Stagioni Marsigliesi di HamletRedDiablo (/viewuser.php?uid=56405)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primavera ***
Capitolo 2: *** Estate ***
Capitolo 3: *** Autunno ***
Capitolo 4: *** Inverno ***
Capitolo 5: *** Di nuovo Primavera ***
Capitolo 1 *** Primavera ***
Capitolo
Uno - Primavera
Mio
caro
lettore.
O
forse dovrei
dire miei cari lettori. Non offenderti, tu che leggi queste righe, ma
spero
vivamente che non sarai il solo a soffermarsi su questa storia. Sono
abbastanza
conosciuto come l’aedo della Marsiglia, ma assai di rado mi
sono dedicato alla
scrittura. Ritengo che un racconto debba essere vissuto, assaporato,
visualizzato,
e niente meglio di una novella ben raccontata al tepore di una locanda
può
farlo.
Tuttavia,
questa
è una storia che voglio scrivere. Voglio che i miei lettori
possano sapere come
sono andate le cose anche quando la mia lingua sarà polvere
nella terra
consacrata. Voglio che questa storia mi sopravviva, e che il mito dei
suoi
protagonisti possa essere raccontato ancora e ancora, in Francia, in
Inghilterra, in Spagna, in America, in tutti i luoghi che i personaggi
di
questo racconto hanno toccato.
Se
vi è capitato
di fare un giro nelle locande vicino al porto, certamente avrete udito
la ballata
del coraggioso capitano Antonio e della fanciulla che gli
strappò il cuore.
Ebbene,
devo farvi
una confessione.
I
capelli della
fanciulla erano molto più corti, il suo carattere molto
più intrattabile, e il
suo nome molto più maschile. Si chiamava Lovino.
Ora
che ho
ammesso la mia piccola bugia, spero mi perdonerete e continuerete a
seguirmi in
questa breve narrazione.
Vi
ho mai detto
cosa amo delle stagioni? Probabilmente no. Parlo solo da poche righe e,
a meno
che la mia memoria non sia veramente fallace, non ve ne ho ancora
parlato.
Amo
le stagioni
perché ognuna di loro porta con sé colori, suoni,
sapori diversi. Pare di
vivere quattro vite differenti in un solo anno. Ma ciò che
adoro di più delle
stagioni è che, persino quando sono appena terminate, si ha
la certezza che
torneranno di nuovo.
Lasciate
ora che
vi parli dei doni, dei dolori e delle attese che le stagioni
marsigliesi hanno
elargito a questo umile racconto.
«Così
tu sei Lovino.»
L’italiano
non lo guardò con simpatia: non riusciva a capire
perché un francese fosse informato del suo nome.
Scrutò Antonio, come gli era
spontaneo ogni volta che qualcosa lo irritava, ma lesse lo stesso
smarrimento
sul volto dello spagnolo.
Il
marsigliese con i fiordalisi negli occhi e il grano nei
capelli conosceva tutti loro, almeno per nome: Antonio era un capitano
famosissimo, ma Consuelo e Diego erano comuni camerieri, e Lovino un
mozzo
senza infamia e senza lode.
«Me
lo immaginavo diverso» confidò ad Arthur, quando
l’italiano smise di fissarlo come un lupo selvatico pronto ad
attaccare. «Più
flessuoso. Più aggraziato. Insomma, ha conquistato un
corsaro che ha visto
tutto il mondo. Pensavo che la sua fosse una bellezza
mozzafiato.»
Arthur
si accomodò in una delle poltrone dell’atelier,
spossato.
«Forse
non potrai decantare le sue lodi fisiche in una poesia,
ma potrai parlare del loro amore.»
«Cosa
ti fa pensare che io costruisca racconti sulle
faccende altrui?» si finse offeso Francis.
«Ti
conosco, francese» il tono dell’inglese sprizzava
acido,
ma l’altro non vi badò eccessivamente. Anzi, ogni
goccia di fiele del capitano
addolcì il suo sorriso.
«Il
loro amore è così forte?»
s’informò con noncuranza
Francis, sedendosi su un bracciolo.
Ad
occhi chiusi e con una mano a proteggere le palpebre,
Arthur mormorò:
«Si
sono buttati nelle fauci dell’Inquisizione per salvarsi
a vicenda.»
