di stress era davvero alto da sopportare.
Il dottor Ross mi esaminò. Misurò la pressione, controllò le ghiandole e mi auscultò il cuore. La solita routine. Aspettavo soltanto mi prescrivesse le mie medicine per poter tornare subito a lavoro con James.
Tornò alla scrivania per prendere un blocco e cominciò a scribacchiare qualcosa. Pensai si trattasse della prescrizione per le pastiglie ma vidi che era una vera e propria lista.
«Le vorrei fare qualche domanda,» iniziò. Annuii, anche se non mi pareva di avere altro da aggiungere ai sintomi già descritti. «Quando ha avuto l’ultimo rapporto sessuale?»
Sbiancai.
Anzi, prima divenni rossa e gialla come la bandiera di non so quale squadra di calcio e poi bianca come un lenzuolo. «P-Prego?»
Non capivo. Non riuscivo davvero a comprendere cosa c’entrasse la mia vita sessuale con i disagi che avvertivo fisicamente. Il dottore mi fissò serio, aspettandosi una risposta celere.
«Signorina Donati, riformulo la domanda» sospirò. «Questo mese corrente ha avuto il suo periodo mestruale?»
Panico 2.0.
Ero stata sempre una ragazza precisa e meticolosa, tanto da tenere d’occhio il mio ciclo periodicamente. Con tutto quello che mi era capitato in quei pochi mesi avevo completamente perso di vista quel piccolo particolare.
«Ecco, come sospettavo,» e continuò a scribacchiare velocemente.
«Cosa sta annotando?» chiesi, un po’ infastidita. Non riuscivo ancora a capire cosa volesse dire tutto quello, anche se in fondo in fondo il mio subconscio aveva afferrato quella verità che forse tutti avrebbero scacciato in quel preciso momento della loro vita.
«È una lista di analisi del sangue, in particolare il Beta-HCG ci darà la risposta che vogliamo. Nel giro di 5-7 giorni lo sapremo per certo ma se vuole fare un test…»
«Sapremo cosa? Quale test?»
Oddio Ven!! Ma sei di coccio??
Punto primo: niente mestruazioni. Punto secondo: nausee mattutine e giramenti di testa. Punto terzo: sesso senza alcuna protezione. Risultato? Hai una laurea e un master, svegliati!!
«S-Sono i-incint-incinta?» Ecco, ora parlavo anche come Ruben.
Il dottor Ross mi sorrise. «C’è una forte possibilità, ma non la certezza al massimo della percentuale. Diciamo 40%, congratulazioni!»
Strabuzzai gli occhi. «De che?!?» e uscì la parte più romana della sottoscritta.
Mi alzai dalla poltroncina presa dal panico. Ero stata talmente stupida da avere più rapporti con Simone senza alcun utilizzo di protezioni, senza stare minimamente attenti dopo che lui rischiava di essere già padre di un altro bimbo.
No, no, no, e no!
«Ne è sicuro? Non potrebbe trattarsi di aviaria? Mucca pazza? Qualsiasi tipo di malattia mortale? Ebola?» gridai, presa dal panico.
Il dottore tentò di calmarmi in qualche modo. «Signorina non ne ho la piena certezza, ma sono sicuro che il suo compagno sarà felice di sapere la lieta novella. Se vuole posso dargli io la notizia, visto che è qui fuori.»
Doppiamente panico. Giustamente il dottor Ross aveva pensato che James fosse il padre del bambino, visto che mi aveva accompagnata alla visita, ma non conosceva tutta la verità.
«Non è lui il padre.»
«Ah.»
Si creò un imbarazzo silenzioso, soltanto dopo capii che ci potessero essere ulteriori malintesi, del tipo che io stavo con James ma il bambino era di un altro e quindi io ero una qualche tipo di sgualdrina…
«Devo sedermi.» Mi stava esplodendo la testa.
Come avevo fatto ad essere così negligente? A permettere di farmi contagiare dall’ingenuità di Simone e a farmi trasportare da lui senza riflettere. È vero, non era successo sempre. Alcuni rapporti li avevamo avuti protetti, altri no ma a quanto ricordassi eravamo sempre stati attenti, proprio per evitare questo.
E mi sfiorai l’addome.
Okay, non era ancora sicuro al 100%.
«Dottore,» dissi, alzandomi in piedi. «È corretto che se queste analisi risultano negative io non sono incinta, giusto?»
L’uomo annuì un po’ spaventato. «Potrebbe essere in dolce attesa per il 40% delle possibilità signorina, altrimenti dovremo fare altre a-analisi.»
Annuii convinta. Sicuramente si era sbagliato, si trattava di qualcos’altro, qualcosa che soltanto uno specialista avrebbe capito. Avrei fatto quelle analisi il più presto possibile e mi sarei messa l’anima in pace, scacciando qualsiasi dubbio. Simone poteva anche non saperlo, anzi sicuramente era meglio lasciarlo all’oscuro. Già aveva una sgallettata pazza a cui pensare, ci mancava anche questo pensiero.
Sicuramente negativo, come il risultato del Beta-HCG.
Ringraziai il dottor Ross e uscii dalla stanza, promettendo di inviargli al più presto tramite e-mail una copia delle analisi in modo da velocizzare il processo. Mi avrebbe dato una risposta telefonica appena lette.
«La ringrazio, dottore,» dissi uscendo e incontrai subito lo sguardo caldo e rassicurante di James che mi aspettava in piedi un po' preoccupato. Gli sorrisi, almeno per tranquillizzarlo giusto il tempo di evitare una qualsiasi piazzata nello studio del medico.
È davvero necessario che l'avvocato lo sappia? Tecnicamente James non era al corrente di nulla, né del rapporto che avevo con Simone né della natura della nostra relazione. Era stato meglio mantenere tale segreto, anche perché non sapevo come avrebbe reagito. Intrattenere relazioni tra avvocato e cliente era severamente proibito, forse più che tra colleghi. Avevo rinunciato alla storia con James anche per questo impedimento, ma ero caduta dalla cosiddetta padella alla brace.
«Spaghetti-girl, tutto bene? Cosa ti ha detto il medico?»
Sarebbe stato difficile guardarlo per l’ennesima volta negli occhi, in quelle iridi chiare ed espressive, continuando a mentire come se non avessi fatto altro nella mia vita. E la mia professione me lo permetteva piuttosto spesso. Per quanto non avessi voluto coinvolgere James ancor più nella mia vita, avrei dovuto dirlo a qualcuno. Una persona che possibilmente non avesse alcun legame di parentela con Simone.
«Uhm, sto bene» dissi titubante.
Avrei dovuto cominciare dall’inizio, trovare le parole esatte, le più corrette per poter affrontare quell’argomento per intero. Non sapevo quali sarebbero state le reazioni di James e francamente avevo paura. Ormai c’era rispetto reciproco tra di noi, una sorta di complicità che andava oltre un semplice rapporto tra colleghi. Avevo paura di deluderlo, di dargli un impressione completamente sbagliata di me.
Ormai è troppo tardi.
Ero divisa tra due fuochi: da una parte avrei potuto far finta di niente, fingere una semplice emicrania e continuare con la mia vita fin quando non avessi saputo per certo i risultati degli esami del sangue, dall’altra c’era l’affrontare la nuda e cruda verità.
Ora e subito, prima che fosse troppo tardi.
Magari era meglio sputare il tutto senza prendere fiato, dirgli la verità e sperare che non si alterasse ma sapevo da sola che sarebbe stato impossibile.
Uscimmo dalla clinica del dottor Ross e ci mettemmo a passeggiare per le vie di Londra, mentre il pomeriggio si trasformava lentamente in sera quasi senza che me ne accorgessi. C’era un momento della giornata che amavo, quando il sole spariva dietro i palazzi della City e smetteva di baciare con i suoi raggi le sponde del Tamigi era lì, in quel preciso istante, quando la notte abbracciava ancora il giorno che mi sentivo più viva. E presi coraggio.
Trovammo un piccolo parco, piuttosto appartato.
Avevo preso la mia decisione ed era meglio approfittarne prima di tornare definitivamente indietro e fare la codarda. Convivere con i propri pensieri era un conto, magari avrei resistito a tenere nascosta la mia storia con Simone, ma effettivamente quanto ancora sarei potuta andare avanti? Se non mi fossi confidata con qualcuno, una persona a me vicina ma allo stesso tempo lontana dal calciatore sarei esplosa.
Mi sarebbero crollati i nervi.
Andai proprio ai giardini di Kensington, sedendomi sulla prima panchina disponibile e crollandoci letteralmente sopra.
«Come va? Ti senti bene? Hai un altro giramento?» mi chiese allarmato James. Poi aggiunse: «Mi stai facendo preoccupare, cos’hai?»
Era giunto il momento tanto atteso.
«Siediti James, devo dirti una cosa.»
Vidi il panico dipinto sul suo volto, aveva la schiena dritta come un fuso. Il suo nervosismo si stava trasferendo anche alla sottoscritta e per un millesimo di secondo tentai di ripensarci. Sarebbe bastato tenere la bocca chiusa, affrontare questo “problema” da sola, ma sentii subito il bisogno di sfogarmi con qualcuno. Della mia storia con Simone ne erano a conoscenza in pochi, ma erano persone discrete e di cui potevo fidarmi. James era un punto interrogativo: avrebbe potuto arrabbiarsi, cosa che avrei fatto anche io, ma l’importante era che mantenesse il segreto perché la stampa non avrebbe mai tollerato una storia del genere.
Calciatore famoso, causa in corso per dubbia paternità, storia con il suo avvocato e figlio in arrivo, ero sicura che non avrei sopportato le malelingue e le storpiature dei giornalisti. Magari avrebbero potuto anche affermare che Simone stesse con me soltanto per usarmi, ai fini della causa che lo tirava in gioco.
Non volevo nemmeno pensare ad una cosa del genere.
C’erano troppe cose in ballo. Il riserbo per il caso giudiziario che stavo seguendo avrei potuto mantenerlo, ma la storia complicata che avevo con il mio stesso cliente, nonché personaggio di spicco della Londra mondana e moderna mi avrebbe ucciso prima o poi. Avevo la necessità di confidarmi.
«Sto bene, James,» dissi, guardandolo seria. Punto primo lo rassicurai, anche perché ci sarebbe mancato soltanto un infarto per causa mia. «Ma dopo la cosa che sento il dovere di dirti non so come potresti reagire.»
«Mi stai spaventando, Ven.»
Lo so, stavo peggiorando nettamente le cose dandogli quel genere di premesse ma non riuscivo ad evitare di “prepararmi” il terreno.
«Il dottore mi ha messo al corrente di ciò che potrei avere, ma puoi star sicuro che non si tratta di qualcosa di grave,» lo rassicurai subito. «Diciamo che non sono nemmeno sicura sia vero, ma per adesso calcolo la notizia come per certa.»
Lo sguardo di James era sempre più confuso. Non gli stavo dando nessuna informazione certa, anzi, parlavo per lo più per enigmi, forse per ritardare il momento in cui avrebbe saputo l’amara verità. Oltre il problema che dovevamo affrontare quotidianamente per questo caso giudiziario, ora Simone rischiava di essere papà per davvero.
Tutto a causa di una nostra negligenza.
O forse solo tua, d’altronde da quel gallinaceo senza cervello cosa potresti aspettarti!
Non è stupido, taci!
Ero finita a difendere Simone dai miei stessi pensieri acidi e maliziosi.
«Okay, te lo dico,» sospirai. «C'è un 40% di possibilità che io...»
«Che tu?» mi incalzò James.
Era giunto il momento del giudizio, come l’avrebbe presa l’avvocato? Dovevo comprarmi una bella vanga per scavarmi la tomba da sola, oppure semplicemente sarebbe stato comprensivo e mi avrebbe aiutata?
«Che io aspetti un bambino.» Finalmente ce l'avevo fatta, avevo avuto il coraggio di sputare fuori la notizia tutto d'un fiato.
Chiusi gli occhi automaticamente, aspettando la sfuriata che sicuramente avrei avuto da un genitore piuttosto apprensivo. Riaprii gli occhi soltanto quando udii un sospiro da parte di James.
Più che arrabbiato, l’avvocato pareva molto deluso.
«Avevo il sospetto già da tempo che mi nascondessi qualcosa, spaghetti-girl,» quel nomignolo lo pronunciò con una voce quasi tremante.
«Non era mia intenzione ma…»
Mi fermò. «Lasciami finire,» disse deciso. «Non voglio chiederti nemmeno di chi sia il bambino, perché la risposta, in fondo, l’ho sempre saputa. Era inevitabile che succedesse, un po’ è anche stata colpa mia e della decisione di mandarti a vivere là per tenerlo sott’occhio.»
Il nome di Simone non era mai uscito dalle mie labbra, ma James aveva subito intuito chi fosse il padre di questo presunto 40%. Era così evidente? Come avevo fatto a mantenere il segreto tutto quel tempo se la maggioranza dei nostri conoscenti sapeva cosa ci fosse tra di noi?
«Mi dispiace che tu sia arrabbiato,» mormorai, come una bambina che si scusa di una marachella.
James fissò il suo bellissimo sguardo oltremare sull’erba verde che brillava dell’umidità della sera. «Non sono arrabbiato Venera,» stavolta aveva usato il mio nome per interno, niente nomignoli o diminutivi. Fu un colpo al cuore. «Più che altro sono deluso. Mi aspettavo un determinato comportamento da te, pensavo di averti inquadrata, che fossi una persona seria e che avresti portato la Abbott&Abbott ad un altro tipo di livello.»
Ecco, proprio le parole che non volevo sentire.
«Io sono ancora quella persona!» insistetti, quasi con un tono disperato.
In quel momento mi resi conto che forse non era stata una buona idea dirgli la verità, l’aveva presa piuttosto male.
L’avvocato si alzò dalla panchina, non riuscendo nemmeno a guardarmi. «Dovrò prendermi del tempo per riflettere,» disse sospirando. «So che mi hai fatto questa confessione in amicizia, ma sappi che io sono il tuo tutor e in un certo senso sono il tuo capo, perciò dovrò anche tenere conto dell’azione che hai compiuto ai danni dello studio.»
Cominciai a tremare.
«Ti prego James, pensaci!» urlai.
Non mi resi conto che la gente che passeggiava nel parco ci fissava come fossimo dei fenomeni da baraccone. Perché ero stata cosi incosciente? Per quale motivo mi ero fidata ciecamente di James, pensando mi avesse compresa e aiutata?
«Lo sai che sono severamente proibiti i rapporti personali tra colleghi,» cominciò, tornando a fissarmi con gli occhi lucidi. «Credevo fosse per questo motivo che ci eravamo allontanati. Ora invece capisco che non era il lavoro la ragione della nostra rottura, ma Mr. Sogno che è riuscito ad irretirti.»
«Simone non ha irretito nessuno,» lo corressi velocemente.
Ormai avevo finito per difenderlo a spada tratta, qualsiasi maldicenza gli si dicesse contro. Penso sia normale essere dalla parte della persona con cui si sta insieme.
Il padre del proprio figlio.
«Ho sbagliato anche io,» continuò l’avvocato. «L’idea di farti trasferire in quella casa e la tua inesperienza hanno contribuito a creare una situazione d’intimità che ti avevo pregato di evitare con le altre, solo che mai avrei pensato potesse accaderti. Per questo sono rimasto notevolmente deluso.»
Troppe volte aveva tirato fuori quella parola ed io mi sentivo così male. Era come se me lo stesse dicendo mio padre, provavo la stessa identica sensazione di quando gli avevo detto che sarei andata a vivere a Londra lasciando Tivoli.
«Il dottore ha detto che non è sicuro,» tentai di giustificarmi.
Lui mi fissò glaciale. «Al di là della gravidanza, l’errore che hai fatto è stato frequentarti con un cliente dello studio. Se mio zio fosse a conoscenza di questo segreto, non ci penserebbe due volte a sbatterti fuori.»
Tutto il mondo mi stava crollando addosso. Avevo un grande bisogno di piangere ma non riuscivo a lasciarmi andare. Quello sarebbe stato un forte segno di debolezza che non potevo permettermi, non davanti all’uomo che pensavo fosse mio amico.
«Ho sbagliato, lo ammetto,» dissi. Avrei anche potuto giustificarmi e rassicurarlo che non sarebbe più successo, che una volta arrivata a casa avrei lasciato Simone seduta stante pur di mantenere il posto da tirocinante alla Abbott&Abbott.
«Allora rimedia.»
Sospirai. «Non posso,» ammisi tristemente. Ora avevo davvero gli occhi lucidi ed ero sul punto di piangere. Mi ci era voluto James per capire quanto tenessi davvero a Simone, con tutti i suoi difetti. «A questo punto mettere fine a questa storia mi riesce impossibile.»
Ennesima delusione negli occhi dell’avvocato.
Se prima avevo qualche possibilità di rimanere a studio, adesso me le ero bruciate proprio tutte. Al di là della gravidanza, che speravo fosse soltanto uno sbalzo ormonale, avrei dovuto mettere fine alla storia con il calciatore, cosa che ormai mi pareva quasi inconcepibile.
«Devo pensare,» disse James allontanandosi.
«Mi dispiace,» gli sussurrai dietro.
Lui si voltò quel tanto da intravedere il blu delle sue iridi espressive. «Dispiace più a me, Ven, fidati,» e se ne andò con le mani in tasca, camminando nell’imbrunire.
***
Tornai a casa completamente stravolta.
Tra la giornata passata in ufficio, il primo pomeriggio a investigare come Sherlock e la passeggiata dal dottor Ross non avevo più un briciolo di energia. Inoltre, mi sentivo svuotata dopo la chiacchierata con James.
«Ehi, non hai una bella cera.»
Il "benvenuto" di Simone completò quella giornata quasi completamente da dimenticare.
Alzai lo sguardo stravolto, sperando non si accorgesse di quanto stessi male.
«Grazie tante, genio. Sono esausta dal lavoro. Potresti essere anche un po' più gentile visto che ti sto salvando il sedere.»
«Un sedere che non ti dispiace poi così tanto...» ironizzò, sorridendomi beffardo.
Sorrisi. Per quanto la battuta fosse scadente e la mia giornata fosse stata cosi maledettamente pesante, Simone riusciva sempre a strapparmi un sorriso.
«Pallone gonfiato, tanto è del tutto inutile che io ti faccia dei complimenti, già ci pensi da solo a farteli,» puntualizzai.
Simone scese agilmente dallo sgabello della cucina dove era seduto e mi raggiunse, seguendomi in camera da letto dove iniziai a spogliarmi. Si piazzò proprio dietro alle mie spalle, abbracciandomi di sorpresa.
Mi fece piacere quel gesto istintivo, dopo quello che James mi aveva detto l’unica cosa che poteva sollevarmi il morale era lui. «A cosa devo tutta questa premura?» gli chiesi imbarazzata.
Simo sbuffò sul mio collo, lasciandoci poi un piccolo bacio. «Nulla. Mi sei mancata oggi.»
Quelle parole contribuirono a farmi sentire ancora più il tepore del suo abbraccio. Da quando Simone era entrato nella mia vita, magari un po' di prepotenza, ero cambiata. Avevo modificato il mio modo di percepire la gente, di giudicare ancor prima di conoscere e di capire che effettivamente dietro una persona di bell'aspetto, poteva nascondersi anche un cuore altrettanto meraviglioso.
«Anche tu, anche tu,» lo rassicurai, voltandomi e fissandolo in quegli occhi che tanto mi avevano fatto dannare. Simone era allo stesso tempo una persona problematica, da cui tenersi alla larga, ma aveva quel potere nascosto di attrarmi e di farmi tremare come nessuno era mai riuscito a farlo nella mia intera vita. Se avessi cercato per altri cinquant'anni in giro per il mondo, mai sarei riuscita a trovare occhi altrettanto penetranti.
Come avrei potuto mettere fine a tutto quello? Se James mi avesse chiesto di scegliere tra Simone e il mio lavoro, cosa avrei potuto rispondergli?
Erano due cose che amavo con tutta me stessa.
«Voglio che mi racconti la tua giornata,» disse, prendendomi per mano.
«Stai dicendo sul serio o ti sei drogato? Guarda che il doping è illegale, eh.»
«Ah, ah, ah, davvero spiritosa. Vieni,» e mi condusse sul divano del salotto dove ci accoccolammo per guardarci un po' di televisione in pace.
Quelle tranquille scene di convivenza mi fecero quasi dimenticare del tutto la visita dal dottor Ross, le domande fatte al barman del Desire, la conversazione di quella mattina con Mr. Abbott e la sfuriata finale di James. Era come se le braccia di Simone costituissero una "zona-franca" dove potersi rifugiare nei momenti bui, dove scacciare i brutti pensieri e riposarsi da una giornata stancante.
«Insomma? Come procede?» mi chiese sinceramente interessato.
Gli sorrisi. «Oggi abbiamo parlato con Mr. Abbott riguardo un vecchio caso molto simile al tuo, per conoscere bene le dinamiche di un processo di questa portata.»
«Cosa avete scoperto?»
Leggevo nel suo sguardo molta preoccupazione, ma gli sfiorai il braccio per tranquillizzarlo. «Non è facile, ma Mr. Abbott ci ha suggerito di ripercorrere il caso da cima a fondo, indagando proprio come dei detective.»
Simone scoppiò in una fragorosa risata.
Alzai un sopracciglio contrariata. «Beh? Che vuoi?»
«Nulla, scusami,» e continuò a ridacchiare. «Per un attimo mi sono immaginato te vestita da Sherlock Holmes, alta poco più di mezzo metro, che andavi in giro per Londra a fare domande, ahahahahah!»
Avevi l'opportunità di ucciderlo molto tempo fa, io ti avevo avvertita!
Per quanto mi dessero fastidio i suoi commenti sarcastici, stiracchiai una risata e tornai a guardare il telegiornale. Simone si accorse subito del mio stato d’animo non proprio normale.
«Ehi, tutto okay?»
«Sì, certo.»
Simone alzò un sopracciglio, poco convinto. «Voi ragazze dite sempre così, ma si vede benissimo che nascondi qualcosa.»
Il panico dilagò sul mio volto e dovetti subito pensare a qualcosa pur di non fargli scoprire l’amara verità di quel pomeriggio.
«Ven, dimmi cos’hai? Perché devi sempre tenere i segreti!»
«Non sono segreti,» mi giustificai. «Ognuno ha i propri pensieri e non sempre posso condividerli col mondo intero. D’altronde non tutti hanno una vita il cui unico scopo è tirare due calci a una palla!»
Okay, forse avevo esagerato. Ogni volta che mi sentivo attaccata usciva fuori il mio carattere acido e scontroso.
Simone mi fissò deluso. Bene, quella giornata di merda non era ancora finita e io già avevo distrutto l’umore di ben due persone a cui tenevo. Maledetta boccaccia!
«Scusa se mi preoccupo per te, meglio che mi faccio gli affari miei,» disse scocciato, allontanandosi da me.
«Mi dispiace, è che sono nervosa. Scusami,» gli dissi, ma fu un commento irrecuperabile.
Simone si voltò. «Non puoi sempre chiudermi fuori dalla tua vita,» pronunciò deciso, molto più incisivo del solito. In quel preciso istante mi parve proprio come l’uomo che era, un ragazzo deciso ad essere parte integrante della vita della sua compagna. «Sappi che non mi sono mai interessato a nessuna, non ho mai fatto domande, volevo solo scopare. Per una volta potresti essere meno scontrosa.»
Mi sentii doppiamente in colpa.
Di corsa mi alzai per andare ad abbracciarlo, anche se lui rimase fermo come una statua.
Affondai il viso nella sua maglietta che sprigionò proprio l’odore familiare che speravo. «Ho avuto una giornata tremenda,» sussurrai, arrendendomi alla verità del mio umore. «Ti prego, non mi allontanare.»
E sentii le sue braccia avvolgersi attorno a me, infondendomi sicurezza e tranquillità. La sua mano grande avvolse la mia nuca, accarezzandomi dolcemente. «Sai che puoi fidarti di me.»
Quelle poche parole migliorarono la mia giornata. «Sì, lo so.»
***
Eccomi tornata dopo una LUNGHERRIMA assenza.
In questo periodo lontano da EFP, ne sono successe di cotte e di crude - chi di voi che mi conosce "personalmente" sa già tutto, gli altri si dovranno aggiornare - eheheheheh. Dunque, vi aspettavate una notizia del genere?
So che alcune di voi avevano quasi indovinato, ma c'è ancora molto altro in serbo. Vi anticipo subito che la storia è FINITA, quindi dovrò soltanto impaginare e pubblicare i capitoli. State tranquilli, non vi abbandonerò e vedrete la fine della storia tra Simone e Venera.
Ne approfitto per comunicarvi una piccola decisione che ho preso, insieme al mio gruppo di fans namber uan (ovvero le altre crudelie). Per rispetto di tutti coloro che mi hanno sempre seguita, come ho già detto, pubblicherò l'intera storia qui su EFP perché voglio dare una degna conclusione a questa storia che mi è ritornata nel cuore, ancora più forte di prima. Quando avrò pubblicato l'epilogo, lascerò la storia su EFP per due settimane/un mese circa, dopodiché la cancellerò dal sito perché sto già operando un lavoro di ristrutturazione e correzione. La mia idea è quella di auto-pubblicarmi, cosa che mi è stata molto consigliata, per cui vorrei intraprendere questa idea anche per non lasciare "ignoti" personaggi divertenti come Simo e Ven.
Detto ciò, spero vi sia piaciuto questo ritorno.
Baci e grazie di avermi sempre seguita :3
Marty-Pooh.
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Capitolo 27 *** Capitolo 25 ***
Capitolo 25
Il cielo quella mattina prometteva pioggia.
Che novità? A Londra era difficile, se non quasi impossibile, trovare una giornata invernale completamente priva di temporali. Mi ritrovai davanti alla Abbott&Abbott con il mio ombrello a pois, completamente umida e con i capelli sparati in ogni direzione. Ero indecisa sul da farsi.
Entrare o non entrare?
La questione non era ancora risolta. Non avevo avuto alcun messaggio da James, nemmeno una telefonata per dirmi se il giorno successivo mi sarei dovuta presentare a studio o meno. Mi morsicai il labbro, nervosa.
«Stai aspettando una visione?»
La voce stridula e fastidiosa di Yuki mi destò dai miei pensieri. Ovviamente non poteva che capitarmi lei nel momento meno opportuno.
Feci finta di niente. «James mi ha dato appuntamento qui fuori,» mentii.
Cos’altro potevo fare? Dire a quella vipera che molto probabilmente Mr. Abbott mi avrebbe licenziata, aumentando le sue chance di diventare socia dello studio, era completamente da escludere. Per cui mi rifugiai dentro la solita bugia.
«James,» mi canzonò. «Ormai siete diventati intimi.»
Era davvero troppo irritante!
«Ti stai sbagliando,» le dissi, trattenendo a stento la rabbia.
Lei si scostò una ciocca di lunghi capelli neri, fissandomi attraverso quelle fessure che aveva al posto degli occhi. Sì, con lei diventavo addirittura un po’ razzista!
«Ho capito che tipo di persona sei, Donati,» sibilò. «Tutti gli altri la pensano come me, e vedrai che grazie al tuo bel faccino non riuscirai a superarci e a ottenere il contratto. Mi batterò con tutta me stessa per impedire a tipe come te di sminuire i nostri sacrifici!»
Rimasi allibita.
Bel faccino? Ma questa aveva preso lucciole per lanterne!
«Tu sei pazza,» ribadii, magari non aveva ancora compreso il concetto. «Stai insinuando delle cose assolutamente non vere, e potrei anche denunciarti.»
Aveva rotto i cosiddetti. Voleva sfidarmi? Bene. Avrebbe avuto pane per i suoi denti. Se soltanto avesse nuovamente insinuato che non meritavo di essere socia dello studio perché non abbastanza preparata, le avrei fatto rimpiangere di avermi conosciuta. Tutti gli anni che avevo passato fuori casa, tutte le amicizie perdute a causa dello studio e della carriera, avevo messo la mia intera vita sociale da parte per questo lavoro. Non poteva permettersi di insinuare una cosa del genere.
Sorrise beffarda. «Vorresti dirmi che tra te e Mr. Abbott Junior non c’è mai stato assolutamente nulla?» insinuò.
Mi si gelò il sangue. Yuki forse sapeva qualcosa? Era a conoscenza del segreto che tanto avevamo faticato a tenere nascosto, oppure stava solo bluffando? Capitava che negli uffici girassero voci, ma c’era differenza tra semplici chiacchiere e i fatti. Già me la stavo rischiando con la storia di Simone, ci mancava anche il ricatto da parte di Yuki e della mia tresca con James.
«Sei completamente fuori strada, Kamigawa,» la frenai. Era sciocco continuare quella conversazione quando ancora non sapevo se avrei lavorato lì. «Ripeto, stai passando il limite.»
«Buongiorno.»
Una voce alle nostre spalle mise fine a quella discussione. James si fece avanti tra la pioggia, con il suo solito completo gessato e lo sguardo grigio come il cielo di quella mattina. Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia. Avevo paura di leggervi dentro l’amara verità che tanto avevo scacciato quella notte, travolta dai pensieri. Cosa dovevo aspettarmi da lui? Compassione, forse? Pietà per ciò in cui mi ero andata a cacciare consapevole dei rischi e delle conseguenze?
L’avvocato salì le scalette della palazzina dove era ubicato lo studio e aprì, dando libero accesso a tutti i soci e i tirocinanti. Rimasi bloccata in fondo alle scale, quasi di pietra. Yuki mi fissava con superiorità, forse già sapendo il mio destino. Il bello è che non riuscivo ad odiarla fino in fondo, perché maledicevo me stessa e il mio essere stata così ingenua. Che fine aveva fatto la vera Venera? Quella ragazza che aveva abbandonato casa per inseguire un sogno?
Che genere di Sogno?
Mi faceva male il cuore, perché ormai era spezzato a metà. La ragione mi diceva di aver fatto il più grosso errore della mia vita, iniziando una relazione con un cliente, ma l’altra parte, quella sentimentale che soltanto di recente avevo scoperto, mi diceva che nessuna scelta fatta in passato era sbagliata. Onestamente alla domanda “rimpiangi di aver scelto Simone?” avrei risposto altre mille volte “no”.
Non devo rimpiangere il mio passato e le mie scelte.
«Non vieni?»
La voce di James mi destò dai miei mille pensieri. Quasi come scossa da un sogno, capii che forse ero stata precipitosa con i miei pensieri. «I-Io?»
L’acqua scrosciava sempre più forte, picchiettando sulle grondaie delle case e formando dei piccoli fiumiciattoli attorno agli angoli dei vicoli di Londra. Alzai lo sguardo oltre l’ombrello a pois e finalmente incrociai gli occhi di James, ancora tristi.
«Vieni dentro,» mi disse semplicemente ed io obbedii.
L’ufficio era un via vai di gente appena vi misi piede, nonostante avesse aperto da qualche minuto. Ognuno aveva un compito preciso, che lo volesse o meno, bisognava collaborare per un fine comune. La maggior parte dei tirocinanti veniva impiegato per delle ricerche, oppure per svolgere le mansioni più fastidiose per gli “anziani” dello studio ma ogni piccola azione aveva il suo peso. Per la prima volta da quando avevo iniziato quel tirocinio, vidi le cose in un modo diverso. Da esterno. Mi immedesimai come se già avessi perso tutto quello. Ogni minima possibilità di fare parte di quel mondo.
«Accomodati nel mio ufficio,» pronunciò James, sempre insolitamente serio. Avevo paura di un licenziamento ufficiale, magari anche con una lettera formale di dimissioni. L’ansia mi salì tutta insieme.
«Siediti pure.»
«Dammi tempo di raccogliere le mie cose…» tentai di dire, ma lui mi fermò subito con un cenno della mano.
«Non prendere decisioni affrettate,» disse subito, mettendosi seduto di fronte a me. Non sapevo come decifrare il suo sguardo enigmatico. Per la prima volta vedevo James come un estraneo e non come il ragazzo per cui avevo preso una sbandata appena messo piede in ufficio.
«Lasciami parlare. Per prima cosa ti posso assicurare che non ho informato mio zio delle confidenze di ieri, quindi sei ancora tirocinante alla Abbott&Abbott e devi ugualmente impegnarti come prima,» tirai un sospiro di sollievo. «Però non posso nemmeno assicurarti che in futuro mio zio non sia messo al corrente di questo fatto. Devo ammettere che mi servi, sei brava, brillante, ti impegni e ami il tuo lavoro e a me serve una persona con il carisma e la grinta che hai tu. Dobbiamo vincere questa causa, a prescindere dalle ragioni che ci spingono a farlo.»
«James io…»
Volevo giustificarmi, volevo dirgli che io stessa mi impegnavo in quella causa principalmente per lo studio, per un posto alla Abbott&Abbott e soltanto in secondo piano per le mie motivazioni personali.
È una bugia.
«Venera, ti prego,» disse sospirando. «Stai mentendo soltanto a te stessa continuando con questo comportamento. Capisco che tieni molto a questo studio e a questo lavoro, si vede e per questo non ho informato nessuno della tua storia, ma devi prenderti le responsabilità delle tue azioni e le conseguenze che ne scaturiranno.»
Aveva ragione. Confidandogli la mia storia con Simone e la notizia ricevuta dal dottor Ross, non avevo immaginato conseguenze di questo genere.
Davvero avresti pensato che James si sarebbe limitato a stringerti la mano e a farti le congratulazioni?
Ovviamente ero stata ingenua.
«Sì, certo,» dissi mortificata. «Hai tutte le ragioni per licenziarmi o per mettere al corrente Mr. Abbott di questo torto che ho fatto allo studio.»
«Hai centrato il punto, con il tuo comportamento hai offeso il mio nome e quello di mio zio. Se i tabloid inglesi venissero a conoscenza di questa tua relazione e di ciò che ne potrebbe scaturire…»
«Ti prego, non aggiungere altro.»
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, pensando a ciò che era successo tra di noi nel giro di meno di ventiquattro ore. Avevo sbagliato su tutta la linea, avevo pensato troppo con il cuore e agito d’istinto senza prendere in considerazione le conseguenze che ora mi stavano piovendo addosso.
«Devi farmi una promessa,» mi disse serio.
«Tutto quello che vuoi.»
Pur di avere una seconda chance nello studio, nonostante tutto, sarei stata disposta a fare qualunque cosa.
«Sei sicura?»
Cominciai ad avere paura di ciò che James stava per chiedermi. Forse dentro di me sapevo già quale sarebbe stata la condizione per rimanere tirocinante dello studio. D’improvviso avvertii una fitta al cuore, più forte delle altre, come se l’umidità di quella grigia giornata penetrasse fin dentro le ossa. Ossa ormai fragili.
«Sappiamo entrambi che non puoi avere entrambe le cose, almeno per adesso,» disse tristemente. «Ammesso che mio zio non sappia mai di questa storia, devi porvi fine finché sei ancora in tempo. Sono onorato che tu mi abbia confidato questo segreto, ma proprio da amico, e collega, devo darti questa brutta notizia.»
«Non puoi chiedermelo,» sussurrai, sentendo le lacrime pizzicare agli angoli degli occhi.
«È per il tuo bene, per lo studio e per il tuo futuro. Se qualcuno dovesse scoprirlo non potrei più fare nulla per te e butteresti al vento tutti i sacrifici fatti in questi anni. Non dico di abbandonare per sempre ciò che hai coltivato con Mr. Sogno,» e qui cambiò il tono della sua voce perché ancora soffriva per questa storia. «So qual è la tua situazione attuale, ma nell’interesse di questa causa dovresti sospendere. Una volta finita questa storia, potrai affrontare la tua vita sentimentale e privata come meglio credi.»
Non faceva una piega.
«Promettimi che ci penserai,» mi disse e io annuii.
«Credo di non avere altra scelta.»
***
La clinica di St. Charles si trovava dall’altra parte del Tamigi. Avevo trovato le indicazioni su internet e mi era bastato camminare per circa dieci minuti dopo la fermata della Tube per trovarmelo davanti.
Avevo prenotato le analisi esattamente un giorno prima e per fortuna, dato che si trattava di una clinica convenzionata a pagamento, gli appuntamenti furono presi con ventiquattro ore di anticipo. Avrei avuto le risposte quanto prima, da girare al dottor Ross in attesa di una risposta.
Mi recai in accettazione, visto che avevo poco tempo durante la pausa pranzo.
«Buon giorno,» dissi alla segretaria.
«Salve, mi dica pure il suo nome.»
Diedi i miei estremi alla ragazza che subito li inserì nel computer, dicendomi di attendere una decina di minuti nella sala di attesa. Mi avrebbe chiamato direttamente la signorina dei prelievi, quindi decisi di attendere magari sfogliando una rivista. Cominciai a riflettere su ciò che mi era successo in quei pochi giorni e a quante sale d’attesa avrei dovuto visitare ancora.
Quella della sala maternità.
Scacciai quel pensiero perché non potevo permettermi ulteriori distrazioni. Pensai alle parole di James e a quello che avrei dovuto fare per mantenere il posto da tirocinante allo studio. Lasciare in sospeso la storia con Simone mi parve una cosa del tutto insormontabile, quasi come scalare l’Everest, mi avrebbe lasciata con la stessa carenza d’ossigeno. Inoltre, come avrei potuto dirglielo?
Era stata soltanto colpa mia se ora mi trovavo in questa situazione spinosa. Tutto ciò si sarebbe tranquillamente potuto evitare o prevedere, adesso sarebbe stato difficile per chiunque mettere la parola “fine” a tutto questo. Simone non avrebbe mai compreso questa scelta. Ero sicura che spiegandogli la situazione si sarebbe arrabbiato, senza comprendere quanto fosse importante per me questo lavoro. Però avrei dovuto parlargli, trovare un modo semplice per allontanarmi e spiegargli che si tratta solo di una cosa temporanea. Il tempo necessario per vincere questa causa e trovare il mio posto nel mondo del lavoro.
Sarebbe stata un’impresa titanica.
«Miss Donati?»
Entrai nella saletta e attesi che la dottoressa mi facesse il prelievo.
«Beta-HCG?» mi chiese sorpresa, vedendo le etichette nella lista delle analisi da effettuare sul mio campione di sangue.
Arrossii.
«Si tratta soltanto di una misura di sicurezza, niente di più.»
Cominciavo sinceramente ad odiare quella sigla.
Non provai molto dolore quando infilò l’ago, anche perché sentivo molta più pena dentro. Ormai mi ero abituata ad avere Simone intorno e l’idea di non vederlo più ogni giorno mi faceva stare male.
Forse è il caso che torni nel tuo monolocale.
D’improvviso ci fu quel pensiero che mi balenò in testa. Avevo ancora il mio monolocale affittato fino alla fine dell’anno corrente e l’idea di tornare in un posto che fosse tutto mio, un luogo rassicurante e lontano da quei problemi che mi affliggevano forse mi avrebbe fatto bene.
«I risultati dovrebbero arrivare domani,» mi disse la signorina sorridendo. «In caso, congratulazioni.»
Stiracchiai un sorriso e fuggii letteralmente da quella clinica. Dal momento che St. Charles era convenzionata con lo studio, anche perché era la stessa struttura ospedaliera utilizzata per le contro-analisi della giraffona, l’assicurazione sanitaria mi avrebbe coperto quasi tutte le spese.
Uscii in strada, constatando che ben presto sarebbe piovuto di nuovo.
Nemmeno il cielo collaborava quel giorno e cominciai a sentirmi influenzata anche dal meteo.
Ci manca solo una settimana intera di pioggia, per completare la giornata.
Sarei dovuta tornare a studio in breve tempo, anche perché con James avevamo deciso di recarci nella palazzina dove abitava Simone e chiedere in giro cosa ricordassero di quella famosa sera insieme alla Cloverfield. Dovevamo raccogliere più informazioni possibili, per poi analizzarle ed essere sicuri di non aver tralasciato nessun dettaglio.
Mi trovai a passeggiare nella zona del Globe Theatre, al di là del Tamigi, dove era stato ricostruita la struttura ispirata a Shakespeare, distrutta dopo l’incendio del 1666 che rovinò quasi tutti i monumenti di Londra. Fissai le tipiche pareti bianche adornate da strutture in legno scuro che caratterizzavano il teatro e lo facevano spiccare rispetto alle costruzioni più nuove e moderne. Ricordai come anche a Roma avessero “imitato” questo stile, costruendo loro stessi un Globe ispirato al drammaturgo inglese dove venivano rappresentate le sue più famose opere.
Non ho mai avuto occasione di vederlo all’interno.
Anni vissuti tra Roma e Londra e mi ero persa quasi tutte le rarità che nascondevano entrambe le città. Forse mi ero concentrata troppo sull’unico obiettivo nella mia vita che avevo preso in considerazione, accantonando tutto il resto. Un po’ come il buon caro vecchio Sherlock che non sapeva nemmeno le basi dell’astronomia, perché troppo irrilevanti da tenere a mente. Lui ricordava tutto ciò inerente al suo lavoro ed eliminava il resto.
Un po’ come me.
Promisi a me stessa che una volta conclusa quella storia ed essermi assicurata un posto nella società lavorativa, avrei dedicato del tempo a me stessa senza pormi alcun limite. Per quanto avessi criticato all’inizio Simone, quei mesi passati insieme mi avevano insegnato che vivere giorno per giorno, quasi come se fosse l’ultimo, non era poi così sbagliato.
Mi fermai quando la prima goccia di pioggia mi cadde sulla punta del naso.
Quanto mi sarebbe mancato condividere ogni pensiero con lui? Tornare a casa dopo una sfiancante giornata a lavoro e trovarlo lì, sempre con il sorriso sulla faccia, pronto a tirarmi su il morale. Sapevo che sarebbe stato per poco tempo, la causa si sarebbe risolta di lì al massimo un paio di mesi ma una volta abituati a condividere ogni momento della giornata, anche solo un paio di giorni sarebbero stati infiniti.
Non puoi parlargli nemmeno di quello.
Aprii l’ombrello prima di bagnarmi completamente e mi incamminai verso la Tube, pensando alle ragioni per cui avrei dovuto tenere nascoste le analisi a Simone. Non c’era molto su cui rimuginare. La scelta migliore era quella di tacere fino a quando non avessi saputo per certo quali erano i risultati delle analisi. Non mi conveniva aggiungere problemi laddove mi rendevo conto fossero già insormontabili. Purtroppo quella causa si stava rivelando più spinosa del previsto e per quanto non sopportassi Elizabeth e quello che aveva fatto a Simo, un po’ la comprendevo.
Se fosse successo a me?
Se mi fossi ritrovata incinta, come probabilmente ero, senza alcun appoggio da parte né della mia famiglia né del padre di mio figlio, cosa avrei fatto? Forse mi sarei comportata allo stesso modo, avrei preteso quell’attenzione, soprattutto per quel bambino che non aveva alcuna colpa.
Stai davvero difendendo la giraffona?
Mi sedetti sul primo posto libero, accanto a una signora anziana che leggeva il Times, senza smettere di pensare a quelle che realmente erano le ragioni che avevano spinto la Cloverfield ad intentare una causa contro Simone. Perché una creatura che ancora doveva nascere avrebbe dovuto pagare per l’errore di una notte?
Non mi ero mai immedesimata nei suoi panni, finché io stessa non avevo dovuto affrontare un problema simile. E se una volta data la notizia a Simone, mi avrebbe rifiutata come aveva fatto con lei? Se fosse stato allergico alla paternità di natura?
Magari non voleva proprio dei figli.
Cominciai a farmi salire l’ansia senza volerlo.
Uscii dal vagone un paio di fermate prima dell’arrivo, solo per fiondarmi fuori all’aria aperta e sentire il fresco della pioggia che mi scivolava sulla pelle. Fui presa dal terrore, tutto insieme. Mille paure si susseguirono nella mia mente, facendomi realmente riflettere sul percorso che stavo intraprendendo e su quello in cui mi stavo lanciando senza paracadute.
E se non avesse accettato la mia situazione?