Le
sopracciglia dorate scattarono verso l’alto, incredule e
interessate.
«Continua»
il francese si allungò sulla poltrona,
appoggiando un gomito esattamente di fianco alla testa
dell’inglese. «Sembra
avvincente.»
Le
dita del capitano si allargarono, e un occhio acquamarina
lo fissò indagatore.
«Puoi
trovarci una sistemazione, per la notte?»
s’informò,
ignorando lo sfavillio curioso negli occhi dell’altro.
Francis
scosse la testa con mossa astuta, per far ondeggiare
i suoi capelli mossi.
«Come
sai, il piano superiore di questo atelier ospita le
stanze dei dipendenti. Sfortunatamente, al momento sono tutte
occupate» lo
sguardo del capitano non si mosse: sapeva che il francese aveva un
debole per i
preamboli drammatici. «Tuttavia, c’è un
posto libero nella mia stanza. E
l’albergo qui di fianco può ospitare il resto
della tua ciurma.»
«Non
rimarrei qui da solo» replicò rapido
l’inglese. «Potrei
dare adito a strane voci.»
«Possono
rimanere anche i nostri eroi» ribatté
l’altro. «Così
mi racconteranno meglio la loro storia.»
«Se
vuoi farli restare, non tediarli con le tue domande. Non
credo abbiano voglia di rivivere quello che hanno appena
passato» lo sedò
Arthur. «E credo che il tuo vizio di spettegolare sui fatti
altrui ti stia
creando un piccolo inconveniente» aggiunse, indicando lo
stormo di sartine che
si era affollato attorno ad Antonio.
«Voi
siete il famoso capitano Fernandez Carriedo»
uggiolò
una biondina.
Antonio
annuì, paralizzato non tanto dall’entusiasmo
dilagante delle giovani quanto dallo sguardo con cui Lovino le stava
assassinando una per una.
«Quindi
deve esserci anche lei»
cinguettò un’altra, scatenando un coro di
strepitii eccitati.
«Lei?»
fece loro eco Diego. Lanciò un’occhiata alla
promessa
sposa, nonché unica femmina del loro equipaggio: non capiva
perché la presenza
di Consuelo potesse suscitare l’interesse di quelle cucitrici
francesi.
«La
vostra amata» evidenziò una terza, rallentando nel
parlare: credeva che lo smarrimento sparso sui volti dei presenti fosse
dovuto
alla velocità con cui parlavano in una lingua a loro
sconosciuta.
Lovino
ebbe un guizzo offeso nel sentirsi dare della donna,
ed il suo sguardo diventò plumbeo come un cielo invernale.
«Non
l’avete portata con voi?» si rammaricò
l’ultima,
sparpagliando occhiate indiscrete tutto intorno.
«Ragazze»
esordì con spudorata sfacciataggine il
responsabile di quel putiferio. «I nostri ospiti sono stanchi
per il viaggio.
Non assillateli con troppe domande.»
Arthur
nascose dietro la mano un ghigno derisorio: ironico
sentire Francis fare la paternale alle sue sottoposte quando, solo
qualche
secondo prima, progettava un interrogatorio ai danni di Antonio e
Lovino.
Le
sartine si inchinarono, rosse di vergogna per la loro
eccessiva esuberanza, e sciamarono alle loro postazioni di lavoro.
«La
vostra amata?»
sibilò Lovino, in una chiara pretesa di spiegazioni da
Antonio, dal francese o
dal muro, se necessario.
«Vi
domando scusa» il sorriso di Francis si estese con
un’innocenza disarmante sul suo volto. «Il mito del
capitano Antonio è vivo
nella nostra bella terra, e mi sono preso la libertà di
inventare qualche
storia su di lui. Per riscaldare le fredde veglie invernali,
capite.»
Antonio
non era certo di comprendere, e Lovino era
ostinatamente deciso a non voler
capire le motivazioni del francese.
«Non
inventate più storie, per cortesia»
sancì infine
Antonio, afferrando l’italiano per un braccio e
allontanandolo prima che
sfigurasse il francese a male parole.
«“Inventato”?»
lo riprese Arthur, non appena i due coinvolti
si furono allontanati. «Sarebbe più corretto dire
che hai messo i loro affari
sulla berlina e hai lasciato che la gente ci ficcasse le mani fino al
gomito.»
«Ouì, forse è
così. Ma temo che l’ira del nostro nervoso
italiano si sarebbe riversata anche
su chi ha reso pubblici quei fatti in primo luogo» Francis
gli pungolò la
guancia con l’indice. «Devo ricordarti chi
mi ha passato quelle informazioni, mon
capitaine?»
«Trovagli
una sistemazione per la notte, e forse Lovino non
ti staccherà la testa dal collo»
brontolò Arthur, scostando la mano fastidiosa
del francese.
Il
ghigno delle sirene che si apprestano a far schiantare
una nave solcò il volto di Francis.
«Farò
molto di più» assicurò, vellutato.
«Farò in modo che
tutta Marsiglia vi festeggi!»
***
Francis
mantenne la parola. Per quanto i presenti riuscirono
a ricordare.
Quella
serata, nel ricordo di tutti, rimase avvolta dai fumi
del vino francese e dal rosso dei calici pieni. Francis li
scortò con dovizia
in ogni singolo locale lungo la costa, raccontando le loro eroiche
gesta a
chiunque avesse qualche minuto disponibile per ascoltare, e svuotando
le
bottiglie degli osti incuriositi.
Continuò
il giro perfino quando i piedi cominciarono ad
inciamparsi tra di loro, e il suo racconto si fece man mano strascicato
fino a
diventare un echeggiare di rimbrotti avvinizzati.
Per
tutti questi motivi Arthur impiegò qualche secondo in
più del solito per costringere la sua mente imbevuta di
sbornia a collaborare,
la mattina seguente.
Si
svegliò con un mal di testa martellante, e
ringhiò
qualche insulto nella sua lingua madre mentre calciava da una parte le
coperte.
Il suo piede urtò contro qualcosa di morbido e di vivo, e, per un attimo, il suo schema
interno entrò in confusione.
Uno
sguardo circolare gli chiarificò la situazione.
Era
nella camera di Francis. Più specificatamente, nel suo
letto. I loro vestiti erano sparsi in un disordine casuale sul
pavimento, ed
aveva appena rimosso l’unico lenzuolo che lo copriva. Si
riappropriò con uno
scatto della coperta, e se la avvolse intorno al corpo nudo come una
toga
romana. Scese dal letto e cominciò a raccogliere i vestiti
in modo che, quando
il francese si dimenò nel dormiveglia, era riuscito ad
infilarsi perlomeno i
pantaloni.
«Bonjour»
sbadigliò Francis.
«Copriti»
ordinò secco Arthur, lanciandogli con poca grazia
il lenzuolo che fino a poco prima lo aveva protetto.
Il
francese fissò interrogativo la coperta appallottolata
che gli era appena piombata sullo stomaco e il capitano impegnato a
rivestirsi.
«Non
è la prima volta che mi vedi come la natura mi ha
creato» bofonchiò Francis, per nulla intenzionato
a nascondersi con il
lenzuolo.
«E
che faresti se qualcuno dovesse entrare?» il capitano
ebbe tempo di indossare la camicia mentre poneva la domanda.
«Gli
direi che ho navigato in acque inglesi tutta la notte.»
Il
bottone per poco non venne staccato di netto dalle dita
callose del corsaro. Preferì non offrire a Francis ulteriori
pretesti per
metterlo in imbarazzo, e continuò a vestirsi in silenzio.
Il
francese si decise infine ad imitarlo, e si infilò i
pantaloni. Aveva appena finito di allacciare il primo bottone quando
mormorò:
«Invidio
Lovino e Antonio.»
Arthur
gli scoccò un’occhiata dubbiosa, venata di
irritazione. Lovino era orfano, fuggito dalla sua patria e dalla terra
che gli
aveva dato asilo, e aveva vissuto l’incubo creato per lui da
Nicolas de
Torquemada; Antonio godeva di una notevole fama, ma era passato
attraverso le
forche dell’Inquisizione per due volte, e la cicatrice che
gli sfregiava la
gamba avrebbe continuato a tormentarlo fino alla fine dei suoi giorni.