Per quale motivo avevo dato per scontato che una volta vinta la causa – ammesso che ciò sarebbe successo – una volta tornati insieme, sarebbe stato contento di ricevere una notizia di quel tipo? I libri ci avevano sempre insegnato che ogni favola aveva il proprio lieto fine, ma se il mio fosse stato leggermente diverso? Come avrei potuto affrontare tutto quello da sola? Quale sarebbe stata la decisione più logica?
Aborto.
C’era una semplice parola che racchiudeva la soluzione a molti degli inconvenienti di questo tipo. Una cosa che nel caso della Cloverfield avevo considerato scontata, ma a conti fatti, se al posto della giraffona ci fosse stata la sottoscritta, avrei preso molto più tempo per riflettere.
«Ti senti bene?»
Mi ritrovai James davanti, nascosto sotto il suo ombrello nero e visibilmente preoccupato. Non mi ero accorta di aver camminato un paio di chilometri sotto la pioggia e adesso mi ritrovavo davanti alla Abbott&Abbott completamente stravolta e fradicia.
«Più o meno,» mentii.
Avevamo appuntamento alle 14.00, per recarci appunto alla palazzina dove abitava Simone e fare un giro dei condomini chiedendo informazioni. Vedendomi in quello stato, James decise di accompagnarmi subito a casa.
«Sbrighiamoci, altrimenti prenderai un raffreddore,» disse. Non era cambiato molto l’avvocato, sempre premuroso verso chi ne avesse davvero bisogno. Mi dispiaceva averlo deluso in quel modo, costringendolo a mentire a suo zio, il suo stesso mentore e ispirazione, pur di coprire ciò che avevo fatto alle sue spalle, sia dal punto di vista lavorativo che sentimentale.
Tra di noi c’era stato qualcosa, ma non avevo minimamente pensato a quale effetto avrebbe avuto su di lui.
«Mi dispiace,» gli sussurrai, mentre mi teneva stretta al suo fianco per ripararmi dalla pioggia che ormai mi aveva bagnato anche l’anima.
James mi guardò comprensivo. «Vedrai che andrà tutto bene. Mr. Sogno capirà le tue esigenze e ti aiuterà in qualche modo,» mormorò, rassicurandomi. «Anche io ci sarò sempre per te.»
Avrei voluto soltanto piangere in quel momento, lasciarmi andare allo sconforto per ciò che si era abbattuto su di me con la stessa forza di un uragano. Mi chiesi cosa avessi fatto di sbagliato per meritarmi tutto quello, perché mi era stato dato questo indietro, soltanto per essermi lasciata andare una volta.
«Ho sbagliato tutto,» dissi più a me stessa che a James.
Ci incamminammo verso casa, sotto la pioggia che cadeva incessante e non dava un attimo di respiro ai poveri londinesi che tentavano di sbrigare le loro faccende quotidiane. C’era chi tentava di aprire l’automobile senza bagnarsi, chi si alzava il risvolto del completo per non rovinarlo e chi tornava a casa con le buste della spesa, fatte di carta riciclabile, che puntualmente appena prendevano una goccia d’acqua si sgretolavano come fossero fatte d’argilla.
Entrammo nel portone d’ingresso, proprio nel momento in cui un fragoroso tuono fece scattare l’allarme di un paio di automobili e ci rifugiammo in ascensore.
«Appena in tempo,» mormorò James. Anche lui si era bagnato una manica del cappotto di tweed, dato che aveva diviso il suo ombrello con me, tenendomi stretta affinché non mi bagnassi ulteriormente. «Ora ti fai una doccia, ti metti qualcosa di asciutto addosso e andiamo a fare il giro dei condomini.»
Ebbi come la sensazione che in quel momento tutto ciò che era successo in quei giorni non fosse mai accaduto. James sembrava tornato quello di sempre, ma decisi di non lasciarmi ingannare dal momento.
«Sì,» risposi triste.
L’avvocato mi guardò intensamente, quasi come se avesse intuito ciò che stavo pensando. Mi dispiaceva averlo deluso, dovevo riscattarmi in qualche modo da quel mio comportamento ma non sapevo come agire.
Girai la chiave nella toppa, conscia di non trovare nessuno a casa. Simone era agli allenamenti e sarebbe rincasato soltanto la sera. Feci accomodare James nel salotto, posando chiavi e cappotto.
«Mi dispiace,» esordii. Non avevo ancora avuto occasione di scusarmi sul serio, soprattutto con lui. Avevo fatto un torto allo studio e ne sarebbe valso il mio futuro lavorativo ma soprattutto avevo preso in giro la persona che mi era sempre stata vicina, nonostante tutto. «Devo chiederti scusa per quello che ho fatto, per il segreto che ti ho tenuto nascosto, al di là dello sgarro che ho fatto allo studio. Ti chiedo perdono come amico.»
Credo che James apprezzò quello che avevo detto. Forse si aspettava da molto tempo queste scuse, magari se gli avessi parlato prima della mia situazione con Simone, mi avrebbe potuto consigliare meglio.
«Lo apprezzo molto, ma ciò non cambia quello che ti ho detto stamani.»
«Lo so.»
Troncare temporaneamente con Simone sarebbe stato inevitabile, ma avevo paura soprattutto delle notizie che mi avrebbero potuto dare dopo le analisi. Forse mi avrebbe fatto bene dire tutto a Jamie.
«Ho soltanto paura,» ammisi. I capelli mi gocciolavano sul pavimento e nonostante cominciassi a sentire freddo, non smisi di cercare un barlume di calore dallo sguardo dell’avvocato. Avevo bisogno che qualcuno mi dicesse “andrà tutto bene”, nonostante ciò che mi aspettava sarebbe stato molto difficile. Forse necessitavo di una bugia.
Jamie si alzò in piedi e mi posò una mano sulla spalla dandomi il conforto che cercavo. «So che sarà difficile, ma vedrai che alla fine si risolverà tutto.»
Mi lasciai cadere sulla sedia più vicina, sprofondando nel dispiacere. «Non ho chiesto io tutto questo, è capitato!» sbottai, frustrata. «Amo il mio lavoro, ho sacrificato tutto per arrivare a questo punto, ma amo anche Simone!»
Soltanto in ultimo mi resi conto di ciò che avevo ammesso ad alta voce, persino di fronte a James stesso. Cos’era successo? Il mio buon senso era andato a farsi friggere tutto insieme?
Avevo il terrore di guardare l’avvocato e leggervi ancora delusione nel suo sguardo. «C-Cioè, volevo dire…»
«Ven, non mentire a te stessa,» mi anticipò lui. «Posso anche sembrarti duro imponendoti questa decisione, ma sono ormai consapevole della tua scelta. Mr. Sogno ha qualcosa che io non possiedo e forse non potrò mai darti quello che ti ha offerto lui, ma non per questo devi mentire a te stessa.»
Jamie riusciva sempre ad essere razionale e comprensivo, nonostante il torto che gli avevo arrecato. Rendendolo consapevole di quella tresca, gli avevo imposto di tenere un segreto senza dargli la possibilità di scegliere. Lo stava facendo per aiutarmi, per non mettere fine alla mia carriera ancor prima che iniziasse e invece di essergli grata, riuscivo soltanto a farlo soffrire ancora.
«Sono capace soltanto di renderti infelice,» dissi mortificata.
James sorrise. «Non è assolutamente vero. Quando abbiamo deciso di comune accordo di mettere fine alla nostra piccola avventura, mi ero reso conto che non avrei potuto mai darti ciò che cercavi. Sono felice che lo hai trovato in qualcun altro, ma proprio per questo non voglio che rovini tutto ciò per cui hai lavorato. Come ti ho detto stamattina, basta che sospendi la cosa per qualche mese, tanto da darci il tempo materiale di separare lo studio da Mr. Sogno.»
Il problema non consisteva soltanto in quello. Sapevo che Simone non avrebbe mai accettato la separazione, anche momentanea, perché avrebbe pensato subito che James tramasse qualcosa. Non si fidava dell’avvocato, quando invece avrebbe dovuto solo che ringraziarlo.
«Ho fatto le analisi del sangue oggi,» mormorai, togliendomi anche quel peso.
James sgranò gli occhi. «Ora capisco perché sei così bianca! Perché non ti sei presa mezza giornata?»
Scossi la testa. «Lavorare mi distrae dai miei pensieri.»
«Beh, com’è andata?»
Scoppiai in lacrime senza alcun cenno di preavviso. Forse fu una mossa sbagliata, magari avrei svelato una debolezza del mio carattere che pochi conoscevano, ma non resistetti. Fu come se James avesse finalmente allentato la valvola che permetteva a tutte le mie emozioni di fluire liberamente attraverso il mio corpo, e da troppo tempo erano racchiuse e stipate strette al suo interno.
«Calmati, Ven,» disse abbracciandomi. Forse era la prima volta dopo anni che mi lasciavo andare alle emozioni. Era liberatorio.
«S-Scusa…» singhiozzai. «N-Non voglio d-darti altri p-pensieri, s-solo che…» e ricominciai a piangere perché non avevo la forza di pensarci. La sola idea che Simone potesse rifiutarmi dopo la notizia della gravidanza mi distruggeva.
«Se non mi dici cosa ti turba, come posso aiutarti?»
La persona meno indicata per dare consigli su quella mia illogica situazione era James ma allo stesso tempo era l’unico che conosceva tutta la storia. Il solo che razionalmente poteva darmi una mano.
«C-Credo di non aver ancora r-realizzato la mia situazione,» ammisi, cercando di calmarmi e scandire le parole. Confidai a James tutti i miei pensieri, dal primo all’ultimo, dal più positivo a quello più negativo. Gli raccontai di Miss Cloverfield, di come mi sarei sentita se Simone si fosse comportato allo stesso modo con me, dell’idea di prendere in considerazione l’aborto e del non coinvolgere il calciatore per il momento.
James ascoltò paziente, annotò le varie informazioni a mente e fece il punto della situazione. Anche io avrei agito allo stesso modo, ma ormai ero talmente coinvolta da non riuscire a ragionare razionalmente.
«È normale che ti senti così amareggiata,» iniziò. «Se fossi al tuo posto avrei gli stessi identici dubbi, visto che la vostra storia è ancora agli inizi. Non conosco Mr. Sogno nel privato e sinceramente non saprei dirti se si comporterebbe allo stesso modo, posso soltanto analizzare i fatti: con Miss Cloverfield si è trattata di un’avventura di una notte, almeno è quello che appare agli atti, mentre mi pare di aver capito che voi due convivete ormai.»
Fino a stasera.
L’idea di affrontare la separazione da Simone mi fece risalire un singulto. Cercai di calmarmi e di ascoltare ciò che James aveva da dirmi.
«Ho avuto molte storie, spaghetti-girl,» sorrise. «Avendo più esperienza posso dirti come gira la vita e a volte ciò che ci sembra impossibile si trasforma in una prova che possiamo affrontare. Forse non condivido appieno le tue scelte, ma posso dirti di non demoralizzarti. Sono sicuro che se Mr. Sogno fosse a conoscenza del dono che sta per ricevere, una volta confermate le analisi, reagirebbe in modo diverso da ciò che hai pronosticato.»
Quelle parole mi diedero un po’ di respiro. «Lo pensi veramente?»
Sorrise. «Se mi trovassi al suo posto, sarei entusiasta di avere un figlio da te, Ven.»
Il mio cuore mancò di un battito e mi ritrovai a pensare per un momento come sarebbe andata la storia se fossi rimasta con James. Avrei evitato molte più sofferenze, avrei evitato di provare dolore e di lottare fin quasi allo sfinimento contro qualcuno che non rispecchiava per niente il mio carattere.
«Ci tieni ancora a me, James?»
Avevo il terrore di quella risposta. «Sempre.»
Una volta fatta la doccia ed essermi resa presentabile, ci recammo sul pianerottolo dell’appartamento pronti ad investigare porta a porta. Bussammo inizialmente a Mrs. Finchel, una signora sugli ottant’anni rimasta vedova e senza figli. La sua casa era un mausoleo dedicato ai gatti, di cui possedeva diciotto esemplari vivi che ti fissavano con aria di sufficienza.
Conoscevo di persona quasi tutti i condomini, visto che abitavo con Simone ormai da quattro mesi, per cui non fu difficile farci accogliere.
«Prego, prego, accomodatevi,» disse la vecchietta. «Posso offrirvi del the?»
«No grazie, siamo venuti solo per una breve visita e per qualche domanda,» risposi prontamente.
«Vi prego, non viene mai nessuno a trovarmi, fatemi questa cortesia…»
«Volentieri signora, del the sarebbe gradito,» intervenne James.
Mrs. Finchel era la classico donna inglese di una borghesi d’altri tempi, di quelle tutte ingioiellate che anche se non aspettavano visite si facevano sempre trovare impeccabili.
L’avvocato si sedette al mio fianco, scansando uno dei gatti che miagolò infastidito. «Cosa pensi possa dirci questa vecchina? Per me non ha nemmeno idea di chi sia Simone Sogno.»
«Non dubitare,» dissi. Sapendo che la signora avrebbe impiegato una buona mezz’ora a fare il the, feci cenno a James di seguirmi in fondo al corridoio.
«Ven ma noi non…»
Lo zittii e lui infine decise di seguirmi.
Sparse per tutto l’appartamento, c’erano ciotole piene di croccantini e lettiere parzialmente usate. Gomitoli di lana, tira-graffi e topi di gomma riempivano il pavimento insieme al lamentarsi dei gatti che ci vedevano come intrusi.
«È irrispettoso girare per l’appartamento senza la proprietaria!» insistette l’avvocato. «Non vorrei pensasse male.»
Gli feci cenno di entrare nell’ultima stanza a destra. «Ora mi darai ragione,» dissi trionfante.
Una volta dentro, James spalanco occhi e bocca. La camera era piena di poster, oggetti e bandiere dei Gunners dal 1970 in poi. Sapevo che il Mr. Finchel, prima di morire, era un appassionato di questa squadra e da quando era venuto a mancare sua moglie non aveva toccato nulla di quella piccola collezione privata.
«Come facevi a…?»
Scrollai le spalle. «Mi è capitato che scendevo le scale con Simone una volta e Mrs. Finchel lo invitò ad entrare. Era sua abitudine invitarlo qualche volta a casa, quando c’era anche il marito, per coronare un po’ il sogno di quel vecchio fan. Così conobbi tutta la storia e la passione di quell’uomo per l’Arsenal e i piccoli gesti che mai mi sarei aspettata da uno come Simone Sogno,» gli confessai.
«Un gesto nobile per una persona nobile,» aggiunse.
Sì, anche se a quel tempo non me ne rendevo conto.
Tornammo nel salotto giusto in tempo per gustare il famoso the inglese.
«Cosa volevate domandarmi, cari?» ci chiese sorridendo.
James le chiese di quella notte, se magari avesse sentito una voce di donna o avesse intravisto la persona con cui Mr. Sogno si era incontrato.
La signora Finchel fece un enorme sforzo per ricordare. «La memoria ultimamente non mi assiste,» si scusò.
Volevamo fare appello a qualsiasi particolare ci suggerisse che l’accusa si fosse sbagliata. Magari Simone aveva portato a casa un’altra, magari nessuno visto che non si ricordava nulla di quella notte.
Le strinsi la mano, nervosa. «La prego, cerchi di ricordare, è importante.»
«Va bene, tesoro.»
Si prese qualche minuto per rimuginare, mentre sorseggiava la bevanda calda. Mi ricordò un po’ quel rituale indiano dove ci si sedeva attorno ad un fuoco, dentro la tenda tipica della tribù di appartenenza, e si sorseggiava il famoso the della memoria.
«In effetti ricordo qualcosa,» le mie speranze si alimentarono. «Mi pare di aver sentito delle risate nell’atrio, proprio quando il signor Simone rientrava a tarda notte. Mi sono affrettata a guardare dallo spioncino, giusto per capire la fonte di quel chiasso, e vidi nettamente che era accompagnato da una donna bionda.»
Il mondo mi crollò addosso in un istante.
Allora ci era arrivata davvero a casa sua quella notte, era successo tutto ciò che St. James aveva descritto nel verbale d’accusa.
«Ammetto di aver pensato che fosse troppo vecchia per lui,» ridacchiò. «L’ho riconosciuta subito perché avevo letto pochi giorni prima un articolo che la riguardava, qualcosa su un giornale di gossip che però era passato subito in secondo piano.»
«Ne è sicura?» disse James.
La donna annuì. «Adesso che mi ci avete fatto riflettere, di solito mi dimentico le pillole per la pressione ma quando leggo qualcosa che mi interessa mi rimane stampato nella memoria!»
«Ha ancora quella rivista per caso?» domandai ansiosa.
La signora ci pensò su. «Credo che sia qui da qualche parte,» disse, mostrandoci l’immenso salone dove erano sparsi tutti i gatti e vari fogli di giornale piazzati sul pavimento per non sporcare.
Mi prese un accidente. «Ne è assolutamente sicura?»
La vecchietta annuì ammiccante.
Passammo il resto del pomeriggio, fin quasi a tarda sera, ad analizzare minuziosamente ogni foglio delle riviste sparse a terra. Rischiai più volte di essere graffiata o azzannata dai gatti della signora Finchel e verso le 19.00 stavo quasi per gettare la spugna.
«Io vado a mangiare, sto morendo,» sussurrai a James, chino come me sui pezzi di carta.
«In effetti è più dura di quanto pensassi,» ammise.
«Bisogna vedere se effettivamente questo articolo esiste,» sospirai. Non che dessi poca fiducia alla vecchietta, ma poteva anche aver travisato tutto.
Stavamo per mollare tutto, quando uno dei gatti della signora si spostò pigramente dalla cuccia da cui scaturì un pezzetto di foglio dove riconobbi il nome della Cloverfield. «Eureka!» gridai.
Strinsi tra le mani l’articolo di cui ci aveva parlato Mrs. Finchel e non potevo credere che esistesse davvero. Come mai ci era sfuggito? Per quale motivo nessuno aveva sentito parlare di questa rivista prima?
«Leggi cosa dice,» mi incalzò James.
Forse eravamo arrivati finalmente ad un punto di svolta, magari proprio per quella nostra minuziosità nell’analizzare passo per passo i movimenti di Simone avevamo trovato un escamotage.
Leggemmo frettolosamente l'articolo, scoprendo l'amara verità che forse avrebbe dato una svolta al nostro caso. «Guarda qui,» mi disse l'avvocato e lessi essattamente il paragrafo che indicava.
[...] e dopo un lungo processo per dubbia paternità, durato all'incirca un anno e concluso con la vittoria della difesa, Miss Cloverfiel fu costretta a ritirarsi un po' dalle scene, ritornando ad essere la ragazza del Kent di cui nessuno aveva sentito parlare.
«Pazzesco,» esclamai.
Non solo la giraffona pretendeva di spillare ancora più soldi e fama da Simo, approfittando di una notte in cui era stato poco furbo, ma addirittura si era permessa di rifare una cosa di cui già si era pentita in passato.
Andammo avanti a leggere ma la pagina si era interrotta con uno strappo. «E ora?»
James piegò con cura il foglio di quella rivista e se lo mise all’interno del giaccone di tweed. «Ora non ci resta che trovare lui,» suggerì, riferendosi al poveraccio che quella arpia aveva tentato di rovinare.
Dal momento che l’articolo non forniva alcun particolare giudiziario, sarebbe stato compito nostro risalire alla faccenda passo per passo. Mi sentii notevolmente sollevata, quasi eccitata, perché dopo eterne settimane passate a cercare tra i vecchi casi e trovando soltanto mondezza, finalmente qualcosa di positivo ci si prospettava davanti.
«Dove pensi di trovarlo?» chiesi.
Nell’articolo compariva soltanto un nome di fantasia, John Voight, ma sapevamo entrambi che era stato messo lì per dare un soggetto vago allo scandalo. «Potremmo risalire a lui contattando direttamente il giornalista che ha scritto tutto ciò.»
Salutammo e ringraziamo Mrs. Finchel, tendando di fare uno slalom olimpionico tra tutti quei gatti che sembravano fare a gara per farti capitombolare per terra. Non volli perdere altro tempo e senza nemmeno prendere borsa e cappotto, ci dirigemmo di corsa allo studio per fare una ricerca mirata su un certo Bastian Force.
Benvenuti/e al nuovo aggiornamento del Lunedì!
Prometto di essere sempre puntuale d'ora in poi, anche perché la storia è finita e deve solamente essere pubblicata. Vi invito ad iscrivervi al gruppo "Crudelie le originali - diffidate delle imitazioni" dove saranno linkati tutti gli aggiornamenti, ci saranno spoiler dei prossimi capitoli, sondaggi e tanto altro!
Insomma, vi è piaciuta Mrs. Finchel e il marito tifoso dell'Arsenal? Il mistero attorno alla Cloverfield si sta infittendo, soprattutto perché pare che sia più finta di quanto sembri. Ven e Jamie andranno fino in fondo?
Scopriamolo insieme nei prossimi capitoli!
Un bacio,
Marty.
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Capitolo 28 *** Capitolo 26 ***
Capitolo 26
«Mr. Force vi riceverà appena possibile, vi prego di aspettare in sala.» La segretaria del Daily Voice era piuttosto scorbutica, e anche brutta a dire la verità. Appena avevamo saputo dove questo giornalista prestava servizio e quale fosse il nome della rivista, io e Jamie ci eravamo fiondati alla sede senza perdere un attimo di tempo.
Ogni minuto era prezioso ormai.
«Spero non ci faccia aspettare in eterno,» sbuffai, fissando lo schermo del cellulare.
«Non possiamo saperlo,» sospirò James. «In fondo gli siamo piombati a lavoro senza alcun preavviso, avrebbe tutte le ragioni di scansarci.»
L’idea di tornare a casa a mani vuote mi gelò il sangue. Più tempo avremmo perso giorno dopo giorno, più il processo si sarebbe avvicinato e se non avessimo trovato qualcosa di concreto per quella data, Simone avrebbe perso la causa e si sarebbe dovuto accollare Miss. Cloverfield e la sua sete di fama.
Per non parlare di te…
Il mio subconscio riusciva sempre a mettermi di malumore. Ho già preso la mia decisione, ribadii più a me stessa che a quella parte di me che ancora insisteva ad essere così acida e scontrosa.
«A cosa pensi?» mi chiese l’avvocato, vedendomi un po’ assente.
Scrollai le spalle. Ormai potevo fidarmi di James, tutto ciò che aveva detto lo aveva fatto nel mio interesse e non perché lui stesso ci avrebbe ricavato qualcosa. «A tutto questo,» dissi, mostrandogli ciò che mi circondava. «Non avrei mai pensato di amare questo lavoro ancora più di quanto avessi immaginato, ma è così.»
«È un gran bel lavoro,» sorrise l’avvocato.
Sospirai, abbassando lo sguardo. «Ed è proprio per questo che devo lottare e mettere da parte tutto il resto.»
Mi riferivo a Simone, ciò era piuttosto ovvio. Non avrei mai immaginato, un anno fa, che rinunciare ad un ragazzo per inseguire il mio sogno sarebbe stato così difficile. Appena conosciuto, Simone non era mai stato nulla per me. Lo avrei volentieri venduto al primo offerente se non fosse stato per la causa in corso che mi avrebbe permesso di diventare socia dello studio. Da quel giorno a questa parte, era cambiato tutto.
«Spaghetti-girl,» sorrise Jamie, mettendo una mano sulle mie e guardandomi comprensivo. «Non devi rinunciare per sempre, ricordalo.»
Stiracchiai un sorriso. Non sarebbe stato un addio definitivo, ma sapevo che il calciatore l’avrebbe presa molto male. Mi aveva sempre accusata di pensare più al mio lavoro che alla famiglia, visto che non avevo pensato due volte ad andarmene di casa alla prima occasione. Ma appunto per quello avrebbe dovuto comprendere quanti sacrifici avevo fatto per giungere sino a quel punto, scegliendo lui avrei buttato anni fuori casa per non ottenere nulla.
«Non capirà, James. Sentirà soltanto ciò che vorrà udire.»
L’avvocato non riuscì a darmi una risposta perché la segretaria del signor Force ci fece accomodare nell’ufficio del giornalista. Vidi un enorme iMac dietro al quale si nascondeva un omino piuttosto insignificante, con un paio di occhiali altrettanto sproporzionati al suo piccolo visetto.
«Buongiorno, a cosa devo questa visita improvvisa?» ci domandò.
Mi guardai attorno e notai che ogni oggetto presente in quelle quattro mura era di dimensioni esagerate, come se la carenza d’altezza di Bastian Force dovesse essere compensata da una miriade di cose enormi.
«Sono James Abbott e questa è la mia collega Venera Donati,» ci presentò subito James, stringendogli la mano. «Siamo venuti qui per farle delle domande in merito a questo,» e spiegò l’articolo di giornale sulla scrivania del signor Force.
L’omino afferrò il foglio con le dita tozze e corte, poi si sistemò gli occhiali sulla punta del naso e sorrise. «Dove siete andati a ripescarlo?» chiese allegro.
Ci guardammo un po’ perplessi. «Da una nostra conoscente,» arrabattai io. Bisognava comunque mantenere il riserbo sul caso di Simone. Bastian Force era un giornalista, si occupava di cronaca mondana e il Daily Voice era uno delle testate scandalistiche più famose di tutta Londra. Ci trovavamo nella tana del lupo e bisognava giocare d’astuzia.
L’omino sorrise furbescamente. «Cosa vorreste sapere e perché?»
Era evidente che aveva capito che sotto c’era qualcosa. James Abbott, per quanto fosse il membro più giovane dello studio tra tutti i suoi parenti, portava un cognome che brillava come un faro nella notte. Mr. Force aveva inteso tutto, o quasi.
«Signor Force,» incominciò James. «Siamo venuti per chiederle informazioni sulla notizia che lei ha pubblicato circa cinque anni fa su una rivista, dal momento che non riusciamo a trovare alcuna informazione in merito nei nostri archivi.»
E questa era la cosa più strana.
Se la Cloverfield era comunque giunta in tribunale, avremmo quantomeno dovuto conoscere qualche stralcio di quella faccenda. Invece sembrava del tutto cancellata dalla storia, quasi insabbiata.
Mr. Force unì le dita l’una all’altra, facendo combaciare i polpastrelli con una lentezza quasi snervante. «Tutto ha un prezzo, miei cari,» sibilò, come il rettile infimo che era.
Strinsi le mani nei pugni, trattenendo a stento la voglia di strozzarlo davanti a James. In ballo c’era molto, perché se avessimo conosciuto nei dettagli questa storia magari saremmo potuti venire a capo della causa, ma quale prezzo avremmo dovuto pagare?
Gettare Simone in pasto alle testate giornalistiche era un’azione di pura vigliaccheria.
«Ci dica qual è il suo,» lo incalzò James.
Mi voltai verso l’avvocato pregandolo con lo sguardo che non dicesse sul serio. Al di là del fatto che avremmo sempre dovuto tenere tutto nascosto sin dall’inizio, come da contratto, a Simone tenevo più di me stessa e non potevo essere complice di questo.
«James,» gli sussurrai, stringendogli un polso.
Ti prego non farlo…
Mr. Force se la rideva sotto i folti ed enormi baffi. «Vorrei conoscere il motivo per cui state indagando su Miss Cloverfield,» disse serafico. «Ho sempre avuto una passione per quella piccola strega e da una parte ammiro la sua caparbietà nel farsi strada in questo mondo.»
Sgranai gli occhi. Davvero quella serpe ammirava addirittura Elizabeth? «Se lo può scordare,» iniziai ma vidi che James subito mi fece cenno di smettere.
«Va bene,» disse ed io sentii il sangue gelarsi nelle vene. «Però alle nostre condizioni.»
«Sei completamente fuori di testa?!» urlai.
Eravamo rimasti io e James nell’ufficio del mezz’uomo, come avrebbe detto Gandalf, mentre attendevamo dei documenti da firmare per la riservatezza.
«Calmati Ven, ho tutto sotto controllo.»
Per quanto mi fossi sempre fidata di James e del suo giudizio, quella volta ogni fibra del mio corpo mi stava urlando “cazzata!”. Era rischioso, troppo. Anche se le condizioni di riservatezza avrebbero obbligato Mr. Force ad avere l’esclusiva soltanto dopo la conclusione del processo, era pur sempre un giornalista.
Questi erano gente che pur di ottenere una prima pagina si sarebbero venduti persino la propria madre al mercato nero. La peggior specie che esisteva al mondo.
«Non possiamo fidarci di lui,» insistetti. «Tuo zio è stato chiaro su questo. Avremmo dovuto tenere fuori Simone e la Cloverfield dalle chiacchiere.»
«Dobbiamo per forza, Ven,» mormorò quasi disperato. «Non voglio mentirti, ma questa è l’ultima occasione che abbiamo per avere qualche speranza di vincere la causa!»
Per quale motivo era nel panico? In fondo non eravamo poi così disperati, eppure dalla sua voce e dal suo sguardo traspariva soltanto questo.
«D-Devi dirmi qualcosa, Jamie?»
In quel preciso istante fece il suo ingresso Mr. Force, trotterellando e tentando di mettersi a fatica seduto sull’ampia sedia.
«Qui abbiamo un accordo di riservatezza dove il Daily Voice e il sottoscritto si impegnano a non divulgare le informazioni ricevute prima del lasciapassare della Abbott&Abbott, a conclusione del processo.»
James afferrò il documento e lo lesse fino in fondo, nei minimi dettagli. «Bene.»
L’ometto sorrise. «Mr. Abbott una firmetta qui e qui, e una sigla in fondo.»
Ad ogni riga tracciata dalla Biro di James sentii il cuore tremare. Sapevo che l’avvocato stava facendo tutto quello nel bene di Simone e della causa, ma il mio intuito mi diceva che stavamo sbagliando. Forse c’era un altro modo per affrontare quella difficoltà.
«Ora è arrivato il momento di un buon the,» e chiamò la segretaria per ordinare. «Dobbiamo festeggiare questa nuova e conveniente collaborazione, non credete?»
«Preferirei passare ai fatti,» rispose perentorio James.
Mr. Force sorrise furbo. «Cosa volete sapere, esattamente?»
Questa volta decisi di intervenire. «Tutto,» ringhiai. Avevamo venduto Simone e la sua vita privata alla stampa e per quel motivo avrei preteso fino all’ultimo particolare di quella storia. «Cominci dal principio.»
L’ometto si voltò per raggiungere l’archivio. Frugò tra le scartoffie con le dita corte e tozze, scartabellando ogni piccola cartellina che aveva e ne tirò fuori una dal color verde bottiglia. «Eccoci qui,» disse, posando i fogli sulla sua immensa scrivania. «Cominciamo dall’inizio, signorina.»
***
Passammo l’intero pomeriggio, fin dopo cena, ad ascoltare, trascrivere e segnare ciò che il giornalista aveva scoperto in anni di indagini. Venne fuori che Miss Cloverfield aveva un passato di ragazza semplice, nelle campagne del Kent, e che il suo primo desiderio era stato sfondare nel mondo dello spettacolo.
«La cosa che più desidera al mondo è la fama,» disse Mr. Force. «Partite dal presupposto che farebbe di tutto per ottenere notorietà e non le importa il modo.»
Questa non era una notizia, sin da quando l’avevo conosciuta mi era parsa una persona scialba e senza alcuna personalità. Viveva solamente in base al suo aspetto e sui poveracci che poteva sfruttare sino a succhiargli via il midollo.
«La peggior specie,» sibilai schifata.
Il giornalista continuò elencando gli scatti di carriera della ragazza, una volta arrivata nella grande città, ma notammo che si arrestarono subito in quanto l’unico talento che possedeva era la bellezza.
«Qui capì che da sola non ce l’avrebbe fatta a sfondare,» disse l’uomo, indicando un vecchio articolo risalente al 2005, dove era riportata una foto della Cloverfield in compagnia di un giovane attore.
«Lui chi è?» chiesi, dal momento che non ero molto informata di gossip e star londinesi.
James mi guardò sorpreso. «Non sai davvero chi è George Wright?»
Scossi la testa dubbiosa.
«È stato uno dei più giovani attori ad aver recitato in una serie famosa della BBC che ha vinto numerosi e prestigiosi premi televisivi,» rispose Force. «Ha vinto anche il titolo di sex symbol britannico dell’anno.»
Guardando la foto rimasi perplessa. Simone era molto più bello di quello lì, pensai ma due secondi dopo mi ritrovai ad arrossire perché mi rendevo conto di non riuscire a pensare ad altro che al calciatore.
«E cosa è successo dopo?» chiesi.
«Dopo viene il bello, ragazza mia,» rispose l’ometto.
Scoprimmo che la Cloverfield e il signor Wright si erano conosciuti in un locale di Londra, il Desire, frequentato quasi sempre da personaggi famosi.
È lo stesso pub dove ha incontrato Simone. Oltre ad essere una fagiana reale, era addirittura più stupida di quanto avessi mai immaginato. Andava a catturare le sue “prede” sempre nello stesso posto.
Mr. Wright e la giraffona erano usciti insieme per un paio di mesi poi lui, per motivi personali, aveva deciso di troncare la storia e dopo nemmeno una settimana aveva ricevuto la convocazione in tribunale.
«Agisce sempre allo stesso modo,» rifletté James.
Gli occhietti di Mr. Force si illuminarono, pregustando informazioni sul caso attuale che riguardava Miss Cloverfield.
«Quindi ci ha riprovato?» tentò di chiedere.
James lo ignorò, come la sottoscritta. «E dunque perché tutto ciò non compare negli archivi del tribunale statale?»
L’ometto sorrise. «Anche se Miss Elizabeth può sembrare una donna priva di materia celebrale, ha fatto i suoi compiti a casa. Molto spesso avere conoscenze in alto è molto più utile di avere un QI sopra i centodieci punti.»
«Vorrebbe dire che…»
«Non posso provarlo, Mr. Abbott,» lo fermò subito il giornalista. «Detto con sincerità ho provato ad indagare, anche utilizzando metodi poco ortodossi e al limite della legalità, ma ogni foglio, notizia o dato di quel famoso processo che mentalmente molti ricordano, è sparito. Non è rimasta traccia concreta di nulla.»
James si mise le mani tra i capelli. «Come faremo a dimostrare queste notizie se non esiste alcuna prova?» domandò disperato.
Mr. Force tornò all’archivio, frugando ancora tra le scartoffie. «Questo e l’unico documento che sono riuscito a recuperare dal tribunale ed è una copia originale del processo sbobinato e trascritto. Non ci sono altri documenti esistenti ma questo porta il sigillo del giudice Major, che all’epoca seguì il processo, e che potrebbe testimoniare. Miss Cloverfield si è adoperata per cancellare ogni ombra scura incombesse sul suo passato, anche i suoi stessi errori, ma la mia tenacia ha fatto sì di poter pubblicare l’articolo che avete trovato senza alcuna denuncia di diffamazione,» concluse. [da rivedere]
«E come mai soltanto il vostro giornale ha trattato questo argomento?» domandai. Se la notizia era reale e dimostrabile, per quale motivo soltanto la rivista per cui aveva lavorato Force cinque anni fa era uscita con quel pezzo?
Il giornalista sospirò. «All’epoca non possedevo tutto questo,» disse, facendoci notare il suo salto di carriera e di importanza. «Il giornale per cui lavoravo a suo tempo era poco conosciuto e io stesso ancora dovevo farmi un nome nel mondo del giornalismo,» sospirò. «Riuscii ad ottenere un titolo sulla copertina solamente perché ogni parola che scrissi era dimostrata dai fatti o dai documenti che avevo riportato, cosa che nessun mio collega era riuscito ad ottenere. Riuscimmo ad avere l’esclusiva di quel pezzo, ma andò quasi del tutto perso tra gli altri gossip più noti.»
In quel momento compresi lo stato d’animo di Mr. Force. Cinque anni fa era agli inizi della sua carriera, un po’ come me, era ancora onesto e lavoratore, un tipo che si era diviso il quattro pur di poter scrivere un articolo degno di nota. Il suo impegno non era stato premiato all’epoca e forse la Cloverfield non aveva dato alcun peso a quelle poche righe stampate su un giornale che nessuno avrebbe mai letto o comprato.
«Miss Cloverfield la denunciò?» chiese James, annotando tutto.
Force scosse la testa. «Ci arrivò una querela in ufficio, ma quando presentammo i documenti in tribunale pronti ad affrontare il processo, Miss Elizabeth si offrì di pagarmi pur di ritirare quel piccolo neo che macchiava la sua intera carriera come giovane attrice.»
Spalancai gli occhi. Era davvero una vipera quella donna.
«All’epoca ero puro di cuore e non accettai, ma ora come ora mi pento di aver rifiutato quelle 100.000 sterline che mi prometteva. Se avessi saputo che quei miei sforzi non avrebbero portato a nulla…» ridacchiò.
«Beh, meglio per noi,» disse James soddisfatto. «Oppure adesso non avremmo tutto questo materiale da analizzare e sfruttare a nostro vantaggio.»
Notai il nome di John Voight all’interno dell’articolo, cosa che mi aveva sorpreso appena letto. «Chi è John Voight?»
Il giornalista sorrise. «Cinque anni fa ricevetti una telefonata dall’avvocato di Mr. Wright,» disse sollevato. «Erano venuti a conoscenza dell’articolo che stavo per pubblicare e si adoperarono per limitare i danni già causati dalla ragazza. Mi chiesero di utilizzare possibilmente un nome di fantasia, e per quella volta accettai.»
Mi parve piuttosto logico, anche se non riuscii davvero a credere che quel piccolo essere approfittatore si fosse lasciato convincere da un semplice “ti prego”.
«Ovviamente lo feci sotto compenso,» ridacchiò.
E ti pareva!
«Quindi, ricapitolando,» analizzò James, rileggendo gli appunti. «Quando Mr. Wright si è reso conto di voler troncare la relazione con Miss Elizabeth, tempo una settimana e viene citato in tribunale per una causa…»
«…di dubbia paternità,» concluse Mr. Force.
Non fa una piega.
«Miss. Cloverfield affermava che l’attore l’avesse voluta abbandonare una volta scoperta la gravidanza di lei, per questo si era sentita in dovere di proteggere la sua persona e la creatura che portava in grembo.»
Strinsi ancora di più i pugni, conficcandomi le unghie nei palmi. Venire a conoscenza di quella storia che si ripeteva nel tempo mi mandò su tutte le furie. Come poteva agire in modo così meschino? Per quale ragione quella donna sfruttava la gente soltanto per ottenere una cosa futile come la notorietà?
La fama è qualcosa di passeggero.
«E come si concluse il processo?» chiesi, anche se nell’articolo avevo letto qualche anticipazione.
Il giornalista si allisciò i folti baffi castani. «Ricordo che seguii il processo in prima persona. Non avevo ancora le idee chiare sul mio articolo, ma quella vicenda mi incuriosì molto. Si svolse in circa due anni, in quanto la prima volta vennero smarrite misteriosamente delle cartelle mediche, ricomparse soltanto dopo, e ci furono numerosi rinvii per lo stato di salute della ragazza. Ricordo che dopo il quarto mese non fu quasi mai presente in aula e soltanto quando venne a galla la verità, perché Mr. Wright aveva assunto addirittura un investigatore privato, si capì che era tutta una farsa.»
«Quindi non era incinta?» chiese James.
Il giornalista scosse il capo.
«Una volta che la difesa ebbe la brillante idea di chiedere la conferma del DNA ad una clinica fidata e convenzionata con lo studio, venne fuori che le analisi presentate dall’accusa erano soltanto un falso.»
Quella storia era passo dopo passo sempre più simile a ciò che ci stava accadendo. In pratica avevano compiuto le nostre stesse mosse, senza che noi conoscessimo nulla di questa vicenda. D’altronde avevano agito come qualsiasi bravo avvocato avrebbe fatto.
«E quale fu il risultato?» domandai.
Mr. Forse annuì compiaciuto. «Aveva falsificato le analisi del sangue e i test relativi al DNA, alterando dei valori con la collaborazione di qualcuno che alla stampa non fu mai rivelato. Quella ragazza ha sempre un asso nella manica, ma ovviamente non poteva prevedere che il giudice accordasse una riprova del test in un’altra clinica. A quel punto non poté fare assolutamente nulla e si scoprì l’inganno.»
A distanza di cinque anni c’erano due casi prettamente identici di cui non si sapeva quasi assolutamente nulla. Forse anche Mr. Wright, all’epoca, esigeva la stessa privacy che avevamo riservato a Simone. Una vicenda che avrebbe fatto scalpore se portata alla luce e confermata dai fatti, e per fortuna – per una volta – la stampa era stata utile a quel proposito.
«Ora tocca a voi, miei cari. A cosa devo il rilascio di queste preziose informazioni?»
Una volta in strada, fuori dagli uffici del Daily Voice, non riuscii più a trattenere le emozioni. Avevo l’adrenalina che mi scorreva in corpo, un po’ perché finalmente il caso aveva trovato un punto di svolta un po’ perché non sopportavo il fatto di aver in qualche modo tradito la fiducia di Simone, consegnando la sua vita privata in mano a quella serpe.
«Perché abbiamo dovuto farlo?» sbottai, fissando James preoccupata.
Lui mi restituì uno sguardo spento. «Mi dispiace ma era l’unico modo. Hai visto quante informazioni abbiamo ottenuto da Force e senza qualcosa in cambio non avrebbe aperto bocca.»
«Ma tuo zio è stato chiaro, dovevamo mantenere il riserbo su questa storia!»
Tirai fuori la balla di Mr. Abbott, ma sapevamo entrambi che la mia preoccupazione verteva unicamente sul calciatore.
James si avvicinò posandomi una mano sulla spalla. «Non ti ho detto tutto Venera,» sospirò.
Odiavo il modo in cui pronunciava il mio nome per intero. Significava solo una marea di guai in arrivo, un po’come faceva mia madre quando trovava la mia stanza in disordine.
«Ho dovuto firmare il patto di riservatezza perché qualche giorno fa è arrivata la riprova delle analisi del St. Charles e non sono buone notizie,» sospirò. «Al contrario di ciò che è accaduto a Mr. Wright, questa volta i risultati sono positivi e non c’è giudice che possa evitare di tenere conto di questo. O Miss Cloverfield si è fatta più furba, oppure ciò che dice è vero.»
Mi crollò il mondo letteralmente addosso. Tentai di spostarmi poco più in là, ma l’onda d’urto mi colpì con la potenza di un uragano. Con tutta me stessa avrei voluto cancellare le parole di James, ma era del tutto inutile.
«L’articolo di Force era l’unico modo per andare avanti,» sospirò. «Anche se mi dispiace averti fatto un torto.»
Sospirai. «Se avessi saputo, avrei fatto lo stesso. Non ti preoccupare.»
Ci incamminammo verso Courtney Road rimanendo in silenzio. La pioggia di quella giornata si era calmata, lasciando spazio alla luce della sera che piano piano si allontanava. I tramonti del nord Europa erano molto diversi da quelli che ammiravo nella mia terra. Le giornate estive infinite, i climi miti e le belle giornate primaverili, con il tepore del sole che riscaldava le mattinate. Qui a Londra mi ero abituata ad uscire sempre di casa armata di sciarpa e ombrello. Il tempo cambiava repentino e i giorni in cui mettere gli shorts o le gonne senza le calze si potevano contare sulle dita di una mano.
«Forse è meglio che ne parli tu a Mr. Sogno,» disse James, interrompendo il silenzio. «Credo tu sia la persona più adatta da cui ricevere questo tipo di notizia.»
Annuii. Certo sarebbe stato un duro colpo per Simone ricevere quella notizia, anche se ormai avrebbe dovuto farci l’abitudine. Nessuno gli aveva detto che quel test fosse infallibile, una possibilità c’era e si era confermata.
Non sarebbe stato facile accettare nulla di quello che gli avrei dovuto dire, ma da qualche parte avrei dovuto iniziare. Certo la nostra indagine per fortuna era arrivata ad un punto di svolta, ma non era affatto detto che si trattasse solo di una farsa.
È quello che speri tu.
Speravo con tutto il cuore si trattasse di un ingegnoso piano organizzato da St. James, con la complicità di quella infima giraffona, ma le possibilità si assottigliavano sempre di più.
«Ora come faremo a dimostrare ciò che abbiamo scoperto al Daily?» dissi scoraggiata.