Non
trovava nulla di invidiabile nella loro condizione.
«Loro
hanno avuto il coraggio di scegliere.»
Arthur
si ficcò la pipa in bocca e la accese senza indugio,
nascondendo il malinconico francese dietro una nube di fumo.
«Ne
abbiamo già parlato» gli ricordò
duramente, aspirando
una seconda boccata.
Francis
si mise a sedere sul letto, e l’azzurro degli occhi
si rannuvolò di rassegnazione.
«Ne
abbiamo già parlato» confermò, un
sorriso mesto
tremolante sulle labbra. «Tu sei il più importante
capitano della flotta
inglese, non puoi stabilirti a Marsiglia. E io sono un sarto francese,
non sono
in grado di sopportare i lunghi mesi per mare. E così, ogni
volta dobbiamo
aspettare una vita per vederci.»
«Faccio
spesso scalo a Marsiglia» confutò Arthur.
«Temo
che la tua concezione di “spesso” differisca dalla
mia»
considerò il francese. «Una volta ogni tanto,
quando il mare decide di
restituirti a chi aspetta. Non è
“spesso”, per me. Sarà sempre
così?»
«Così
come?»
«Tu,
lontano mille oceani, e io arginato sulla terra, in
attesa» Francis scosse la testa, risentito. «In
attesa di cosa, poi? Dovrò
aspettare
che
il mare abbia risucchiato la tua
giovinezza, la tua vitalità e accontentarmi di quello che mi
lascerà? Dei
rimasugli di tempo e delle briciole di vita?»
«Non
hai ancora smaltito l’ubriacatura» decise Arthur,
avviandosi verso la porta. Non riuscì ad aprirla: rimase con
una mano sul
pomello, pietrificato dall’improvvisa rivelazione del
francese.
«Io
sono innamorato di te. E tu?»
Trascorse
qualche secondo in cui l’unica cosa a muoversi in
tutta la stanza fu il fumo che fuoriusciva dalla pipa di Arthur.
«Lo
sai» masticò il capitano, il viso ostinatamente
rivolto
verso la porta.
«No,
non lo so, perché tu non me l’hai mai
detto» lo mise in
scacco Francis. «È doloroso farsi bastare
un’intuizione, nei mesi di attesa.
Anche se so che sei il tipo di persona che non parla volentieri dei
propri
sentimenti.»
Il
francese si chinò in avanti, i gomiti puntellati sulle
ginocchia
e le mani abbandonate nel vuoto. Rimase fermo qualche secondo, sperando
che
l’inglese dicesse o facesse qualcosa per riempire quel vuoto
imbarazzato.
Quando gli fu chiaro che il capitano non avrebbe mosso un ciglio per
porre
rimedio a quel silenzio opprimente, buttò fuori con un
sospiro:
«Immagino
che tu abbia degli affari da sbrigare al porto.»
Arthur
sistemò meglio le insegne della divisa e asserì,
conciso:
«Sì.
E temo di essere in ritardo.»
«Tornerai,
questa sera?»
Le
dita sciupate del capitano grattarono la pancia rotonda
della pipa, dandogli qualche secondo per riflettere sulla risposta.
«Forse»
dichiarò, prima di uscire.
Francis
passò una mano sul collo, e da lì procedette a
massaggiare le spalle indolenzite.
Ormai
conosceva le consuetudini di quella loro relazione:
non vi era mai nulla di certo, e tutto si perdeva
nell’indistinto di un “forse”
o di un’intuizione. Sapeva che innamorarsi di un capitano
senza avere la minima
intenzione di solcare i mari equivaleva a condannarsi ad uno
stillicidio
continuo. Sapeva che l’attesa della Queen
of Pirates sarebbe stata sfibrante ogni volta, e che
l’aspettativa di una
parola dolce si sarebbe rivelata ancor più lacerante.
Ma
quella mattina, per la prima volta, si sentì veramente
stanco.
Invidiavo
Antonio
e Lovino.
Invidiavo
il
loro rapporto: ognuno dei due era ormai una parte indissolubile
dell’altro.
Vorrei
avere una
penna migliore per descrivervi cosa si provava, in loro presenza.
Immaginate
un
cieco, cui viene donata la vista per un giorno; immaginate come
guarderebbe il
mondo. Quello era il modo in cui Antonio guardava Lovino.
Ed
immaginate il
modo in cui respirate l’aria: sapete che è sempre
lì, intorno a voi, ma se
dovessero togliervela, anche solo per un momento, vi sentireste morire.
Quello
era il modo in cui Lovino percepiva Antonio.
Io
non ero
l’aria, e non ero il mondo che torna alla luce.
Ma,
in tutta
onestà, non mi importava di essere né
l’uno né l’altro.
Mi
sarebbe
bastato essere un motivo sufficiente per scendere dal galeone e vivere
a Marsiglia.
E
poi arrivò la
stagione successiva.
Terza,
nonché ultima
side-story della serie “Rosa de los Vientos”.
Sarà
una fic in cinque
capitoli, e si alterneranno Spamano e FrUk.
Ciò
detto… mi
mancava Francis xD Avevo voglia di scrivere un po’ su di
lui<3 Ed eccoci
qui, in questa storia xD
Non
ho altro da
aggiungere, a parte un sentito “grazie” a tutti voi
che avete deciso di imbarcarvi
in questa nuova avventura con i pirati hetaliani<3
A
presto<3
Red
Bacheca
pubblicitaria:
Fanno parte di questa serie: Rosa
de los Vientos e Rosario
Cuentas.
La pasticceria HamletRedDiablo sta sfornando anche:
Streghe
di Zucchero e Segreti di Famiglia (Fandom: HarryPotter; nuova
generazione, AlbusScorpius)
Quello
che vedi nella tela (Fandom: Hetalia; GerIta)
Deimos
- Il Peccato Irrazionale (Fandom: Originali; Sovrannaturale,
Angeli e Demoni)
Altri
pasticci sono in direttura di arrivo<3
*bows*
Red
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Capitolo 2 *** Estate ***
Capitolo
Due – Estate
Aspettavo.
Aspettavo,
sperando sempre che la Queen
of Pirates comparisse all’orizzonte.
Tuttavia,
una domanda
velenosa affondava sovente le zanne nel mio cuore.
E
se un giorno
non dovesse presentarsi? Se un giorno mi trovassi sulla spiaggia,
vecchio e
appassito, a cercare il fantasma di un vascello tra le onde?
Arthur
era
sempre tornato. Ma non era una garanzia sufficiente. Anche il sole, un
giorno,
potrebbe decidere di non sorgere più. Il passato non
è un’assicurazione sul
futuro: un avvenimento può essersi verificato milioni di
volte, ma non si ha
mai la certezza assoluta che capiterà ancora una volta.
Fu
con quello
spirito che salutai la Queen
of Pirates, e rimasi ad osservarla
finché non rimasero
che onde gibbose ad increspare la superficie del mare.
La
calura estiva
cominciava a pizzicare l’aria, e gli odori stuzzicanti della
stagione più
vivace invadevano la strada.
Almeno
per quel
giorno, rimasi estraneo alla vitalità che pulsava nelle vene
della città. Il
mare lo aveva rapito di nuovo, e il mio buonumore era salpato assieme a
lui.
Il
giorno dopo,
ero di nuovo l’anima dell’atelier e delle taverne,
dove gli osti e gli
avventori pretendevano di sapere la fine della storia tra i due
innamorati
spagnoli e la malefica Inquisizione.
In
fondo, per
quante cose spiacevoli possano avvenire, la vita continua. Sarebbe da
stupidi
non vedere i suoi doni perché si hanno gli occhi pieni di
lacrime.
Ed
io ero ben
deciso a scrollarmele di dosso prima che l’estate scorresse
senza che io
l’avessi vissuta fino in fondo.
Un
sole rovente splendeva implacabile sul mare.
Dalle
onde si sollevava un’afa soffocante, e l’oceano era
trapuntato da una trama di luccichii accecanti.
Gli
uomini si erano ritirati sottocoperta per evitare il
rischio di disidratarsi o di prendersi un’insolazione. Il
capitano inglese e il
navigatore spagnolo avevano resistito al massimo delle loro
possibilità, ma si
erano dovuti arrendere alla tirannide del sole: si erano rifugiati
nello
stretto corridoio che collegava la cabina del comandante a quelle degli
ufficiali di rango più alto, le camicie appiccicate per il
sudore e il volto
arrossato dalla calura.