Senza alcuna prova documentata del processo avvenuto cinque anni fa ai danni di Mr. Wright, avremmo presentato in aula soltanto delle prove circostanziali. Nessun giudice avrebbe ammesso quelle notizie come certe.
«Non ne ho davvero idea,» sbuffò James con le mani in tasca.
Aveva le spalle curve, sconfitte, quasi come se si rendesse conto che il prezzo che aveva pagato per quelle notizie fosse stato del tutto vano. Pensai alle parole di Mr. Force, a ciò che Elizabeth era stata in grado di fare insabbiando tutto e al fatto che il giornalista era andato fino in fondo per scoprire la benché minima prova, mettendo letteralmente a ferro e fuoco il tribunale, eppure mi sfuggiva una cosa essenziale.
«Forse ho avuto un’idea!» dissi trionfante, fermando James in mezzo alla strada.
«Quale?»
Gli puntai il dito indice contro, ottenendo tutta l’attenzione che meritavo. La vecchia Ven era tornata, la ragazza che non si sarebbe fermata di fronte a nulla aveva temporaneamente sostituito la Venera più sentimentale e lunatica. «Dovremmo fare una chiacchierata con Mr. Wright. In fondo, chi meglio di lui – che ha vissuto la storia in prima persona – conosce tutti i particolari? Magari i suoi avvocati hanno conservato qualcosa, potrebbero esserci delle prove o a limite una testimonianza!»
L’attimo di eccitazione dell’avvocato si spense all’improvviso. «Non ha nemmeno voluto essere citato in prima persona nell’articolo, come pensi possiamo convincerlo a testimoniare?»
«Dobbiamo tentare,» dissi. Mr. Wright costituiva la nostra ultima speranza per avere qualche possibilità di vincere la causa.
***
Tornare a casa dopo una giornata fredda e umida era sempre un piacere, soprattutto se ad attendervi c’era un ragazzone alto più di un metro e novanta completamente insonnolito sul divano. Entrai delicatamente in casa, attenta a non svegliarlo, ma non appena Simone udì le chiavi tintinnare alzò la testa fissandomi insonnolito.
«Dove scei scitata?» biascicò, con i capelli sparati in tutte le direzioni.
Erano appena le 23.00, eppure non mi ero resa conto di quanto tempo avessi passato con James cercando di rintracciare l’equipe di Mr. Wright in modo da fissare un appuntamento. Quell’uomo era diventato quasi introvabile.
«Lavoro, lavoro e lavoro!» sbuffai, togliendomi sciarpa e cappotto.
Lanciai letteralmente le scarpe senza nemmeno curarmi di dove andassero a finire e mi trascinai letteralmente tra le sue braccia. Quel giorno avevo fatto anche il prelievo e i sintomi di sonnolenza si fecero sentire molto presto. Purtroppo c’erano ancora molte cose in sospeso che mi impedirono di prendere sonno subito.
«Passi molto più tempo con quello che con me,» infierì Simone, cominciando a fare la sua solita sceneggiata gelosa da bambino di cinque anni.
A questo punto, se le analisi risultano corrette, dovrai crescerne due di bambini, anziché uno solo!
La prospettiva non era delle più allettanti, in effetti.
«Smettila di essere così infantile, te l’ho spiegato un’infinità di volte che dobbiamo lavorare insieme perché siamo un team. Lui è il mio tutor e mi affianca in questo tirocinio, per me è molto importante questo lavoro. È l’opportunità che sogno da sempre.»
Sperai di fargli capire una buona volta quali fossero le mie priorità e le mie ambizioni.
Simone posò la testa sul mio grembo, fissando il pavimento.
Cominciai ad allisciargli i folti capelli bruni, tentando di dare un senso a tutto quel disordine ma rinunciai quasi immediatamente.
«Il tuo lavoro viene prima di tutto, l’ho capito,» mormorò serio. «Anche prima di me.»
Sapevo che saremmo andati a finire di male in peggio quella sera. Lo costrinsi ad alzarsi e a fissarmi negli occhi, ma fu l’errore più grande della mia vita. Non avevo mai visto Simone Sogno così espressivo. I suoi occhi erano una marea di oro nero liquido in cui annegare, come la pece ed io ero la gabbianella che non riusciva più a volare.
Riusciva sempre ad intrappolare ogni mio pensiero, a far vacillare le mie certezze.
«Devo dirti una cosa,» mormorai. Non ero ancora pronta a lasciarlo andare. «Riguarda il caso.»
Simone si raddrizzò meglio. Cominciò a torcersi nervosamente le dita, mangiucchiandosi un unghia e sospirando ansioso. «Bella o brutta?» chiese solamente ma già dalla mia espressione aveva avuto il sospetto che non si trattava di buone nuove.
«Il secondo test del DNA che abbiamo richiesto noi alla St. Charles è risultato anch’esso positivo,» sospirai. «A livello scientifico tu sei indubbiamente padre della creatura che Miss Cloverfield porta in grembo.»
Tentai di essere più professionale possibile, evitando strafalcioni o nomignoli. Per quanto odiassi quella donna, dovevo rimanere calma per Simo. Non era una situazione facile né per me né per lui, ma per adesso avrei mantenuto il mio segreto.
«Dannazione,» ringhiò, mettendosi le mani tra i capelli. «Stupido! Stupido! Stupido!» gridò, picchiandosi violentemente la fronte. Cercai di fermarlo in tutti i modi, di evitare che si facesse male così lo strinsi forte al petto evitando che infierisse su se stesso.
«SMETTILA!» urlai disperata. Sentii le lacrime salirmi agli occhi perché non avrei mai immaginato una reazione del genere. Simone era sempre stato quello sorridente, quello che ironizzava su tutto e addirittura trovava il lato positivo e scherzoso di ogni cosa. Io ero la metà più realistica, tragica e addirittura noiosa.
Il calciatore si calmò, stringendomi a sua volta. «Mi dispiace,» sussurrò.
«Non fa niente, tranquillo, sono cose che capitano. Basta che non lo ripeti mai più perché mi hai spaventato.»
«No,» ripeté serio, alzando lo sguardo. «Mi dispiace per te.»
Cosa voleva dire con quelle parole? Non capii di cosa si stesse scusando e frettolosamente ripensai a qualunque cosa fosse successa.
«Non capisco…»
Mi prese il viso con una mano, accarezzandomi con il pollice delicatamente. «Se solo ti avessi incontrata prima,» mi confessò. Avevo il cuore che mi batteva a mille e lo stomaco completamente attorcigliato su sé stesso. «Sarebbe stato tutto diverso e non mi sarei trovato in mezzo a questo casino. Mi dispiace soprattutto per te Ven, che nonostante i nostri alti e bassi e il mio carattere di merda continui a supportarmi.»
Si era ammattito tutto insieme? Lo avevano forse rapito gli alieni? Sedato? Magari gli avevano fatto il lavaggio del cervello!
Devi ammettere che questa versione ti piace…
Sorrisi, con gli occhi lucidi. «Non devi scusarti,» replicai. «Innanzitutto non ci conoscevamo quindi se la situazione si fosse svolta in modo differente magari a quest’ora saremmo stati dei completi estranei. Inoltre, non puoi cambiare il passato e in questo caso possiamo soltanto rimediare agli errori, anzi ti dirò che forse non è nemmeno totalmente colpa tua.»
Lui alzò un sopracciglio dubbioso. «Cioè?»
Spiegai a Simone quello che avevamo scoperto io e Jamie quei giorni di intensa attività investigativa. Gli parlai del giornalista, di Mr. Wright e di quello che era successo cinque anni fa e di cui nessuno sapeva praticamente nulla.
«Hai capito la stronza…» concluse lui, esprimendo appieno anche i miei pensieri.
«Non cantare vittoria,» lo fermai subito. «Questo caso ha troppe somiglianze con quello precedente ma purtroppo non possediamo alcuna prova concreta. Domani dovremmo incontrare Mr. Wright e speriamo ci possa dare qualche informazione in più. A questo punto tutto può essere, non dobbiamo escludere a priori la possibilità che la Cloverfield non sia davvero incinta.»
Simone scosse il capo. «Se solo ricordassi qualcosa di quella dannata notte!» ringhiò.
Gli dissi pure del Desire e di Mrs. Finchel, di come tutto quadrasse con ciò che aveva detto la giraffona. «Abbiamo due testimoni che hanno visto te ed Elizabeth insieme quella sera, per cui fino a prova contraria l’hai condotta nel tuo appartamento.»
Cominciarono ad affiorare brutti pensieri associati a quella notte. Immaginai Simone ed Elizabeth insieme, avvinghiati l’uno all’altra, mentre facevano l’amore per tutto l’appartamento.
Magari anche sul divano dove sei seduta te.
Rabbrividii e decisi di alzarmi e andare in cucina per prendermi una tisana. Di sicuro mi avrebbe calmato i nervi.
«Sicura che va tutto bene?» mi chiese di nuovo, vedendomi strana.
Ormai era impossibile nascondergli qualcosa. Simone riusciva a percepire ogni variazione del mio umore, anche il più piccolo tremolio della voce, per cui era quasi inutile mentire.
«Nulla di importante,» tagliai corto.
Dovevo evitare di tirare fuori il mio lato da ragazzina gelosa, soprattutto dopo mesi passati a vivere insieme in quell’appartamento. La verità era che mai avevo pensato così nello specifico a quella notte. Per me era come se non fosse mai accaduta, se fosse stata unicamente la fantasia di una pazza.
Simone decise di raggiungermi e piazzarsi tra me e il bancone della cucina. «Venera,» disse serio, enfatizzando il mio nome particolare. Era già la seconda persona in quella giornata che mi chiamava per intero, facendomi capire quanto importante fosse quel momento.
«Presente!» sdrammatizzai, ridacchiando.
Anche lui si fece una risata, ma fu appena un accenno. «Stronzate a parte, vuoi dirmi perché ti sei incupita tutta insieme?»
Scrollai le spalle con il broncio, fissando il pavimento nemmeno fossi una bimba di cinque anni. Ero triste per il processo, per le analisi, per quello che avrei dovuto dirgli in merito al mio lavoro e per quello che c’era stato tra lui e la giraffona. Mi urtava. Provavo un immenso fastidio perché era palese che voleva soltanto approfittarsi di lui e se l’avessi avuta tra le mani, giuro su Dio che l’avrei strangolata.
«Veeeeeeeeeen!» m’incalzò il calciatore.
Sbuffai sonoramente, irritandomi. «Sono infastidita da quella, da tutto! Dal perché l’hai portata a casa, l’hai baciata, ci sei andato a letto. Mi da fastidio che quella maledetta ti sfrutti senza pagare e non provi alcun rimorso per quello che ha fatto. La odio!»
Ecco, quello era un degno riassunto – un po’ caotico – di tutte le mie sensazioni al momento.
Simone sbarrò gli occhi, alzando le mani in segno di resa. «Okay, diamoci una calmata. È meglio che forse ne prepari due litri di quella tisana. Ti deve forse venire il ciclo?»
A quella parola sbiancai. «Ehm, no, n-non credo, che dici?»
Sorrise. «Era tanto per dire, eh. Mi sembri abbastanza nervosetta.»
Tirai un sospiro di sollievo. Per un attimo avevo pensato che Simone possedesse davvero un quoziente intellettivo tale da permettersi di fare due conti e capire che non c’era stata nessuna pausa tra i nostri rapporti intimi dovuta alle mie cose.
Beati gli uomini che riescono ad avere un pensiero alla volta, massimo.
Simone sembrò divertito da tutta quella situazione. «Che hai da ridere sotto i baffi?» gli chiesi sospettosa. Possibile che trovasse quel mio sfogo così divertente? Forse mi ero esposta troppo lasciandomi andare ai sentimenti…
«Oh piccola Vennie-Pooh,» disse, abbracciandomi stretta. I nostri fianchi si sfiorarono provocandomi un brivido. «Mi piace saperti gelosa.»
Se non mi avesse tenuta stretta al suo corpo, giuro che lo avrei preso a schiaffi. L’essere così fragile non era da me, non ero abituata nemmeno a quegli scatti improvvisi o cambi d’umore. Forse stavo cambiando anche caratterialmente, mi stavo aprendo di più. Ben presto le parole di James mi tornarono alla mente e pensai che presto o tardi avrei dovuto affrontare la questione della separazione momentanea. Mi lasciai andare tra le braccia di Simone, soffocando tutte quelle voci che mi dicevano di prendere in mano la mia vita e trovare il coraggio solo che in quel momento non ne ebbi la forza. Prima o poi sarebbe arrivato quel giorno, ma non era oggi.
Lo sentii sbadigliare sonoramente e alzai lo sguardo oltre il suo petto. «Vuoi andare a nanna, eh, piccolino?» ridacchiai, prendendolo anche un po’ in giro. Lui mi fissò con quegli occhi che parevano appartenere ad un altro mondo, non al nostro.
Senza dire una parola, mi prese per mano e mi condusse verso il corridoio, in direzione della camera da letto. L’idea di dormire mi allettava, anche perché dopo quella giornata piena ero sinceramente esausta. Dentro di me, però, ancora si muoveva qualcosa. Era come se, sotto la pancia, avvertissi un calore inaspettato, come se una creatura antica e dormiente si stesse svegliando all’improvviso donandomi una strana voglia.
«Sono esausto,» sbadigliò Simo, cominciando a spogliarsi. Il vederlo al centro della camera da letto, la nostra ormai, con indosso soltanto un paio di slip mentre nella penombra della stanza potevo intravedere ogni singolo muscolo che guizzava sotto la pelle chiara e delicata mi fece rabbrividire. Quel famoso mostro che abitava dentro di me incominciò a prendere ulteriormente possesso del mio corpo.
Che ti è preso stasera?
Non ero mai stata un tipo voglioso. Le mie relazioni le avevo avute, certo, anche se si potevano contare sulle dita di una singola mano, eppure non avevo mai incontrato nessuno che mi scatenasse tutte quelle pulsioni. E in quelle ultime settimane erano notevolmente aumentate, senza che mi spiegassi il perché.
C’è sempre un problemino che stai trascurando…
Zittii il mio cervello e pensai che era giunto il momento che si facesse un po’ di affari suoi. Spensi ogni funzione cognitiva perché volevo godermi quel momento, anche se non avevo mai preso l’iniziativa in ogni rapporto che avevamo avuto.
Finsi uno sbadiglio. «Awwwwwwwwwnche io!» e mi coricai velocemente sotto il piumone per tentare di spegnere l’imbarazzo. Simone poteva anche non avere idea di cosa stessi pensando, ma la mia mente andava a briglia sciolta. Pensai alle più svariate trame, degne di un film di Tinto Brass, ma avrei dovuto raccogliere molto coraggio per metterle in atto. Nel frattempo, il mostro nella mia pancia continuava a scalpitare inquieto.
Simone mi fissò perplesso. «Stai proprio diventando vecchia!» e si riparò immediatamente alzando un gomito perché, prevedendo un’offesa partita da quella bocca da piccola serpe, avevo afferrato una pantofola e gliel’avevo lanciata dritta in faccia.
«La prossima volta miro in mezzo alle gambe e ti eviro!» sibilai offesa.
Simo mi fissò con quegli occhi da gatto persiano e iniziò a gattonare sul letto, in maniera davvero provocante. Riusciva a sorprendermi in ogni suo comportamento, sia che fosse serio o triste, sia quando prendeva l’iniziativa nella nostra relazione.
Era una sorpresa continua.
«Non ti conviene, so che ormai tu e lui siete diventati migliori amici…» insinuò, facendomi rabbrividire. Sentii ogni cellula del mio corpo vibrare a quelle sue parole e d’istinto chiusi le gambe avvertendo i miei lombi pulsare di desiderio.
«Smettila di darti tante arie,» lo rimproverai.
Per quanto avesse ragione su ciò che stava dicendo, dovevo mantenere il controllo. Volentieri mi sarei lasciata andare quella notte, forse anche prima che Simone si svegliasse, ma il mio carattere mi imponeva di tenergli sempre testa senza mai lasciarmi andare.
Il calciatore si infilò sotto il piumone, facendo finta di essere offeso. Capitava spesso che smorzassi il suo desiderio comportandomi in maniera così acida e scontrosa, però avevo deciso che quella notte sarebbe stato di nuovo mio, a tutti i costi. Almeno prima di raccontargli cosa lo studio mi avrebbe costretta a fare, dovevo soddisfare – forse egoisticamente – un mio bisogno fisico e personale di lui. In verità, mi sarebbe mancato in tutto ma non potevo dirglielo o la separazione sarebbe stata impossibile.
«Ti sei offeso?» gli dissi, strisciando piano piano sotto le coperte.
«Pfffff,» disse imbronciato, scostandosi.
Sapevo che lo stava facendo apposta. Per quanto poco conoscessi gli uomini, capivo quando Simone aveva bisogno di attenzioni, peggio di una ragazza. «E dai,» insistetti, facendomi sempre più vicina e allungando le mani verso i suoi fianchi atletici. «Non tenermi il broncio oppure divento triste…»
Quella sceneggiata diventava sempre più divertente. Era come se i nostri ruoli si fossero invertiti, come se Simone fosse la ragazza offesa e irritabile, che non voleva fare sesso, mentre io ero il ragazzo arrapato fradicio.
Cosa che in realtà sei per davvero, da ben una mezz’ora.
La fortuna di noi ragazze, per l’appunto, era proprio quella. Nonostante fossimo notevolmente eccitate, nulla di visibile poteva dimostrarlo ad un occhio inesperto.
Simone smise di muoversi, anche perché il materasso era giunto alla fine.
A quel punto avrei dovuto attaccare, senza ulteriori indugi, altrimenti quella sera sarei andata in bianco e a giudicare dal mostro della mia pancia non potevo affatto permettermelo.
«Cosa c’è qui?» dissi sorridendo.
Simone poteva fare l’arrabbiato quanto voleva, avrebbe potuto tenermi il broncio a vita, non rivolgermi mai la parola, tenermi lontana ma le reazioni del suo corpo lo avrebbero sempre tradito. Non appena la mia mano aveva accarezzato dolcemente i suoi fianchi, scivolando sul pube, aveva trovato con soddisfazione un’erezione impossibile da nascondere.
E lui sussultò subito a quel tocco, voltandosi e incontrando il mio viso.
Aveva gli occhi lucidi, le iridi tipiche di chi era in uno stato di eccitazione quasi incontrollabile. Oserei dire animale. Nessuno aveva mai reagito al mio corpo in quel modo, nessuno mi desiderava così tanto che addirittura il saperlo mi provocava dolore.
Si voltò stringendomi e cercando subito le mie labbra. Mi morse per violare la mia bocca con la sua lingua, in fretta, quasi come se avessimo un tempo limite per consumare quella notte d’amore. E in effetti mi sentii proprio braccata. Era come se quella fosse l’ultima volta in cui potevamo essere felici, in cui avremmo potuto goderci la nostra passione senza che la realtà ci piovesse addosso come un’incudine.
Il rumore di baci tiepidi riempì la stanza, insieme ai gemiti che lentamente uscivano dalla mia bocca non appena lui trovò le mie mutandine umide. Il mostro nella mia pancia cominciava ad essere soddisfatto, ma voleva di più.
Tornai con la mano a stuzzicare la sua erezione, sempre più grande e turgida, tanto che riusciva ad uscire da sola dagli slip, senza alcun bisogno di toglierli. «Hai visto che effetto mi fai?» mi disse, con le labbra gonfie di baci e di morsi e i capelli completamente stravolti.
Non gli risposi.
Anzi, lo spinsi supino sul materasso e mi sedetti a cavalcioni su di lui imponendo la mia supremazia come il mostro mi aveva suggerito. Quella notte mi sarei presa tutto da Simone, lo avrei consumato fino all’ultima goccia vitale che aveva da offrirmi. Mi comportai come se quella fosse l’ultima notte che avremmo passato insieme.
Mi sedetti sulla sua erezione, rabbrividendo quando entrò in contatto con la mia intimità. Ci fu un contatto elettrico che mi diede quasi la scossa, ma non persi tempo e mi chinai a cercare le sue labbra per distruggerle ancora.
Avvertii le sue mani sul mio sedere, lo stringevano forte quasi a lasciarmi dei lividi ma non mi importava. Simone mi offrì la sua lingua ed io la succhiai dal fondo verso la punta, simulando un rapporto orale che lo fece mugolare di desiderio. «Mi stai uccidendo,» disse con voce strozzata.
Per un attimo decisi di mettere da parte la vecchia Venera e di spegnere per un attimo il cervello, lasciandomi andare solamente all’istinto. «Voglio farti tutto quello che vuoi,» gli sussurrai all’orecchio, cominciando a dondolare sulla sua erezione procurandogli brividi di piacere. «Ordinami quello che vuoi ed io lo farò.»
Mai nella mia intera esistenza avevo permesso ad un uomo di comandarmi, né a mio padre né tantomeno ai miei amici o ai miei fidanzati. Quella notte volli provare per la prima volta a lasciarmi andare, a sottostare a degli ordini come spesso piaceva agli uomini.
Potevi dargli direttamente il frustino o il gatto a nove code.
Scossi la testa. Non si trattava di sadomaso o altre pratiche piuttosto ridicole, volevo soltanto compiacere Simone fino ad ogni sua piccola fantasia più recondita.
Sentii le sue mani stringermi le natiche, allargarle per fare spazio all’erezione che avvertii pulsare. «Sicura di ciò che hai detto?» mi chiese, dandomi la possibilità di tornare sui miei passi.
Mi bastò un colpo di fianchi per farlo sibilare e soffrire. «Se me lo chiedi di nuovo ti lascio qui con il problema da risolvere cinque contro uno, eh,» lo minacciai.
Non serviva che mi chiedesse conferma di ogni cosa che dicevo. Ero adulta e vaccinata, sarei andata in contro alle conseguenze che quella decisione avrebbe comportato. Come, del resto, tutte le scelte che avevo intrapreso nella mia vita.
Mi fece cenno di abbassarmi così mi chinai per raggiungere con l’orecchio la sua bocca. Sentii l’umido della saliva circondare la conchiglia e rabbrividii. In seguito Simone prese il lobo del mio orecchio tra le labbra e lo succhiò. La mia mente non poté che immaginare quelle morbide labbra attorno alla mia intimità, mentre erano occupate a farmi urlare di piacere.
«Voglio leccarti, Vennie-Pooh,» sussurrò con voce roca. «Voglio assaggiare il tuo miele.»
Alzai lo sguardo solo per bearmi di quegli occhi lucidi e di quelle guance arrossate che suggerivano uno stato di eccitazione mai raggiunto prima.
«Tutto quello che vuoi,» dissi, scendendo dai suoi fianchi e mettendomi a mia volta supina sul grande letto a due piazze. Simone mi fu subito sopra, alzando la maglia del pigiama e cominciando a baciarmi il ventre.
D’istinto mi coprii quella parte, quasi fosse più importante della mia stessa intimità o del seno, ma la percepii come vulnerabile. Pensai come se da un semplice contatto, Simone potesse accorgersi o capire che c’era qualcosa di diverso in me, anzi, che lì in mezzo a noi ci fosse qualcuno.
«Ehi,» mi disse, cercando il mio sguardo.
«Mh?» mugugnai, imbarazzata.
Scivolò su di me per regalarmi un tenero bacio. «Devi fidarti, dopo tutto questo tempo è ora che ti fidi di me.»
Il cuore mi batté all’impazzata perché non sapevo come reagire. Ben presto tutti quei pensieri negativi, il caso giudiziario, la giraffona, le analisi del sangue e la separazione da Simone sembrarono sciocchezze rispetto a ciò che stavo provando. Il mio cervello si spense nel momento esatto in cui la sua lingua umida si posò sul mio clitoride bollente.
Fu in quel momento che il mio cervello si spense definitivamente e non pensai ad altro che a godere. Eliminai ogni tipo di stress, ogni preoccupazione o pensiero che potesse rovinare quel momento di estasi in cui avvertivo soltanto le mie grida nel silenzio dell’appartamento.
Simone mi fissava soddisfatto dal basso, con le labbra intente a succhiare, mordere, seviziare la mia intimità senza alcuna pausa. Allungò la mano soltanto per carpire il mio seno e strizzarlo, mentre io stessa mi occupavo dell’altro cercando di non fare troppo rumore.
Ma era difficile.
Come avevo sempre sostenuto, Simone era bravo ad usare la lingua.
Che si trattasse di offendere, sputare sentenze, auto elogiarsi oppure praticare sesso orale, ci sapeva davvero fare.
«Oddio ti prego, lì, continua ti prego.»
Non riuscivo nemmeno più a collegare il cervello alla bocca. Mi venivano in mente soltanto quelle tre parole che ripetevo di continuo, a volte anche senza filo logico.
Simone sorrise e mi afferrò una mano, portandosela tra i capelli scompigliati.
«Stringi,» mi impose.
Quel particolare contribuì ad eccitarmi ancora di più. Voleva che gli tirassi i capelli, che gli spingessi violentemente la testa tra le mie gambe ed esigessi di più. Ancora una volta i ruoli si erano invertiti, ma forse in una coppia c’era questo bisogno di primeggiare una volta per uno, dando una scossa al rapporto.
Obbedii. Passai lentamente le dita tra i suoi morbidi capelli, poi strinsi forte. Avevo paura di fargli male, ma quando avvertii un mugolio di piacere capii che tutto ciò che avrei dovuto fare era stringere e donargli ancora più brividi.
«Se continui così, vengo,» lo avvertii.
Simone smise soltanto quell’attimo necessario per guardarmi. «Meglio,» e poi più nulla. Rovesciai gli occhi all’indietro e avvertii quel tipico calore nel basso ventre. Portando una mano alla bocca, sperando che i vicini non sentissero le mie grida, arcuai la schiena e raggiunsi l’orgasmo tanto agognato.
Simo continuò a massaggiarmi, lasciandomi lente e piacevoli ondate di piacere.
«Come va?» sorrise.
Aveva le labbra gonfie e umide, ma non m’importò. Raccolsi le ultime energie che avevo e cercai la sua bocca tentando di ringraziarlo silenziosamente. Ormai avevo imparato che un rapporto doveva funzionare per il 50% fuori dal letto e per l’altra metà dentro. Il troppo dell’uno o dell’altro avrebbe rovinato l’equilibrio.
«Mmmm,» mugugnai soddisfatta, avvinghiandomi a lui come un koala.
«Mi merito il momento coccoloso?» ridacchiò.
Sorrisi beffarda, quasi un po’ come lui mi aveva insegnato. «Oh beh, se ti accontenti soltanto di quello…»
Avevo voglia di torturarlo ancora un po’, facendo la difficile. Sapevo di avere un “conto in sospeso” con lui, soprattutto dopo le meravigliose sensazioni che mi aveva dato, ma adoravo vederlo imbronciarsi.
«Eh no, ora non scappi!» ridacchiò, cercando di farmi il solletico.
Sgusciai fuori dal letto e mi misi a correre attorno alla stanza in prenda all’isteria, urlando come una bambina. Con lui mi sentivo così, come se avessi ancora cinque anni e credo proprio che stare in sintonia con una persona significasse proprio quello.
Anime gemelle.
Mi distrassi quel millesimo di secondo per perdere di vista Simone. Con due falcate mi raggiunse e mi schiacciò tra lui e il letto, sghignazzando. «Presa.»
E a quel punto ricambiai molti e molti favori, anche se non glieli dovevo.
Dunque, dunque!
Eccoci a lunedì, eccoci con un nuovo capitolo! Dalle recensioni ricevute, molte mi hanno chiesto quanti capitoli mancano e siamo a 26/31, quindi ne mancano 5 più o meno.
Beh cosa dite? Vi è piaciuto? State apprezzando il risvolto ''investigativo'' della storia? Io sinceramente sto continuando ad amare Simone e Venera, il loro percorso, come sono cresciuti e come sono cambiati caratterialmente dall'inizio della storia. Voi?
Fatemi sapere :3
Ci vediamo a lunedì prossimo!
Marty
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Capitolo 29 *** Capitolo 27 ***
Capitolo 27
Sesso.
Sesso, sesso, sesso, fame, fame, sesso, sesso, dormire, sesso, fame, sesso.
Le uniche cose a cui riuscivo a pensare in quei giorni successivi mi stavano mandando ai matti. D’accordo che la notte trascorsa insieme a Simone era stata wow, non potevo di certo lamentarmi, ma non mi era mai capitato di avere più della metà della mia concentrazione completamente assorbita dal sesso.
«Smettila!» dissi alla me stessa riflessa allo specchio, un po’ sudaticcia.
Ero alla Abbott&Abbott da quella mattina alle 8, ma era come se fosse piena estate. Nemmeno quando mia madre aveva attraversato il suo periodo di menopausa aveva avuto tante vampate, inoltre pensavo a Simone ogni istante della mia giornata.
Persino stamattina la marmellata sulla fetta biscottata che stavo mangiando aveva una parvenza del suo sguardo più ammiccante.
Sto impazzendo.
Uscii dal bagno sperando che la mia giornata migliorasse. Saremmo dovuto andare da George Wright, nella speranza che alcuni dei suoi avvocati avessero avuto il buon senso di conservare delle carte probabilmente non giunte nelle grinfie della Cloverfield.
«Ehi, spaghetti-girl tutto bene?» mi domandò James, comparendo alle mie spalle.
Per poco non mi strozzai con un po’ di saliva. «C-Certo, benissimo!» ridacchiai nervosa.
Ci dirigemmo nel suo ufficio, cercando di sistemare al meglio le carte e organizzare le giuste domande da fare all’attore senza incappare in delle figuracce da principianti.
«Tutto risolto?» mi domandò di punto in bianco l’avvocato.
Alzai un sopracciglio confusa. Non sapevo se si stesse riferendo alle carte, oppure a qualcos’altro. «Cosa intendi?»
James si fece serio. «Beh lo sai, mi riferisco a quella faccenda che è meglio che non si sappia,» specificò, mormorando l’ultima frase a bassa voce. Quando tentavo in tutti i modi di scacciare quel pensiero, Jamie tornava a tormentarmi proprio come avrebbe fatto il grillo parlante con Pinocchio.
Era un po’ la voce della ragione, quella parte di Ven che avevo smarrito stando a stretto contatto con quel decerebrato di Simo.
Che però ti scopa da Dio!
Dannazione smettila!
«Ci sto lavorando,» mentii.
James si accontentò ben poco di quella risposta solo che avrebbe dovuto anche capire che non era facile. Non potevo entrare in casa e dire a Simone che era meglio non vedersi più, almeno fino alla fine del processo, perché altrimenti il mio capo avrebbe potuto licenziarmi.
«Spero che risolverai presto.»
Sarebbe stato tutto da vedere. Purtroppo l’intenzione di fare qualcosa c’era, ma una volta che mi trovavo faccia a faccia con il calciatore ogni mia sicurezza vacillava e il mio intero essere si abbandonava a lui senza lasciarmi scampo. Era come una droga. Tante volte avrei ripetuto a me stessa di prendermi questa pausa, di “smettere” con Simone, ma ogni singola occasione era buona per ricascarci.
You’re an addict.
«Te lo prometto,» lo rassicurai.
James mi stava facendo un grandissimo favore comportandosi in questo modo, facendo sì che avessi ancora una chance di diventare socia dello studio ma non potevo sfidare troppo la fortuna. Già avevo Yuki che mi alitava sul collo, figuriamoci se qualcuno dei tirocinanti avesse scoperto qualcosa e lo avesse detto a Mr. Abbott.
Non avrei avuto scampo.
«Tutto pronto? Andiamo.»
Uscimmo dall’ufficio diretti a Chelsea, uno dei quartieri nuovi e più in della Londra borghese. Le palazzine bianche sfilavano l’una accanto all’altra, quasi si tenessero per mano, ed ognuna aveva una piccola scalinata con tanto di corrimano, protetta da un cancelletto in ferro battuto.
Tutte ville identiche l’una all’altra, quasi progettate in serie.
Tra tutte quelle case pressoché identiche ne spiccò una in particolare, diversa dalle altre, costruita in puro stile underground con i tipici mattoni rossi.
«Eccoci qui,» disse James, controllando meglio l’indirizzo sullo smartphone.
«Abita qui?!» domandai sorpresa.
L’avvocato annuì. Non era certo stupito quanto la sottoscritta ma ero abituata all’idea che le star vivessero tutte quante in mega ville con tanto di piscina olimpionica. Feci spallucce e decisi di seguire James fino alla porta d’ingresso.
Ad aprirci fu un maggiordomo tutt’altro che “normale”: aveva una lunga e folta barba brizzolata, quasi come un motociclista di Harley Davison americane, ed era completamente pelato. Indossava addirittura un gilet di pelle ed era a petto nudo. Diciamo che la vista di quell’uomo mi aiutò a superare le vampate di calore di quella mattina.
«Siamo qui per Mr. Wright,» disse James cordialmente.
Pensai che se alla porta si fosse presentata la regina madre in bikini, Jamie non avrebbe ugualmente battuto ciglio. Era una statua di sale quando si trattava di lavoro, era come se smettesse i panni bonari da ragazzo inglese di buona famiglia e si vestisse soltanto da avvocato.
«Seguitemi,» mormorò l’uomo-motociclista.
«Per quale motivo è conciato così?» chiesi sotto voce a James, sperando che il tizio non mi sentisse.
Lui ridacchiò divertito. «Si vocifera che George Wright abbia attraversato numerosi “periodi” della sua vita, ognuno dei quali caratterizzato da uno stile diverso. Si circondava addirittura ogni volta di persone affini all’ambiente che lui stesso aveva scelto.»
«Una sorta di Picasso dei giorni nostri,» pensai. «Solo che al posto dei colori, ha scelto l’underground.»
Il particolare maggiordomo che il signor Wright aveva assunto ci fece fare quasi tutto il giro della casa, fino a raggiungere lo studio dell’attore. Avevo letto che dopo essere stato sulle copertine di ogni giornale grazie all’impennata che ebbe recitando per una famosa serie tv della BBC, si ritirò quasi a vita privata e nessuno ne sapeva il motivo…
…tranne me, James e Bastian Force.
«Prego,» disse l’ometto, bussando alla porta.
Dall’altra parte si udì una voce che disse “Avanti” e non indugiammo oltre.
L’ufficio del signor Wright non era proprio come me lo aspettavo. Non che avessi mai conosciuto un attore famoso, ma mi ero sempre immaginata un’abitazione piena di poster dei più grandi successi ottenuti, insieme a premi, riconoscimenti e quant’altro. Lì invece gli unici trofei presenti erano disgustose teste di animali impagliati, schizzi di tatuaggi sparsi sul pavimento e un nauseabondo puzzo di sigaro.
«Quale piacere!» ridacchiò un uomo seduto dietro una grande scrivania di legno, su cui aveva poggiato i piedi fasciati da enormi stivali di pelle. «Conosco tuo zio da un sacco di anni ma non mi aveva mai parlato di te, James.»
Rimasi allibita, era come se si conoscessero da anni. «Mr. Wright, sono riconoscente che abbia accettato ad incontrarci, nonostante i suoi impegni.»
George Wright era innegabilmente un bell’uomo, o almeno lo era stato. Di tempo ne era passato poco, perché cinque anni non cambiano radicalmente un uomo, ma nelle foto che avevo visto era molto più curato. I capelli non avevano taglio e si cominciavano ad intravedere delle striature bianche, per non parlare poi della bandana di cattivo gusto con cui li aveva acconciati.
Pareva un pirata.
Stessa cosa la barba: era un principio di nido per uccelli, con tanto di rametti incastrati tra i riccioli. Tutto ciò non sembrò affatto turbare James, che come al solito rimase pressoché impassibile.
«Prego sedetevi,» ci disse cordiale, poi si rivolse al “maggiordomo”. «Charles, potresti portare qualche bottiglia di birra e del brandy? Oggi ci sono degli ospiti importanti, bisogna festeggiare con roba buona!»
Sgranai gli occhi. Non erano nemmeno le undici del mattino e quel pazzo già beveva del brandy? Scossi la testa completamente stupita.
«Bene, bene,» gli occhi dell’attore si posarono su di me. «E tu chi saresti, splendida creatura?»
Un brivido mi percorse lungo la schiena. «V-Venera Donati, signore.»
Mr. Wright scoppiò in una rauca e forte risata che rimbombò per tutta la casa. Mi fece addirittura saltare sulla sedia dallo spavento. «Signore?» e continuò a ridere senza sosta.
Cosa avevo detto di male, tentavo di essere cortese.
«Hai sentito James? Per caso quanti anni mi da questa qui!»
Ecco, da “splendida creatura” ero passata a “questa qui” in un battito di ciglia.
James tentò di intervenire. «Venera viene dall’Italia e quando si è trasferita qui a Londra non conosceva molto la cronaca mondana.»
Mr. Wright mi analizzò con lo sguardo. Nonostante l’aspetto trasandato e cespuglioso, le sue iridi erano molto espressive. Di un grigio-verde quasi color fumo, pensai fossero occhi che ne avevano viste tante, anche se non aveva molti più anni di me.
«Sono una collega di Mr. Abbott, comunque,» puntualizzai, sperando di non passare in secondo piano. «Lavoro per lo stesso studio.»
O comunque ci spero.
George Wright unì i polpastrelli delle dita l’uno all’altro, osservandomi. Sperai davvero di aver recuperato punti ai suoi occhi, dal momento che quello sarebbe stato il testimone chiave per la riuscita del nostro processo.
«E mi dica, signorina, a cosa devo questa visita?»
Di punto in bianco smise di rivolgersi a James e fu come se fossimo soltanto io e lui nella stanza, faccia a faccia. Era un test ed io lo sapevo. Cominciai ad essere nervosa, a torturarmi il labbro con piccoli morsi ma dentro di me sapevo che quella sarebbe stata l’unica chance di concludere qualcosa.
Prima di rispondere fece il suo ingresso Charles con tre Corona e un bicchiere di Brandy con il ghiaccio su un vassoio. Pensai per un attimo che una bibita fresca mi avrebbe schiarito le idee, perciò afferrai fulminea la bottiglia per portarla alle labbra ma la mano di James si frappose.
Lo guardai esterrefatta.
«Tranquillo, avvocato,» ridacchiò rocamente Wright. «La signorina ha ventun’anni e nessuno di noi andrà in galera per una birra.»
Jamie mi ammonì con lo sguardo. «Fino a quando non avrai quei risultati, questa la prendo io.»
A quella parola, compresi l’apprensione dell’avvocato. Non che fossi molto pratica, ma in genere alle donne in stato interessante era caldamente consigliato evitare di bere o di fumare. A tal proposito, stavo per infrangere la prima regola.
Wright sembrò non capire quel nostro linguaggio fatto di sguardi.
«Torniamo a noi,» disse sbrigativo. «Qual è il motivo per cui siete qui?»
L’espressione bonaria e scherzosa che l’attore aveva adottato all’inizio, stava lentamente scomparendo. Era come se la nostra presenza gli sottraesse del tempo prezioso, quasi doveva fare chissà che cosa.
James intervenne. «Siamo qui per farle delle domande riguardo Miss Elizabeth Cloverfield.»
A quel punto vidi nettamente il cambio di luce negli occhi di Wright. L’allegria iniziale era del tutto scomparsa, lasciando il posto all’ira cieca di un uomo che ancora non ha superato un tradimento.
«Fuori!» ringhiò, senza nemmeno darci il tempo di spiegare.
«Ma signor Wrigth…» lo invitò James, implorandolo di ragionare.
«Charles! Accompagna i signori alla porta e sprangala per bene!»
Una reazione di quel genere non me la sarei mai aspettata, soprattutto da qualcuno che era sempre stato abituato a trattare con il pubblico. Vidi la mia unica speranza di aiutare Simone scivolare per sempre dalle mie mani senza che potessi fare nulla per stringerla. Vidi il maggiordomo alternativo accompagnarci alla porta, l’ultimo sguardo all’androne dove l’attore ci guardava con occhi furenti e il volto di James sconfitto.
«La prego!» implorai, ma fu del tutto inutile.
Non appena il portone blu cobalto ci venne sbattuto letteralmente in faccia, realizzai che ogni speranza che avevo nutrito per quell’incontro era stata vana.
«Non avrei mai potuto immaginare che fosse ancora così scosso,» ammise James.
Nessuno dei due riusciva a scostarsi dal pianerottolo. «Dunque, è finita?» chiesi, terrorizzata dalla risposta.
L’avvocato mi fissò con quelle iridi piene di rammarico. «Mi dispiace Ven, ma non possiamo insistere. Potrebbe denunciarci…»
I personaggi dello spettacolo avevano molte armi dalla loro parte, tra cui le famose querele o denunce se per caso si violava la loro privacy. Ricordo di aver studiato molti casi di fotografi un po’ troppo curiosi, che si erano appunto beccati dei richiami in tribunale. James, poi, non poteva permettersi nulla di ciò altrimenti il nome dello studio ci sarebbe andato di mezzo e niente come la cattiva pubblicità distruggeva le piccole imprese.
Sospirai sconfitta. «E ora che facciamo?»
Se anche ci fosse stata la benché minima speranza di chiedere a George Wright di testimoniare, non appena avevamo nominato il processo di cinque anni fa, l’attore aveva avuto una reazione spropositata. Nemmeno tra mille anni avrebbe testimoniato. Avrei dovuto fare qualcosa, trovare una soluzione. Avevo detto a Simo che eravamo ad un punto di svolta, soprattutto dopo aver saputo che i risultati del St. Charles confermavano la tesi dell’accusa.
Mi veniva da piangere. Devo trovare qualsiasi cosa.
Sentii la mano di James stringersi attorno al mio polso tremante. «Non c’è più niente da fare, se Mr. Wright non ha intenzione di testimoniare o non possiede alcun documento che risalga a quel processo, siamo d’accapo. Credo che a questo punto sia meglio tornare a studio.»
Tornare alla Abbott&Abbott equivaleva ad una sconfitta per me. Con quale coraggio avrei detto a Simone che era tutto perduto? Quale forza avrei avuto di lasciarlo senza alcuna garanzia per il suo futuro? E poi avrei avuto le chance minime di diventare socia dello studio, una volta persa la causa.
Quella storia era tutto per me, valeva troppe cose.
«Vieni con me?» mi chiese James, dirigendosi verso la fermata della Tube.
Scossi il capo, un po’ forse impuntandomi come una ragazzina. «Io non mollo, James. Ho troppe cose in ballo per questa storia. Al di là della causa o del mio posto nello studio, lo devo a Simone. Gliel’ho promesso.»
James parve comprendere. «È fortunato,» sospirò solamente. «Molto fortunato.»
Era appena passata l’ora di pranzo e la fame cominciava a farsi sentire. Presi un kebab dietro l’angolo e continuai a tenere sotto osservazione la palazzina di Mr. Wright. Sapevo che sarebbe uscito prima o poi, il problema era solo quando. Dovevo tentare a tutti i costi, anche se fossi parsa una stalker o altro. James non poteva prendersi denunce, ma io ero solo una tirocinante e non m’importava. Avrei fatto di tutto per vincere quella causa, per avere una speranza in più di farla pagare ad una donna che nemmeno meritava di essere nella mia stessa categoria.
«Uscirà, me lo sento,» dissi a me stessa, infondendomi coraggio.
Il sole di metà giornata mi riscaldava tiepidamente, lì sulla panchina dov’ero seduta e mi misi a pensare. La notte appena trascorsa era stata magica, così decisi di scrivere a Simone un messaggio che gli ricordasse quanto fosse stato straordinario.
Erano cose che si facevano, oppure no?
Evitai di indugiare oltre e afferrai il mio Blackberry, scoprendo amaramente che la batteria era completamente scarica. Talmente travolta dalle sensazioni della notte prima che avevo dimenticato di mettere sotto carica il cellulare.
Dannazione.
Per fortuna non aspettavo nessun tipo di telefonata importante, salvo forse i risultati delle analisi ma al momento non ricordavo quale indirizzo o numero di telefono avessi lasciato alla clinica.
«Ven! Cosa ci fai qui?»
Una voce familiare mi riscosse dai miei pensieri. Alzai lo sguardo e vidi una donna alta, con i capelli castani raccolti in un piccolo chignon e un sorriso talmente cordiale che era impossibile non rimanere imbambolati a fissarla.