«Avevo
quasi dimenticato quanto fosse tremendo il sole di
questa stagione» sbuffò Antonio, allargando i
bordi della camicia per respirare.
Arthur
annuì, debilitato. Avrebbe voluto che la regina
rimandasse di qualche mese quel viaggio, ma la sovrana era stata
irremovibile.
Così la Queen of Pirates
era partita,
le vele incalzate dal vento e un brulicare di volenterosi marinai sul
ponte.
Nulla come una giornata di afa opprimente poteva smorzare
l’entusiasmo con altrettanta
celerità.
«Aspetteremo
che il picco sia passato, poi torneremo sul
ponte» gli ricordò il capitano.
Antonio
annuì, passando una mano sulla vecchia cicatrice. La
previsione del medico di Arthur non si era ancora avverata del tutto:
aveva
pronosticato che, nel giro di qualche mese, si sarebbe assuefatto al
dolore e
non vi avrebbe più badato. Invece, sebbene il fastidio fosse
meno intollerabile
rispetto ai primi giorni, poteva ancora avvertire distintamente ogni
nervo
gemere.
Ad
Arthur non sfuggì quel gesto, e la sua mente, per quanto
bollita dal sole, ricollegò immediatamente la cicatrice al
motivo per cui
Antonio aveva deciso di prendere nuovamente il mare.
«Lovino
non ti fa mai arrabbiare?»
Lo
spagnolo impiegò qualche secondo a capire il significato
della domanda e, cosa più importante, a comprendere che
fosse rivolta a lui.
«Oh,
certo. A volte mi fa arrabbiare moltissimo»
strascicò.
Credeva che il sole di Spagna lo avesse abituato al peggio, ma la caldo
secco
delle coste iberiche era certamente più clemente di
quell’umidità appiccicosa e
bollente.
Arthur
si accarezzò il mento, dove una barba ispida di
qualche giorno si stava espandendo. Anche Francis lo faceva infuriare:
i suoi
modi drammatici, le sue filippiche interminabili, la sua
vanità lo rendevano
una delle persone più insopportabili sulla faccia della
terra.
«E,
in quei momenti, non pensi mai di lasciarlo?» a quella
domanda, Arthur fu investito dalla dirompente risata dello spagnolo.
Antonio
riuscì a controllarsi solo qualche secondo più
tardi, quando lo sguardo serio
dell’inglese sottolineò come il capitano non fosse
intenzionato a scherzare.
«Mai»
rispose, recuperando la calma con un colpo di tosse
simulato. «I momenti in cui mi rende felice sono nettamente
superiori a quelli
in cui mi fa arrabbiare.»
Un
sopracciglio spesso si sollevò, confuso. Vivendo sulla
stessa nave, aveva avuto modo di osservare più da vicino la
vita dell’italiano
e dello spagnolo, e aveva potuto notare come la loro
quotidianità fosse
composta da dispute, più che da momenti di pace. Forse
Lovino era più accomodante
quando erano da soli, ed era a quei momenti che Antonio si riferiva.
Il
paragone tra lui e Francis sorse di nuovo spontaneo: il
francese lo stuzzicava continuamente, e lui reagiva bisbetico. E poi
c’erano le
occasioni in cui Francis abbandonava il suo costume da giullare e
diventava una
persona seria, persino piacevole. Era in quei frangenti, in cui il
francese era
un uomo e non un attore da commedia, che il capitano era veramente
felice di
essere approdato a Marsiglia.
«E
se un giorno i momenti in cui ti fa arrabbiare dovessero
aumentare? Se dovessero diventare più numerosi di quelli in
cui ti rende
felice?» sondò Arthur.
Credeva
che Antonio avrebbe meditato, prima di rispondere a
quella domanda. Chiunque si sarebbe sentito in imbarazzo di fronte ad
un simile
quesito. Invece lo spagnolo rispose con la massima
tranquillità:
«Questo
è impossibile: Lovino mi rende felice anche quando
non ne è consapevole» fece schioccare la lingua
nella bocca asciutta e spiegò,
notando il viso interrogativo dell’inglese: «Aveva
scelto di abbandonare il
mare e di restare alla locanda. E, in seguito, ha abbandonato la
locanda per il
mare. E l’ha fatto sempre per essere al mio fianco. Mi basta
vederlo
passeggiare sul vascello per ricordarmi perché
è qui e non in una taverna spagnola. E amo ogni suo passo su
questa nave.»
Arthur
ritorse il viso come se gli avessero incollato le
labbra con del miele particolarmente dolce.
«Mi
pento di avertelo chiesto» sancì brusco.
«Sei diventato
una donnicciola, ex-capitano della Reina.»
Antonio
sorrise, per nulla offeso dal commento.
«Sono
un’anima semplice» minimizzò.
«Mi basta vederlo per
essere contento di stare accanto a lui.»
«Il
candore non si addice molto a chi ha un passato come il
nostro» notò Arthur.
A
quelle parole, il sorriso dello spagnolo tremolò come una
candela colpita dal vento.
Gli
avversari contro cui aveva combattuto per difendere la sua
nave e la sua ciurma non lo avrebbero di certo definito
“candido”. Ricordava
ancora lo strillo di quel mozzo, prima che gli tagliasse la gola:
“Es el diablo!”.
La stessa versione di
Nicolas: Antonio Fernandez Carriedo discendeva dai gironi infernali.
Sospirò,
passando una mano sulla fronte sudata. Perfino un
diavolo come lui aveva diritto di redimersi, anche se la purificazione
gli era
stata imposta con la forza dal proiettile che lo aveva colpito alla
gamba.
E
poi aveva incontrato Lovino. E non c’era stato altro da
aggiungere.
«Come
mai tutte queste domande, Arthur?» chiese di rimando
Antonio.
L’inglese
si sventagliò pigramente con il cappello da
capitano prima di bofonchiare:
«Deve
essere colpa di questo sole maledetto. Mi ha cotto il
cervello.»
Lo
spagnolo accettò con un sorriso devitalizzato dalla
calura la risposta dell’amico.
Arthur
esibiva quel tono particolarmente acido e
particolarmente ritroso solo quando parlava di faccende private. E le
sue
sopracciglia si aggrottavano tanto solo quando le suddette faccende
riguardavano la sfera sentimentale. Si strinse nelle spalle,
arrendendosi alla
sua scontrosità.
«Siamo
pari adesso, giusto?» patteggiò il capitano.
Antonio
si passò una mano sulla faccia, nascondendo il
ghigno che avrebbe sicuramente irritato l’amico. Arthur aveva
cambiato
improvvisamente discorso: dunque le faccende sentimentali scottavano.
«Cosa
intendi con “siamo pari”?» prese tempo lo
spagnolo.
«Lo
sai» brontolò Arthur.
Antonio
chiuse gli occhi.
Il
corsaro della Queen
of Pirates si riferiva ai fatti di quindici anni prima.
La
Reina, che
all’epoca veleggiava sotto un altro capitano, era stata
attaccata dai pirati.
L’arrembaggio era finito tragicamente, per gli incauti
criminali: il comandante
e il suo equipaggio li avevano sgominati, anche se con qualche perdita.
Antonio
aveva pianto nel togliere Joyce, il bucaniere che gli raccontava sempre
di quanto
fossero belle le terre d’Oriente, dal timone su cui si era
accasciato dopo
essere stato colpito al petto.
Il
capitano aveva dato ordine di ripulire la nave dei
pirati, e di lasciarla al suo destino una volta saccheggiata. In fondo,
tutti
gli oggetti presenti sul vascello erano stati rubati in precedenza: non
vi era
colpa nel togliere la refurtiva da un veliero di ladri.
Una
delle conquiste dei manigoldi tremava nel ponte
sottocoperta, i polsi legati da corde ruvide e strette. Nessuno si era
spiegato
la presenza di un ragazzino inglese su quella nave: forse apparteneva
ad una
famiglia benestante, ed era stato rapito per chiedere una refurtiva. O
forse
era stato preso per la tenera età: i giovani come lui erano
importanti sui
galeoni che potevano non vedere una donna per mesi interi.
Antonio
era giunto sulla nave mentre uno dei marinai urlava,
la mano serrata dal morso violento del piccolo ostaggio.