«R-Rose?» dissi incredula.
La cognata di Simone mi sorrise ancora più raggiante. Era come se avesse visto chissà quale apparizione incontrandomi, e forse un po’ avevo dimenticato quale fosse il calore che univa per davvero la famiglia Sogno.
«È da parecchio tempo che non ci vediamo, forse Natale? Come va il lavoro? La convivenza? Tutto bene con Simone?»
Quella valanga di domande mi fecero smarrire. Non sapevo quanto Sofia avesse detto di noi ai suoi parenti, ma ormai mi ero stufata di mentire. Era innegabile che io e Simone stavamo insieme, per quanto poco potesse durare, alla fine lo avevo ammesso anche a me stessa.
«A casa tutto bene, diciamo,» cominciai, stiracchiando le risposte. «La causa è un po’ in stand-by, io e James ci stiamo lavorando, ma speriamo di risolvere al più presto.»
Gli occhi da cerbiatta di Rose sembravano come avere il potere di sciogliere il ghiaccio attorno al mio cuore e riuscivano a guardarvi dentro, senza nemmeno chiedere. «Capisco,» disse solamente.
Non sapevo se avesse intuito dalle mie parole che eravamo ad un punto morto con la causa di suo cognato, ma sperai con tutto il cuore che non mettesse il fratello di Simo al corrente della nostra disfatta.
«Tranquilla,» continuò, sedendosi più vicina e mettendo una sua mano piccola e delicata sulla mia, sporca di salsa del kebab. «Comunque vada questa storia, sei parte della famiglia e noi non ti abbandoneremo.»
In quel momento volevo soltanto piangere. In tutta sincerità non ero mai stata un tipo da lacrima facile, ma da qualche settimana a questa parte ogni mio cambiamento d’umore era rapidissimo e quasi doppiamente intenso.
«G-grazie, » risposi, un po’ con la voce rotta, ma non sapevo sinceramente cosa dire. Era la prima volta che mi sentivo “a casa” pur essendo così lontana da Tivoli e dalla mia vera famiglia. In Simone avevo trovato un compagno, qualcuno che mi sostenesse anche nei momenti più bui della mia giornata, ma nella sua famiglia avevo addirittura trovato quei fratelli che i miei genitori non erano stati in grado di darmi.
Rose sorrise e mi accarezzò le spalle, infondendomi sicurezza. «Una di queste sere potreste venire a cena da noi, Susanna mi chiede sempre della “zia con il nome strano”,» e ridacchiò sincera.
«Volentieri,» dissi, anche se d’improvviso mi tornarono alla mente le parole di James e la separazione che avrei dovuto affrontare per salvare la mia carriera. Un’ombra s’impadronì del mio sguardo e feci di tutto per allontanarla, in modo da non turbare l’armonia di Rose.
«Tutto bene?» mi domandò sinceramente preoccupata.
Scossi la testa. Nessuno doveva sapere di questa cosa, altrimenti avrebbero avvertito Simone e lui non mi avrebbe mai lasciata andare. Dovevo allontanarlo a modo mio, dandogli un motivo più che valido per odiarmi e poi sperare che mi desse ugualmente il suo perdono più avanti.
«Sto bene,» dissi subito, cercando di dissimulare la tristezza. Parlai della prima cosa che mi venne in mente. «Sono stata dal dottor Ross.»
Forse ero passata dalla padella alla brace. Gli occhi di Rosie si illuminarono, quasi potessero diventare più castani di quanto non lo fossero già di natura. Non capii il perché di tutto quell’entusiasmo, in fondo le avevo soltanto detto di essere andata da un medico.
«Qualche novità?» insistette.
Feci spallucce. «Niente di nuovo, mi ha solo prescritto delle analisi di routine, sai, con il lavoro, lo stress e tutto il resto. Magari mi ci vuole una vacanza!» sdrammatizzai.
Rose parve un po’ delusa, in effetti. Erano due le motivazioni: o sperava stessi per morire, ma era totalmente da escludere, oppure aveva capito qualcosa della mia probabile condizione ancor prima che io stessa me ne accorgessi.
Anche lei è mamma, genio. Avrà riconosciuto i sintomi.
Annaspai in cerca d’aria. Forse avevo detto troppo e mi stavo rovinando con le mie stesse mani. Per fortuna, proprio in quel momento critico, il portone blu della palazzina in mattoni rossi si aprì, rivelando un trasandato Mr. Wright che usciva per una passeggiata.
Per un attimo Rose scomparve completamente dalla mia attenzione. Ero totalmente focalizzata sull’attore e sul modo più razionale che avessi di chiedergli un’altra volta udienza.
«Ven?» mi chiese lei, ma la sua voce mi parve quasi un brusio lontano.
«S-Scusami, devo andare assolutamente,» dissi, attraversando la strada senza nemmeno guardare se arrivassero autovetture.
Mr. Wright era solo. Camminava a testa bassa, con la solita bandana calcata sul capo e la barba incolta che svolazzava ad ogni suo passo.
«Signor Wright!» gridai, quasi come una di quelle groupie che rincorrevano le star.
Un po’ mi era dispiaciuto lasciare Rose da sola senza alcuna spiegazione, ma ottenere un’altra possibilità con George Wright era di vitale importanza per la causa. Dovevo convincerlo a darci qualsiasi informazione utile e tangibile da portare in tribunale contro quella strega.
L’attore si voltò e non appena mi riconobbe, cambiò direzione. «Le ho già detto che non abbiamo niente da dirci,» insistette, adottando un passo veloce.
Velocizzai anche io i miei movimenti, cercando di raggiungerlo in breve tempo. «La prego Mr. Wright,» insistetti, ero determinata ad ottenere ciò che volevo, anche se mi fosse costata una denuncia per stalking. «Ci serve assolutamente la sua testimonianza per un processo, il nostro cliente si trova nella sua stessa situazione di cinque anni fa. Miss Cloverfield ha riprodotto la storia un’altra volta, senza fare alcun errore con il DNA, quindi siamo senza alcuna prova tangibile della sua colpevolezza,» spiegai.
«Non mi interessa,» insistette l’attore.
Tentai di raggiungere il suo stesso passo, almeno per guardarlo in faccia mentre parlavo. «Ha l’opportunità di dare giustizia a qualcun altro, come l’ha avuta lei in passato!»
D’improvviso l’attore si fermò, fissandomi ferino. «Io? Giustizia? Cosa le fa pensare che abbia ottenuto quello che volevo da quella stupida vicenda?» ringhiò. «Lei non sa proprio un bel niente!»
A quel punto avrei potuto demordere, gettare la spugna, tornarmene allo studio come aveva fatto James, sconfitta e con la coda tra le gambe. Ma cosa avrei raccontato a Simone? Che non avrebbe avuto speranze? Che senza una prova concreta del piano che aveva architettato la Cloverfield, il suo destino era versare un assegno mensile per occuparsi di un bambino che probabilmente nemmeno esisteva?
No, avrei lottato fino all’ultimo.
«Mi aiuti a capire, allora!» gridai, attirando l’attenzione dei passanti. La gente che si riversava in strada quel pomeriggio assisteva ad una scena assai singolare. Un uomo barbuto e una ragazza discutibilmente alta che litigavano in mezzo a Walpole Street.
George Wright parve ancora di più su tutte le furie. «Non può capire,» si limitò a dire, scavalcandomi e proseguendo diritto. Raggiungemmo Burtons Court senza nemmeno accorgercene, passo dopo passo, litigata dopo litigata, alché l’attore si rifugiò dentro un piccolo caffè poco conosciuto.
Lo seguii senza indugiare.
«Chiamo la polizia,» minacciò, senza ulteriori preamboli. «Potrei denunciarla per stalking, signorina. Non mi sfidi a farlo. Non è né la prima né l’ultima, già qualche anno fa ho dovuto sistemare per bene un giornalista ficcanaso!»
Forse si riferiva a Bastian Force, il quale ci aveva avvertito che l’attore era molto cambiato da quando era sulle copertine di tutte le riviste.
«Ha detto bene,» continuai, ferma sulla mia linea. «Io non sono una giornalista, sono un avvocato. Non ho alcuna intenzione di speculare sulla sua vicenda, di ricavarne guadagno o venderla a chicchessia. Voglio soltanto aiutare il mio cliente, un ragazzo che non ha alcuna colpa se non quella di essere troppo ingenuo. Se non fossimo davvero così disperati, non insisterei tanto. Ho rispetto per lei, per quello che ha passato, per il suo lavoro. Capisco che non sia facile. Proprio per questo motivo, la imploro.»
Era la prima volta che mi lasciavo cadere così in basso. A causa del mio orgoglio, non avevo mai chiesto aiuto a nessuno, nemmeno all’università, mi ero sempre rimboccata le maniche per fare tutto da sola. Contavo unicamente su me stessa.
Quella volta però, sarei stata disposta a tutto per Simone.
Mr. Wright parve cambiare espressione. «Non ho alcuna intenzione di collaborare, non mi interessa!»
Ero all’ultimo giro di boa, dovevo tirare fuori gli assi nella manica. «Almeno mi consenta di raccontarle la storia, lei deve soltanto ascoltare e poi deciderà il da farsi. Purtroppo se non fosse l’ultima speranza che ci è rimasta, non avrei rischiato una denuncia. Stia sicuro.»
Dovevo tentare qualsiasi cosa, anche la più folle. Magari se avesse ascoltato per filo e per segno la vicenda, si sarebbe convinto che aiutare Simone sarebbe stata la cosa giusta da fare. Oppure mi avrebbe mandato semplicemente a quel paese.
L’uomo sospirò sconfitto. «D’accordo, ma sappi che non cambierò idea, e tu te ne andrai da dove sei venuta o chiamerò la polizia.»
Sperai che andasse tutto per il verso giusto. Iniziai da quando ero giunta alla Abbott&Abbott, gli parlai di Simone, della sua professione, di ciò che era diventato faticando e di quella famosa notte in cui la sua vita aveva preso una piega totalmente diversa da ciò che si era premeditato. Gli raccontai del processo, del test del DNA e di tutte le riprove che la difesa aveva chiesto, addirittura utilizzando la clinica privata convenzionata allo studio legale. Tentai di fargli capire che lui consisteva nella nostra ultima speranza, perché avevamo parlato con Force e non c’era alcuna prova scritta di quella vicenda, dal momento che l’attore aveva preferito non far associare il suo nome a tutto quello.
Cercai di trattenere l’emozione, ma a mano a mano che raccontavo, la verità si faceva sempre più vicina e l’idea di perdere tutto era troppo dura da affrontare. «Se soltanto avessimo una prova di ciò che è accaduto cinque anni fa, potremmo far cadere ogni documento presentato dall’accusa. Ogni loro punto di forza vacillerebbe perché questa storia ha delle evidenti coincidenze con il processo che l’ha riguardata,» conclusi.
George Wright analizzò mentalmente tutto ciò che gli avevo detto. Quei minuti parvero interminabili, proprio perché dalla decisione dell’attore ne sarebbe valso l’intero processo, il futuro di Simo e la mia carriera.
«Mi dispiace molto per la sua situazione,» disse sincero. «Ma purtroppo non posso aiutarla. Quella donna ha rovinato la mia vita e la mia carriera, il mio futuro. Ho dovuto sopravvivere in questi anni, tenendomi lontano da questa storia. Devo evitare di ricaderci, scusatemi.»
Si alzò dal tavolo, bevve il caffè tutto d’un sorso e si allontanò.
Il mondo intero stava per crollarmi addosso. Avevo aspettato parecchie ore davanti casa sua per tentare il tutto per tutto, ma non era servito a nulla. Eravamo punto e a capo, senza nulla in mano che potesse darci qualche speranza di risolvere quel casino. L’unica opportunità ci era sfuggita di mano, certo non per colpa nostra. Quella donna, volente o nolente, era riuscita a metterci i bastoni tra le ruote senza nemmeno prodigarsi più di tanto. Mr. Wright era rimasto talmente traumatizzato dalla giraffona che nemmeno voleva più sentirne parlare.
Sbattei violentemente i pugni sul tavolo, mordendomi il labbro per trattenere le lacrime. Ancora non riuscivo a crederci che non c’era alcun modo di arginare il problema, non avevamo più frecce da mettere al nostro arco. Era finita. Sarei dovuta tornare a casa e dare la brutta notizia a Simo, costringendolo ad un esistenza legata a quella serpe senza cuore.
«Ordina un altro caffè, stavolta amaro.»
Alzai lo sguardo ormai lucido e trovai nuovamente George Wright davanti ai miei occhi, con la stessa barba incolta di qualche minuto prima.
«S-Subito!» dissi.
Quasi non potevo crederci, forse tutto non era perduto.
***
George Wright alla fine si era convinto ad aiutarci. Parlando del più e del meno riuscii a convincerlo almeno a darci una sua testimonianza scritta e siglata. Non sapevo se fosse stato sufficiente o meno, però ci aveva garantito la sua piena collaborazione e aveva risposto a tutte le domande che gli avevo posto.
Ero corsa subito a casa, dato che il telefono era definitivamente passato a miglior vita, dovevo necessariamente trovare un apparecchio con cui avvertire James della svolta.
«Bonasera,» disse una voce, ben poco allegra.
Mi fiondai direttamente verso l’apparecchio, non curandomi affatto di Simone. La prima cosa da fare era comunicare con l’avvocato e avvertirlo della buona notizia. Alzai la cornetta e composi il numero dell’ufficio, sperando che ci fosse ancora qualcuno a cui poter lasciare un messaggio.
Il suono che avvertii fu come se non ci fosse linea.
«Per caso ci siamo dimenticati di pagare le bollette?» chiesi, rivolgendo finalmente la mia attenzione a Simone che mi fissava arrabbiato con in mano il cavo del telefono.
«Finalmente!» sospirò. «Credevo ti fossi completamente dimenticata che esisto.»
Odiavo le sue manie di protagonismo, era peggio di stare con una prima donna. Abituato ad avere attenzioni da tutti, fan e collaboratori, si sentiva sempre trascurato e ci andava di mezzo la sottoscritta.
«Dai non fare il bambino, fammi fare questa telefonata che è importante,» dissi, senza repliche.
«E a chi devi fare questa telefonata?» chiese.
Sapevo che stava cercando dei pretesti per litigare. «James e lo studio devono essere messi al corrente di una nuova svolta nel caso. Forse abbiamo la possibilità di vin-…» nemmeno mi fece finire la frase.
«James, James, James… esiste soltanto lui. È tutto il giorno che provo a chiamarti ma trovo il telefono spento. Il tuo primo pensiero quando rientri a casa è di chiamare lui!»
Okay, stavolta era davvero arrabbiato.
Partendo dal presupposto che avevo il telefono scarico, l’urgenza di comunicare con l’avvocato era prettamente lavorativa. «Devo soltanto dirgli di Mr. Wright e quello che ho ottenuto parlandogli,» spiegai. «Non è lui il mio primo pensiero. Smettila di fare l’infantile!»
Simone sbottò. «E certo! Adesso soltanto perché sono più piccolo devo sempre passare per quello immaturo!»
Mi stropicciai gli occhi esausta. «Non rigirarti la frittata, Simone,» cominciai anche io ad alzare la voce perché tutta quella storia doveva finire. Essere geloso di James era fattibile ma non doveva esagerare. «Se hai così poca fiducia in me, dovremmo farci due domande.»
Ecco, non volendo stavamo litigando di brutto.
Era vero che avevo promesso all’avvocato di allontanarmi temporaneamente dal calciatore, per il bene della mia carriera e della causa, ma mi ero immaginato una discussione adulta e razionale. Credevo ci saremmo messi d’accordo, perché Simone avrebbe compreso quanto fosse importante per me la carriera.
«La stai distruggendo la fiducia,» insistette. «Sto fuori tutto il giorno agli allenamenti, ci vediamo pochissimo e mai una volta che mi dimostri che per te sono importante! C’è sempre quello di mezzo!»
Okay, adesso stava sfiorando il ridicolo. «Ma ti senti come parli? Nemmeno tua nipote Susanna farebbe questi discorsi. Se ti fidi di me, devi farlo appieno. Con James ti assicuro che non c’è più nulla, per cui o ti fai andare bene questa cosa oppure è meglio che ci diamo un taglio.»
Stavo sbagliando, me ne rendevo conto.
Sentivo di dover evitare di metterlo alle strette, ma quella storia mi aveva davvero scocciato. Era tutto il giorno che mi facevo in quattro per lui, per permettergli di vivere una storia normale e magari poter stare insieme anche in futuro, eppure sembrava non apprezzare tutti i miei sforzi.
Simone si alzò, riattaccò il cavo del telefono e mi guardò fisso. I suoi occhi lampeggiavano ancora per la rabbia, era come se quella situazione fosse addirittura più ardua da sopportare rispetto al caso giudiziario che pendeva sulla sua testa.
«Ecco, ora puoi fare tutte le telefonate che vuoi,» ringhiò, lasciando la stanza e sbattendo la porta della camera da letto.
Ancora dovevo realizzare cosa fosse successo. Le immagini scorrevano ancora a rallentatore davanti ai miei occhi e pensai si trattasse soltanto di un incubo. Mi ero immaginata di tornare a casa e dargli la buona notizia, ricevere uno dei suoi meravigliosi sorrisi in cambio, invece avevo soltanto peggiorato le cose.
Ma non era colpa mia.
La possibilità di rimediare c’era. Sarebbe bastato entrare nella sua stanza, cercare un contatto, aspettare che la rabbia del momento svanisse e chiedere una seconda possibilità perché sapevo bene che l’indomani si sarebbe pentito di ciò che aveva fatto. Contro ogni fibra del mio corpo, strinsi i pugni e mi morsi la lingua. Avrei dovuto approfittare di quell’occasione per troncare tutto, per dare retta al consiglio di James e allontanarmi da Simone il più in fretta possibile, per non rischiare.
Sarebbe stata dura, era prevedibile.
Probabilmente se avessi continuato sui miei passi, non ci sarebbe stata più nessuna occasione di rimediare a quello che era successo. Lo feci principalmente per il mio e per il suo bene, perché adesso l’unica cosa che contava era farla pagare al nemico che ci accomunava e che non meritava di passarla liscia. Una volta archiviata la causa, una volta sciolto il legame che univa Simone allo studio dove lavoravo, avrei potuto pensare ad una soluzione.
Lasciai andare la cornetta del telefono e afferrai la borsa.
Per abitudine presi le chiavi dell’appartamento dalla ciotola vicino la porta d’ingresso, ma le lasciai ricadere subito dopo. Dovevo limitare tutte le opportunità di ritornare in quella casa, di riavvicinarmi a lui dopo la decisione che avevo preso.
Oltrepassai la soglia sentendo le lacrime che spingevano per uscire ai lati degli occhi.
Dopo quel passo non potevo più tornare indietro. Sarebbe stata una decisione definitiva su cui avevo avuto tempo per ponderare, ma vigliaccamente avevo sfruttato la prima occasione per ottenere lo stesso risultato. Sarebbe stato tutto più facile in questo modo.
Chiusi la porta d’ingresso alle mie spalle e quel clangore segnò la fine di tutto.
Avrei visto Simone soltanto negli incontri formali allo studio, niente di più. Mi doleva abbandonare tutto, non rivedere più Sofia, Rosie e anche la nonna. Avrei dovuto ripetere mentalmente che lo facevo solo per lui e per dare un senso a quella via che avevo deciso di intraprendere, senza buttare all’aria tutti i sacrifici fatti in passato.
Posai una mano sullo stipite, quasi immaginando che fosse la pelle di Simone.
«Lo faccio per noi,» dissi, più a me stessa che a una sua versione immaginaria. Non sapevo come sarebbe andata a finire, se il futuro ci avesse riservato qualcosa, ma sperai davvero che tutto non si riducesse soltanto a quello.
Avevo cominciato a sperare che valessimo molto di più.
Buonasera!!!
Allora, l'aggiornamento è avvenuto codesta sera perché domani dovrei partire e non so se posso reperire il capitolo XD
Detto ciò, sul gruppo Crudelie - Le originali (diffidate dalle imitazioni) ho lasciato uno spoiler di questo capitolo e ho promesso che se fosse arrivato ad un cospicuo numero di likes avrei pubblicato il capitolo.
ECCOLO QUI!!!
Adoro quando mi seguite ovunque *^*
Dunque, siamo arrivati un po' al ''nocciolo'' della storia, ci addentriamo finalmente nella parte finale. Che dite? Come procede secondo voi la trama? Ho bisogno più che altro che mi diate un po' di conferme, così da capire bene se ne vale la pena pubblicarla o meno XD
Al prossimo lunedì dunque! (sperando riesca a pubblicare) LOL
Un bacione a tutti/e
Marty |
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Capitolo 30 *** Capitolo 28 ***
Capitolo 28
Il monolocale di Regent Park somigliava più ad una scatola che a un vero e proprio posto in cui poter vivere. L’attico di Simone avrebbe comodamente ospitato cinque di quelli che vendevano come appartamenti, eppure mi sentii stranamente a casa. Erano ormai quattro mesi che non vi mettevo piede, saltuariamente mi era capitato di passarci, per prendere a mano a mano un po’ della mia roba, ma ciò avveniva sempre più di rado.
Adesso dovrai fare l’abitudine a stare sola.
Ci ero stata tutta una vita, non sarebbe cambiato molto. Sin da piccola, le compagnie dei miei amici si limitavano soltanto alle uscite del sabato sera e a qualche eccezione, ma adoravo stare nella mia stanza, organizzare gli studi, programmare la mia settimana. Mi era capitato di farlo anche nel monolocale, quando mi ero trasferita a Londra per il tirocinio, ma poi era arrivato Simone.
Il calciatore aveva sconvolto completamente la mia vita, facendomi cadere in un vortice da cui era impossibile uscire. Viveva sempre alla giornata, decidendo minuto dopo minuto ciò che aveva intenzione di fare e non aveva la minima organizzazione nemmeno nel gestire la sua carriera. La verità era che tutto ciò cominciava già a mancarmi.
«Forza Ven,» mi dissi sospirando. «Diamo una parvenza di ordine a questo posto.»
Decisi di rivoluzionare il piccolo appartamento facendo sì che trasmettesse un po’ di calore e conforto, che non fosse sterile come l’ufficio della Abbott&Abbott. Volevo che sapesse un po’ di casa.
Non mi ero portata via molte cose dall’appartamento di Simone, anche perché la maggior parte dei miei completi da lavoro si trovavano ancora nell’armadio del piccolo monolocale. Avrei avuto tempo per farci un salto, prima o poi. Magari anche accompagnata da James. Rifeci il letto ad una piazza e mezza, mettendo lenzuola e coperte pulite che sapevano di bucato, poi decisi di riordinare la piccola cucina e di organizzare meglio la scrivania piena di post-it.
Quando venne il turno dell’armadio, notai con rammarico che la maggior parte delle scarpe che avevo lasciato nel mio vecchio appartamento fossero dannatamente scomode. Sospirai sonoramente, cercando di non farmi abbattere dallo sconforto. Rimescolai i vari tailleur, accoppiandoli alle rispettive gonne o pantaloni e tentai di dare un senso logico agli abbinamenti. Frugando proprio in fondo all’armadio, qualcosa di rosso e bianco spuntò dall’angolo di una mia vecchia borsa dimenticata.
«E questo che cavolo è?» mi chiesi, tirando il pezzo di stoffa incriminato.
Il dolore più grande che non potevo affrontare in quel momento sarebbe stato trovare qualsiasi cosa mi ricordasse Simone, il suo essere così dannatamente irritante, il suo profumo e qualunque oggetto si riferisse a lui. Trovare la maglia dell’Arsenal in fondo all’armadio, quella della prima partita che ero andata a vedere invitata da lui, mi fece male al cuore. Ebbi come una fitta.
L’infarto è vicino.
Purtroppo non si trattava nemmeno di quello. Era soltanto senso di colpa perché sapevo di aver fatto un errore a lasciarlo là da solo, senza nessuna spiegazione plausibile. Afferrai la stoffa rossa e la stesi sul letto, a faccia in giù, in modo che si leggesse bene il nome “Sogno” dietro le spalle. E arrivò il momento in cui finalmente elaborai tutto e mi lasciai andare in un pianto quasi a dirotto. Le lacrime mi offuscavano la vista, non riuscivo nemmeno a muovermi o a continuare il riordino. Mi lasciai cadere sul letto, avvolta da quella stupida maglia e dal suo profumo che ancora vi era rimasto intrappolato dentro, come una cicatrice che non sarebbe mai andata via dalla mia mente.
Avevo sacrificato Simone per il mio lavoro, per ottenere quello per cui in tutti quegli anni avevo faticato, e alla prima difficoltà ero riuscita a scaricare quel “problema” che per me era il meno grave.
Mi sbagliavo di grosso.
Portai le mani agli occhi, stropicciandoli e probabilmente spalmando tutto il mascara e l’ombretto lungo il viso.
«Non ce la posso fare,» dissi a me stessa. La mia voce parve rimbombare in quella stanza vuota mettendomi ancora di più la depressione addosso.
Rimasi tutta la sera accoccolata nella maglietta di Simone, mi addormentai stringendola al petto senza mai lasciarne un lembo. Era una sorta di coperta di Linus, anche se sapevo che prima mi fossi staccata da quei ricordi, più facile sarebbe stato affrontare la separazione.
La sveglia suonò esattamente alle 7.00. Il trillo risuonò nella mia testa con lo stesso effetto di migliaia di aghi che pungevano ogni parte del mio corpo. Avevo mal di testa, la bocca secca e impastata dalle lacrime e il viso completamente stravolto. Per non parlare dei capelli.
Tra un’ora devi essere in ufficio, mi ricordò il mio caro Cervello.
Ebbi numerosi flash della notte appena trascorsa e mi dissi di non ripetere più lo stesso errore. Ormai la decisione era stata presa, per quanto stupida potesse essere, lo avevo fatto unicamente per il bene di Simone. Finché la questione della Cloverfield non fosse stata risolta, dovevo agire in quel modo e tenere le distanze.
Non avevo neppure avuto il tempo di chiamare James e avvertirlo di ciò che ero riuscita ad ottenere da Mr. Wright, così mi buttai sotto la doccia e tentai di prepararmi nel minor tempo possibile. Dovevo presentarmi in ufficio subito, in modo da preparare una linea di difesa adatta per il processo che sarebbe dovuto svolgersi tra qualche giorno.
Prima di uscire diedi un’occhiata alle e-mail, aprendo al volo il PC.
Una valanga di pubblicità venne accuratamente spostata nella casella Cestino, ma notai subito l’indirizzo di posta elettronica della clinica St. Charles.
Il mio cuore mancò di un battito.
Feci doppio click sul link e mi si aprì un documento in .PDF dove venivano elencati i valori delle analisi del sangue. Notai una miriade di sigle senza alcun significato ma quella che cercavo in primis era il Beta-HCG.
Alla fine della seconda pagina lo trovai.
Positive.
Il mondo parve iniziare a girare velocemente, senza che avessi l’opportunità di aggrapparmi a qualcosa per non vomitare. Corsi in bagno e rigettai tutto ciò che avevo ingerito per colazione, ma quando rialzai la testa dalla tazza del wc, mi accorsi che quella era solo una conferma del mio stato.
Ero incinta.
Volevo mettermi a piangere un’altra volta ma non c’era tempo. Per quanto fossi sconvolta dalla notizia, ebbi la forza di chiudere il computer, afferrare la valigetta e le chiavi di casa, per poi recarmi in strada e raggiungere la fermata di Lancaster. Volente o nolente, con tutti i problemi e i pensieri che affliggevano la mia vita, avrei portato avanti il mio lavoro. Ero determinata a tirare Simone fuori dai guai, soprattutto dopo aver saputo che i miei sospetti sulla Cloverfield erano più che confermati.
La Tube era stracolma quella mattina. Ormai ero abituata a recarmi a lavoro praticamente a piedi, visto che l’attico di Simo si trovava in centro.
Forse è più salutare se la smetti di associare ogni tua azione a lui.
Aveva ragione Cervello. Se il mio obiettivo era concentrarmi unicamente sul caso, senza ulteriori distrazioni, avrei dovuto relegare in un angolo della mia mente il calciatore e tutti i problemi che ne seguivano. Dovevo soltanto pensare a me stessa, a dare una conclusione a questa causa senza possibilmente dare un motivo in più a Yuki per umiliarmi.
Scesi alla fermata tra Regent Street e Oxford Street, imboccando immediatamente la grande e famosa via londinese dello shopping. Avrei voluto concedermi un po’ di sano relax quei giorni, magari facendo una passeggiata per qualche grande centro commerciale, ma quel periodo era troppo delicato. Con la testimonianza di Mr. Wright si aprivano una miriade di possibilità, e non ci dovevamo far trovare impreparati. Finalmente eravamo riusciti a sbrogliare un caso che sembrava irrisolvibile, soprattutto dopo la conferma da parte del St. Charles delle analisi di Elizabeth.
Come ha fatto a falsificarle?
Per tutta la strada che mi divideva dalla fermata di Piccadilly fino a Great Castle Street, mi domandai come la Cloverfield avesse fatto ad ottenere delle analisi così cristalline senza essere incinta.
Erano due le cose: o portava davvero in grembo il figlio di Simone, quindi si era fatta mettere incinta per evitare di perdere la causa come cinque anni prima, oppure aveva delle conoscenze anche all’interno dell’ospedale.
Arrivai alla Abbott&Abbott che James mi aspettava fuori dalla porta d’ingresso.
I suoi occhi azzurri mi avvolsero metaforicamente, scaldandomi poi con quel sorriso che soltanto un uomo di altri tempi sembrava possedere.
«Ven!» trillò entusiasta. «Sei sparita ieri, ho provato a chiamarti ma avevi sempre il telefono spento e anche quello di casa era staccato.»
Non mi ero nemmeno ricordata di mettere sotto carica il Blackberry.
«Mi dispiace,» dissi, abbassando lo sguardo e portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio in segno di nervosismo. «Ieri sono successe un po’ di cose, ti dico solo che sono tornata nel mio vecchio appartamento quindi puoi cercarmi lì.»
Non ci furono parole per far capire a James in che stato penoso mi trovassi.
Si vedeva lontano un miglio che mi avrebbe voluta abbracciare, confortare, dirmi che, alla fine, tutto si sarebbe risolto ma non poteva. Già Yuki insinuava che ci fosse qualcosa di tenero tra di noi, non potevamo dare spago ad altri pettegolezzi.
«Hai fatto la cosa giusta,» mormorò solamente, posandomi una mano sulla spalla.
Quel gesto mi infuse un calore e una sicurezza che sembravo aver perso durante la notte, dopo essermi lasciata completamente andare allo sconforto. «Ora andiamo a lavorare.»
Salimmo le piccole scalette dell’ufficio e non mi trattenni dal dirgli che avevo delle importanti novità su Mr. Wright.
James sorrise. «Anche io, vieni.»
Mi accompagnò fin dentro lo studio, salutando gli altri colleghi e i tirocinanti con un cenno del capo. Yuki si trovava affiancata da Thomas, a mio parere uno dei membri meno brillanti della Abbott&Abbott e lei lo sapeva. La sorte a volte girava per il verso giusto. La vidi in fondo al corridoio, con un plico di fotocopie in mano, senza parvenza di avere un compito davvero importante.
Il giovane Abbott mi fece spazio all’interno del suo studio.
Mi premurai io stessa di chiudere la porta, in modo che la giapponesina vedesse per filo e per segno chi delle due avrebbe avuto più chances di entrare come socio all’interno della compagnia.
James era già seduto alla scrivania, intento a sistemare meglio dei fogli.
«Inizio io!» dissi spumeggiante. Per un attimo dimenticai tutta la depressione accumulata la notte appena trascorsa. Era proprio vero che buttarsi a capofitto sul lavoro avrebbe aiutato molto. Tirai fuori dalla cartella la deposizione di Mr. Wright firmata e siglata dalla sottoscritta, in modo da autenticare il documento. «Ora puoi anche dire a tuo zio che può preparare la mia targhetta!» scherzai.
James mi fissò come se fossi del tutto impazzita.
Si prese il tempo necessario ad esaminare il documento, foglio per foglio, immergendosi nella lettura. Parola dopo parola, vidi i suoi occhi aprirsi lentamente e acquistare la stessa luce radiosa e sicura che io avevo perso la sera appena passata. Quella in cui avevo detto temporaneamente addio ad una parte fondamentale della mia vita.
«Non posso crederci,» disse, fissandomi serio. «Come ci sei riuscita?»
Sorrisi soddisfatta di quella sua reazione. Mi ero preposta un obiettivo e a costo di essere rimasta tutto il giorno appostata di fronte a casa dell’attore, ero riuscita ad ottenere una sua collaborazione.
«Ho rischiato di tornarmene a casa a mani vuote,» ammisi, raccontandogli della riluttanza di Mr. Wright a venire nuovamente coinvolto in quella storia. «Alla fine l’ho convinto, gli ho parlato di Simone e di tutta la storia che c’era dietro. Credo si sia immedesimato un po’.»
James era al settimo cielo, non riusciva a stare fermo sulla sedia. «Il processo è stato fissato per dopodomani, forse riusciremo ad organizzare bene tutto quanto e, se necessario, a richiedere anche una testimonianza a Mr. Wright di persona.»
«Forse non oserei troppo,» dissi, ricordando le reazioni spropositate che l’attore aveva avuto. Di certo, tutta quella storia aveva incasinato le poche rotelle che si trovava in testa, non potevo biasimarlo.
Per un attimo mi venne in mente Simone. Un Simone “futuro”, molto simile a George Wright con tutti i problemi che ne sarebbero derivati. Potrebbe aver anche smesso di giocare a calcio…
Era impossibile immaginarlo lontano da un pallone.
Sarebbe stato come separare lo Ying dallo Yang, il pane dalla nutella, oppure le fave dal pecorino, una cosa inimmaginabile!
Okay, ora mi è venuta fame.
«Comunque, dopodomani c’è il processo? Come mai non ho ricevuto alcuna comunicazione?»
L’avvocato nemmeno alzò gli occhi dalla deposizione, era troppo contento di ciò che ero riuscita ad ottenere. «Ho provato a cercarti, ma hai sempre il telefono spento. Adesso che sei tornata nel tuo monolocale posso lasciarti un messaggio in segreteria,» disse, poi si sentì in dovere di aggiungere altro. «Davvero Ven, hai fatto la cosa giusta. Vedrai che le cose alla fine si aggiusteranno.»
Feci un sorriso stiracchiato, ma nonostante tutti mi continuassero a ripetere quelle cose, sapevo che con Simone non sarebbe stato facile. Entrambi eravamo molto orgogliosi, nessuno dei due avrebbe ceduto per primo. Alla fine lo avevo lasciato soltanto perché, come al solito, aveva avuto una delle sue reazioni esagerate da prima donna. Non sapeva che in realtà era nato tutto dal bisogno che avevo di questo lavoro.
«Grazie.»
James sorrise, stavolta guardandomi. «Bene, ci aspettano due notti molto intense. Dobbiamo preparare una difesa infallibile.»
Pronti alle dosi di caffeina oltre la norma che avrei dovuto assumere, mi tolsi le decolté per stare più comoda e trovai il mio posto accanto a James. Dopo tutto ciò che avevo sacrificato, quel processo valeva più della mia stessa vita. Mi sarei impegnata fino all’ultimo minuto disponibile per salvare Simone da tutta quella situazione.
Il resto sarebbe venuto dopo.
Mi domandai per un attimo se fosse giusto dire a James che le analisi avevano dato esito positivo, ma decisi di tenermi quel segreto ancora per qualche giorno. Almeno in quel momento mi sembrava una decisione corretta.
«Al lavoro!»
***
Quella stessa notte tornai a casa alle tre del mattino.
Decidemmo di prenderci qualche ora di sonno ma l’ufficio di James non era proprio il luogo adatto dove riposare. Aveva dei mobili troppo scomodi, magari lo zio li aveva comprati proprio con lo scopo di non far sonnecchiare i suoi soci.
Aprii la porta del mio monolocale, completamente distrutta.
Nemmeno la più piccola fibra del mio corpo si sarebbe ulteriormente mossa oltre la soglia, non riuscivo nemmeno a spogliarmi.
Almeno sei già pronta per domani.
Giustamente Cervello faceva delle ottime osservazioni quando era quasi completamente rincoglionito. Feci un paio di passi, strusciando i talloni nudi sul pavimento. Mi ero tolta le scarpe sulla moquette delle scale e la palazzina, essendo sprovvista di ascensore, mi aveva dato il colpo di grazia.
«Morirò in quello studio,» mi lagnai.
Massaggiai il collo con la mano, provando un po’ di sollievo e decisi mentalmente se fosse il caso di farmi una doccia oppure di svenire direttamente sul letto. Prima di perdere completamente conoscenza a causa della stanchezza, vidi dei segni rossi sul telefono segno che c’erano dei messaggi in segreteria.
Ne ascoltai il primo.
Primo messaggio, disse la voce registrata.
Dobbiamo parlare.
Riconobbi immediatamente la voce, senza alcun dubbio. Simone aveva immaginato che fossi tornata al mio appartamento ma non mi aveva trovata. Tremai. La stanchezza se ne andò tutta insieme e tornò quell’enorme senso di malessere che a stento riuscivo a ricordare di aver mai provato prima. Cosa significava “Dobbiamo parlare?”. Non avevo alcuna idea di ciò che mi avrebbe potuto dire, ma mi ero ripromessa di limitare i nostri incontri ad un contesto puramente professionale.
Secondo messaggio.
Ovviamente non ci sei mai.
Come al solito starai lavorando, tanto conta soltanto quello per te, me lo hai detto un milione di volte all’inizio. Sono stata troppo stupido a credere che contassi qualcosa per te. Per una volta che mi sono esposto, ho pagato. Adesso capisco cosa si prova a stare anche dall’altra parte, dal lato di quelli rifiutati.
Grazie per avermelo fatto capire prima che fosse troppo tar-…
Alzai la cornetta urlando un enorme «No!» credendo che Simone fosse ancora dall’altra parte della linea. Quando udii soltanto il classico tu-tu-tu del telefono, mi prese lo sconforto. Rimasi completamente rigida. Sembrò quasi che la stanchezza che avevo accumulato in quella giornata appena trascorsa, fosse volata via. Di sicuro avrei passato l’ennesima notte in bianco, scossa dai pensieri.
Puoi davvero biasimarlo? Te ne sei andata senza dargli alcuna spiegazione.
Da quando sei dalla sua parte?
Finii di ascoltare i messaggi in segreteria, che erano tre in tutto.
Terzo messaggio.
Mi manchi.
Lasciai cadere il telefono sul tavolo, trattenendo a stento l’impulso di prendere le chiavi di casa, correre di notte a piedi fino a raggiungere Soho. Volevo tornare da Simone, ogni fibra del mio corpo me lo stava suggerendo. Ormai lui era necessario per il mio fisico, quasi come respirare l’aria oppure fare la fotosintesi, un processo naturale.
Corri da lui.
Quella notte il mio Cervello remava contro di me.
«Sai che non posso, proprio adesso che sono così vicina.»
Mancava soltanto un giorno e poi ci sarebbe stato il processo. Molto probabilmente il giudice sarebbe arrivato anche al verdetto finale, ma non ne ero totalmente certa. Ormai non si poteva più rimandare oltre, tra ventiquattro ore o poco più ognuno avrebbe rivelato la propria mano.
Posai le mani sul tavolino, aggrappandomi al legno come fosse l’ultimo appiglio che mi avrebbe sostenuta. Mi forzai di spogliarmi, infilarmi il pigiama e almeno chiudere gli occhi per qualche minuto. Pensai al processo, al giorno che avrei rivisto Simone dopo quello che era successo, senza dargli alcuna spiegazione.
Senza dirgli nemmeno che sarebbe diventato padre.
O meglio, che c’era la possibilità che lo diventasse.
Scacciai quella realtà che avrebbe solo contribuito a impedirmi di dormire. Ancora non avevo deciso cosa fare, non avevo parlato a nessuno di quella gravidanza, giusto un accenno a James. Nessuno sapeva, avrei potuto tranquillamente recarmi ad un centro apposito e concludere tutto.
Non avrei mai avuto la forza di farlo.
E se lui non lo accettasse?
Mi assumerei comunque la mia parte di responsabilità, a costo di rimanere da sola. Non ero contraria all’aborto, anche perché c’erano molte ragazze con problemi – sia economici che psicologici – a cui avrebbe peggiorato la vita avere anche un bambino di cui occuparsi. Io per fortuna me l’ero sempre cavata bene da sola, non avrebbe fatto alcuna differenza.
Accarezzai inconsciamente la pancia, come se il feto non ancora del tutto formato potesse davvero avvertire la mia presenza. «Tu non hai colpe,» gli dissi, poi cominciai a fantasticare se fosse diventata una Lei.
Ricordai di mettere sotto carica il cellulare e visto che ormai quella notte era quasi completamente andata a farsi benedire, girai anche l’e-mail del laboratorio analisi del St. Charles al dottor Ross.
Magari nemmeno avrei avuto bisogno della sua conferma.
Era come se lo sentissi, come se lo avessi sempre saputo ma il mio cervello si era rifiutato di elaborare quella possibilità. Non ero mai stata così negligente, anzi, avevo sempre etichettato quelle persone poco attente come gente che un po’ se l’era “cercata”.
E ora ci sei tu da questo lato, invece. Ti senti stupida?
Abbastanza.
Era difficile per me ammettere una cosa del genere, soprattutto perché ero sempre stata abituata ad avere tutto sotto controllo. Sin dalle elementari sapevo che sarei diventata avvocato, mi ero posta un obiettivo da raggiungere. Avevo contato gli anni delle medie, quelli del liceo, poi mi ero trasferita a Londra per frequentare l’Università e conseguire i master necessari a farmi fare il tirocinio alla Abbot&Abbott.
C’era stata solamente una piccola deviazione che prendeva il nome di Simone Sogno.
Non mi accorsi nemmeno di essermi addormentata, la sveglia suonò puntuale alle 7.00 del mattino per avvertirmi di andare a lavoro. Avevo tutto il tempo necessario per farmi una doccia, vestirmi, truccarmi e dare una qualche sistemata a quei capelli che cominciavano a diventare un po’ troppo ribelli per i miei gusti. Quando finii di farmi la doccia, la macchinetta del caffè borbottava allegramente sul fornello così mi concessi quei cinque minuti di relax sufficienti ad assaporare bene la bevanda.
La pausa caffè, per un italiano soprattutto, era sacra. Per quanto avessi tentato di allontanarmi il più possibile dalle “etichette” che gli stranieri ci appiccicavano addosso nemmeno fossimo degli emarginati, al caffè Espresso non avrei mai potuto rinunciare.
Rimasi imbambolata a fissare il pavimento, pensando mentalmente a ciò che avrei dovuto fare in quella giornata. Innanzitutto, io e James avremmo dovuto rivedere tutti i documenti relativi al processo e rileggere le azioni da svolgere in tribunale. Avevamo pianificato tutto, ogni possibile contrattacco di St. James e ad ogni sua azione avevamo corrisposto una contromossa adeguata. Non ci sarebbero dovuti essere margini d’errore.
Notai che la segreteria telefonica brillava ancora.
Presa dall’angoscia della sera prima, avevo dimenticato di cancellare i messaggi di Simone, o non ne avevo avuto il coraggio. Posai la tazzina del caffè vuota nel lavello e andai a lavarmi i denti e a finirmi di preparare.
Quella mattina il cielo sembrava più limpido del solito. Sapevo che il meteo Londinese era piuttosto standard, sia nei mesi invernali che in quelli estivi, ma quando si avvicinava il mese di Aprile, si poteva quasi parlare di Primavera. Inspirai a pieni polmoni l’aria fresca e frizzante della città, dirigendomi verso la fermata di Lancaster Gate per poi scendere a Piccadilly. Avevo dimenticato come fosse prendere i mezzi pubblici per andare a lavoro, abituata da mesi a recarmici a piedi. Attesi il dlin dlon meccanico e la voce robotica che annunciava tutte le fermate che la Red Line avrebbe dovuto toccare e fissai la mia attenzione sulle luci che si alternavano veloci nel buio dei tunnel sotterranei.
Ricordi il primo giorno?
E come potevo dimenticarlo? Mi ritrovavo a percorrere gli stessi passi e gli stessi tempi d’attesa, solo che non avevo James al mio fianco. Era stato un caso conoscerlo proprio il primo giorno di tirocinio, visto e considerato che anche per lui era la prima volta nello studio dello zio. Si era trattato di destino.
Così come Simo.
Anche quella di Simone era stata una bella sorpresa. Non mi sarei mai aspettata una cosa del genere, che il mio primo caso riguardasse proprio una persona del mio passato, e che adesso aveva cominciato a fare parte anche del mio futuro.
«Prossima fermata, Piccadilly Circus,» disse la voce meccanica di una donna.
Mi apprestai a scendere, sostando davanti alle porte scorrevoli di uscita. Ripercorsi cosa fosse successo da quando avevo iniziato quel tirocinio fino ad ora, alternando i momenti più bui a quelli più felici della mia vita e provai anche una punta di nostalgia. Quando avevo preso la decisione di lasciare l’appartamento di Simone, senza dargli alcun tipo di spiegazione, non avevo pensato a questo. Era stata una scelta presa di fretta, dettata soprattutto dalle parole di James che mi avevano messo paura. Come avrei potuto sacrificare tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento per un uomo? La Venera del liceo, la ragazza determinata e convinta a tutti i costi di realizzare il suo sogno non avrebbe mai permesso ad un ragazzo di infrangerlo.
Spesso i sogni cambiano…
Quella mattina Cervello era più poetico del solito. Riflettei su ciò che aveva detto, ma tentai di non farmi tentare da quella proposta. Nella vita potevano accadere tante cose, questo lo avevo sempre messo in conto, ma addirittura stravolgere completamente i propri piani per un’altra persona, mi pareva esagerato. Provai a immaginare la mia vita da un’altra prospettiva, quella che prevedeva un minor avanzo di carriera finalizzato alla cura della famiglia di cui avrei fatto parte.
Mentre camminavo verso l’uscita, inserendo la Oyster Card e passando il tornello, mi resi conto che quello era il futuro che anche mia madre aveva scelto. Si era dedicata più alla famiglia che a sé stessa, magari rinunciando ai suoi sogni di diventare pasticcera.
Ha preferito fare le sue torte a casa, per la famiglia, piuttosto che seguire un corso in Francia e lasciare da solo te e tuo padre.
Era una delle cose che da piccola avevo giurato di non fare, sacrificarmi per gli altri. Avevo fatto una sorta di patto con me stessa, che non sarei diventata come mia madre e avrei rinunciato a ciò che volevo diventare nella vita soltanto per paura di non saper gestire due cose insieme. E l’occasione mi si presentava davanti agli occhi in quel momento.
«Ehi spaghetti-girl, pronta per oggi?» la voce di James mi riscosse dai miei pensieri. Lo avevo incontrato a metà strada, quella per recarmi verso l’ufficio, ma nemmeno mi ero accorta della sua presenza, troppo concentrata sui miei pensieri.
«Certo collega!» ironizzai, ma mi risultò un po’ difficile essere troppo allegra.
I messaggi che ieri Simo aveva lasciato nella mia segreteria telefonica mi avevano completamente destabilizzata e non riuscivo a scollarmi di dosso il pensiero che quando lo avrei rivisto per il processo, non avrei potuto farcela.
James si accorse del mio umore. «Problemi con la casa?» mi domandò, pensando avessi riscontrato qualche difficoltà a riottenere il contratto di affitto con Mr. Cabret, il proprietario della palazzina.
Scossi la testa, indecisa se parlargli o meno di quello che mi stava succedendo. Se gli avessi raccontato di Simone, avrei dovuto anche aggiungere le analisi che avevo ritirato dal St. Charles. Forse sarebbe stato anche troppo per lui, ma come quando gli avevo parlato della mia storia con il calciatore, avvertii lo stesso bisogno di sfogarmi con qualcuno.
Celeste non era lì con me, non potevo nemmeno coinvolgerla troppo oppure avrebbe preso il primo aereo pur di aiutarmi e magari lasciare tutta la sua vita a Roma. Avrei dovuto trovare una soluzione alternativa e in quel momento James sembrava il candidato più opinabile.
«Non si tratta della casa,» sospirai, cercando di stare al passo con l’avvocato. «Diciamo che è un insieme di cose che mi stanno mandando ai matti.»
James sgranò gli occhi. «Lo sai che domani siamo in aula, vero? Non possiamo farci distrarre dalla nostra vita privata.»
Non seppi identificare se si trattasse di una ramanzina, raccomandazione oppure semplicemente un consiglio. Annuii senza saper cosa dire. «Mi sono arrivati i risultati delle analisi che ho fatto giorni fa, le ho già inoltrate al dottor Ross, ma penso di sapere quale sia la diagnosi,» sputai fuori, tutto insieme.
Pensai che in fondo, se lo avessi detto tutto in una volta, sarebbe risultato meno doloroso. Mi sbagliai di grosso. Dire a voce alta quello a cui la vita mi stava sottoponendo rendeva il tutto ancora più reale e spaventoso.
«Cosa stai cercando di dirmi Venera?» chiese sbigottito.
Sbuffai. «Quello che temevo di più.»
James si fermò in mezzo a Regent Street, tirando fuori le mani dalle tasche del Montgomery e tirandosi su il bavero in un gesto nervoso. «Calma,» sospirò, posandomi le mani sulle spalle. Era quasi come se quello in dolce attesa fosse stato lui a momenti. Non lo avevo mai visto così preoccupato.
«Il nostro cliente lo sa?»
Quella fu la prima domanda. Era ovvio che fosse così, anche perché a meno di ventiquattro ore ci sarebbe stato il processo e bisognava anche prevedere le reazioni che avrebbe avuto Simone di fronte al giudice e a quella serpe di St. James.
Scossi la testa. «Non lo sa nessuno. A dire la verità credo che soltanto tu conosci questo segreto, anche la storia che c’era tra me e Mr. Sogno.»
Lo dissi quasi fosse una vergogna e James lo capì.
«Risolveremo tutto, tranquilla. Per prima cosa dobbiamo vincere la causa di domani, spaccare in aula e tornare in ufficio a testa alta,» spiegò, dandomi la carica. «Il resto lo affronteremo insieme una volta finita questa odissea interminabile.»
Sorrisi. «Hai ragione.»
E proprio lì, in mezzo ad una strada che lentamente si stava riempiendo di gente – un po’ che si recava a lavoro, un po’ che attendeva l’apertura dei diversi negozi in centro – James Percival Abbott mi abbracciò.
Ritrovai un calore e un profumo persi da tempo, quasi mi commossi.
Avevo provato troppo dolore in quei giorni e finalmente qualcuno si era offerto di darmi quel conforto che mi mancava. «E poi, Ven,» continuò, scostandomi e guardandomi negli occhi. «Anche se sarà difficile, hai preso la decisione giusta ed è comunque una bellissima notizia. Per cui, congratulazioni e tieni duro!»
Era innegabile che James c’era sempre stato, sin dall’inizio. Era stato l’unico e il primo che aveva creduto nelle mie potenzialità, che mi aveva dato un’occasione anche se aveva inevitabilmente contribuito a far avvicinare me e Simone.
È colpa sua se ti trovi in questo casino.
Scacciai via quel pensiero, perché nonostante fosse vero che la convivenza forzata tra me e il calciatore aveva dato via a quel susseguirsi infinito di eventi, James si era sempre offerto di supportarmi e darmi una mano qualora ne avessi avuto bisogno.
«Grazie,» dissi sorridendo, poi insieme ci dirigemmo verso l’ingresso della Abbott&Abbott.
Eccomi!!
Scusate per questo ritardo nell'aggiornamento ma sono un po' incasinata con l'organizzazione delle mie ferie e quelle della mia famiglia (LOL). Dunque, questo capitolo è un po' di passaggio - lo ammetto - ma serviva un punto di congiunzione che legasse ciò che era successo nel 27 e ciò che Ven sta affrontando. Per ora, al primo posto, c'è il processo imminente e poi verrà tutto il resto.
Che ne pensate?
Come si evolverà secondo voi la situazione?
Fatemi sapere, un bacione e buone vacanze a tutte.
PS. Spero di essere precisa con i capitoli, comunque non disperate al massimo ritarderanno o anticiperanno qualche giorno per via delle partenze XD
Baci, Marty.
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Capitolo 31 *** Capitolo 29 ***
Capitolo 29
La facciata del Royal Court of Justice mi aveva sempre suscitato una grande emozione, sin da quando ne avevo sentito parlare nei libri più famosi di Storia del Diritto Medievale e Moderno. Aveva l’aspetto molto simile a Westminster Abbey, ovvero quel caratteristico stile gotico inglese, sparso un po’ in tutta la città, e nessun turista si sarebbe mai immaginato che all’interno di un edificio del genere, che magari poteva assomigliare benissimo ad una abbazia, si svolgessero la maggior parte dei processi per cause civili di tutta Londra.
Inspirai l’aria pungente di quella mattina e tentai di non lasciarmi impressionare dall’imponenza di quell’edificio.
Già lo hai visto una decina di volte, datti un contegno!
Come al solito, il mio Cervello aveva ragione e non potevo che dargli retta. Avevamo già svolto l’udienza preliminare in una di quelle stanze, ed era stata rinviata a causa del test del DNA. I risultati ci erano poi stati inviati dai collaboratori di St. James, perché ogni nuova prova portata in tribunale doveva essere presa in esame privatamente dalle due parti. Anche al St. Charles la signorina Elizabeth risultava incinta, per cui avremmo dovuto affrontare una causa che già partiva con un punteggio avvantaggiato per l’accusa.
«Dovrebbe essere già qui,» disse spazientito James, guardando l’orologio.
Era evidente come anche il giovane avvocato fosse nervoso, soprattutto perché il nostro cliente ancora non si era palesato. Mancavano soltanto dieci minuti all’inizio del processo e Miss Elizabeth si era già accomodata in aula.
Mi aveva rivolto una breve occhiata di disgusto, tanto per marcare la questione di essere superiore a qualsiasi persona di sesso femminile.
«Vedrai che arriverà,» gli dissi per rassicurarlo.
A dire il vero, non ero tanto sicura delle mie parole. Da quando avevo lasciato l’appartamento di Simone, l’idea di rivederlo mi metteva un terrore addosso che non sapevo descrivere. Questo perché ero colpevole e me ne rendevo conto ogni giorno che passavo lontano da lui.
Ero stata codarda ad approfittare di quel suo sfogo di gelosia per andarmene. Mi ero allontanata senza nemmeno avere il coraggio di dirgli il reale motivo. Dentro di me ero divisa a metà: una parte voleva che Simone si presentasse in aula, almeno per avere più chance di vincere il processo; l’altra parte avrebbe fatto volentieri a meno.
Cosa gli avrei potuto dire una volta che lo avessi avuto davanti?
Mi aveva lasciato un messaggio in cui mi diceva che gli mancavo. Quelle parole mi avevano fatto male come mille coltelli lanciati simultaneamente contro il mio cuore. E nonostante ciò, non lo avevo richiamato.
James mi fissò seriamente in ansia. «Lo sai che se non si presenta, perderemo credibilità di fronte al giudice?»
Lo sapevo benissimo.
Il primo passo per ammettere il torto era proprio quello di “evitare” la persona a cui lo si era fatto. Un po’ come mi stavo comportando io stessa con lui. Dentro di me pregai che riuscisse ad arrivare in tempo, perché altrimenti tutta la sofferenza che stavo provando in quel momento sarebbe stata vana.
Avremmo perso la causa, avrei perso l’opportunità di diventare socia dello studio e non avrei nemmeno più avuto il coraggio di presentarmi davanti a lui.
«Sono sicura che ci sarà,» insistetti.
Aspettammo qualche altro minuto e proprio quando l’usciere del tribunale si affacciò per avvertirci che il giudice aveva richiamato gli avvocati in aula, la riconoscibile cinquecento blu metallizzato si palesò all’orizzonte.
Fui sollevata nel vederla perché almeno avevamo una chance in più di vincere.
James mi guardò tirando un sospiro di sollievo. «Io vado dentro, tu aspetta Mr. Sogno e accompagnalo dentro.»
PANICO.
Stava accadendo proprio ciò che temevo, ovvero rimanere da sola con lui. Mi ero creata nella mente una sorta di alibi, una scusa per non essere a tu per tu con il ragazzo che avevo lasciato senza nemmeno una misera spiegazione. Mi sentivo un verme.
«A-Aspett-…» tentai di aggrapparmi a James.
«Sono sicuro che ce la farai, conto su di te!» e scomparve all’interno del Royal Court of Justice.
Dannazione. Maledizione. Cazzo.
Che linguaggio scurrile.
La cinquecento blu era appena stata parcheggiata nell’area riservata ai clienti e tentai di non fissare troppo il posto del guidatore. Avevo troppa paura di scorgere le iridi scure e infuriate di Simone, avevo il terrore che quel suo sguardo mi avrebbe completamente destabilizzata.
Fissai il marciapiede con rinnovato interesse.
Mentalmente cominciai a ripetere passo dopo passo tutte le mosse che avevamo studiato assieme a James la sera prima, in modo da non dimenticare nulla. Per prima cosa, ci sarebbe stata l’esaminazione da parte del giudice dei risultati ottenuti dalla clinica, eravamo più che sicuri che St. James aveva puntato tutto su quello, senza approfondire null’altro. A quel punto saremmo intervenuti noi, con la storia di Mr. Wright, la sua testimonianza e le “strane” coincidenze che avrebbero fatto dubitare chiunque dell’innocenza della Cloverfield.
«Ehi Veeeeeen!»
La voce squillante di Sofia mi destò dalla mia concentrazione e fui costretta ad alzare lo sguardo. Dietro la bellissima Sogno, con la sua immancabile cascata di capelli voluminosi e biondi, c’era Simone.
Era bellissimo.
Forse ancora di più di quanto lo ricordavo. Aveva indossato un completo stavolta, un gessato grigio scuro con la camicia celeste e la cravatta abbinata. Sembrava quasi più grande, come se in quei tre giorni fosse invecchiato.
Anche le profonde occhiaie gli davano qualche anno in più.
Che gli sarà successo?
Appena dietro di lui, vidi Gabriele. Era impeccabile anche lui, come sempre, ma gli occhi azzurri del fratello più grande trasudavano nervosismo. Erano scuri in volto, quasi devastati da quella causa che ormai si protraeva per troppo tempo.
«Come sei bella!» mi disse Sofia, felice e sorridente come sempre.
«Grazie,» le risposi imbarazzata.
Lentamente la distanza che divideva me e Simone si stava assottigliando. Ogni fibra del mio corpo voleva evitare quel momento perché sapevo di essere nel torto. Non dovevo dargli occasione di parlare.
«Presto, ci stanno aspettando,» dissi, cominciando a salire le scale.
Gli diedi le spalle senza nemmeno salutarlo. Fu un gesto da vigliacca, lo ammetto, ma c’erano in ballo troppe cose e volevo evitare di venire mentalmente deconcentrata da Simone.
«Spero che abbiate studiato una linea migliore dell’altra volta,» sospirò Gabe, evidentemente spazientito. «Questa storia non sta facendo altro che influire negativamente sul rendimento di Simone.»
Rimasi quasi pietrificata. Serrai i pugni e mi costrinsi a proseguire senza mai voltarmi indietro. Cosa aveva voluto dire?
«Entrate, presto.»
Lasciai passare i fratelli Sogno all’interno dell’aula, poi sentii una pressione insostenibile alla bocca dello stomaco e fui costretta a correre nel primo bagno disponibile. Per fortuna era deserto, così rimisi tutta la colazione di quella mattina.
Mi sentivo uno straccio.
Accasciata completamente sul pavimento del bagno, attesi che il mio stomaco la smettesse di ballare la rumba.
«Tutto bene?»
La voce di Sofia mi colse un’altra volta di sorpresa. Tentai di rimettermi in piedi a fatica e a darmi una sistemata. «S-Sì, sì!»
Avevo paura potesse scoprire la mia condizione fisica, oppure il penoso stato d’animo in cui mi trovavo in quel momento. Avevo troppe cose in ballo, troppe emozioni da gestire che prima o poi mi avrebbero mandato ai matti.
Sofia si affacciò per sincerarsi della mia condizione e vedendomi con le lacrime agli occhi, il trucco sbaffato e le labbra gonfie si impietosì. Sorrise dolcemente e si inginocchiò accanto a me, cominciando a pulirmi il viso con una salviettina umida.
Come avrebbe fatto mia madre.
«Non puoi accollarti tutti i problemi del mondo senza mai chiedere l’aiuto di nessuno,» disse di punto in bianco, quasi avesse avuto la facoltà di leggermi nella mente. «Prima o poi ti senti male.»
Le sorrisi senza aggiungere altro, anche perché ero già in ritardo per il processo. Dovevo essere in aula ad aiutare James invece che sul pavimento del bagno a piangermi addosso.
«Devo darmi una sistemata,» dissi, rialzandomi e tentando di aggiustare il mio aspetto.
Sofia mi aiutò, sempre disponibile.
Alla fine sembrò quasi che non avessi avuto quel piccolo attacco di panico, ma avevo comunque un aspetto semi-stravolto. Vedere Simone ridotto in quello stato mi aveva distrutta, sia fisicamente che psicologicamente.
«Grazie,» dissi in direzione della più piccola dei fratelli Sogno. «Cercherò di sdebitarmi in qualche modo.»
Sofia mi sorrise e mi trattenne per una mano, diventando stranamente seria.
«Non so cosa sia successo tra te e Simo,» disse. Cercai in tutti i modi ad isolarmi da quel discorso perché non volevo prediche. Avrei preferito mille volte tornare in aula e andare direttamente in pasto a St. James. «Ma sappi che io farò sempre il tifo per voi due, come quando è iniziato tutto questo.»
Rimasi spiazzata da quella ammissione.
Era strano capire che non solo eravamo importanti l’uno per l’altra, ma c’erano anche terze persone coinvolte nella nostra storia. Allontanandomi da Simone, avevo soltanto pensato al suo stato di salute e al mio, ma vedere Sofia ancora con la speranza di vederci insieme alla fine di tutto mi diede un po’ di carica.
L’aula del tribunale dove si sarebbe dovuto tenere il processo era la stessa della volta precedente. Entrai silenziosamente per trovare subito il mio posto accanto a James, senza creare ulteriori imbarazzi per essere arrivata in ritardo.
«Tutto bene?» mi chiese lui, vedendomi un po’ stravolta.
Annuii silenziosamente cominciando a disporre sulla scrivania tutti i documenti e il piano d’azione che avevamo studiato per quel processo. Simone era seduto accanto a James con lo sguardo perso nel vuoto. Era evidente come tra di noi ci fosse un muro invalicabile, un silenzio carico di mille parole inespresse, ma quello non era né il momento né il luogo per esprimerci.
Il giudice entrò in aula, facendo alzare in piedi tutti i presenti.
Rivolsi un’occhiata a St. James che tirava fuori il petto in modo pomposo, quasi fosse sicuro del tutto di portarsi a casa la vittoria. Lo odiavo a pelle, soprattutto perché andava contro la mia etica professionale. Se davvero Miss Cloverfield aveva truffato Simone, Carl St. James ne era al corrente e aveva portato avanti quella messa in scena senza alcun pudore.
«Buongiorno a tutti,» disse il giudice Simmons, accomodandosi sulla sua grande poltrona rossa. «Bene, oggi riesaminiamo il caso Cloverfield-Sogno, rinviato a causa di una mancata conferma per il test di paternità fatto dall’accusa. Dunque, chiedo ad entrambe le parti se siete stati messi al corrente dei risultati?»
James annuì, prendendo la parola. «Vostro Onore, la difesa è venuta a conoscenza del risultato del test, effettuato presso la clinica di St. Charles, convenzionata dallo studio Abbott&Abbott di cui sono rappresentante,» iniziò, senza tralasciare nulla. Il giudice parve molto attento. «Vorrei porre all’esame di questa corte, però, una questione di cui siamo venuti a conoscenza soltanto da poco tempo.»
Vidi St. James sbiancare di colpo. «Obiezione, vostro onore. L’accusa non è stata messa al corrente di questi nuovi risvolti e quindi non possiamo controbattere.»
Il giudice Simmons osservò entrambe le parti. «Avvocato St. James, può capitare che una delle due parti non abbia tempo materiale per presentare i documenti relativi ad un nuovo risvolto del caso, sentiamo prima cosa ha da dire il suo collega. Al massimo vi concederò qualche ora per riorganizzare un piano valido.»
St. James non poté replicare in alcun modo.
Sorrisi alla piccola vittoria che aveva ottenuto la nostra “squadra”. Mi ritrovai a pensare come io e James stessimo combattendo, uniti come non mai per un obiettivo comune e mi ritrovai a pensare a Simone, a quello che faceva per vivere.
Magari non è solo uno stupido troglodita che corre appresso ad un pallone.
Forse anche lui aveva degli obiettivi.
«Grazie, Vostro Onore,» continuò James. «Recentemente, io e la mia collega, abbiamo indagato passo per passo sugli spostamenti del nostro cliente la sera del 29 settembre 2014 e ci è capitato di trovare un vecchio articolo di giornale che parlava di un evento mondano successo non più di cinque anni prima.»
Quello era il momento clou della storia. Eravamo partiti col botto, come da copione, ma era inevitabile. Vidi la Cloverfield cominciare a muoversi nervosamente sulla sedia, quasi avesse qualcosa da nascondere. Forse avevamo scavato nel punto giusto, finalmente cominciavano a saltare fuori i vecchi scheletri nell’armadio.
«Per spiegare meglio tale situazione, chiamo la mia collega per esporre i fatti in quanto si è occupata personalmente della deposizione firmata ed autenticata del nostro testimone chiave,» mi sorprese James.
Non si era parlato di questo! Non ero ancora pronta per affrontare tutto il processo da sola, soprattutto non avrei potuto concedermi il minimo margine d’errore.
«Prego, Venera,» mi disse, sorridendo per incoraggiarmi.
Inspirai forte e decisi di prendere la situazione in mano. Ero una tirocinante e forse quella sarebbe stata la mia prima e ultima occasione per dimostrare quanto realmente valessi. Dovevo meritarmi il posto nello studio, altrimenti tutto ciò che avevo sacrificato in quei giorni sarebbe stato vano.
Mi alzai in piedi, lisciandomi bene le pieghe della gonna. Arginai il tavolo dove erano sparse le pratiche e afferrai la deposizione di Mr. Wright, giusto per avere un punto di riferimento. Cercai di non guardare Simone direttamente negli occhi, altrimenti avrei perso tutta la sicurezza che avevo acquistato in quei pochi momenti.
«Vostro Onore, vorrei iniziare con una storia davvero curiosa e affascinante. Partirei da una sera, una come tante, e il soggetto della nostra storia sarà un famoso attore che ha appena vinto numerosi e prestigiosi premi,» iniziai.
Le facce del giudice Simmons, di Carl St. James e di Elizabeth erano quasi sconvolte, eppure sia Sofia che Gabriele parevano abbastanza incuriositi da quel mio racconto.
«Chiedo obiezione, Vostro Onore, il racconto dell’avvocato Donati non mi pare pertinente al caso,» intervenne St. James, tanto per mettermi i bastoni tra le ruote.
Simmons batté più volte il martelletto, chiedendo ordine in aula. «Avvocato St. James, sentiamo prima tutta la storia e poi giudicheremo la pertinenza o meno per questo caso.»
Ringraziai il giudice con un cenno del capo, poi proseguii. Dovevo utilizzare il massimo della mia professionalità, soprattutto per dimostrare a Simone cos’ero in grado di fare e il perché avevo avuto bisogno di quel periodo lontani.
Lo hai fatto per lui.
Lentamente nella mia testa cominciò a formarsi l’idea, inconscia, che tutte le azioni che avevo compiuto, giustificate con il fatto che dovessi a tutti i costi diventare socia della Abbott&Abbott, erano state compiute unicamente con lo scopo di vincere la causa. Certo, tale risultato mi avrebbe dato più chance di diventare un avvocato a tutti gli effetti, ma trionfare su St. James avrebbe soprattutto liberato Simone dalle catene che la Cloverfield aveva intenzione di mettergli a vita.
Una vera e propria estorsione sotto forma di gravidanza.
«Tale sera in questione, una sera “X”, questo attore incontra in un locale abbastanza frequentato da personalità di spicco una ragazza le cui fattezze abbiamo riscontrato corrispondono a quelle di Miss Cloverfield,» proseguii.
«Obiezione, Vostro Onore!» ormai St. James sapeva dire soltanto quello.
Simmons roteò gli occhi al cielo. «Per cosa, di grazia?»
L’avvocato dell’accusa aveva pochi pesci da pigliare. «L’avvocato Donati sta insinuando cose sulla mia cliente senza presentare un minimo straccio di prova.»
A quel punto era giunto il momento di passare ai fatti. «Riportato a pagina sei del documento che Mr. Abbott vi sta consegnando,» dissi, mentre James si adoperava per far avere al giudice e a St. James una copia ben impaginata della deposizione di Mr. Wright. «Potete trovare una fotocopia dell’articolo scritto da Bastian Force, attuale capo redattore del Daily Voice. Secondo la sua testimonianza, quella sera la signorina Elizabeth Cloverfield ha avvicinato il nostro testimone chiave e lo ha sedotto. Secondo alcuni testimoni, tale storia d’amore facoltosa comparve su tutti i tabloid inglesi dell’epoca, anche se adesso non vi si trova alcuna traccia. L’allora Miss Cloverfield, cito dal Mondane Paper, “era una graziosa e anonima ragazza del Sussex”»
E a quel punto Elizabeth non trattenne la rabbia. «Sono soltanto menzogne!!» urlò.
Simmons parve svegliarsi da un torpore momentaneo, pronto a sbattere il martelletto sul legno con veemenza. «Avvocato St. James! Tenga a bada la sua cliente! Siamo in un’aula di tribunale, santo cielo, mica a Portobello!»
Sorrisi dentro di me, pregustando la vittoria. Cercai di non guardare Simone, ma fu più difficile del previsto. Con la coda dell’occhio tentai di individuare il suo volto, ma lo trovai a capo chino intento a fissarsi le scarpe. Era difficile per me vederlo in quello stato, soprattutto perché da sempre era stato quello più spensierato e allegro dei due. Ero io quella coi piedi per terra.
Ignorai quella brutta sensazione. «Si riconosce in questo articolo, Miss Cloverfield?» le dissi, camminando lentamente verso il posto in cui era seduta e mostrandole esattamente la foto che la ritraeva in uno dei vecchi giornali mondani che aveva dimenticato di “comprare”.
Gli occhi azzurri e guizzanti di rabbia della ragazza mi fulminarono da parte a parte. Se al posto delle lunghe unghie laccate di rosso avesse avuto un coltello affilato, ero sicura mi avrebbe tappato la bocca per sempre.
Questo lo faccio soltanto per te, Simo.
«La signorina Cloverfield, dopo mesi di fidanzamento con il nostro testimone, ha pensato bene che la fama che aveva acquisito non fosse abbastanza, per cui, qualche settimana dopo, uscì la notizia di una sua improvvisa gravidanza,» e lì ci fu il colpo di scena.
St. James si voltò verso la sua cliente, senza più assi nella manica.
Mi sentivo piuttosto trionfante. «Tale gravidanza non fu mai riconosciuta dal nostro cliente, alché la storia si concluse in un processo civile, coincidenza alquanto incredibile, ma al momento della riprova del test del DNA, i risultati riscontrati furono del tutto negativi e la signorina Cloverfield perse la causa di allora, senza ottenere alcun beneficio economico. Si tenne soltanto la fama acquisita con lo scandalo,» conclusi.
Avevo spiegato per filo e per segno tutto ciò che mi aveva confessato Mr. Wright, ma ciò non toglieva che l’accusa aveva ancora il test dalla loro parte. Io e James avevamo tentato il tutto per tutto, studiato ogni singola via di fuga per poter arginare quel particolare, purtroppo rimaneva la prova più schiacciante.
Il giudice Simmons si lisciò i folti baffi grigi. «Bene avvocato Donati,» sospirò. «Ho ascoltato questa storia davvero affascinante sulla signorina Cloverfield ma per quanto possa risultare davvero troppo piena di coincidenze, rimane ugualmente una storia.»
Chiusi gli occhi, tentando di non entrare nel panico. «Vostro Onore, il nostro testimone ha rilasciato questa dichiarazione nonostante volesse rimanere totalmente anonimo. Ogni notizia di questa vicenda è stata insabbiata e nemmeno Mr. Force, che abbiamo contattato personalmente, a suo tempo è riuscito a trovare qualche traccia di questo processo negli archivi del tribunale. È troppo sospetto per essere lasciato al caso,» insistetti.
James ed io avevamo calcolato anche quella possibilità.
Magari se Mr. Wright si fosse presentato di persona, come testimone chiave, sarebbe risultato tutto molto più credibile rispetto ad una dichiarazione firmata su un foglio.
Simmons alzò una mano per creare silenzio. «Su un piano logico, avete tutte le ragioni per sospettare di questo caso, ma come dice lei, avvocato, se non sussistono prove concrete della colpevolezza di Miss Cloverfield per frode ai danni di questo vostro testimone, io non posso fare nulla.»
James si alzò in piedi, deciso ad intervenire. «Questa testimonianza scredita la veridicità di ciò che la signorina afferma. Come possiamo pensare che ciò che dice corrisponda al vero, dopo che appena cinque anni fa è successo lo stesso? Come allora, potrebbe aver falsificato i risultati clinici.»
St. James pareva aver riacquistato di nuovo colore. «Come ha affermato il giudice Simmons, non ci sono prove che dimostrino ciò che voi state dicendo. Potrebbero essere delle menzogne che ha inventato quel giornalista, se non avete nemmeno un testimone da presentare alla corte, potreste aver inventato tutto voi. Dal momento che la prova che l’accusa ha fornito è schiacciante, sarebbe stata l’unica vostra soluzione, appellarvi ad un ragionevole dubbio.»
Era prevedibile succedesse una cosa del genere, ma non avevamo nient’altro in mano. Molto dipendeva anche dal giudice che si aveva di fronte, che fosse comprensivo o meno. Simmons pareva abbastanza realista nelle sue decisioni ed ora saremmo dovuti passare al piano B.
«Concedo una pausa di un paio di ore per riorganizzare le due parti,» disse, sbattendo con il martelletto. «Voi portatemi delle prove oppure sarò costretto a prendere una decisione definitiva. Questo processo si è dilungato anche troppo per i miei gusti.»
***
«Dobbiamo contattare Wright!» si allarmò James, appena fuori l’aula. Armeggiava con il cellulare nella speranza che l’attore potesse essere disponibile per una apparizione in extremis.
Mi accasciai su una panchina poco distante, completamente priva di forze. L’adrenalina che avevo accumulato dopo che James mi aveva lasciato in mano le redini del caso, stava esaurendo ogni mia forza. Ero completamente svuotata.
«Non è detto che si presenti in aula,» gli ricordai, conoscendo bene George Wright. La sua smania di privacy lo aveva ridotto ad una specie di eremita-mezzo metallaro che insisteva a starsene tutto il giorno rintanato nel suo appartamento.
L’avvocato mi fissò in tralice. «Non dobbiamo assolutamente arrenderci, tu contatta il giornalista, magari può esserci utile anche lui!»
Era davvero preso dal panico, soprattutto perché ormai ci trovavamo alle ultime battute. Nel giro di quella giornata avremmo vinto o perso, non c’era più molto da fare. Avremmo dovuto giocare tutte le nostre carte.
Gabriele intervenne. «Ma com’è possibile che ogni documento di quella causa sia andato perduto?»
Sospirai. «Pare che la ragazza che tuo fratello ha deciso di rimorchiare,» spiegai, con una voce piuttosto acida. «Fosse una specie di James Bond e che conoscesse mezzo mondo all’interno dell’alta borghesia inglese. Ha insabbiato ogni cosa pur di mantenere la sua apparenza.»
Sofia era sconvolta. «Incredibile.»
Simone sembrava un fantasma. Appoggiato contro lo stipite della grande porta d’ingresso della Royal Court of Justice, osservava come le nuvole correvano veloci senza dare apparente attenzione a ciò che lo circondasse. Era quasi invisibile.
Magari ha perso la speranza.
Scacciai quel pensiero perché davvero non volevo crederci. Io e James stavamo tentando in tutti i modi di poter trovare una soluzione, ma se Simone si era già arreso sarebbe stato tutto inutile.
«Non risponde, dobbiamo andare da lui!» disse James, completamente preso dal panico.
Annuii convinta e cercai di fare mente locale. Dovevamo trovare la strada più breve per il suo appartamento e poi convincerlo a testimoniare. Uscimmo in fretta e furia dal tribunale, voltandoci per cercare la fermata della Tube più vicina.
«Farete prima con la macchina di Simo!» suggerì Sofia, ovviamente.
L’idea di coinvolgere Simone in quella piccola gita mi terrorizzò. Non sapevo come avrebbe reagito, soprattutto perché ci ritrovavamo sempre stretti nel solito triangolo che tanto lo faceva arrabbiare.
Senza scomporsi, frugò tra le tasche del bellissimo completo e lanciò le chiavi in direzione di James. Non aggiunse una parola. Era come se di Simone Sogno fosse rimasto soltanto l’involucro vuoto, senza nessuna luce nello sguardo.
«Andiamo,» suggerì James, trascinandomi verso la piccola autovettura.
Lo seguii quasi riluttante. Da una parte avrei voluto occuparmi personalmente di Mr. Wright ma dall’altra mi faceva male lasciare Simone in quello stato.
È colpa tua se è ridotto così.
Ignorai ancora una volta la cosa giusta da fare e seguii James, salendo in auto. Quella tappezzeria profumava esattamente come Simone e la nostalgia mi assalì tutta insieme. Era strano quanto facessero male i ricordi, soprattutto quando la persona con cui saresti voluta essere era a pochi passi da te.
«Devi proseguire dritto e girare alla prima a destra,» dissi, rendendomi utile e seguendo le indicazioni del navigatore. Dovevamo raggiungere la casa dell’attore nel minor tempo possibile, anche perché non sarebbe stato affatto facile convincerlo a presentarsi in aula.
Ci mettemmo circa una mezz’ora di viaggio per arrivare, cosa che magari ci fece ritardare molto sulla tabella di marcia. Forse avremmo dovuto calcolare un risvolto del genere e contattare qualche giorno prima Mr. Wright in modo da prepararlo psicologicamente a quella presentazione.
«Dobbiamo sbrigarci,» disse James affannato, suonando il campanello.
Come al solito, lo strano maggiordomo dell’attore ci venne ad aprire e, una volta riconosciuti, sbuffò chiamando il proprio capo.
George Wright si palesò all’ingresso vestito unicamente di un paio di mutande striminzite. Cercai di guardare ovunque tranne nella sua direzione, era pressoché ridicolo.
«Ancora voi due! Cosa volete stavolta? Un assegno? Un rene? La mia vita?» sbuffò infastidito.
Decisi di intervenire anche perché avevamo poco tempo. «Ci serve la sua testimonianza, Mr. Wright. La sua presenza in carne ed ossa perché il giudice richiede delle prove più concrete.»
L’attore non parve affatto contento. «Ve lo potete scordare,» scosse il capo. «Non ci penso proprio a rivivere quell’incubo d’accapo.»
Ora cominciava davvero ad infastidirmi. «Non voglio essere scortese,» iniziai, ma quel preambolo significava soltanto che lo sarei stata senza alcun ombra di dubbio. «Come le ho spiegato l’altra volta, il nostro cliente, un ragazzo molto giovane per giunta, rischia di rovinarsi la vita, la carriera e il futuro per colpa di una donna senza scrupoli. Ora, so che è difficile rivivere le cose che ha passato, ma pensi a questo ragazzo che potrebbe aiutare soltanto raccontando la sua vicenda.»
Mi pareva di essere stata abbastanza chiara e piuttosto appassionata. Sentivo il cuore battere a mille, soprattutto ricordando il volto di Simone emaciato e deperito. In che modo avrebbe affrontato il futuro se avessimo perso la causa? Una vita costretta a pagare quella donna e l’umiliazione dei media una volta scoperto cosa avesse fatto.
Mr. Wright parve soppesare le mie parole. «Magari se avessi avuto all’epoca un avvocato come lei, signorina, non mi sarei ridotto in questo stato.»
Fui notevolmente sorpresa di quel complimento. «C-Come?»
«Acconsentirò a testimoniare soltanto se lei risponde ad una mia semplice domanda. Voglio capire il motivo per cui ci tiene così tanto.»
Avrei fatto qualunque cosa pur di riuscire a vincere quella causa.
«Va bene,» risposi.
George Wright sorrise e nonostante fosse completamente in mutande, aveva un’aria piuttosto riflessiva. «Signorina Donati, è o non è innamorata del suo cliente?»
James sgranò gli occhi ed io per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva. «P-Prego?»
«Questa domanda non è pertinente con il caso,» intervenne James.
L’attore scosse il capo. «Il patto è valido soltanto se la signorina risponde sinceramente a questa domanda. Sono un attore, capisco quando la gente mente.»
Rimasi un attimo a pensare sul da farsi, ragionando sulla risposta più adatta che Wright avrebbe voluto sentirsi dire. Il tempo scorreva inesorabile, molto probabilmente saremmo arrivati al tribunale senza nemmeno aver tempo sufficiente per studiare una strategia alternativa ma l’importante era avere l’attore al banco dei testimoni.
Avrei potuto mentire, dirgli che Simone mi stava a cuore ma che non ne ero innamorata, ma sapevo che mi avrebbe scoperta. Addirittura James aveva capito quanto per me il calciatore fosse importante ora come ora, per cui diedi la risposta più logica.
«Sì,» risposi sincera, fissando dritta negli occhi dell’attore. Volevo vi leggesse esattamente la verità, quella sincerità che non avevo mai avuto nemmeno con me stessa. Mai avevo affrontato a tu per tu questo genere di emozioni, giustificandole sempre con altri motivi che legavano la mia vita e quella di Simone ad uno scopo puramente legale. Non mi ero mai seduta a pensare quanto in realtà fosse radicato il sentimento che nutrivo verso di lui, ma il mio inconscio si era sempre difeso. Avevo giustificato ogni mia azione al fine di ottenere quel posto alla Abbott&Abbott ma i due risultati coincidevano per un motivo.
Tu lo ami, anche per questo non gli hai detto del bambino.
«Sì, cosa, mia cara?» cercò Wright, visto che non ero stata molto chiara.
Inspirai a pieni polmoni, cercando il coraggio per ammettere finalmente ciò che mi stava succedendo. «Sì, sono innamorata del mio cliente,» ammisi, più a me stessa che alle persone lì presenti. «Ed è proprio per questo motivo che tengo tanto alla causa, a vincerla e a permettere alla persona che amo di passare il resto della sua vita in tranquillità, senza dover essere schiavo di una donna senza scrupoli.»
James al mio fianco era teso come una corda di violino. Era stato lui a suggerirmi di finire quella storia, soprattutto ai fini della mia carriera, ma in quel momento sapevo che l’ammissione dei miei sentimenti davanti a tutti sarebbero stati come una doccia fredda per lui.
Wright si voltò e sparì in una stanza.
Presa dal panico, pensai che stesse scappando di nuovo nonostante gli avessi detto ciò che si voleva sentir dire. «Ehi!» gridai, un po’ come un camionista calabrese.
Il maggiordomo mi si parò davanti. «Mr. Wright è andato a prepararsi, prego di aspettare qui nell’androne.»
L’importante era l’obiettivo che avevamo raggiunto. Un conto sarebbe stato sprecare un’ora intera per poi tornare a mani vuote, un altro era rientrare con il famoso testimone chiave del processo. Anche se la parola di Wright non era accompagnata da nessuna prova, in quanto io e James non eravamo riusciti a ricavarne nessuna, sarebbe stata una testimonianza più tangibile rispetto a quella scritta su un effimero foglio di carta.
James mi guardò di sottecchi. «Ti senti bene?» mi chiese.
Ma avevo per caso un’espressione moribonda? Pareva che ogni essere che incontravo per strada capisse il mio stato emotivo e mi consolasse.
Sorrisi. «Tutto bene, grazie.»
L’avvocato mise le mani in tasca, ammazzando il tempo di attesa. «Sulla strada del ritorno dovremo preparare Mr. Wright alle possibili domande di St. James,» mi ricordò.
«Ci penso io,» affermai con sicurezza.
Era abbastanza evidente che gli occhi cerulei del bell’avvocato erano indirizzati alla sottoscritta per ben altri motivi. Non sapevo se provasse o meno dei sentimenti per me, dopo tutto quel tempo passato insieme, ma sentirsi dire che amavo un altro sarebbe stato un duro colpo per tutti.
«Senti,» iniziai, non sopportando più quel silenzio di cortesia. «Mi dispiace per quello che ho detto, ma voglio soltanto vincere questa causa e dare fine all’incubo che ormai mi sta perseguitando da mesi.»
James annuì. «Non devi scusarti,» sospirò, aggiustandosi meglio la cravatta color grigio antracite. «Se è quello che provi veramente, non hai scusanti. Nessuno può comandare ciò che prova, anche se ho tentato in tutti i modi di suggerirtelo. Adesso capisco che è una cosa impossibile ed è stata una vigliaccata suggerirti ciò che ti ho chiesto.»
Rimasi a guardarlo confusa. «Avevi ragione, James!» gli dissi convinta. Grazie alla separazione momentanea con Simone eravamo arrivati fino a quel punto di svolta e molto probabilmente avremmo vinto la causa. «Era una decisione che avrei dovuto prendere io stessa molto tempo fa.»
L’avvocato scosse il capo e afferrò delicatamente una mia mano, portandomi a fissarlo in quegli occhi sinceri. «La soluzione che ti ho suggerito era sì logica,» ammise contrito. «Ma per lo più era dettata da un’istantanea gelosia che non ho saputo sopprimere nel mio animo e che mi ha portato ad importi una decisione del genere. Mi dispiace, Venera. È colpa mia se ti sta succedendo tutto questo.»
Apprezzai moltissimo la confessione di James e proprio per questo motivo fui contenta di averlo ancora al mio fianco, come amico prima di tutto. Gli sorrisi per rassicurarlo, anche perché mi era capitato tante volte di sbagliare, proprio come lui.
«Indipendentemente dai motivi che ti hanno spinto a suggerirmi questo, era una cosa che ho deciso io stessa, senza alcuna condizione. Il mio lavoro è stato sempre importante per me, ma adesso sto capendo che ci sono anche altre priorità nella vita ed è forse proprio grazie a questa separazione che mi hai importo, che posso dire di aver fatto chiarezza.»
Mi meravigliai di me stessa, soprattutto per non essermi lasciata trasportare troppo dall’emozione e inveire stupidamente contro James. Non aveva colpa di nulla, proprio perché quella lontananza e quel dolore che stavo provando mi avevano aiutato a capire quanto tenessi a Simone.
Mi avevano permesso di scegliere.
«Dunque, dove si trova questo tribunale?» chiese Mr. Wright, completamente rimesso a nuovo.
Sgranai gli occhi e per poco la mascella non mi cadde sul pavimento. Al posto della barba lunga e dei capelli incolti, trovammo una peluria abilmente scorciata e curata, insieme ad una pettinatura all’indietro curata e con molto gel. Si era addirittura vestito di tutto punto, con un paio di pantaloni eleganti dal taglio classico, una camicia finemente stirata e un gilet elegante.
«Da questa parte, prego,» disse James che aveva riacquistato l’uso della parola notevolmente prima della sottoscritta.
Uscimmo dall’appartamento di Mr. Wright per dirigerci verso la piccola cinquecento blu metallizzata di Simone. Durante il viaggio di ritorno, preparai alla bell’è meglio il nostro testimone chiave sulle domande che avrebbe potuto ricevere da St. James. Era consuetudine da parte dell’accusa trovare quelle domande uguali e contrarie che avrebbero messo dei dubbi al giudice riguardo la veridicità degli eventi appena descritti.
Domande vere e non vere.
Tentai di citargliene qualcuna, ma avremmo dovuto fare appello alla sorte in quel caso perché era del tutto impossibile prevedere ogni singola questione che l’accusa avrebbe presentato al banco dei testimoni.
«Eccoci arrivati,» annunciò James, parcheggiando di fronte la Royal Court of Justice. Tentai di scorgere il volto triste ed emaciato di Simone che ci aspettava, ma vidi soltanto Gabriele che camminava avanti e indietro nervosamente.
«Era ora!» disse burbero.
«Questo è il nostro testimone, George Wright,» dissi, facendo le presentazioni.
Gabe parve finalmente riconoscere la figura dell’attore, sparito dalla vita mondana londinese ormai da anni.
«Mr. Wright è un immenso piacere,» disse estasiato.
«Quanto tempo ci è rimasto?» chiesi allarmata. «E dove sono tutti?»
Con quel “tutti” ovviamente mi riferivo soltanto a Simone. Mi ero spaventata trovandolo così a pezzi, sia emotivamente che fisicamente. Non vedevo l’ora che questo incubo finisse per potergli spiegare la situazione.
Gli dirai tutte le tue verità?
Per gradi gli avrei parlato di ogni cosa, passo dopo passo avremmo affrontato tutto insieme.
Gabriele mi fissò stranito. «Manca mezz’ora e il giudice richiamerà tutti in aula, spero per voi che Mr. Wright risolva questa enorme truffa. Perché se si tratta di questo, la signorina Cloverfield farebbe bene a cambiare nome, cognome e addirittura pianeta.»
Appoggiai in pieno la conclusione del fratello maggiore di Simo, questa volta la giraffona non avrebbe insabbiato tutto. Bisognava portare la verità a galla il più presto possibile.
«Presto, entriamo.»
Ci dirigemmo nel corridoio di fronte all’aula di tribunale che avrebbe ospitato l’altra metà del processo di lì a pochi minuti. L’obiettivo mio e di James era di non far incrociare Miss Cloverfield con Mr. Wright prima dell’inizio della causa altrimenti si sarebbero potuti creare degli attriti che non volevamo condizionassero la testimonianza dell’attore.
«Lei aspetti qui,» disse James, muovendosi in lungo e in largo per andare a organizzare un minimo di piano d’azione per dopo.
Mi sedetti vicino a Mr. Wright, cercando disperatamente con lo sguardo la presenza di Simone che sembrava essersi volatilizzata. Cominciai davvero a preoccuparmi, soprattutto perché nessuno di noi aveva calcolato la possibile assenza di una delle due parti al processo.
«Sei preoccupata, chérie?» mi chiese Wright, vedendo com’ero seduta al bordo della panchina, completamente tesa.
Annuii distrattamente. «Non lo vedo da nessuna parte,» gli confessai preoccupata.
Gabriele fece il suo ingresso qualche minuto dopo, seguito a ruota dai suoi due fratelli. Per fortuna, avrei sempre potuto contare su di lui visto quanto ci teneva a tenere alto il nome della sua famiglia.
«Grazie al Cielo!» sospirai a bassa voce, anche per non farmi vedere troppo entusiasta di vederlo comparire nell’edificio. Era una sorta di gioco di espressioni, visto che nessuno dei due sembrava cedere per primo.
Simone pareva un po’ più riposato, forse era riuscito a distendere i nervi e a fare qualcosa che gli permettesse di essere meno ansioso.
«Ora posso dire con certezza che quello che mi ha detto corrisponde alla realtà, Miss Donati,» disse l’attore sorridendo.
Lo guardai confusa. «Prego?»
Avrei voluto chiedere più spiegazioni in merito alle affermazioni enigmatiche che Mr. Wright stava facendo, purtroppo il giudice richiamò tutti in aula. Procedetti a passo spedito, appena dopo James e ci sedemmo alla scrivania dove Simone aveva già preso posto. Oltre alla sua espressione corrucciata, una nuvola nera e intensa sembrava lo circondasse quasi ad esternare ancora di più il dolore che stava provando. Mi sentii profondamente in colpa, ma cercai di guardare oltre.
Mi ringrazierà dopo, dissi a me stessa.
Se mai ti vorrà rivolgere la parola.
«Avvocato St. James, avvocato Abbott,» iniziò Simmons, richiamando subito al banco i due rappresentanti della legge. «Avete avuto tempo sufficiente per riconsiderare la testimonianza? Avete raggiunto un compromesso? Ci sono nuove svolte in questo caso che pare infinito?» sospirò.
James si avvicinò con aria raggiante. «Vostro Onore, chiamiamo il signor George Wright come testimone chiave a sostegno della prova che abbiamo portato all’attenzione della corte in precedenza.»
St. James non si scompose e nemmeno la Cloverfield.
Simmons parve sorpreso invece. In fondo, Mr. Wright anche se era scomparso dalle scene per parecchio tempo, rimaneva comunque una figura di spicco. «Prego Mr. Wright, venga pure avanti,» gli disse.
L’attore prese posto di fianco al giudice, al banco dei testimoni. In un processo civile, spesso e volentieri era difficile fossero presi in considerazione addirittura “terze parti” ma in quel caso sarebbe stato obbligatorio. Non vi erano ulteriori prove documentate che confermassero ciò che era accaduto a Mr. Wright e lui rappresentava la colonna portante della nostra tesi.
«Bene avvocato Abbott, a lei il teste,» disse il giudice.
James inspirò e si preparò mentalmente le domande giuste. «Signor Wright,» iniziò. «Cinque anni fa lei è stata vittima di una vicenda davvero spiacevole. Vorrei gentilmente chiederle di riassumerci tale situazione e soprattutto indicare, se possibile, qui in aula l’autrice di tale “raggiro”, se così può essere chiamato.»
George Wright annuì, piuttosto calmo. Rispetto a quando lo avevo conosciuto il primo giorno, si stava comportando piuttosto razionalmente. Possibile che era bastato così poco a convincerlo a collaborare?
«Il mio incubo ebbe inizio cinque anni fa e la protagonista di questa vicenda confermo che si trova qui in aula,» iniziò l’attore, dando anche troppa enfasi al racconto, quasi la stesse recitando.
Raccontò la sua storia per tutto il resto del tempo, si prese ogni minuto possibile pur di chiarire qualsiasi punto confuso ci fosse. Raccontò di come era avvenuto l’incontro con Elizabeth, di quanto bella fosse e di come lo attirasse fisicamente, poi passò al periodo di vita “felice” che avevano passato insieme. Sembrò sinceramente dispiaciuto e compresi che magari si era impegnato davvero in quella storia, ci credeva, ma era svanito tutto e nel giro di poco tempo aveva visto ogni suo sogno frantumarsi in mille pezzi.
Tutto per colpa di un obiettivo che Elizabeth voleva a tutti i costi.
Mi ricorda un po’ qualcuno.
No, questa volta il mio cervello aveva preso un abbaglio. Per quanto all’epoca ero sicura di me stessa e dell’obiettivo che volevo raggiungere nella vita, sicura che sarei passata sopra a chiunque pur di ottenerlo, adesso ci avrei pensato bene due volte. Simone non era più una cotta, ormai. Lui era molto di più.
«E quindi, mi corregga, si è ritrovato ad avere una ex-fidanzata che affermava di portare in grembo suo figlio e pretendeva da lei una sorta di risarcimento,» intervenne James.
L’attore annuì. «Le avevo anche proposto di sposarmi, per via del bambino, ma era ovvio che non volesse. Si era giustificata dicendo che tra noi non poteva funzionare, ma avrei dovuto assicurare un futuro a mio figlio. Un figlio che non è mai realmente esistito tra l’altro.»
Se soltanto pensavo a cosa sarebbe successo a Simone se non avessimo scoperto la storia di Mr. Wright, mi si accapponava la pelle. Una vita costretta a risarcire una donna che avrebbe sperperato tutti quei soldi illegalmente guadagnati. Magari alla fine avrebbe addirittura ammesso di aver perso il bambino, visto che non poteva portare avanti quella farsa per troppo tempo, ma di sicuro avrebbe finito col rovinare la vita di Simone.
La detestavo. Non c’era maniera più infima che sfruttare un uomo per ottenere soldi e successo. Non avrebbe mai potuto contare su sé stessa, come io avevo sempre fatto, perché Elizabeth Cloverfield era una donna di poca sostanza. Evidentemente il suo unico talento era fregare gli altri.
L’attore continuò il suo racconto, fino a quando non giunse a descrivere tutto il processo e l’infinità di scartoffie che dovette presentare in tribunale. «I miei avvocati giocarono subito la carta del test, chiedendo una riprova, dal momento che Miss Cloverfield si reputava tanto sicura della sua situazione fisica. I risultati, però, si rivelarono negativi ed io vinsi la causa, dopodiché non seppi il motivo dell’insabbiamento.»
Nessuno di noi realmente lo sapeva. Per quale motivo quella donna aveva fatto di tutto per nascondere ciò che era successo? Forse il suo desiderio di sfondare nella vita mondana di Londra l’aveva portata a pensare che ripulire il proprio passato l’avrebbe aiutata.
«Avvocato, ha altro da aggiungere?» chiese Simmons, in direzione dell’accusa.
St. James a quel punto si alzò in piedi. Era calmo, disteso, sembrava ancora avere del tutto in mano la situazione. Quella sua espressione decisa e rilassata mi mise molta ansia.
«Siamo davvero colpiti dal suo illustre racconto, Mr. Wright,» iniziò, camminando avanti e indietro per tutta la lunghezza dell’aula. Mi faceva venire il nervoso! «Per quanto le sue parole siano commoventi e risentite, in quest’aula di tribunale si sta affrontando una questione completamente diversa che esula da questa vicenda conclusasi cinque anni orsono.»
«Vostro Onore…» tentò di insistere James, ma il giudice lo zittì con un cenno della mano.
Carl St. James sorrise di quella piccola vittoria. «Dunque, questa testimonianza ha un valore puramente etico, perché per quanto il giudice Simmons possa prendere in considerazione quanto udito in quest’aula, le mancate prove empiriche a tale teoria scagionano completamente la mia cliente dall’essere coinvolta. Come avete detto voi poc’anzi, avvocato Abbott, ogni traccia di questa vicenda è stata “cancellata” dagli archivi del tribunale e per quanto possiamo essere comprensivi,» e qui tirò fuori un sorriso mellifluo che mi fece saltare completamente i nervi. «Mancano le prove, e fino a prova contraria sono quelle che valgono nella legge moderna.»
Aveva ragione, per quanto la testimonianza di Mr. Wright aveva apportato un minimo di veridicità a quella storia, rimaneva pur sempre tale. Qualcosa di “raccontato” a voce e non sostenuto da documenti, fotocopie, file o quant’altro.
Non avete nulla in mano.
«È qui che si sbaglia, avvocato,» disse l’attore, alzandosi in piedi e richiamando l’attenzione del suo maggiordomo che non avevo idea di come avesse fatto a raggiungere la Royal Court of Justice.
L’uomo vestito in stile metal, portò una cartella carica di documenti in direzione di James che, stravolto, tentò di dare un senso a tutto ciò che stava succedendo e che prima o poi ci sarebbe sfuggito di mano.
«Cosa sta succedendo avvocato Abbott? Può dare una spiegazione alla corte?» il giudice Simmons pareva piuttosto alterato.
James non sapeva cosa rispondere.
«Questa è tutta la documentazione del caso Wright-Cloverfield di cinque anni fa, che ho richiesto dagli archivi privati dei miei avvocati,» spiegò l’attore. Dentro di me sembrò quasi che un macigno fosse stato spostato dal mio cuore e ringraziai mentalmente quel colpo di scena che aveva un po’ risollevato la situazione.
St. James era bianco come un lenzuolo.
Aveva avuto un paio d’ore per riorganizzare la sua linea di attacco, ma evidentemente Elizabeth gli aveva assicurato di aver fatto piazza pulita di tutti i documenti. Poco dopo l’avvocato guardò la sua cliente rimproverandola con gli occhi.
Il giudice Simmons si fece passare i documenti dall’usciere. «Questi fogli sono siglati dal tribunale stesso, possibile che non ci sono copie autenticate nei nostri archivi?»
Adesso era realmente alterato. La Cloverfield non rischiava solamente di perdere la causa, ma addirittura di venir indagata per oltraggio alla corte e falsificazione di documenti.
St. James cercò di arginare la situazione. «Vostro Onore, proprio perché non esistono documenti corrispondenti negli archivi del tribunale, quelli presentati da Mr. Wright potrebbero essere dei falsi!» insinuò.
Quella situazione si giocava tutta sull’incolpare l’uno o l’altro di falsa testimonianza. Cominciavo davvero ad essere scocciata da tutta quella situazione, soprattutto perché Simone pareva come al solito assente. Era quasi come se tutta quella storia non lo riguardasse, se stesse lì soltanto per tenere il posto a qualcuno che sarebbe venuto dopo di lui. Mi faceva profondamente soffrire vederlo in quello stato.
Intanto in aula imperversava il caos. St. James accusava Mr. Wright di aver portato dei documenti falsi, Jamie tentava in tutti i modi di dare credito al suo testimone e la Cloverfield gridava solamente “bugiardo!” in direzione dell’attore. Ormai si era giunti ad un livello di intollerabilità che nemmeno ad un mercato il sabato mattina.
«ORDINE! ORDINE!» gridò Simmons, sbattendo violentemente il martelletto sul tavolo. «Avvocati, richiamate all’ordine i vostri assistiti altrimenti dovrò accusarvi di oltraggio alla corte!»
Finalmente si riuscì ad ottenere una situazione di calma apparente.
«Avvocato Abbott, terrò conto della testimonianza di Mr. Wright ma e sicuramente aprirò un caso sulla “misteriosa” sparizione di questi documenti,» disse poco convinto. «Tornando alla questione del caso Sogno-Cloverfield, nonostante le coincidenze della storia di Mr. Wright siano alquanto sospette, nulla può screditare il test positivo di paternità ottenuto dalla clinica St. Charles.»
Per quanto eravamo riusciti a mettere in discussione la veridicità della Cloverfield e a far indagare sul suo discutibile passato, la prova schiacciante che l’accusa aveva presentato sin dal primo giorno era del tutto inattaccabile.
«Se la difesa non ha altre prove o altri tester da presentare, direi di procedere con la sentenza per questo caso che finalmente è giunto al termine,» sospirò.
Il mondo intero parve crollarmi addosso in quel momento. Avevamo studiato il caso per quarantotto ore quasi ininterrotte e non eravamo riusciti a trovare nulla che screditasse davvero la questione del test di paternità. L’unica variazione a cui potevamo appellarci, era la clemenza della corte per un ragionevole dubbio che avrebbe ridiscusso tutto il caso. Ma ciò che avevamo auspicato per Simone, non era avvenuto.
«Avvocato Abbott, avvocato Donati, avete da presentare qualcosa?» ci esortò ancora.
Sentii il peso del globo intero gravarmi sulle ginocchia, che stavano per cedermi. Avvertii la sconfitta che letteralmente mi spense, chiuse qualsiasi contatto con il mondo esterno e l’unica cosa che desideravo in quel momento era scomparire. Ogni sacrificio era stato fatto pur di ottenere il massimo dalla riuscita di quella causa, eppure, come ogni finale che non appartenesse ad una fiaba d’altri tempi, fece molto male. Mi resi conto che non solo avevo perso il lavoro, la causa e la credibilità, ma soprattutto mi ero lasciata alle spalle l’unica persona che si era affidata completamente alla sottoscritta.
In quel momento volevo soltanto affondare tra le sue braccia, sentirmi protetta e rassicurata. Accarezzata. Avrei voluto dirgli tante cose, ma qualsiasi parola mi pareva insufficiente rispetto a ciò che provavo nei suoi confronti. Adesso che nulla aveva più importanza, mi rimaneva ciò che era sempre importato davvero.
«Vostro Onore!»
Un’altra irruzione in aula mi destò completamente dalle mie riflessioni, facendomi trasalire. Yuki Kamigawa fece il suo ingresso alla Royal Court of Justice, seguita da una signora che non avevo mai visto.
Ci mancava soltanto lei a completare il quadro!
«James, ma…» tentai di intervenire, ma l’avvocato mi fermò.
«È tutto okay, Ven. La stavo aspettando.»
Cosa? Da quando James e Yuki collaboravano? Per quale motivo quella giapponesina aveva preso il mio posto?
Rimasi completamente basita e il terrore che potessi essere sostituita all’ultimo, soprattutto per la mia inadempienza, fece crollare ogni mia certezza. Vidi Yuki che attraversava tutto il corridoio fino a giungere davanti a James e a porgergli un fascicolo che riportava il simbolo del St. Charles.
Lo riconobbi bene perché era identico a quello che mi era stato consegnato pochi giorni prima.
«Avvocato Abbott? La prego di fare chiarezza a questa Corte,» disse Simmons ormai al limite della pazienza.
James aprì la cartelletta e ne tirò fuori un foglio che subito presentò al giudice. «Chiamo a testimoniare Mary Toldson, infermiera presso la clinica St. Charles.»
Non sapevo da che parte guardare. Possibile che James mi avesse tirato un colpo così basso? Nemmeno ero stata messa al corrente di questa svolta del caso. Contavo meno di zero ormai.
Credo che l’avvocato ti abbia tirato un colpo basso.
Mi augurai proprio di no.
Vidi la Cloverfield alzarsi di scatto e capii che finalmente James aveva giocato il suo asso nella manica. Aveva aspettato l’ultimo secondo utile, ma forse ci era riuscito.
«Grazie ad una collaboratrice del nostro studio,» iniziò James, riferendosi immediatamente a Yuki che sorrideva serafica. «Il cui padre lavora nella clinica appena citata, siamo riusciti a scoprire un caso di “corruzione” all’interno di questo istituto. Signora Toldson, ci racconti per favore cosa è successo.»
La donna seduta al banco dei testimoni aveva circa una sessantina di anni, i capelli grigi e corti suggerivano che era una persona frettolosa, non aveva da perder tempo in acconciature oppure nel trucco.
«Mi chiamo Mary Toldson e sono un’infermiera addetta al reparto di maternità della clinica privata di St. Charles, nel West-side di Londra,» iniziò. «Ho trattato personalmente il caso di Miss Cloverfield, la quale si è presentata da me qualche giorno dopo l’invio dei campioni a laboratorio.»
James approfittò del silenzio della donna. «Quindi conferma che Miss Elizabeth Cloverfield, la donna seduta in quest’aula, dopo che i campioni le erano stati inviati in forma anonima, si è presentata comunque alla clinica?»
La donna annuì. «Devo aggiungere che la signorina ha offerto una lauta ricompensa se avessi fatto in modo di “alterare” tali risultati, che aveva la facoltà di darmi un bonus sul mio stipendio,» ammise.
Era evidentemente dispiaciuta per ciò che aveva fatto, ma in quel momento ero livida di rabbia. Per colpa di quella persona che aveva tradito l’etica del proprio lavoro, Simone aveva rischiato di perdere la propria libertà.
Simmons pareva allibito. «È vero ciò che dice questa donna?» chiese.
A quel punto, Yuki intervenne. «Mio padre lavora come medico all’interno di quella struttura e tramite voci di corridoio è venuto a conoscenza di questo scandalo. Da chirurgo qualificato, si è sentito in dovere di fare pressioni su Mrs. Toldson.»
Ora mi era chiara ogni cosa.
Mr. Kamigawa aveva chiesto ben poco gentilmente all’infermiera di testimoniare, altrimenti sarebbero stati presi seri provvedimenti.
«Qui c’è una lettera firmata dal dottor Kamigawa, questa invece è la testimonianza firmata della signora che ammette di aver ricevuto dei soldi per alterare i risultati delle analisi del sangue,» precisò James.
L’avvocato della controparte non sapeva cosa dire. «Vostro Onore…» tentò ma Simmons lo stroncò sul nascere.
«La prego St. James,» disse, continuando a leggere i documenti. «Non peggiori la situazione della sua cliente, la vedo già bella ingarbugliata.»
Ormai era quasi fatta, mancava soltanto la sentenza ufficiale del giudice.
James si avvicinò lentamente. «Mi dispiace non averti avvertita per tempo Ven,» sussurrò, scusandosi. «Quando sei arrivata con la notizia di Mr. Wright avevo mandato Yuki a verificare se le voci di corridoio che mi aveva riferito fossero vere. Mi sono concentrato unicamente sulla testimonianza del nostro attore, perdendo momentaneamente di vista la storia dell’infermiera.»
«Che invece si è rivelata essere la più concreta,» sorrisi.
Per un singolo istante avevo pensato che James avesse preferito mettermi da parte, visto come il caso ci stava lentamente sfuggendo di mano. In realtà anche lui aveva completamente rimosso quella variazione.
Il giudice Simmons si alzò in piedi, brandendo il martelletto. «Alla luce degli eventi oggi descritti, la Corte dichiara l’imputato Simone Giacomo Sogno innocente da tutte le accuse. La signorina Cloverfield, invece, dovrà rispondere alle accuse di frode, corruzione e falsa testimonianza e verrà indagata per “occultamento di prove”.»
I colpi del martello che picchiavano il legno furono come una liberazione per le mie orecchie.
Finalmente è finita!
Non c’erano più nottate da passare in ufficio, rivedendo mille volte le stesse scartoffie, non ci sarebbe più stata la faccia arcigna di St. James che pensava di avere tutto il mondo ai suoi piedi e finalmente Elizabeth aveva pagato, sia per ciò che in passato aveva fatto a Wright, sia per ciò che avrebbe fatto passare a Simo.
Fu proprio l’attore che mi venne incontro sorridendo. «Alla fine è andato tutto per il meglio e mi avete reso giustizia ancora una volta!»
Nonostante fossero passati cinque anni, quella donna aveva finalmente imparato la lezione e mi augurai che non avrebbe mai più compiuto azioni del genere.
Cercai con lo sguardo James, troppo impegnato a ricevere i complimenti da parte di Gabriele e di Sofia. Yuki era al suo fianco, raggiante. Alla fine si era rivelata più utile di quanto avessi pensato in principio.
Con lo sguardo cercai la persona che in quel momento aveva la mia completa attenzione. Simone era improvvisamente scomparso dall’aula, nessuno riusciva più a trovarlo da nessuna parte. Mi avvicinai a Sofia, cercando di non sembrare troppo isterica. «Hai visto Simo?» le domandai, ma lei scosse la folta chioma riccioluta.
«Credo sia uscito, Miss,» mi rispose il “maggiordomo” strambo di Mr. Wright.
Mi fiondai fuori dall’aula, correndo nonostante le decolté ormai erano fuse con i miei poveri piedi doloranti. Non sentivo nulla, né il dolore delle scarpe, né i morsi della fame e neppure l’usciere che mi diceva di non correre.
Volevo solamente riabbracciare Simo. Volevo dirgli che l’incubo era finito, che finalmente avremmo potuto affrontare la nostra vita insieme nel modo più tranquillo e avremmo smesso di soffrire.
Lo vidi appena fuori dalla Royal Court of Justice. Si era fermato sul primo gradino, osservando il cielo che si era ingrigito tutto d’un botto e aveva cominciato a tuonare. Le prime gocce di pioggia inumidirono la scalinata bianca ed io mi avvicinai quasi in punta di piedi, per paura che fuggisse.
Era una scena piuttosto strana, quasi come se Simone fosse un animale furastico che poteva scappare da un momento all’altro non appena avrebbe avvertito il pericolo.
«Hai un passo leggero come quello di un’elefantessa obesa,» sibilò, spietato come sempre.
«Non devo mica diventare prima ballerina della Scala,» osservai piccata.
Simone si mise le mani in tasca, osservando la pioggia aumentare d’intensità. «È finita allora?» sospirò.
Annuii anche se non poteva vedermi. «Finalmente potrai goderti il resto della tua vita senza che qualche donna senza scrupoli possa rovinartela.»
Fu in quel momento che si voltò ed io vidi gli occhi completamente lucidi e provati di Simone. Le occhiaie scure che rovinavano quel suo sguardo tenue, mi fecero quasi paura. Sembrava malato.
«Hai ragione, nessuna donna riuscirà più a rovinarmi la vita,» disse, dopodiché si diresse verso la sua macchina noncurante della pioggia che batteva.
Lo seguii perché non poteva finire in questo modo. «Aspetta!» gridai, rischiando di scivolare sui gradini.
Simone non si fermò, anzi, attraversò la strada senza nemmeno guardare.
«Fermati, ti prego!» gli dissi, strattonandogli la manica del completo elegante. Nonostante il suo viso emaciato e il suo aspetto completamente stravolto, Simone era ancora in grado di togliermi il fiato.
«Cosa vuoi ancora da me? Non ti basta ciò che mi hai fatto? Ciò che mi hai tolto?» gridò, mentre i passanti si voltavano spaventati.
Cercai di calmarlo. «Ascolta, mi sono comportata da stupida, ma è stata una scelta fatta solamente nel tuo interesse…»
«Oh! Davvero?» sbottò, completamente impazzito. Si avvicinò al mio viso, quasi soffiando sopra le mie labbra la sua rabbia. «Venera in questi tre giorni non ti sei fatta viva, non hai risposto ai messaggi che ti ho inviato e ti sei comportata come se non mi conoscessi. Mi hai trattato come se non fossi mai esistito, come se non fossi stato altro che “uno dei tanti”, un ragazzo con cui divertirsi fino a quando c’era tempo. Ora non dirmi che lo hai fatto per me.»
Non resistetti oltre. «Ho dovuto farlo!» gridai, incurante di ciò che potesse pensare la gente. «Avrei rischiato il licenziamento se non avessi smesso di vederti. Dovevo sospendere tutto fino alla fine di questo incubo e adesso è finita!»
Simone mi fissò austero. «Hai ragione Venera, come sempre,» disse. «Adesso è proprio finita.»
Lo vidi salire in auto senza alcuna possibilità di ribattere. Fece manovra e si immise nel traffico londinese mentre io rimanevo immobile sul ciglio della strada, mentre sentivo l’acqua e il gelo penetrarmi fin dentro le ossa.
Non mi accorsi nemmeno dell’arrivo di Mr. Wright che mi posò la sua giacca sulle spalle, con l’intento di riscaldarmi, e nemmeno di James che mi coprì con il suo ombrello. Scorreva tutto a rallentatore. Ogni ricordo e ogni momento passato con Simone diventò la colonna sonora di quel finale che forse mi sarei dovuta aspettare già da tempo.
Avrei ammesso i miei errori per la prima volta nella mia vita, perché di quello si era trattato. Pensando di fare del bene agli altri, avevo soltanto agito come un’egoista. Ora che finalmente avevo capito di amare Simone, lui, allo stesso modo, aveva smesso di farlo.
Eccoci qui!
Scusate per la lunga assenza ma ero partita e non avevo dietro il piccì, #sob
So... questo è il CAPITOLO tanto atteso, quello del processo, che ha messo bene in chiaro il succo della storia. Ora ci resta solamente una domanda: ''Cosa farà Ven?"
Staremo a vedere.
Voglio comunque augurarvi buone vacanze, anche se x alcuni sono finite #ri-sob e si ricomincia! Manca pochissimo alla fine di questa storia, mi commoziono troppo! Dopo mi aspetta una LUUUNGA fase di rilettura çç
Al prossimo capitolo <3
Marty.
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Capitolo 32 *** Capitolo 30 ***
Capitolo 30
Non avevo mai notato quella piccola macchia di muffa nell’angolo in basso a destra del mio appartamento, esattamente sulla parete di fronte al grande letto matrimoniale. Eppure era lì, anche piuttosto visibile. Si notava lo strato di umidità al di sopra di essa, quegli angoli più scuri al centro e più chiari a mano a mano che la parete veniva letteralmente “mangiata” da quello strano essere vivente.
Ed io mi sentivo come quel povero muro, soggetto alla trascuratezza e abbandonato a sé stesso, incurante dei segni del tempo e della natura.
Erano passati tre giorni da quanto si era concluso il processo, o meglio, da quando Simone era letteralmente scappato dalla sottoscritta lasciandola sola sotto la pioggia. James si era offerto di accompagnarmi a casa e tenermi un po’ di compagnia, Mr. Wright addirittura mi aveva invitato ad una cena evento organizzata a suo nome, proprio perché aveva deciso di smettere di rintanarsi in casa dopo che io stessa gli avevo fatto capire che era controproducente. Avevo rifiutato ogni tipo di offerta.
Ricevevo chiamate su chiamate, tanto che avevo deciso di staccare il telefono per un po’. Avevo bisogno di tempo per elaborare ciò che era successo, per dare un senso e una spiegazione alle mie azioni e a ciò che ne era conseguito.
Davvero hai creduto che Simone potesse fare finta di nulla?
No, infatti.
I miei più grandi timori si erano concretizzati ed ero rimasta sola, come avevo sempre desiderato sin dall’inizio. Adesso posso dedicarmi alla mia carriera.
Mi rigirai nel letto, dando le spalle a quella macchia di muffa che ricordava lo stato di decomposizione in cui verteva il mio corpo in quel momento. Mi sentivo distrutta, incapace di riprendere in mano la mia vita e ricominciare laddove l’avevo lasciata pochi giorni prima.
Se non fai qualcosa, oltre a Simone perderai anche il tuo lavoro.
E così facendo avrei buttato al vento tutti i sacrifici che avevo fatto.
«Voglio scomparire,» sospirai, stropicciandomi gli occhi ancora carichi del trucco del giorno del processo. Una volta rientrata a casa, nemmeno mi ero spogliata. Il letto era diventato il mio primo amante, l’unico che sapesse davvero accogliermi e comprendere silenziosamente come mi sentissi in quel momento.
Ti sei forse già arresa?
«Ho rovinato tutto,» risposi ad alta voce, quasi per concretizzare quella conversazione con me stessa.
E rimanere a letto tutto il giorno, risolverà qualcosa?
Scossi la testa che mi doleva. «No, ma non ho la forza di fare niente. Mi sento apatica.»
Era tutto vero. Più volte in quei giorni avevo pensato di farmi una bella doccia e almeno recarmi al lavoro, giusto per dare un segno di vita anche a James, ma l’idea di mettere un piede fuori dalla porta mi terrorizzava.
Di cosa hai paura?
«Non lo so,» piagnucolai, incapace di dare una spiegazione a quella miriade di sensazioni che contribuivano solamente a farmi stare peggio. «Non ho mai provato un dolore così grande, non ce la faccio ad andare avanti.»
E tu saresti quella che fino a poco tempo fa si permetteva di fare lezioni di vita a tutti? Eri quella che ha sempre dato a Simone dell’immaturo e del ragazzino? Non ti sembra di star facendo lo stesso?
Il pensiero di Simone mi fece salire subito un conato di vomito.
Mi alzai dal letto soltanto per correre in bagno, prima che rigettassi su tutto il pavimento della casa. A completare il quadro di depressione, c’era anche il pensiero fisso della gravidanza che mi accompagnava ogni momento. Avevo promesso a me stessa, molto prima del processo, che se le cose fossero andate male e Simone non avesse accettato l’idea del bambino, me ne sarei presa cura io stessa, con le mie forze, perché non volevo arrendermi a nessun costo.
Quei giorni erano stati sufficienti a mettere in dubbio ogni mia convinzione.
«All’epoca era diverso,» biascicai, stesa sulla tazza del water. Mi tenevo la testa altrimenti ciondolante e tentai di asciugarmi le lacrime. «Lui non mi vuole più vedere ed io non ce la farò mai da sola.»
Ma ti senti? Ricorda i tempi in cui c’eri soltanto tu, quando contavi solo su te stessa senza appoggiarti a nessuno e com’eri determinata!
Cervello aveva ragione, c’era stato un tempo in cui avevo preso delle decisioni, ero riuscita a trascinarmi fuori di casa per intraprendere un’avventura in una città diversa. C’era stato un momento in cui avevo inseguito un sogno, a tutti i costi, ma che adesso rischiavo di farmelo sfuggire di mano.
Quale tipo di Sogno?
Ricominciai a piangere quasi senza rendermene conto. Avevo assolutamente bisogno di sentire qualcuno che fosse vicino, qualsiasi persona mi comprendesse all’istante senza chiedermi nulla in cambio. Ci sarebbe stata Sofia, ma non volevo coinvolgere un membro della famiglia così vicino a Simone, le avrei dovuto spiegare anche della gravidanza e non avevo voglia di dirlo troppo in giro. James sarebbe stato la seconda scelta, lui metà della storia già la conosceva ma sarebbe stato un grosso errore parlargli: innanzitutto avrei dovuto spiegargli il perché ero sparita, lasciandolo solo a riempire scartoffie in ufficio; in secondo luogo, lo avevo coinvolto fin troppo, mettendo a rischio anche la sua posizione.
Non ti sei fatta molti amici, ultimamente.
Di fare nuove amicizie, non ne avevo avuto il tempo, ma avrei potuto “rispolverare” una vecchia conoscenza senza nemmeno sentirmi a disagio. Mi alzai da terra, decisa a fare qualcosa, così mi lavai il viso, ripulendolo dal trucco, diedi una sistemata ai capelli e accesi il computer. Skype era una delle applicazioni più usate per chi abitava all’estero, così decisi di inviare un messaggio a Celeste per dirle se poteva collegarsi.
Il suo lavoro come scrittrice, mentre si laureava, veniva svolto per lo più a casa, quindi era frequente che la mia migliore amica rimanesse nel suo appartamento per lavorare. Attesi la risposta che non tardò ad arrivare.
Dopo pochi minuti, vidi il pallino verde accanto al suo nome, così la contattai.
Il suono caratteristico del programma diede il via alla schermata nera, da cui comparve il volto rilassato e sorridente della mia migliore amica.
«Ehi Ven!! È da un secolo che non ci sentiamo! Come stai?»
I suoi occhi azzurri e grandissimi mi trasmisero quella sicurezza che in quei giorni avevo perso. «Ciao amica,» sorrisi. «Diciamo che sono in una situazione un po’ particolare, ma una parte della mia vita si può dire che va bene.»
Lo sguardo di Celeste si fece più serio. «Raccontami bene tutto, altrimenti non posso aiutarti,» mi disse e allora iniziai dal principio. Partii da quando mi era stato affidato il caso giudiziario di Simone, le pregai di non farne parola con il suo fidanzato, dal momento che Simone ci teneva molto alla sua immagine nei confronti del cugino, e poi andai in ordine. Le parlai del flirt che c’era stato con il mio collega James, le dissi della festa del college, le parlai della famiglia di Simone e del calore che mi aveva lasciato. Si stupì molto di quel mio racconto, soprattutto quando affrontai la parte del cambiamento che avevo avuto nei confronti del calciatore.
«E così anche tu hai ceduto,» sorrise, forse anche un po’ contenta di quella mia ammissione. Inizialmente si arrabbiò, soprattutto perché pensava di essere più importante e che quella confessione sarebbe stata una delle prime cose che le avrei detto, ma alla fine comprese la mia posizione. Non potevo parlarle del caso finché non fosse finito, non potevo dire nulla di me e Simone, perché già era una storia clandestina e meno persone ne fossero venute a conoscenza, meglio sarebbe stato per la sua immagine e per quella dello studio in cui lavoravo.
«Le cose sono peggiorate quando ho detto tutto a James, anche perché avevo dei continui mal di testa e delle nausee. Quindi mi sono recata dal dottore,» le dissi, tirando fuori l’argomento più spinoso di tutti.
Celeste rilassò il viso, sempre più sconcertata. «Parla!» mi ordinò.
Le raccontai dei risultati delle analisi che avevo ritirato alla clinica, alla conferma che avevo inviato al mio medico di fiducia e alle reazioni di James. Le dissi che mi aveva suggerito di chiudere temporaneamente la storia con Simone, per il bene dello studio, ed io avevo preso in parola ciò che aveva detto.
Le troppe informazioni recepite dalla mia migliore amica, sul momento, la mandarono in confusione. Non sapeva a quale di esse dare la priorità, così prese un lungo e silenzioso respiro per poi fare il punto della situazione. La sua immagine, sul monitor del pc, non era molto nitida e spesso, per problemi legati alla connessione lenta, le sue parole arrivavano in ritardo rispetto alla mimica del volto.
Non ci diedi troppo peso.
«Premetto che ti odio!» anticipò, lasciandomi di sasso. «Sono la tua migliore amica e diventerò presto zia, come ti è saltato in mente di dirmelo soltanto adesso?!»
«Mi dispiace,» mi giustificai ma non c’era molto da dire. Ero stata una stupida a non affidarmi a Celeste, che mi aveva supportato da quando eravamo adolescenti al liceo. Aveva tutte le ragioni per essere incazzata con me. «Ti autorizzo ad odiarmi e a non parlarmi più, se vuoi,» ma dentro di me pregai che non desse peso a quelle mie parole.
Il volto corrucciato della mia amica si distese. «Non dire cazzate!» ridacchiò. «Più che altro mi chiedo come hai potuto essere così stupida?»
«Cioè?» le domandai stupita. «A quale parte ti riferisci?»
Pensai dicesse riguardo all’uso di precauzioni, soprattutto perché entrambe eravamo sempre state intransigenti su questo punto.
Scosse la testa energicamente. «Come hai potuto dare retta a ciò che ti ha detto James?» mi chiese stupita. «Se mi fossi trovata nella tua situazione, non avrei potuto farcela.»
Le mie salde motivazioni cominciarono a vacillare. «Avrei perso l’opportunità di lavorare allo studio, non potevo rischiare che scoprissero la mia tresca,» mi giustificai.
Celeste parve sconfitta. «Ven, Ven, Ven, sei troppo razionale! Se fosse stato un buon amico quanto dici, James non avrebbe mai fatto la spia né ti avrebbe detto di lasciare Simone. Inoltre, anche se il suo pensiero era mosso da tutte le migliori ragioni del mondo, io stessa non avrei mai seguito quel consiglio, a costo di rischiare tutto. Da quello che mi hai raccontato, amica mia, capisco che ti sei presa proprio una bella cotta per il cuginetto di Leo, ma ti sei comportata molto male nei suoi confronti.»
Aveva pienamente ragione, non mi sarebbe nemmeno servita la video-chat con lei. Erano parole che già mi ero ripetuta mille volte nella mente, ma mi serviva qualcuno dall’esterno che me le urlasse contro, affinché capissi una buona volta di aver fatto una cazzata.
La sentii sospirare, vedendo l’espressione sul mio viso diventare funerea. «Venera, tesoro,» disse sorridendo. «Nulla è perduto ancora, ognuno di noi ha avuto la sua occasione e magari se l’è lasciata sfuggire ma la vita ne è piena di queste opportunità. Vedrai che il treno passerà di nuovo, ma tu devi essere pronta a salirci sopra.»
«Cosa mi suggerisci di fare?»
Ci pensò su, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Innanzitutto devi riprendere in mano la tua vita, cominciando da una bella doccia. Sistemati e vai allo studio, fatti vedere, prenditi i tuoi meriti per il caso che hai risolto e continua ad essere te stessa. Le cose si aggiusteranno, vedrai.»
Apprezzai molto il suo consiglio. Mi aveva fatto davvero bene sentirla e soprattutto farmi aiutare come un tempo. «Grazie.»
Celeste ridacchiò. «Ricordati che ci sono sempre, anche se non mi coinvolgi più nella tua vita. Rimarrò sempre ad aspettarti e non sparire! Voglio sapere ogni cosa sul mio nipotino e comincerò subito a convincere Leo a partire di nuovo per venire a trovarti!»
Finalmente avevo trovato quella spensieratezza perduta in quei giorni di fossilizzazione. Salutai la mia migliore amica e decisi di seguire il suo consiglio alla lettera, cominciando dalla doccia e dal sistemare il mio appartamento. Mi sarei recata in ufficio subito dopo la pausa pranzo, così tirai fuori uno dei miei soliti completi da lavoro, mi truccai velocemente e uscii subito di casa.
Mentre mi recavo verso la fermata, accesi il cellulare.
Sul display vidi lampeggiare una scia infinita di messaggi e telefonate perse. C’era James che mi chiedeva che fine avessi fatto, Sofia che aveva tentato più volte di telefonarmi per chiedermi come stavo, addirittura trovai una chiamata persa di Gabe.
Ti ha chiamato perfino il fratello-figo.
Mi ero isolata dal mondo proprio per sfuggire a tutta quella sfilza di domande e di compatimenti che ne sarebbero seguiti. Odiavo la gente che provava pena per me, soprattutto chi era a conoscenza della mia situazione fisica. Anche se sola, ero comunque la stessa ragazza forte e determinata di prima e sarei riuscita a ottenere tutto quanto se mi fossi impegnata al massimo.
Anche Simone?
La sua questione era ancora una spina che mi faceva sanguinare, ma l’avrei affrontata a tempo debito. A costo di farmi sbattere la porta in faccia, avrei provato a spiegare le mie motivazioni anche a lui. Gli avrei semplicemente detto ciò che era successo, esponendo bene i fatti come il mio lavoro mi aveva insegnato, e avrei atteso un suo giudizio. In fondo, non poteva andare peggio di così.
Ignorai il telefono cellulare ed entrai nella fermata di Lancaster Gate.
Avevo paura ad entrare in ufficio, soprattutto dopo essere sparita per ben tre giorni senza dare alcuna notizia a nessuno. Sostai un po’ di fronte all’entrata, poi raccolsi il coraggio e decisi di presentarmi in ufficio.
Alle 14.20 di Giovedì, la Abbott&Abbott era un fiume di persone che non riuscivano a stare minimamente ferme. Riconobbi gli altri quattro tirocinanti, compresa Yuki, alle prese con decine e decine di scartoffie da sistemare, per non parlare dei telefoni che squillavano come fossero impazziti.
«Chi non muore, si rivede!» osservò Yuki piccata, sorpassandomi e andando a svolgere le sue faccende.
Tentai di ignorare quell’impulso di ucciderla seduta stante, così tentai di prendere una decisione concreta e mi recai nell’ufficio di James. Bussai timidamente, quasi con il timore di poter sfondare la porta.
«Avanti!» si udì distintamente dall’altra parte, così avanzai.
Trovai il bell’avvocato alle prese con il suo pc, intento a digitare qualcosa di davvero importante perché non distolse lo sguardo dal monitor nemmeno per vedere chi fosse entrato. Quando se ne accorse, rimase molto stupito.
Si alzò in piedi di scatto e corse ad abbracciarmi. «Ero preoccupatissimo,» mi confessò. Arrossii a quella premura, soprattutto perché avevo immaginato una reazione diversa. James era pur sempre la persona galante ed educata che avevo conosciuto quel primo giorno di lavoro sulla Tube.
«Mi dispiace, mi serviva del tempo,» mi giustificai.
Lui sospirò comprensivo. «Ho detto a mio zio che non ti eri sentita bene, ha capito. Comunque è un comportamento che non è passato inosservato qui in ufficio,» mi spiegò.
Compresi il punto di vista di August Abbott, soprattutto quando, alla conclusione di un lungo e dispendioso processo, una delle tirocinanti incaricate di occuparsene spariva da un giorno all’altro.
«Rimedierò,» dissi sicura, rimboccandomi metaforicamente le maniche.
James sorrise. «D’ora in poi voglio vederti così motivata a studio, cerca di lasciare i brutti pensieri al di là di quella porta,» disse, indicando quella del suo ufficio. «Ricordati che qui con me sei al sicuro.»
Provai una strana sensazione in quel momento, anche se apprezzavo le parole dell’avvocato. Mi sentii profondamente a disagio, come se mi trovassi improvvisamente in un luogo a cui non appartenevo. Tentai di scrollarmi quella sensazione di dosso, ma il modo in cui mi fissava James mi metteva ancor più in soggezione.
Stiracchiai un sorriso e mi allontanai, tanto per rimarcare una zona di separazione tra di noi. «Bene, cosa ci è rimasto da fare?» chiesi.
James tornò a sedersi alla propria scrivania, finendo di scrivere. «Sto redigendo il rapporto sul caso che si è appena concluso, ma bisogna occuparci immediatamente di una questione piuttosto spinosa. È uscita l’altra mattina in edicola,» disse, prendendo una rivista e girandomela di fronte agli occhi.
Appena lessi il nome Daily Voice ebbi un brivido di terrore.
Essendo completamente assorbita da ciò che era successo in quei giorni, compreso il processo, avevo del tutto rimosso il “patto” che James aveva firmato con quel giornalista, Bastian Force, affinché gli rilasciasse le informazioni necessarie per trovare il misterioso testimone dell’articolo che aveva redatto cinque anni prima.
Afferrai la copertina di quel giornale, rimanendo piuttosto confusa.
Titoli come “Fuoco e polveri tra i Gunners” e “Il popolare Sogno fa ancora parlare di sé” spiccavano come fari nella notte rispetto alle altre notizie contenute nella rivista. Rimasi basita e allo stesso tempo terrorizzata.
«N-Non capisco,» tentai di dire, anche se c’erano ben poche parole che potessero esprimere lo stupore di quel momento.
James mi rivolse subito l’attenzione. «Quel bastardo di Force non ha rispettato del tutto il patto di riservatezza che abbiamo siglato,» disse ed io imprecai a bassa voce. Dannati giornalisti a caccia dello scoop, tutti affamati di vendite. «Anche se ha atteso, come pattuito, la fine del processo, non abbiamo nemmeno avuto modo di avvertire la società e di contattare la stampa per avvertirli che fosse tutto risolto. Avremmo potuto porre un margine alla fuga di notizie, adesso sarà il caos completo.»
Rimasi imbambolata a fissare quel giornale.
«Come dovremmo muoverci adesso?» chiesi, incapace di elaborare qualsiasi soluzione.
L’avvocato mi fissò determinato. «Direi per prima cosa di stilare una lettera di reclamo indirizzata al Daily Voice, visto che in un paio di punti Mr. Force ha violato l’accordo che avevamo stabilito. In secondo luogo, se ti senti pronta, direi che puoi metterti al telefono e contattare subito le principali testate giornalistiche e avvertirle dello sgarro fatto da Force, in modo che non diano peso a queste esagerazioni. Bisogna giocare d’anticipo, in fondo siamo ancora gli avvocati di Mr. Sogno.»
Mi porse una lista con dei numeri di telefono e dei nomi. Annuii convinta e determinata, soprattutto perché avrei contribuito ancora una volta ad aiutare Simone. Anche se non direttamente, potevo sentirmi ancora una volta vicina a lui.
«Let’s start it!»
***
Nel giro di un paio di giorni, io e James riuscimmo ad arginare il danno fatto volontariamente da quell’approfittatore meschino di Bastian Force. Come avvocati di Mr. Sogno, avevamo citato il giornale per diffamazione, soprattutto in relazione alle presunte illazioni che si facevano ai danni di Simone e della squadra.
Insomma, la notizia di fondo era vera ma Force aveva portato ogni particolare all’estremo creando una vera e propria distorsione della realtà.
I rapporti telefonici con Simone li aveva avuti esclusivamente James, ma non per mia scelta. Da una parte, mi ero sentita sollevata che Mr. Abbott Senior avesse preferito in questo modo ma dall’altra avevo sperato di avere una qualsiasi scusa per vederlo. La verità è che mi mancava molto, forse più di quanto dessi a vedere.
Quel giorno mi ero recata alla sede commerciale dell’Arsenal, proprio per consegnare dei documenti relativi alla nuova causa che il nostro studio aveva intentato contro il Daily Voice per diffamazione. Dal momento che la società calcistica era stata nominata e quindi coinvolta, era premura della Abbott&Abbott chiarire ogni singolo punto della vicenda e non compromettere la carriera dell’assistito.
James aveva saputo, tramite le sue fonti, che Mr. Wenger si era messo in contatto con Simone proprio per chiedergli spiegazioni in merito. Avendo un passato discutibile, fatto appunto di gossip, l’allenatore dell’Arsenal voleva assicurarsi che il suo diamante brillasse solamente per i suoi meriti di calciatore.
Insomma avrei dovuto screditare il Daily Voice alla sede della società.
Mi feci ricevere subito da uno dei dirigenti, in modo da spiegare in modo chiaro e coinciso quali erano state le motivazioni che avevano spinto il nostro studio a siglare il patto di riservatezza. Chiarii tutti i punti e feci una corretta distinzione tra quelli reali e quelli che Force aveva “gonfiato” a causa di tutti quei paroloni che aveva inserito all’interno dell’articolo.
«In questo punto, ad esempio, si enfatizza come il nostro cliente sia stato ben disposto a portarsi a casa una perfetta sconosciuta,» spiegai, indicando esattamente la riga.
Claude Van Bürer, uno dei dirigenti, mi guardò piuttosto concentrato. La riga scura che aveva sulla fronte indicava un certo fastidio, soprattutto perché la società era stata tirata in ballo a causa di uno sciocco pettegolezzo.
«E qui,» cambiai pagina. «Dove vede scritto “negligenza e inadeguatezza alla figura paterna”, sono soltanto delle supposizioni che Mr. Force ha dedotto da non so quale fonte. In nessun rapporto del tribunale troverà un commento di questo genere.»
L’uomo aveva un’espressione in viso indecifrabile. Lo guardai per un attimo, giusto per capire se mi stesse ascoltando e avesse capito tutto.
«Credo possa bastare,» disse, chiudendo il plico con tutte le pratiche all’interno.
Per un attimo fui presa dal panico. E se non avessero trovato le nostre motivazioni sufficienti? Se avessero preso delle decisioni in merito al futuro di Simone? Sapevo che l’idea di siglare un patto con quell’antipatico di Bastian Force sarebbe stata una pessima idea.
«Signor Van Bürer,» tentai, come ultimo appello. Non sapevo nemmeno cosa volesse dirmi, però avevo una strana sensazione. L’uomo alzò un sopracciglio, infastidito. «Non deve dare credito a ciò che scrivono i giornali. Le assicuro che Mr. Sogno non è assolutamente come viene descritto in questo articolo ma c’è dell’altro. È una persona che ama il suo lavoro e vale molto di più.»
Neanche fossi stata la sua manager, gli avrei fatto tutta questa pubblicità positiva.
Il dirigente non si scompose. Sembrava quasi fatto di marmo per quanto fosse dura la sua espressione, quasi granitica.
«La ringrazio per il suo tempo, prenderemo le misure adeguate a questa spiacevole situazione ma non deve preoccuparsi,» disse in modo tranquillo. «Il suo cliente non verrà emarginato soltanto per uno spiacevole disguido come questo.»
In un modo un po’ brusco e serioso, Van Bürer mi aveva rassicurata.
«Grazie a lei e buon lavoro,» dissi sorridente.
E fuori due.
Uno alla volta, io e James ci eravamo personalmente occupati di tutte le principali testate giornalistiche, le società e gli altri enti a cui era associato il nome di Simone. In modo particolare gli sponsor.
Ancora una volta, avevamo risolto prontamente una brutta situazione.
Uscii di fretta dagli uffici di direzione e mi recai in strada.
Volevo telefonare subito a James per dargli la bella notizia, ma fui interrotta proprio mentre digitavo il numero di telefono.
«Ehi Ven!»
Riconobbi la voce di Sofia anche se ancora era lontana.
Inspirai lentamente e cercai di rallentare il battito cardiaco. Avevo il terrore di voltarmi, soprattutto perché sarebbe potuta essere in compagnia del fratello.
Non sei ancora pronta.
Fortunatamente, la bionda sorella di Simone era sola.
«Ciao, come stai?» le dissi.
Lei mi guardò accigliata. Era difficile decifrare quel suo sguardo da elfo, ma non l’avevo mai vista così risentita. «Ho provato a chiamarti un sacco di volte.»
Fissai il pavimento, mortificata. «Hai ragione ma mi serviva del tempo per riordinare le idee e fare chiarezza nella mia vita,» le spiegai.
Sul momento pensai fosse sufficiente come giustificazione, ma Sofia sembrò spegnersi ancora di più. Non avrei mai pensato di vederla in quello stato, soprattutto dopo che mi ero abituata alla sua allegria contagiosa.
«Pensavo ci tenessi di più,» disse mogia.
«A cosa?» chiesi, forse stupidamente.
Sofia si sistemò meglio la tracolla sulla spalla.
Aveva con se dei fogli, in una cartelletta, che tentò nervosamente di spostarsi da una mano all’altra.
«Credevo che lottassi per mio fratello, forse ho visto male.»
Non mi aspettavo di ricevere quella doccia fredda, soprattutto da una persona che era stata sempre dalla mia parte. Fin dall’inizio aveva tifato per me e Simone, ma adesso sembrava sconfitta anche lei. Non sapevo cosa fare, né come giustificarmi. Avevo preferito rintanarmi nel mio appartamento, nascondermi, smettere di lottare per riconquistare quella persona che pensavo stesse bene al mio fianco.
«Non è come pensi,» tentai di fermarla. Cercai di riorganizzare le idee e dirle che si sbagliava. «Ho avuto bisogno di stare un po’ da sola, dovevo pensare, ma non mi sono arresa. Anche se lui non vuole nemmeno vedermi.»
Le avrei voluto dire che Simone non aveva intrattenuto più contatti con me, voleva parlare solo con James. Nonostante lo avesse sempre odiato sin dal principio, adesso era addirittura più sopportabile di me.
Sofia sospirò tristemente. «Simone a parte, ci siamo sempre noi,» disse dispiaciuta. «Pensavo di essere tua amica, che ti avrei potuto supportare!»
Mi ero comportata come con Celeste. La mia brutta abitudine di contare solo su me stessa, spesso e volentieri mi isolava dal resto del mondo. Invece di farmi sostenere da una persona dolce e sincera come Sofia, pur essendo la sorella di Simone, avevo preferito piangermi addosso.
«Hai ragione Sofi, non ho scuse,» ammisi.
Il primo passo lo hai fatto.
«Adesso ho capito che non posso farcela da sola e vorrei chiederti di perdonarmi.»
Eravamo a Russel Square, vicino al British Museum, in mezzo alle persone che camminavano da un lato all’altro della strada per raggiungere i loro posti di lavoro. Era come se fossimo trasparenti, se appartenessimo ad un’altra epoca.
Sofia mi guardò intensamente. Quegli occhi azzurri, così simili ad un essere appartenente ad una fiaba, mi scrutarono quasi fino nell’anima. Sospirò lentamente, aggiustandosi ancora la tracolla della borsa sulla spalla.
«Io ho sempre tifato per voi due, sappilo,» mi confessò.
Lì, in mezzo alla strada, avrei voluto raccontarle tutto: come mi sentivo, i problemi con il lavoro, la mia condizione fisica. Resistetti soltanto perché mi sentivo troppo osservata dai passanti.
«Hai tempo?» le chiesi, forse sorprendendola.
Sofia parve rilassarsi. «Ho un’oretta prima di rientrare in sala registrazioni.»
Colsi la palla al balzo e decisi di coinvolgerla completamente anche perché ormai era arrivato il punto di fidarsi anche delle altre persone.
«Vieni, c’è una cosa che devo dirti.»
Ci recammo ad un caffè lì vicino, il Cappuccino, e notai subito che era stracolmo di studenti. Ricordai che proprio nei dintorni di quella piazza c’erano numerose facoltà universitarie, un po’ come vicino la Stazione Termini a Roma. Ci sedemmo all’interno del locale, ordinando subito qualcosa.
Sofia non era ancora del tutto rilassata, c’era qualcosa che la innervosiva.
Aveva tutte le ragioni di “odiarmi”, mi ero comportata proprio come un’egoista e peccando di superbia, credendo che potessi contare solamente su me stessa, avevo lasciato indietro le persone che contavano su di me.
«Devi promettermi una cosa,» iniziai. Era giunto il momento di rendere Sofia partecipe del mio grande segreto. Mi sentivo un po’ Spiderman, qualche supereroe che doveva nascondere la propria identità agli amici pur di proteggerli.
Sofia annuì. «Prima dovrei saper di cosa si tratta.»
Annuii tristemente. «Si tratta di una questione complicata, che devo affrontare in primis con tuo fratello. Per adesso ho deciso di occuparmi fino alla fine della sua causa, dopodiché, quando riuscirò a parlargliene, cercherò di risolvere.»
La più piccola dei Sogno parve preoccupata. «Ven, di cosa si tratta?»
Inspirai profondamente. Nel frattempo erano arrivate le ordinazioni, così cominciai a sorseggiare il mio latte caldo macchiato. «Sono incinta,» sputai così, tutto d’un fiato.
Per poco Sofia non si strozzò con il cornetto che stava assaggiando. Dopo aver sputacchiato alcuni pezzi in un tovagliolo, si asciugò le lacrime. «C-Cosa?»
Mi trattenni dal ridere.
Anche se Sofia mi era sembrata sempre più delicata e dolce del fratello, in quei rari momenti si assomigliavano talmente tanto che ebbi un moto di nostalgia.
«Hai capito bene, aspetto un bambino.»
La piccola Sogno sgranò quegli enormi occhi azzurri che possedeva. Si pulì le labbra con un tovagliolo, assimilando la notizia. «E… e lui lo sa?»
Scossi energicamente la testa.
Le spiegai che lo avevo scoperto quando ancora c’era da affrontare l’udienza finale, così avevo deciso di tenerlo per me fino a quando non fossi stata pronta. C’era stata poi la litigata, le varie incomprensioni e infine il processo. Non avevo avuto modo e occasione di dirglielo, anche perché avevo paura di una sua reazione.
Sofia ascoltò ogni parola, senza intervenire.
Non espresse giudizi, né consigli. Lei attese che finissi il mio racconto e mi supportò con lo sguardo in ogni mio alto e basso. A fine racconto, si prese qualche minuto per elaborare l’importanza della notizia.
«Ti prego, non dirglielo per adesso,» le chiesi come favore personale.
Se c’era una persona che doveva dire a Simone che sarebbe diventato padre, sarei dovuta essere io.
Lei annuì d’accordo.
Alla fine sul suo viso le si allargò un sorriso talmente grande che tornai a provare quel piacevole calore che sentivo ogni volta che vedevo un membro della famiglia Sogno.
«Diventerò zia!» trillò allegra, alzandosi per abbracciarmi. In quel momento parve tutto tornato come a una settimana prima, senza alcuna tempesta né bufera in vista. Si ricompose giusto in tempo per darmi i suoi consigli.
«Ti prometto che non ne parlerò con mio fratello, ma non puoi aspettare molto. Simone, anche se immaturo, rimane comunque il padre e deve avere la possibilità di scegliere.»
Annuii, abbassando la testa.
«Ho paura a dirglielo,» ammisi. Era forse la prima volta che mi esponevo così tanto con un’altra persona, ammettendo le mie debolezze ad alta voce.
«Di cosa?»
«Che possa dirmi di no, che non riesca ad accettare la cosa.»
Sofia rifletté attentamente sulle mie parole. «È una possibilità, certo,» constatò. «Ma devi comunque tentare. Io non posso intercedere per mio fratello, anche perché non si è mai trovato in una situazione del genere, ma so che ti ama Ven, per cui prova!»
La passione con cui la piccola Sogno credeva nel sentimento che c’era tra me e Simone mi commosse. Forse credeva più lei in un nostro riavvicinamento, che io stessa, ma avrei dovuto cambiare punto di vista.
Per rispetto, devi dirglielo. Anche se non lo ha scelto, rimane comunque il padre.
«Devo prima pensare ad un modo per riavvicinarmi,» le dissi, studiando una specie di piano d’azione. Non potevo piombare in casa di Simone per poi scaricargli addosso quel genere di responsabilità, sarebbe stato come metterlo con le spalle al muro.
Sofia concordò. «Prova a telefonargli, almeno cerca di strappargli una parola,» mi consigliò con la voce un po’ incrinata. «Ci sono passata questa mattina e non sta bene.»
Quella notizia mi ferì più di qualsiasi altra cosa, quasi avessi ricevuto un pugno direttamente alla bocca dello stomaco. Fu un forte impatto. Sapere che Simone soffriva, soprattutto per colpa mia, mi faceva sentire ancora più colpevole di averlo trattato in quel modo.
A conti fatti, lasciarlo per mantenere il posto allo studio, ora come ora, sembrava la decisione più stupida ed egoista che avessi mai preso.
Io non lo avrei mai fatto, le parole di Celeste continuavano a rimbombarmi nel cervello.
Nessuna persona sana di mente lo avrebbe fatto.
Eppure adesso non potevo più tornare indietro, ma solo rimediare agli errori commessi in passato. Forse sarebbe stato saggio seguire i consigli di Sofi.
«Mi dispiace davvero tanto, ho rovinato tutto!» sbuffai, rendendomi sempre più conto di aver fatto una cazzata allontanandomi da lui.
Sofia mi guardò comprensiva. Finalmente aveva assunto di nuovo lo sguardo di sempre, solare e spensierato. «Vedrai che si aggiusterà tutto.»
Tornai al mio appartamento che erano le 19.00. La luce del giorno era sparita da un pezzo e i lampioni sparsi per le strade cominciavano ad accendersi uno ad uno.
Tirava un fresco venticello in strada così mi tirai meglio il bavero del trench, aggiustando la sciarpa che avevo indossato quella mattina. Ci mancava solamente che mi ammalassi, non era proprio il caso. Camminai lungo Bayswater Road, osservando gli uccelli che tornavano ai propri nidi, dove molto probabilmente c'erano le loro piccole uova da accudire.
Tra un po' tornerai anche tu al tuo nido, dal tuo piccolo.
Quella associazione di idee mi fece emozionare. Continuai a camminare mentre la notte prendeva il posto di quella giornata, che alla fine dei conti era stata piuttosto profiqua. Mi ero confessata con le mie due migliori amiche, una vecchia e una appena acquistata, e adesso mi sentivo un po' più libera e in pace con me stessa.
Ora devi trovare il modo di parlare con il diretto interessato.
Già, era inutile girari attorno. L'unica persona che doveva sapere, era ancora all'oscuro di tutto e avevo anche fatto promettere che nessuno avrebbe dovuto informarlo se non la sottoscritta. Anche perché sarebbe stato giusto così.
Senza nemmeno accorgermene, arrivai fino al portone del mio appartamento rimanendo piuttosto sorpresa di trovarvi James. Lo vidi all'esterno dell'edificio, con il bavero del cappotto di tweed alzato e le mani affondate nelle tasche. Sembrava pensieroso.
«Ehi, cosa ci fai qui?» gli chiesi, piuttosto sorpresa.
Un sorriso sincero gli illuminò il volto. La sensazione strana provata qualche giorno prima nel suo ufficio tornò a stuzzicarmi. Era come un campanello d'allarme che mi metteva in guardia su qualcosa che stava cambiando.
«Ho pensato di festeggiare, visto che ormai il processo e le sue derivazioni son giunti al termine,» disse, tirando fuori da sotto il cappotto una bottiglia di succo di frutta all'albicocca.
Lo guardai sorpresa. «E vogliamo brindare con un'apricot juice?» ridacchiai.
Gli occhi furbi e ferini di James mi misero i brividi. «Non ci provare Ven, non come da Mr. Wright. Sei incinta e non puoi bere alcolici.»
Annuii, confermando la mia stupidità. «A volte mi dimentico della mia condizione,» confessai, forse un po' ingenuamente. «Dai saliamo, così non ci congeliamo qui fuori.»
Aprii il portone della caratteristica palazzina signorile inglese e feci largo a James. Salimmo le quattro rampe di scale, io personalmente con un po' di fiatone, e raggiungemmo il pianerottolo del mio appartamento. Mi fece strano trovarmi ad invitare un uomo dentro casa, anche se si trattava semplicemente di James. In quell'appartamento ero sempre stata soltanto io, era una sorta di rifugio dalla vita stacanovista che avevo scelto. Sia l'avvocato che Simone c'erano già stati, ma si era trattato di un fortuito caso isolato. Quella era la prima volta che invitavo qualcuno a condividere un piccolo pezzo della mia vita.
«Prego, e non fare caso al disordine.»
Per quanto quella casa potesse essere piccola, la quantità di roba che vi era stipata superava forse gli stessi metri quadri dell'appartamento.
James sorrise. «Perché non hai visto il mio.»
Mi fece piacere sapere quella cosa, soprattutto perché l'avvocato era una figura talmente precisa e professionale che pensavo non potesse avere difetti di qesto genere. Conoscere anche le piccole debolezze degli altri, li rendeva più umani ai miei occhi.
Decidemmo di ordinare una cena a domicilio, cinese per la precisione.
Ormai era consuetudine all'estero cibarsi anche di queste pietanze multietniche e nonostante l'Italia fosse rinomata per la gastronomia, anche lì stavano prendendo piede queste nuove usanze.
«Mia madre non mangerebbe mai una cosa del genere,» constatai, tirando fuori dal cartoncino una manciata di noodles con le bacchette di legno.
L'avvocato afferrò un involtino primavera e se lo infilò per metà in bocca. Era molto buffo in quel momento ed io ne approfittai per lasciarmi andare ad una genuina risata.
Sgranò gli occhi estremamente azzurri. «Che fè?» chiese, mentre tentava di masticare.
«Nulla, è che...» tentai di dire, ma le parole mi morirono tra le labbra.
Assomigli tanto a Simone.
Non ebbi il coraggio di finire quella frase, non ci riuscivo. Fu così naturale per la mia mente fare quel tipo di associazione, che quasi mi meravigliai. Era come se, nonostante tutto quello che era successo, lui facesse ancora parte integrante della mia vita ed io mi sentivo libera di associare ogni aspetto della mia quotidianità a lui. Quasi dividessimo ancora l'appartamento.
James si accorse che il mio umore era cambiato. «Ho fatto qualcosa che ti ha infastidito?» chiese timoroso.
Scossi la testa, cercando di farmi passare gli occhi lucidi. «Semplice associazione di idee,» confessai. «Ormai è quasi impossibile evitare di fare paragoni con Simone. Ogni cosa a cui penso ha lui come punto di riferimento.»
L'avvocato rifletté molto sulle mie parole. «Ti manca molto?»
Annuii. Ormai era impossibile continuare a mentire, oltre che controproducente. «Ho deciso che quando la "bufera" mediatica sarà passata, cercherò di guadagnarmi una possibilità.»
Era una cosa che avevo sempre saputo, ma non avevo avuto il coraggio di ammettere. Amavo Simone, ormai era piuttosto palese, ma ero anche terrorizzata da una sua possibile reazione negativa alla mia condizione.
«Il problema più grande che mi frena è che potrebbe non accettarmi,» confessai, addentando un boccone di pollo alle mandorle.
Nonostante l'argomento piuttosto serio, l'appetito vedo che non ti manca!
Ovvio, sono pur sempre incinta!
Jamie mi diede supporto, come meglio sapeva fare. «E' impossibile che non ti accetti, spaghetti-girl. Sei una ragazza fantastica, solare, dinamica, molto intelligente e anche bella. Non tutte hanno le tue qualità, la tua bellezza e il cervello che ti ritrovi! Come puoi pensare che qualcuno non possa accettarti?!»
Concordo la parte sul Cervello!
Scossi la testa per far smettere di parlare la parte più razionale di me. «Non è per questo,» lo corressi subito. «Credo che non possa accettare il bambino.»
Quella era forse la parte che mi rendeva più insicura e titubante. Dal momento che Simone non aveva mai accettato la condizione della Cloverfield, sin dall'inizio non aveva avuto nulla a che fare con lei, la mia logica mi imponeva di fare gli stessi paragoni con il mio caso.
L'avvocato rifletté molto sulle mie parole. «Hai paura di affrontare tutto questo da sola?» mi chiese ed io annuii.
Ero sicura di volerlo quel bambino, che magari sarei anche stata in grado di lavorare e crescerlo io stessa, senza l'aiuto di nessuno, come avevo sempre fatto, ma nonostante ciò avevo paura.
Vidi negli occhi di James un bagliore che non avevo mai notato in precedenza. Sembravano addirittura più "saggi" e riflessivi di quanto non lo erano mai stati in passato, da quando lo conoscevo. Il giovane avvocato mi aveva sempre trasmesso una certa sicurezza, un qualche tipo di stabilità, ed ora era sempre pronto a dispensare consigli.
Inspirò profondamente, ancora immerso nei suoi pensieri. «Credo che si possa escludere questa possibilità,» disse conciso. «Ma se dovesse verificarsi un evento del genere, sappi che io ci sono sempre.»
Fui felice di quel suo gesto, soprattutto nel darmi sempre supporto. «Ti ringrazio, so che posso sempre contare su di te e su un buon consiglio.»
Eravamo giunti alla fine della cena, James aveva finito ogni sua pietanza e teoricamente avremmo dovuto festeggiare con il succo di albicocca che aveva portato. Quando gli dissi quelle ultime parole, vidi qualcosa cambiare nel suo sguardo.
«Che hai?»
L'avvocato parve quasi dispiaciuto. «Credo tu abbia sottovalutato il genere di aiuto che io voglio darti, Ven,» tentò di spiegare.
Lo guardai ancora più perplessa. Possibile che avessi frainteso cosa voleva dire? Che altro genere di supporto avrebbe potuto propormi?
«Non capisco.»
James si alzò dalla sedia che gli avevo dato, facendo il giro del piccolo appartamento e sedendosi a bordo del grande letto matrimoniale, accanto alla sottoscritta. In quell'esatto istante, provai una stranissima sensazione, quasi se tutto il mio corpo mi stesse suggerendo di stare in guardia.
Mentre all'inizio, James costituiva una specie di "porto sicuro" dove mi rifugiavo e chiedevo consigli, un mentore a cui fare riferimento sia nella vita lavorativa che in quella reale, adesso stava tornando tutto a come quando ci frequentavamo.
Mi prese per mano, facendomi sussultare. «Sai che posso starti accanto e darti un supporto quando ne avrai più bisogno, anche economico.»
Qual era il significato delle sue parole? Per quale motivo mi sembrava d'improvviso tutto così pericoloso, quasi dovessi sentirmi in guardia dalle parole di James?
«Ti ringrazio, ma penso di farcela da sola...»
Tentai di mantenere i toni di amicizia che c'erano tra di noi, senza opportunamente entrare in tutt'altro territorio. Anche se l'avvocato lo stava facendo in buona fede, in amicizia, quella situazione mi stava mettendo a disagio.
«Non sarebbe un problema per me, anzi,» sorrise, sempre osservandomi con quello sguardo strano. «Forse il mio appartamento sembrerebbe meno vuoto con le risate di un bimbo che riecheggiano al suo interno.»
Questo si fa le canne.
Forse il cibo cinese era avariato?
Magari sono i primi segni di salmonellosi.
Ora lo butto fuori di casa.
«Ti senti bene?» gli chiesi, un po' spaventata.
Fu allora che lui serrò meglio la presa sul mio polso, avvicinandosi sempre di più con lo sguardo ferino. «Pensaci Ven, alla fine ci siamo frequentati e siamo molto simili di carattere. Abbiamo le stesse passioni, le stesse ambizioni ed io ti trovo praticamente perfetta. Lo sai che io ci sarei sempre per te e sarei disposto a riconoscere il bambino in caso dovesse finire male con Mr. Sogno.»
Tentai di divincolarmi. «Ma ti senti come parli? Ti sei drogato?»
Lui scosse la testa e tentò ancor più di coinvolgermi. «Venera io ti chiederei di sposarmi, anche domani!»
Okay, questo ha bevuto. Si è fatto un cicchetto prima di venire qui.
Oppure aveva semplicemente dato di matto.
Cercai in tutti i modi di scrollarmelo di dosso, essendo possibilmente poco violenta, ma dal momento che non voleva capire fui costretta ad assestargli un bel ceffone in pieno viso.
Vidi James subire il colpo e rinsavire.
Mi guardò come se fosse appena capitato in quella stanza, senza ricordarsi neppure come ci fosse arrivato. Nei suoi limpidi occhi blu c'era solamente panico. Si alzò subito dal letto e tentò di scusarsi.
«Non so che mi sia preso, mi dispiace,» iniziò, gesticolando nervosamente. «Davvero, perdonami. Ora me ne vado e ti lascio subito, così evito di fare altre cazzate.»
Capii subito che si era trattato di una debolezza del momento.
Compresi anche come poteva essersi sentito. Si vedeva quanto ci tenesse alla sottoscritta, era disposto anche a sposarmi e a riconoscere il bambino pur non avendo alcun legame di parentela con lui, ma questa soluzione non era contemplata.
«Fermati, ti prego,» gli dissi, prima che scappasse via mortificato. Mi avvicinai e gli diedi un forte abbraccio, affondando il viso nella sua camicia di lino profumata. «Ti ringrazio tanto e mi dispiace di non provare gli stessi sentimenti.»
Era evidente che fosse ancora innamorato, magari non aveva mai smesso di esserlo e mi era stato comunque accanto, pur sapendo che mi frequentavo con Simone e addirittura ero rimasta incinta. Era stato un brutto colpo anche per lui.
Lo sentii sospirare. «Dispiace molto anche a me, ma non ho scuse per il mio comportamento di poc'anzi.»
Alzai lo sguardo e gli sorrisi. «Eccesso di frenesia, avvocato.»
Lui ridacchiò. «Hai ragione, come sempre.»
Dopo aver finalmente chiarito quali erano le nostre rispettive posizioni, per quanto apprezzassi il fatto che James ci sarebbe sempre stato per me, lo congedai in modo da poter riflettere su ciò che era appena successo.
Hai rifiutato un porto sicuro.
Ho soltanto seguito ciò che era più giusto da fare, non più conveniente.
Simone doveva sapere cosa mi stava succedendo, dovevo dargli una possibilità di scelta, senza bruciarlo in partenza, ma indipendentemente da ciò che avrebbe deciso, avrei contato solo sulle mie forze. Non ero una che semplicemente sarebbe campata sulle spalle di altri.
Sarei stata comunque fedele ai miei principi.
Buongiorno!
Scusate il ritardo - stavolta soltanto di un giorno (eheheheh) - sulla tabella di marcia ma siamo praticamente agli sgoccioli di questa storia. Mancano soltanto pochi capitoli e finalmente vedremo conclusa una delle storie che mi ha impegnata e coinvolta di più di tutti, perché forse la sento più mia e rispecchia la mia ''maturità'' anche come scrittrice.
Spero davvero che soddisfi ogni vostra aspettativa!
Nel frattempo fatemi sapere anche questo capitolo di passaggio come vi sembra. Non vi preoccupate, il prossimo lunedì dovrò essere puntuale, sennò mi punisco con il cilicio v.v
Alla prossima!
Marty
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Capitolo 33 *** Capitolo 31 ***
Vorrei dire due parole prima di lasciarvi all' "Ultimo Capitolo" - ho i brividi a scriverlo - di ILWY. Vorrei ringraziare in particolare le mie migliori amiche, le quali non hanno paura di dirmi in faccia che se una cosa fa cagare, fa realmente cagare XD e che mi hanno SPRONATO a continuare e concludere questa fantastica storia che meritava di avere la parola "fine".
Ringrazio tutti coloro che hanno creduto in me, alle persone che mi hanno sempre sostenuto nel gruppo di Facebook e nei nuovi "fan" che magari approderanno in futuro, sapendo che la storia è finita.
Vi rubo solo un altro attimo, per dirvi che ci sarà un piccolo Epilogo.
Grazie di cuore a tutti :')
Marty
Capitolo 31
La mattina seguente, Venerdì per la precisione, mi recai a lavoro come sempre, soprattutto per seguire da vicino le fasi finali del processo Sogno contro Cloverfield. In ufficio giravano numerose voci, soprattutto per quanto riguardava la scelta che Mr. Abbott avrebbe fatto allo scadere del nostro tirocinio.
Avevo saputo che Yuki era ormai piuttosto sicura della sua vittoria, ma avrei tanto voluto affrontarla faccia a faccia per dirle che si sbagliava di grosso. Nonostante avesse dato un contributo non indifferente alla nostra causa, sfruttando le conoscenze di suo padre, a lei non era stato affidato un compito così rilevante come alla sottoscritta.
Abbiamo lo stipendio in tasca.
Fiera del percorso lavorativo che avevo intrapreso fino a quel momento, camminai quasi tutto il tempo a testa alta. Tette in fuori, pancia in dentro! Un po’ come soleva dire mia madre nel vano tentativo di apparire più magra nelle foto di famiglia. Mi sentivo diversa, quasi più “matura”.
Ripensai a ciò che era successo la sera prima con James e mi sentii in forte imbarazzo. Magari era stata anche colpa mia, quasi sicuramente gli avevo lasciato intendere una certa disponibilità da parte mia che in realtà non c’era.
Era disposto a sposarti, mi ricordò Cervello.
Ma tu ami un altro, si unì Ormone.
Diciamo che non era proprio Ormone, ma più Cuore ormai. Avevo preferito essere onesta, sin da subito, come mi avevano insegnato i miei genitori. Avrei potuto sfruttare la situazione, in fondo, avevo sempre provato qualcosa per l’avvocato e a lungo andare, nel corso del tempo, avrei anche finito per innamorarmi di nuovo di lui ma finché Simone occupava un posto fisso nel mio cuore, pensare anche solo ad un altro in quel modo mi faceva stare male.
Non avrei mai tradito i miei principi e i miei valori, non sarei mai riuscita ad essere opportunista e sfruttatrice come quella Elizabeth.
Infatti, alla fine i nodi vanno sempre al pettine.
Mentre camminavo a passo lento su Regent Street, mi ritrovai a pensare che non tutti al mondo erano stati così “fortunati”. Spesso, o per ristrettezze economiche, oppure perché semplicemente non volevano farsi trascinare in una causa dalla durata indefinita, molte persone erano vittima di queste donne (o uomini anche), e venivano silenziosamente sfruttati ogni giorno.
A volte senza nemmeno accorgersene, solo per ingenuità o semplicemente perché non volevano vedere. Si accontentavano di vivere in una finzione.
Anche se avessi dovuto affrontare la gravidanza da sola, senza l’aiuto di un uomo accanto a me, non avrei mai potuto sopportare l’illusione di una vita perfetta accanto a James rendendomi conto ogni giorno di più che si trattava soltanto di apparenza. Certo, non sarei stata etichettata come “ragazza madre”, oppure non avrei cresciuto mio figlio da sola senza una figura di riferimento paterna, ma comunque non sarei stata coerente con me stessa e con quello che mi avevano sempre insegnato.
Mi ritrovai davanti all’ufficio, con la testa piena di riflessioni.
È giunto il momento.
Salii appena il primo gradino e mi ritrovai di fronte lo sguardo felino di Yuki. Gli occhi a mandorla della giapponesina, socchiusi e sorridenti, mi misero uno strano brivido addosso. Avvertii lentamente la pelle d’oca che mi fece preoccupare.
Quella ragazza era peggio di un film horror, solo la sua presenza bastava ad innervosirmi.
«Buon giorno, Venera,» disse melliflua, lisciandosi i lunghi capelli corvini.
La fissai stranita. «Che vuoi?»
Okay, magari come al solito mi comportavo da ragazza acida in piena sindome pre-mestruale, ma rispondere coerentemente a quella tritapalle era impossibile.
Yuki si accigliò, ma non perse quell’aria di finta superiorità. «Ti ho aspettata proprio qui per farti le mie congratulazioni,» sorrise, poi tentò di avvicinarsi e allargare le braccia.
Dapprima feci un passo indietro, letteralmente inorridita, poi compresi che voleva soltanto abbracciarmi così la lasciai fare, rimanendo immobile come il proverbiale stoccafisso. Rabbrividii.
«O-Okay, stai fuori,» le dissi, riferendomi al suo stato mentale.
Ti si vorrà allisciare in merito al tuo progresso di carriera.
Ebbi l’illuminazione proprio grazie a quel pensiero e finalmente mi rilassai. Era evidente, vipera com’era, che Yuki aveva pensato bene di entrare nelle grazie della sottoscritta proprio perché aveva sentito in giro ciò che si vociferava.
Un moto di gioia inespressa cominciò a crescere nella mia pancia. Era come se avessi una piccola me che ballava la conga tutto il tempo, letteralmente una vera e propria festa!
«Comunque grazie, collega,» le dissi, dandole quell’appellativo come “contentino” per essere arrivata seconda. Le passai di fianco e sorrisi. «Sono sicura che ci sarà una seconda possibilità per la Abbott&Abbott.»
Almeno le avevo dato una specie di rassicurazione. Ovviamente finta.
Yuki mi fissò sempre più sorridente. La sua espressione aveva qualcosa di troppo “soddisfatto” per essere stata scartata al mio posto ma feci spallucce e continuai il mio ingresso alla Abbott.
«Penso di no, invece,» ridacchiò.
Bene, è pure felice che l’hanno scartata. Credo sia completamente pazza!
Concordo.
Entrai nell’ingresso, trovando il solito via-vai di personale indaffarato a compiere le più disparate faccende. Mi accorsi di non trovare più le facce degli altri tre tirocinanti, quelli assunti insieme a me e a Yuki, ma non mi soffermai troppo a pensare. Andai verso l’ufficio di James per fare il punto della situazione e ricevere eventuali aggiornamenti.
Non potevo ufficialmente esultare, ancora.
Yuki era stata abbastanza chiara, malgrado il suo strambo comportamento, per cui avrei dovuto solamente attendere la chiamata di August Abbott e firmare il contratto come socio dello studio.
Avevo lo stomaco in subbuglio.
Tutto sommato, anche se la storia con Simo era ancora tutta da risolvere, forse una parte della mia vita stava andando per il verso giusto.
Bussai all’ufficio di James, senza ricevere risposta.
Tentai di nuovo, magari un po’ più forte, ma non perveniva alcun suono all’interno. Aprii la maniglia ma notai con stupore che la porta era chiusa a chiave. Che James fosse arrivato in ritardo? Era totalmente impossibile.
Mi voltai in corridoio alla ricerca della Segretaria, ma trovai soltanto Yuki che mi fissava sorridente.
Oddio, è peggio di una stalker! Ma che vuole?
Tentai di farmi passare il brivido intenso dietro le spalle, così cambiai ufficio e mi recai in quello di Robert, un altro socio.
Bussai e ricevetti un “Avanti” frettoloso e coinciso.
«Ehi Robert, sai dov’è finito James?» chiesi, un po’ preoccupata.
Lo vidi impegnato in una telefonata, così mise in attesa momentaneamente il cliente e mi guardò confuso. «James se n’è andato, tu cosa ci fai ancora qui?»
Cominciavo a non capire un bel niente di ciò che stava accadendo a studio. Era come se tutti facessero finta di niente e nessuno aveva il coraggio di dirmi bene quello che era successo.
Robert mi fissò preoccupato. «Forse è meglio che ti rechi da August,» mi consigliò.
Lasciai l’ufficio del mio collega e cominciai ad avere una brutta sensazione. L’euforia iniziale per la possibile notizia del posto fisso si stava lentamente spegnendo, lasciando spazio ad un presentimento più nefasto.
Cosa cazzo sta succedendo?
L’ufficio di August Abbott era di fronte all’ufficio che avevo appena visitato. La porta aveva i vetri offuscati, ma si vedeva chiaramente all’interno la presenza di uno dei due soci anziani dello studio. Con il cuore in gola, bussai.
Dovevo prendere coraggio e capire finalmente cosa stesse accadendo, visto che sia Yuki che Robert parevano totalmente impazziti.
«Posso?» chiesi, bussando sullo stipite.
Attesi la risposta che non tardò ad arrivare. «Prego, Miss Donati entri pure.»
Aspettai di trovarmi il solito sguardo sereno ed ottimista di Mr. August Abbott, lo zio di Jamie, ma seduto al suo posto c’era un uomo che non avevo mai visto. Aveva uno sguardo che conoscevo bene, gli stessi tratti somatici del ragazzo che mi aveva affiancato in questo tirocinio semestrale, ma era molto più vecchio.
L’uomo si alzò in piedi, tendendomi la mano. «Buon giorno, signorina, mi chiamo Francis Thomas Abbott, l’altro socio anziano dello studio. Credo che io e lei non ci siamo mai visti, o sbaglio?»
Rabbrividii. Francis Abbott era da sempre conosciuto come uno degli avvocati più duri e determinati di tutta Londra, e la sua presenza a studio non fece altro che alimentare le mie preoccupazioni.
«N-No, non ho mai avuto il piacere,» dissi, tentando di mantenere un contegno e stringendogli a mia volta la mano.
Francis Abbott accennò un sorriso, puramente cordiale. «Prego, si accomodi.»
Mi sedetti nella poltroncina di fronte alla scrivania, quasi come se fosse fatta di chiodi. Ero tesa come una corda di violino e non sapevo cosa aspettarmi da quella conversazione. L’assenza di James, poi, contribuiva a rendermi nervosa.
L’avvocato anziano aprì un fascicolo e mi osservò di sottecchi. «Leggo il suo fascicolo, Miss Donati, e mi compiaccio dell’eccellente percorso di studio che ha effettuato. Non mi sorprende che mio fratello l’abbia scelta come tirocinante nel nostro studio e che le abbia affidato la causa di Mr. Sogno,» disse, per lo più elogiandomi.
Avrei voluto tirare un sospiro di sollievo, ma qualcosa mi diceva che quella era solo la punta dell’iceberg. Il peggio sarebbe arrivato di lì a pochi minuti.
«Ha una carriera brillante davanti a sé, signorina,» sospirò, chiudendo la cartelletta. Raccolse le mani sotto al mento, tendendo gli indici e posandoli sulle labbra rosee. «È proprio per questo suo brillante passato, che mi rincresce doverle dare una brutta notizia.»
E in quel momento compresi appieno cosa stesse accadendo.
Scossi il capo. «N-Non capisco,» tentai di dire, ma le parole cominciavano a morirmi tra le labbra. Da quando avevo messo piede in quell’ufficio, il mio inconscio si era reso conto che il sogno di una vita si sarebbe infranto. «M-Mi sta mandando via?»
Francis Abbott scosse la testa. «Non mettiamola in questi termini,» iniziò, utilizzando la classica tecnica avvocatesca del “indorare” la pillola. «Il suo percorso di studi è impeccabile, così come i suoi master e il lavoro che ha svolto qui a studio, occupandosi di aiutare mio figlio con una delle cause civili più rilevanti che avevamo in carico. Ammetto che lei sarebbe stata il nome in cima alla lista per il posto come giovane socio della Abbott, ma purtroppo abbiamo dovuto metterla in secondo piano.»
Mi tornò alla mente il sorriso di Yuki, l’assenza degli altri tirocinanti e il volto soddisfatto della giapponesina. Hanno preso lei. L’hanno assunta al mio posto.
Sentii le lacrime spingere agli angoli degli occhi. Mi trattenni per mantenere alto il mio profilo professionale. «Perché?» domandai solamente.
Volevo sentir dire a quell’uomo, che tanto ammiravo e stimavo come professionista, il motivo reale per cui venivo scartata. Soprattutto dopo aver messo da parte ogni cosa per quel lavoro.
L’avvocato sospirò, lisciando la copertina del mio curriculum. «Diciamo che ci sono pervenute delle notizie recenti, sul suo stato di salute, che ci hanno fatto riconsiderare la sua candidatura. Lo studio in questo momento non può permettersi di assumere un giovane avvocato con la prospettiva che tra qualche mese sarà di nuovo assente. Ci troveremmo a doverla rimpiazzare con altri tirocinanti, con un enorme spesa di tempo e denaro,» spiegò.
Sentii la terra crollare letteralmente sotto i miei piedi. Mi chiesi solamente come avessero fatto a scoprire il mio stato interessante, chi avesse potuto tradirmi in questo modo. Il mio primo pensiero andò a James. Dopo la scenata della sera prima, non si era nemmeno presentato in ufficio e per un attimo credetti che si era vendicato del mio rifiuto.
Sei proprio cretina.
E infatti mi diedi subito della stupida per aver pensato una cosa del genere. James Abbott mi era stato sempre accanto, mi aveva addirittura consigliato di interrompere momentaneamente la storia con Simone pur di non creare malintesi in ufficio. A conti fatti, avrebbe potuto “tradirmi” tanto tempo prima.
«Signorina Donati, posso dirle con certezza che una volta concluso il suo percorso educativo con la sua prole, il nostro staff potrebbe aver bisogno di una persona qualificata e preparata come lei. La invito a ricandidarsi qui tra un anno, un anno e mezzo.»
In quel momento gli avrei volentieri lanciato la mia tesi di laurea in faccia.
Mi stava dicendo che avrei avuto un’altra occasione ma che se ne parlava dopo la gravidanza.
Volevo morire.
Mi alzai, trattenendo le lacrime a stento. «La ringrazio Mr. Abbott dell’opportunità che mi ha dato in questo tirocinio, soprattutto per la collaborazione con suo figlio. Per quanto riguarda la ricandidatura, le prometto che ci penserò,» dissi, nel modo più educato possibile.
L’uomo si alzò a sua volta, stringendomi la mano. «Allora è un arrivederci, signorina Donati.»
Sarei voluta uscire dallo studio correndo, lasciandomi andare completamente alle emozioni e urlando. Tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento, le persone che avevo sacrificato, il tempo e gli hobby che avevo messo da parte per raggiungere il mio più grande obiettivo era stato del tutto inutile.
Alla fine aveva vinto qualcun altro.
Mi recai fuori dall’ufficio a passo svelto, tentando di raggiungere l’uscita. Il corridoio mi sembrò infinito, quasi una camminata della vergogna per la sottoscritta. Sperai di non incontrare nessuno, di non guardare in faccia i colleghi e vedervi riflesso dentro il motivo del mio fallimento.
«Ancora auguri!» mi gridò dietro Yuki, risultando ancora più antipatica.
Seppi che le “congratulazioni” a cui si era riferita all’inizio, appena entrata, erano riguardo alla mia gravidanza e non al mio posto di lavoro.
Anche lei sa.
Trattenei ancora per poco le lacrime, così affrontai l’ultimo pezzo di corridoio correndo sulle mie decolté ormai consumate. Volevo gettarmi in strada, tornare a casa e piangere. Sapevo che non avrei dovuto gettarmi in depressione, sarebbe stato controproducente, ma quella era stata una vera e propria doccia fredda.
Non appena uscii da quello che sarebbe stato il mio ex-posto di lavoro, sentii subito la pungente aria mattutina. Avvertii come un blocco provenire all’interno delle mie corde vocali, pronto per scoppiare in un pianto disperato, ma notai la presenza di qualcuno.
«Che ci fai qui?»
Avevo dimenticato come fossero scuri gli occhi di Simone, ormai abituata soltanto a vedere quelli di James. Eppure erano entrambi lì, fuori dalla Abbott&Abbott, tutti e due vestiti in modo casual e sportivo.
Il turbinio di emozioni contrastanti che provai in quell’istante, mi scombussolò.
Davvero non riuscivo a capire come sia Simone che James potessero sostare sullo stesso marciapiede senza scannarsi.
L’avvocato si fece avanti per primo. «Sono andato a casa di Mr. Sogno, insieme abbiamo deciso di cercarti e questo è il primo posto dove abbiamo pensato di passare.»
Sentii le lacrime cominciare a scendere, una dopo l’altra, sempre con più intensità.
Non sapevo se stessi piangendo per il posto di lavoro, per il fatto che avevo perso il controllo sulla mia vita o perché finalmente potevo rivedere Simone.
Piangevo e basta.
James si avvicinò, sincerandosi delle mie condizioni.
Il calciatore, invece, pareva sempre immobile. Era come se qualcuno lo avesse trascinato fuori dal letto e teletrasportato in un posto dove non voleva andare.
Ebbi il terrore che anche lui potesse rifiutarmi. Sarebbe stato un colpo troppo duro da sopportare.
«Ven, come ti senti?» mi chiese James, preoccupato.
Tentai di asciugarmi le lacrime, ma continuavano ad uscire. Tutta quella situazione era assurda, quasi incredibile. Era come se tutte le certezze su cui avevo sempre contato si stessero sfaldando una dopo l’altra.
«Su, andiamo a prenderci qualcosa di caldo,» suggerì, facendo cenno a Simone di dirigerci verso il caffè più vicino.
Dopo la seconda tazza di latte caldo e miele, riuscii a tranquillizzarmi.
Simone si era preso il solito cioccolato caldo, con tanto di torta al caffè – tanto lui non ingrassava mai – e James aveva optato per il classico thè verde.
«Mio padre te lo ha detto, vero?» mi chiese, quando testò la mia emotività.
Annuii. Cominciai a sentire di nuovo le lacrime che premevano per uscire, ma le ricacciai indietro. «Sinceramente non capisco come sia riuscito a saperlo,» riflettei.
Fu in quel preciso istante che ricordai che Simone era all’oscuro di tutto. Sgranai gli occhi terrorizzata.
Lo vidi concentrato, aveva lo sguardo intenso e mi fissava diversamente rispetto all’ultima volta che ci eravamo visti. Era come se mi stessi innamorando di lui per la seconda volta.
«So tutto, stai tranquilla,» disse.
Le prime parole pronunciate dopo chissà quanto tempo. Sembrava fossero passati mesi e non giorni dall’ultima volta che ci eravamo visti.
Fui presa dal panico, guardai subito James pensando glielo avesse detto lui. «C-Come, c-cosa?» poi ricordai anche Sofia.
Simone mise subito fine alle mie curiosità. «Il dottor Ross ha lasciato un messaggio in segreteria, si vede che gli avevi dato il mio numero di casa e ho saputo dei risultati delle analisi.»
Mi diedi mentalmente della stupida, proprio perché inconsciamente ero stata io ad inviare le analisi al dottor Ross, senza ricordarmi di avergli dato il numero di telefono sbagliato.
Era destino.
Non avevo mai creduto a queste scemenze, soprattutto agli oroscopi o a quelle cazzate lì eppure riflettei sulle coincidenze che ci avevano portato fino a quel punto.
«Quando lo hai saputo?» gli domandai.
Simone si passò una mano tra i capelli e improvvisamente mi pervenne l’impulso di toccare quella morbidezza.
«Qualche giorno fa, a dire il vero,» sospirò. «Mi ci è voluto un po’ per elaborare la notizia e capire per quale motivo non me lo avessi detto.»
Fui presa dal panico. Pensai subito che si potesse offendere, che potesse trovare un altro pretesto per odiarmi. «Stavo per dirtelo, solo che dovevo risolvere prima il problema del lavoro,» mi giustificai. «Che come hai visto, si è concluso nel peggiore dei modi.»
Lo vidi trasalire.
«È stata Yuki,» intervenne James, agganciandosi al mio argomento. «Suo padre lavora nell’ospedale dove hai fatto le analisi e mentre stava indagando per mio conto sulla Cloverfield, ha saputo anche di te. Mi dispiace, è stata colpa mia,» disse mortificato.
Scossi subito la testa e lo fermai. «Non dire stupidaggini, sarebbe successo prima o poi. Tuo padre ha visto l’interesse dello studio, come è giusto che sia. Sarebbe davvero illogico assumere una ragazza che tra qualche mese comunque sarebbe stata sostituita. È un dispendio non indifferente.»
Quelle parole uscirono così limpide e chiare dalla mia bocca. Riflettei immediatamente sul significato di esse e mi misi nei panni di Francis e August Abbott, a come avrei gestito personalmente il mio studio e come mi sarei comportata.
Hanno preso la decisione più logica.
James scosse il capo. «Non mi sono trovato d’accordo con la decisione di mio padre e di mio zio, per questo me ne sono andato.»
Sgranai gli occhi e lo fissai allibita. «C-Cosa? Che stai dicendo, sei pazzo?» gridai. Non potevo permettergli di rimettere la sua carriera soltanto per ciò che mi era successo. «Ora torni allo studio e ti fai riassumere.»
L’avvocato scrollò il capo. «Ne ho parlato anche con Mr. Sogno, e si è trovato d’accordo con la mia decisione.»
Quella confessione mi suonò a dir poco incredibile. «Come? Da quando voi due parlate e andate d’amore e d’accordo?»
Sentii Simone sbuffare, poi lo vidi abbassare lo sguardo e affondare il viso nel collo del suo maglione. Stava cercando di nascondere l’imbarazzo.
James sorrise. «Quando questa mattina l’ho chiamato per dirgli cosa ti sarebbe successo allo studio, ci siamo ritrovati piuttosto abili a collaborare.»
Sorrisi a quella piccola confessione.
Uno dei principali motivi che aveva scatenato l’allontanamento mio e di Simo, era stato proprio James. Sapere che quei due avevano anche la minima possibilità di sopportarsi l’un l’altro mi fece rilassare.
Poi ricordai di ciò che era appena successo e a quello che avrei fatto della mia vita.
Sbuffai. «Domani mi sveglierò e non saprò cosa fare,» dissi mogia.
«Potremo sempre lavorare a qualche caso interessante io e te, insieme,» suggerì l’avvocato ed io vidi subito Simone diventare rigido sulla sedia.
Ridacchiai, un po’ più rilassata. «E come faremmo?»
«Beh io ho la licenza, potremmo lavorare come avvocati free-lance per il momento, poi chissà. Da qui a un anno succederanno un sacco di cose,» disse James. «Potremmo anche fondare lo studio Donati-Abbott!»
Quel nome non suonava nemmeno tanto male.
«E, di grazia, dove riceviamo i clienti?» domandai, sempre più incredula.
James ci pensò su. «Beh, il mio appartamento è praticamente vuoto, quindi…»
Fu in quel momento che Simone si alzò in piedi, puntando un dito contro l’avvocato. Ebbi il terrore che potesse fare una scenata delle sue. «Eh no!» disse deciso. «Se in futuro dovrò sopportare questo avvocato stoccafisso che ti gira intorno, almeno lavorerete sotto i miei occhi. Quindi riceverete i clienti a casa mia!»
Rimasi allibita.
Era come se tutto ciò che era successo sino a quel momento, non fosse mai accaduto, quasi se gli screzi e i dispetti che ci facevamo l’un l’altro non fossero mai smessi.
James sorrise. «Non avevo intenzione di…»
Gli posai una mano sull’avambraccio. «Lascialo stare, Jamie. Il suo unico neurone soffre di solitudine e di tanto in tanto svalvola.»
La reazione di Simo non si fece attendere. «Sei meglio te, con quell’aria da so-tutto-io vedi di abbassare la testa e fare ciò che ti dico. Visto che metà di me è dentro di te, comando io!»
Roteai gli occhi al cielo. «Convinto te…»
***
James si congedò qualche minuto dopo, dicendo che doveva sbrigare delle cose a casa, soprattutto riguardanti il suo congedo dallo studio. Rimasi sola con Simone, forse ero ancora un po’ imbarazzata per tutto quello che era successo.
In fondo, tutte le questioni rimaste in sospeso non si erano ancora risolte. Avremmo dovuto farci una lunga e sana chiacchierata.
«Beh, che vuoi fare?» mi chiese, sorprendendomi.
Feci spallucce. Ormai avrei avuto tempo a buttar via, visto che ero disoccupata. Ci pensai meglio, anche perché avrei voluto fare davvero qualcosa di bello insieme a lui, una sorta di “ricominciamo”.
«Vorrei tornare a casa,» conclusi.
Lui parve sorpreso, poi si rattristò. «Se vuoi ti accompagno.»
Mi fece male vederlo in quello stato, soprattutto perché mi ricordava quel giorno in tribunale quando lo avevo visto proprio spento.
Mi alzai in piedi e gli tesi la mano. «Cosa hai capito? Voglio che andiamo a casa nostra.»
Gli occhi di Simo ripresero quella luce che tanto mi era mancata in quei giorni, gli esatti riflessi dorati che tanto mi facevano battere il cuore.
Uscimmo dal caffè per gettarci di nuovo in strada, ma non ci eravamo accorti che il tempo era cambiato e, come al solito, era iniziato a piovere.
«Chiamiamo un taxi?» suggerii, almeno non ci saremmo bagnati, ma Simone mi guardò con una passione che riuscii a mala pena a reggermi in piedi.
«Vieni,» mi disse, afferrando la mia mano e iniziando a correre.
Premetto che non ero mai stata brava in ginnastica, anzi, erano più le volte che sostavo giorni e giorni sul divano, chiusa in casa a studiare, rispetto a quelli passati all’aria aperta. Quella volta fu tutto diverso.
Ero felice di correre con Simone, mano nella mano, mentre la pioggia ci bagnava i vestiti e ce li faceva appiccicare addosso, stoffa contro pelle. Percorremmo tutta Regent Street, sorpassando passanti infastiditi che venivano schizzati dai nostri passi sul marciapiede bagnato dalla pioggia.
Sentivo il cuore martellarmi nel petto, le scarpe farmi male e il sudore che lentamente si mischiava all’acqua piovana ma non mi importava. Sentivo soltanto il contatto con la mano di Simone e cercai in tutti i modi di non lasciarla mai scivolare via.
Non lo farai scappare di nuovo.
Non lo lascerò più andare via.
Anche se non avevo ottenuto il posto alla Abbott&Abbott, forse la mia vita non sarebbe stata poi tanto male d’ora in poi. Magari era ora di rivalutare le mie priorità, di cambiare il mio punto di vista, di affrontare una piccola diramazione rispetto alla via principale che avevo stabilito per il mio futuro.
Da quando Simone era entrato prepotentemente nella mia vita, forse anche dal primo giorno, avevo cominciato a riconsiderare le mie priorità. Ovviamente il mio sogno sarebbe comunque rimasto quello di lavorare in uno studio legale, di fare l’avvocato, ma nella vita di una persona c’erano tanti altri piccoli sogni che a poco a poco si sarebbero realizzati.
Arrivammo sotto il portone di casa con il fiatone.
Cioè, perlomeno io lo avevo. Simone, a parte l’acqua piovana che gli aveva scompigliato quei meravigliosi capelli, sembrava fresco e riposato come una rosa.
«Sembri un panda,» ridacchiò.
Effettivamente avevo dimenticato il trucco di quella mattina, ma ormai non mi importava più di tanto. Tesi le mani per afferrargli il viso e portarlo sempre di più al mio. Simone chiuse gli occhi e attese, ma quando scoprì che il mio unico intento era strusciare la mia faccia sulla sua, tentò di allontanarmi indispettito.
«Ma dai! Che schifo!» si lamentò.
Sghignazzai soddisfatta. «Così siamo due panda!»
Simone tentò di togliersi il mascara nero dalle guance, ma non fece altro che assomigliare a uno di quei giocatori di football americano. Era troppo buffo!
Mi fissò sorridente, poi però mi afferrò il mento con due dita e mi baciò.
Era da troppo tempo che desideravo quel bacio, sembrava passata quasi un’eternità. Mi erano mancate troppo quelle labbra soffici, quel sapore amaro ma allo stesso tempo piacevole che ogni volta mi suscitava nuovi brividi intensi.
Amavo e odiavo ogni cosa di Simone, ogni piccolo comportamento.
Mi infastidiva che mi prendesse sempre in giro, che fosse pieno di sé e che non si curasse minimamente degli altri, ma allo stesso tempo amavo quei suoi difetti.
Rimanemmo sotto la pioggia fino a quando una folata di vento non mi fece rabbrividire.
«Entriamo,» suggerì Simo ed io lo seguii.
L’appartamento era come lo ricordavo, sembrava come se Simone non avesse nemmeno mai rassettato da quando me n’ero andata.
Un momento.
«Ma è una settimana che non pulisci?» domandai scandalizzata
Il calciatore alzò le spalle. «Non mi pareva opportuno, ancora non puzza.»
Storsi il naso e trattenni a stento un conato di vomito. «Dannazione fai schifo, chi me lo ha fatto fare!» sbraitai.
Simo non perse tempo e mi trascinò letteralmente verso il bagno, senza nemmeno il tempo di continuare a sgridarlo. In effetti, non era molto salutare rimanere con quei vestiti fradici addosso.
Aprì l’acqua della vasca da bagno, facendola scorrere e scaldare, dopodiché mise il tappo e nell’attesa che si riempisse, cominciò a spogliarsi. Lo guardai allibita perché era successo tutto così in fretta che dovevo ancora metabolizzare.
Alzò lo sguardo su di me, con una faccia perplessa. «Mbé? Te voi spojà o no?»
Ringraziai il corso di Yoga che avevo frequentato l’anno prima, perché mi avrebbe aiutato a non commettere un omicidio seduta stante. Come poteva un essere umano essere così estremamente romantico l’attimo prima, e totalmente deficiente un secondo dopo.
Sbuffai sfilandomi il cappotto. «Credevo che ci saremmo spogliati a vicenda,» rimarcai l’ovvietà.
Simone lasciò i jeans abbottonati a metà. «Cazzo, non è una cattiva idea.»
È tornato Sherlock…
«Dai tranquillo, meglio che ci sbrighiamo sennò ci viene qualche malanno,» dissi sbrigativa, sbottonandomi la camicia e rimanendo in reggiseno.»
Mi sarei dovuta abituare alla mancanza di tatto di Simo. Il suo sesso e la differenza d’età contribuivano enormemente al divarico tra quelli che erano i nostri bisogni e le nostre priorità ma in quel momento mi bastava stargli accanto.
D’improvviso avvertii le sue calde mani sulle mie spalle, ancora umide.
Alzai lo sguardo e mi ritrovai a specchiarmi in quelle gocce di petrolio che erano i suoi occhi. C’era tanta differenza di altezza tra di noi, era anche per questo che mi aveva sempre soprannominata Lil’elf. A me non importava.
La sua mano scese a scostare la bretellina del reggiseno, facendola calare lentamente sulle mie spalle e lasciandomi un brivido. Chiusi gli occhi assaporando quel momento. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che avevo sentito il suo tocco, mi sembrava un’eternità.
Le sue lunghe dita affusolate, leggere come la carezza di una piuma sulla pelle, scesero ad accarezzarmi il seno, delicatamente, a liberarmi di quella “gabbia” che mi opprimeva il respiro. Sospirai lentamente, sentendo ogni muscolo del mio corpo che si protendeva verso di lui.
«Simo…» gemetti, ma non sapevo cos’altro aggiungere.
Avevo così tanto bisogno di lui, che tutte le parole del vocabolario non sarebbero bastate ad esprimere quello che provavo in quel momento.
Non disse niente, si limitò a spostare le sue carezze ancora più in basso. Si fermò esattamente sulla mia pancia, mettendosi in ginocchio e stringendomi forte a sé. Forse quella era la prima volta che lo osservavo dall’alto in basso e apprezzai così tanto quel suo gesto che stavo quasi per commuovermi.
Gli accarezzai la testa, cercando i suoi occhi. «Ehi,» gli sorrisi.
Era piacevole vedere il suo sguardo luminoso, quasi felino. Aprì e chiuse le palpebre osservandomi come avrebbe fatto un gatto, sembrava quasi mi stesse facendo le fusa.
Poi posò le labbra sulla mia pancia ed io mi portai una mano alla bocca.
Non piangere!
«Credi che giocherà bene a pallone?» mi chiese, soffiandomi sulla pelle.
Inspirai per non cedere. «Credo che sarà un ottimo avvocato.»
Vidi Simo scattare all’indietro, sorpreso. «Eh no! Sappi che non transigo su questa cosa. Mio figlio giocherà a pallone e diventerà più forte del suo papà!»
Il fatto che avesse usato quell’ironia per trasmettermi sicurezza, mi diede una forza incredibile. Quasi tutte le paure che avevo accumulato fino a quel giorno sembravano completamente sparite.
«E se fosse una femmina?» lo rimbeccai.
Simone aprì la bocca per ribattere, poi rimase muto come un pesce. Anche con la medesima espressione.
Cominciai a ridere senza nemmeno accorgermene.
Era talmente buffo che sarebbe stato difficile arrabbiarsi con lui, soprattutto quando finalmente potevamo vivere un’atmosfera casalinga e serena come quella.
Entrammo nella vasca, visto che altrimenti la pioggia si sarebbe asciugata sulla nostra pelle. Fu così piacevole rilassarmi tra le sue braccia, perdere finalmente la cognizione del tempo e dello spazio e rifugiarmi in un posto felice.
«Mi piace tornare a casa,» gli confessai serena.
Sentii la sua stretta farsi ancora più forte. «Anche a me. Voglio tornare dagli allenamenti tutte le sere e trovarti sul divano ad aspettarmi. Magari senza che bruci la cena!» ridacchiò, ricordando quella volta che avevo tentato di preparargli un dolce, senza successo.
Gli assestai un bel pizzico sul braccio.
«Ahi!» si lamentò.
«Così ti impari!»
Sarebbe stato sempre così tra di noi, ormai lo sapevo. Non sarebbe mai stato un rapporto tra due persone adulte, ma tra ragazzi che sarebbero cresciuti assieme giorno dopo giorno, contribuendo a tirare su anche un bambino.
Rimanemmo in silenzio per qualche momento. Pensai alle cose che avrei dovuto fare l’indomani, al lavoro che avevo perso e a quelle faccende che avrei dovuto sbrigare a mano a mano che portavo avanti la gravidanza.
Poi pensai sempre a Simone e a come aveva accettato silenziosamente di essere padre.
«Vuoi davvero diventare papà?»
Simo mi guardò, scostandomi il viso di lato. «Cosa vuoi dire?»
Dalla mia recente esperienza, avevo capito che con gli uomini bisognava essere elementari e precisi. Altrimenti avrebbero capito fischi per fiaschi.
Deglutii a fatica, cercando di essere più chiara possibile. «In questi giorni che sono stata da sola, ho avuto paura di dirti la verità su ciò che mi stava succedendo anche perché ero terrorizzata che potessi dirmi di no.»
Il calciatore cambiò espressione, diventando più duro. «Davvero pensi questo di me? Spiegati.»
Sapevo che era pericoloso addentrarsi in un argomento del genere, ma dovevo metterlo alla prova. Essere completamente sicura che fosse pronto e che non mi abbandonasse nel momento del bisogno. Non ce l’avrei fatta a sopportarlo.
«Voglio dire che non hai mai mostrato propensione ad assumerti le tue responsabilità con la Cloverfield, avevo paura che se ti avessi detto che aspettavo un figlio, avresti reagito allo stesso modo,» spiegai.
Simone mi scostò quel tanto da potermi tenere il viso tra le mani. Eravamo occhi dentro agli occhi, il mio sguardo completamente incatenato al suo.
«Io non ti lascerò mai, se è questo che pensi,» iniziò, facendomi rabbrividire. «Con Elizabeth era tutto diverso, si era trattato di una svista. E poi…»
«E poi?»
Cosa voleva dirmi? Perché d’improvviso era diventato così maledettamente nervoso?
Si lasciò andare contro il bordo della vasca, tirando indietro i capelli neri con una manciata di acqua calda. Si sciacquò bene il viso, lasciandomi in completa balia della curiosità.
L’acqua scendeva lenta incorniciandogli il viso e rendendo le sue ciglia ancora più folte e scure. Ogni piccolo particolare del suo corpo diventava meraviglioso ai suoi occhi e anche se Simone non fosse stato così maledettamente bello, lo avrei amato allo stesso modo.
«Ti amo, stupido elfo.»
Rimasi allibita. Avevo sempre provato quelle cose per Simone, ma sentirsele dire ad alta voce, a pochi centimetri di distanza dal suo corpo, mi fece esplodere il cuore di gioia.
Mi lanciai letteralmente tra le sue braccia, svuotando per metà la vasca e l’acqua si andò a spargere su tutto il pavimento.
«Ti muovi peggio di un pachiderma!» urlò lui, ancora terrorizzato dalla mia reazione.
Non mi importava. Lo fissai con un sorriso a trentadue denti, senza alcuna intenzione di lasciarlo andare dalla mia morsa ferrea.
«Ti amo anche io, capoccione,» gli risposi e forse fu più facile a dirlo che a realizzarlo. Era stato un processo piuttosto lungo, in fondo all’inizio ci odiavamo, ma il sentimento era a mano a mano cresciuto trasformandosi in qualcosa di talmente forte che era stato impossibile da spezzare.
Simone sorrise a sua volta, bello come la prima volta che lo avevo incontrato.
«Non devi avere paura,» mi disse. «Nella vita sono sempre stato istintivo e sinceramente non mi importava molto del domani. Ma adesso sono sicuro di una cosa.»
«Quale?»
Mi sorprese con un bacio che mi tolse il fiato.
Ormai non sentivo nemmeno più il cuore che mi batteva nel petto, tante erano le emozioni che si accavallavano una sopra l’altra.
«Voglio passare il resto della mia vita con te, e con Lil’Elf che nascerà tra qualche mese.»
Capii che era sincero, che finalmente avrei potuto fidarmi di una persona e contare su di essa senza pensare di essere sola, di cavarmela con le mie forse. Era piacevole poter affidarsi agli altri, riporre il proprio cuore nelle mani di qualcun altro.
«Lo sai che ricomincerò a lavorare molto presto,» gli dissi, sapendo che non sarei mai riuscita a fare la vita della “mantenuta”.
Simone dapprima stava per ribattere, poi ingoiò il rospo e ci ripensò. «Hai ragione, in fondo sei sprecata per stare a casa a stirare e piegare magliette. Inoltre, non è che tu sia una grande cuoca…»
E lì si meritò il secondo pizzico, stavolta sul pettorale sinistro.
«Ahi! Sei violenta!» si lamentò.
Sorrisi trionfante. «E nemmeno potrai vendicarti, perché sono incinta!»
Lui comprese di essere spacciato. «E quanto dura questa, questa specie di malattia che hai?» ridacchiò.
Decisi che era arrivato il momento di giocare un po’ con l’acqua, a ripulire il bagno ci avrei pensato dopo.
«Non preoccuparti, sarà il tempo necessario a distruggerti!» gridai, cominciando a schizzarlo negli occhi.
E così andammo avanti per un’ora buona, devastando completamente il pavimento e lo specchio ma divertendoci come matti. Da quell’esperienza avevo ricavato molto, soprattutto avevo imparato che nella vita di una donna non c’è soltanto spazio per un solo obiettivo e che spesso, alcuni nostri desideri nascono quando meno ce lo aspettiamo.
Fuggii dal bagno con il sapone ancora tra i capelli.
«Lo sai che adesso mi vendico, vero?» mi urlò dietro, ma io continuai a correre per tutto il corridoio, sapendo che anche se fossi scivolata Simone sarebbe stato lì, pronto ad afferrarmi al volo e salvarmi. Era bello poter dividere le proprie paure e i propri sogni con qualcuno, anche se avevamo diversi interessi.
«Prima devi riuscire a prendermi!» gli urlai.
Ma la verità era che lui mi aveva già catturato, molto tempo fa. Forse proprio quel giorno di due anni fa, nella hall di quell’hotel a Londra, quando i nostri occhi si erano incrociati per la prima volta, o magari quella notte di Capodanno.
Ci sarebbe stato tempo per capirlo e magari per innamorarmi ancora di lui, un giorno dopo l’altro.
Fine.
Eccoci giunti finalmente!
Dopo tipo 2651232356153613651313651 anni, sono riuscita a scrivere il finale di questa storia e pubblicarlo. Spero davvero che vi sia piaciuto, che vi abbia coinvolto e - ahimé - purtroppo non posso farlo durare per sempre come molte di voi mi hanno chiesto, anche perché diventerebbe molto morboso. Di sicuro potrei pensare di creare qualche OS, quando mi andrà nuovamente di entrare nella vita coniugale di Ven e Simo, i miei due bimbi che non abbandonerò mai.
Questa storia è l'essenza di quello che sono, perché anche se Venera non mi rispecchia pienamente di carattere, molti dei suoi comportamenti li ho anche io, come anche Simo. Sono un po' due miei ''figli'' che ho voluto trasferire su carta e che poi - fortunatamente - si sono innamorati. Devo dire che è anche meglio che la storia si sia "interrotta" perché ho acquisito la maturità e l'esperienza di "coppia" che prima mi mancava e suppongo che questa seconda parte sia un po' più matura della prima.
Dopo questo immenso sproloquio, sono TRISTISSIMA che questa storia si sia conclusa, perché mi mancheranno i personaggi e mi mancherete voi con le vostre recensioni e la passione nel gruppo di Facebook, ma è giunto il momento.
Spero davvero di riuscire a coronare il mio Sogno (LOL) di ricavarne un libro e che questo finale vi piaccia.
Grazie a tutti coloro che mi hanno seguito sin da CIUS, da quelli che sono approdati prima su ILWY e da quelli che verranno. Grazie a Venera cche mi ha dato un po' del suo coraggio, a Simone che mi ha fatto agire senza pensare troppo alle conseguenze, grazie a Sofia che mi ha fatto sperare nella bontà del prossimo e a Ruben che ''la speranza è l'ultima a morire''.
Infine grazie a James, anche se è sempre stato un odi et amo, mi hai insegnato che i principi azzurri ancora esistono se si sa cercarli, ma non sempre sono quello che vogliamo davvero.
Grazie a questo meraviglioso viaggio e a voi che mi avete accompagnata passo dopo passo.
Grazie a Venera (quella vera), ad Anna (la mia motivatrice) e a Rosie - come vedete molti nomi che ho usato sono i loro perché le ammmmmmmmmmo <3 - che sono state le prime, le sole e le uniche vere ''autrici'' di questa storia, io ho solo messo su carta i loro desideri.
Grazie a tutti <3
Marty
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Capitolo 34 *** EPILOGO ***
EPILOGO
All’interno dell’Emirates Stadium si udivano soltanto i tamburi riecheggiare nel silenzio e voci di uomini e donne che sembravano fusi in un’unica entità. La curva era dipinta di bianco e di rosso, sciarpe e bandiere venivano sventolate in maniera forsennata mentre lo speaker di turno stava urlando un nome dietro l’altro.
«Francesco, ehi, torna subito qui!» urlai, tentando di non urtare uno degli addetti alla sicurezza. Erano davvero persone spaventose. Indossavano gli occhiali perfino quando era notte, davvero delle persone strambe.
Di certo non hanno azzardato quel colore di capelli.
Tentai di ignorare Cervello, ormai mi stavo abituando a vivere senza una coscienza ma alle volte mi risultava difficile. Mi pettinai accuratamente la frangia all’indietro, fissando bene le forcine e corsi dietro ad un bambino moro di circa tre anni.
Lo afferrai appena in tempo, per il cappuccio del piumino, prima che potesse lanciarsi direttamente in mezzo al campo.
«Signora, non può entrare ancora,» mi ricordò uno degli addetti alla sicurezza, con quel vocione antipatico.
«Sì, ha ragione, mi scusi,» dissi.
I miei movimenti erano ancora impacciati, soprattutto perché mi risultava difficile rimanere in equilibrio su tacchi anche modesti e vestita di tutto punto.
Il bimbo si voltò, fissandomi con un paio di occhi talmente blu che rimasi incantata.
«Momy, vojo vere papà!»
Prendo Google traduttore?
Sorrisi e mi accovacciai, sistemandogli meglio il giubottino.
Francesco aveva preso gli stessi capelli di Simone, perennemente spettinati e sparati in tutte le direzioni mentre gli occhi… beh, quelli erano una sorta di mescolanza. I miei erano di un celeste chiaro mentre quelli del papà nerissimi. Lui era uscito fuori con un iride blu come l’oceano più profondo.
«Tra poco papà torna, piccolo. Se aspettiamo qui, sicuro ti porterà uno di quei palloni con le stelle.»
Come aveva pronosticato Simo, il piccolo Francesco era nato con l’amore incondizionato per quella cosa rotonda per cui il papà veniva pagato profumatamente. Dal canto mio, stavo ancora cercando di fargli imparare correttamente l’alfabeto italiano in modo che potesse arrivare alle scuole primarie già pronto.
Gli occhi parvero illuminarglisi come stelle. «Palla!» urlò, mettendosi a saltellare.
Hai scatenato la peste, lo sai vero?
Era difficile tenere a freno la vivacità di quel bambino, soprattutto quando faceva di cognome Sogno.
«Allora ce l’hai fatta a venire, eh?» mi domandò una voce alle mie spalle.
Sorrisi, riconoscendo subito mia cognata.
«Sì, sono riuscita a liberarmi allo studio e sono corsa qui. Rose si è offerta di portare anche Francesco,» le spiegai.
Era consuetudine che mio figlio passasse molto tempo in compagnia della sua piccola cuginetta Susy. Almeno sapevo che giocava con una bambina piuttosto furba e intelligente e poi era nelle mani di una mamma perfetta e bellissima come Rosie.
Abbracciai Sofia e notai anche la presenza, effimera, di quella talpa di Ruben.
In quei tre anni non era cambiato di una virgola, forse si era fatto crescere una rada peluria che voleva assomigliare vagamente ad un pizzetto.
«Ciao Ruben!» lo salutai.
Lui mi sorrise timido. «C-Ci-Cia-Ci-C-Cia-Ci-C-Cia-… Salve!»
Dai, ci ha messo solo cinque minuti. Sta migliorando!
Poveraccio.
La piccola Sogno gli sorrise, quasi come se avesse visto chissà quale splendida creatura. Era proprio vero che l’amore non aveva né età, né colore e non guardava l’aspetto fisico. Di certo aiutava, ma non era fondamentale.
«Tra quanto faranno la premiazione?» mi chiese.
Guardai l’orologio da polso. «Penso che sia già iniziata.»
Ci trovavamo tutti lì, allo stadio, perché l’Arsenal era riuscita a vincere il campionato e Simone sarebbe stato premiato come capo cannoniere di quella stagione. Mi sentivo molto orgogliosa, soprattutto stando in mezzo a tutte quelle altre donne piuttosto vuote ed annoiate da una vita in cui potevano avere tutto e non traevano nessuna gioia personale.
Ecco perché avevo subito ricominciato a lavorare.
«E con 20 gol in questa stagione,» disse lo speaker, mentre le urla dei tifosi riuscivano addirittura a coprire la voce del microfono. «Viene nominato capo cannoniere di questa stagione calcistica 2015-2016…»
Presi per mano Francesco giusto in tempo per sporgermi al di fuori del tunnel d’ingresso. Volevo assistere al momento in cui gli avrebbero consegnato la medaglia, uno degli altri mille trofei che avrebbero riempito casa.
«Momy, is he moy papa?» mi chiese.
Sorrisi alla sua pronuncia per metà inglese e metà italiana. D’altronde, sarebbe diventato uno di quei bambini che sapevano alla perfezione due lingue.
Un piccolo genio.
Come la mamma.
Presi in braccio Francesco con un enorme sforzo. Dal momento che ero alta un metro e due mele, feci perno sulle gambe e me lo poggiai su un fianco, indicando verso Simone che saliva su un piccolo podio.
«Vedi amore, quello laggiù è papà,» gli dissi e i piccoli occhi blu divennero luminosi.
«Simone…» urlò lo speaker.
«SOGNO, SOGNO, SOGNO!» gridarono tutti i tifosi, sventolando le sciarpe e le bandiere mentre vidi Simone che lanciava baci e ringraziamenti verso la telecamera. D’altronde era una continua soddisfazione per lui, raggiungere quel vertice di carriera così giovane e con tutta la vita ancora davanti a sé.
Ogni giorno che passava lo amavo sempre di più, e amavo il piccolo batuffolo di ciccia che tenevo al fianco.
Subito dopo la premiazione ci furono i festeggiamenti, così i calciatori tornarono verso il bordo del campo per prendere in braccio la propria prole e concedere delle foto dolci e felici alla stampa inglese. La bufera del caso di tre anni fa si era spenta come un fuoco in una tempesta, era durata fino all’estate successiva e a settembre non interessava più a nessuno.
Fu però sostituita dalla notizia della famiglia Sogno e del matrimonio più romantico della storia: lei, giovane avvocato senza un becco di un quattrino e lui, calciatore famoso e bellissimo che si era innamorato.
Il genere di storie inciuciose di cui gli inglesi campavano.
Notai Simone che mi correva incontro. Non appena mi vide, gli sorrise lo sguardo e mi baciò, anche se Francesco subito si mise nel mezzo.
«Papa! Papa! Papa! No eat momy! Plis.»
Stavo trattenendo a stento le risate. Simone mi guardò stralunato. «È tuo figlio, non stupirti,» gli dissi subito, alzando le mani.
Lui però lo prese in braccio e mi baciò di nuovo, cingendomi la vita e stringendomi a sé. Non mi ribellai, anche se era sudato fradicio, perché adoravo sentirlo mio anche in quei momenti pubblici.
«Sono felice che sei riuscita a passare,» disse, schioccandomi un altro bacio. «Faccio due foto con Chicco e poi ce ne torniamo tutti a casa.»
Annuii, sorridendo come una scema.
«Ti amo,» gli dissi e lui lo mimò con le labbra perché già stava scappando dai fotografi. Rimasi a guardarlo correre, forse la prima cosa che mi aveva fatto innamorare davvero di lui. Lo avevo sempre giudicato come un ragazzo privo di interessi, un egoista, una persona che pensava soltanto al proprio tornaconto, senza alcun tipo di ambizione. Invece avevo visto che in lui c’era qualcosa, un amore verso quello sport che non ero riuscita a capire all’inizio.
«Beh, congratulazioni,» mi disse una voce ed io sussultai.
Sebastian era apparso al mio fianco, materializzato da chissà dove. Era raro che venissi agli allenamenti di Simone per cui non avevo occasione di vedere i suoi colleghi con frequenza. Dovevo ammettere che Sebastian in particolare, mi inquietava.
«G-Grazie,» risposi titubante.
Secondo me è una specie di stalker.
«Siamo già al secondo eh, quanti pensate di sfornarne?» mi domandò, forse poco opportunamente.
D’istinto mi accarezzai il piccolo rigonfiamento sull’addome.
Non che fosse programmato, ma ormai avevo imparato da Simo ad essere più istintiva e a godermi i piccoli regali che la vita mi stava dando. Avevo già le mie soddisfazioni sul posto di lavoro, con James che era sempre pronto ad aiutarmi, e una volta rientrata a casa ne trovavo delle altre.
Magari non avevo coronato il sogno di lavorare alla Abbott&Abbott, ma mi sentivo ugualmente realizzata.
«Non sono affari tuoi, Sebastian,» gli dissi, il più cordiale possibile.
L’uomo mi guardò lanciandomi un sorriso sghembo. «Simone ha davvero trovato una piccola miniera d’oro.»
Io mi allontanerei molto lentamente.
Approvo!
Ne approfittai per raggiungere Sofia e Ruben, intenti a chiacchierare con alcuni manager della squadra.
«Ven, mamma ti ha chiamato per avvertirti del pranzo di domani?» mi domandò.
Sgranai gli occhi. Me n’ero completamente dimenticata. «Ehm, a dire il vero…» annaspai. Andare a pranzo da mia suocera non era poi così pesante, il problema era soltanto coniugare gli impegni di lavoro, a Francesco e agli allenamenti di Simone. C’erano volte in cui non riuscivamo nemmeno a vederci per ventiquattro ore filate.
«Te ne sei dimenticata,» concluse Sofi, sorridendo. «Non fa niente, dico alla mamma di rimandare, tanto lei è disponibile.»
Tirai un sospiro di sollievo. «Sarebbe perfetto, domani ho la giornata completamente piena!»
«Tranquilla, faccio tutto io!»
Sofia era davvero una ragazza d’oro, proprio il contrario di quel debosciato del fratello.
«Momy, momy, can ai eve a fotografica cotté?» mi urlò dietro Francesco, correndomi incontro. Simone lo seguiva a distanza, evidentemente stanco.
Dopo l’ultima partita di campionato, aveva a mala pena avuto il tempo di farsi una doccia e poi era scattata la premiazione. Nei due giorni successivi avrebbe dovuto festeggiare con la squadra e con i tifosi, come di consuetudine.
«Amore, papà è in modalità zombie. Che ne dici se torniamo a casa e facciamo la nanna?» chiesi al piccolo Francesco che fortunatamente capì e fece di “sì” con il suo faccino rotondo.
«Piccola, torniamo a casa?» mi chiese Simone, salutando poi la sorella e il cognato.
La talpa.
L’uomo di neanderthal.
L’astrolopiteco.
Sì, insomma, Ruben.
«Andiamo.»
Camminando nei corridoi dell’Emirates Stadium e fermandoci ogni minuto per permettere a Simone di fare foto e firmare autografi, Francesco si era addormentato sulla sua spalla. Mi inteneriva ogni volta vedere padre e figlio che si somigliavano così tanto.
«Che c’è?» chiese mio marito, vedendo che lo osservavo.
Ancora mi faceva strano etichettarlo in quel modo.
«Nulla,» sorrisi, facendo spallucce. «È che sono così orgogliosa di te.»
Simone annullò la distanza che c’era tra di noi e la colmò con un lungo ed intenso bacio. Mi strinse a lui e al piccolo Francesco, che dormiva beato e mi chiese all’orecchio come mi sentivo.
«Sto bene, anche lui o lei sta bene,» dissi, riferendomi al pancione.
Allora mi prese per mano e continuammo a camminare dirigendoci verso il parcheggio.
«Sei felice?» mi chiese poi, prima di entrare in macchina.
Lo guardai sorridendo. Era una domanda piuttosto ovvia, ma ogni volta che me la faceva era come se mi innamorassi di lui per la prima volta.
«Con te,» gli risposi, come facevo ogni volta. «Con te, sono felice.»
Che dire?
Ci ho messo un secolo e mezzo anche a pubblicare questo ''epilogo'', nonostante la storia fosse conclusa ho voluto farvi ''sbirciare'' un po' nel futuro di Simo e Ven. E' stato un periodo un po' impegnativo questo, non ho avuto molto tempo nemmeno per fare modifiche e correzioni ai capitoli precedenti, in vista di una pubblicazione futura, ma quando sarò pienamente soddisfatta del risultato, vi terrò aggiornate.
Detto questo,
Simo e Ven mi mancheranno tantissimo. Sono stati sia protagonisti della mia storia, sia compagni di viaggio per dei periodi della mia vita che mi hanno vista crescere. Erano lì quando ho fatto dei cambiamenti radicali nel mio stile di vita, quando ho fatto determinate scelte, quando ancora non sapevo cosa si provasse ad essere ''innamorati'' e quando finalmente ho capito cosa Ven e Simo mi trasmettessero attraverso le parole. Durante il corso della storia, abbiamo visto Venera cambiare radicalmente, accettare il fatto che la vita non è solo ''Cervello'' e che non si può comandare al cuore quando e dove innamorarsi. Succede e basta. Abbiamo visto anche Simo cambiare, fare dei sacrifici, capire passo dopo passo cosa volesse dire assumersi le responsabilità delle proprie azioni ed essere pronti a rinunciare a tutto pur di stare al fianco della persona che si ama, se ne vale davvero la pena.
Perché l'amore non è altro che mettere il bene dell'altro prima del proprio.
L'antitesi dell'essere egoista.
Spero che questa storia vi abbia insegnato qualcosa, oltre ad avervi fatto ridere e perdere qualche ora del vostro tempo.
Che vi abbia aperto gli occhi anche su questo ''crescere insieme'' che, secondo me, è la parte più bella di una relazione. Uno che insegna ciò che sa all'altro, in modo da costruirsi un futuro.
Detto questo mi mancheranno questi due, mi mancherà tornare a scrivere.
Vorrei ringraziare tantissimo la mia ''FAMIGGHIA'', di cui non basterebbero mille pagine di ringraziamenti per esprimere ciò che devo loro. Wife che mi ha sopportato betando e correggendo tutte le porcate che scrivevo, Annucciah che - con molto garbo *inserire ironia qui* - mi diceva chiaramente cosa faceva cagare e cosa no, e Rosie che con il suo entusiasmo (e stalkeraggio) mi spronava a finire questa storia a cui si era affezionata da morire.
Vi lascio con un enorme GRAZIE, ma so già che vi dovrò sfruttare ancora (PURTROPPO PER VOI MUAHAHAHA).
Ai lettori di EFP che mi hanno seguito da due/tre anni a questa parte,
ringrazio anche voi che avete supportato i miei alti e bassi, che nonostante abbia aggiornato una volta l'anno (quasi), non avete mai smesso di seguirmi e scrivermi (anche nel gruppo). Vi ringrazio di tutto e spero vi siate divertiti a leggere questa storia così come io mi sono divertita da morire a scrivere di Venera e Simone.
Alla prossima storia (se ci sarà).
Un mega-bacio,
Marty <3
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