A
distanza di tanti anni, ancora non aveva capito cosa lo
avesse spinto a chiedere l’allora tredicenne Arthur Kirkland
per sé. La causa
poteva essere imputata alla vicinanza di età – lui
aveva sedici anni, a quel
tempo -, o all’aver scorto in quel ragazzino abbandonato tra
le merci rubate un
riflesso di se stesso, gettato nell’umido di una cella
dell’Inquisizione.
Il
capitano aveva soppesato la sua richiesta per alcuni
lunghissimi minuti, e aveva accettato con grande sforzo, e solo per il
talento
che Antonio aveva mostrato da quando si era imbarcato, tre anni prima,
e che
gli aveva fruttato il posto di timoniere.
«Mi
hai quasi cavato gli occhi, quando ti ho portato in
cabina» ricordò lo spagnolo.
«Eri
l’unico a biascicare qualcosa di inglese»
rifletté
Arthur.
«Avevo
imparato qualcosa durante gli scali» ammise lo Antonio,
e ribadì: «Ciò non toglie che hai
cercato di cavarmi gli occhi.»
«Si
è trattato di legittima difesa»
minimizzò Arthur,
gettandosi il cappello sul viso. «Pensavo che fossi un
maniaco.»
«Avevo
sedici anni.»
«Un
giovane
maniaco, allora.»
Antonio
innalzò bandiera bianca una seconda volta: era
impossibile vincere contro la testardaggine ferrea dell’amico.
Gli
era stato chiaro fin dalla prima sera in cui gli aveva
parlato, alternando il suo stentato inglese a gesti e imitazioni per
farsi
comprendere. Arthur aveva parlato poco e a monosillabi, e si era
rivoltato come
una belva ogni volta che lo spagnolo aveva provato ad avvicinarsi.
Dopo
qualche ora di tentativi, Antonio si era stancato e si
era gettato sul letto, ordinandogli nella propria lingua madre di
dormire sul
pavimento. Quando si era svegliato, la mattina dopo, aveva trovato
l’inglese
ritto ai piedi del suo letto, intento a scrutarlo. Antonio non aveva
afferrato
la pistola che teneva sotto il cuscino per non scatenare una reazione
inconsulta nell’incomprensibile britannico, ma aveva trovato
particolarmente disturbante
l’idea che quel ragazzino non avesse chiuso occhio tutta la
notte solo per
fissarlo come un avvoltoio dalla spalliera del letto.
«Arthur»
aveva detto quello, continuando ad osservarlo con
gli occhi spalancati.
«Antonio»
aveva replicato lo spagnolo, alzandosi a sedere
sul letto.
«Arthur
Kirkland.»
«Antonio
Fernandez Carriedo.»
L’inglese
aveva storto il naso di fronte alla lunghezza
improponibile del cognome dell’altro.
«Antonio»
aveva accorciato Arthur, voltandogli bruscamente
le spalle e tornando a sedersi in un angolo della cabina.
Il
ragazzino era rimasto muto per tre giorni prima di aprire
di nuovo bocca. Non erano conversazioni propriamente amichevoli:
l’inglese
centellinava le parole, e lo spagnolo usava tutti i trucchi in suo
possesso per
strappargliene il più possibile.
Poi
avevano fatto scalo a Marsiglia. E lì Antonio lo aveva
liberato.
Avevano
aspettato che la ciurma fosse troppo addormentata o
troppo ebbra di festeggiamenti per accorgersi di loro;
lo aveva aiutato a sgattaiolare fuori dalla nave e a
nascondersi
in uno dei vicoli della città.
«Probabilmente
il capitano mi sgriderà» aveva bisbigliato,
con fare cospiratorio. «Ma non importa. Corri più
veloce che puoi, mi
raccomando.»
La
mano dell’inglese si era stretta sul suo gomito,
dubbiosa.
«Perché?»
aveva voluto sapere.
Antonio
gli aveva sorriso, ed era stata la prima volta in
cui il ragazzino aveva visto qualcosa di buono in uno dei diavoli
ispanici.
«Perché
è bello essere liberi» aveva gioito lo spagnolo,
con
una pronuncia indegna dell’inglese.
Arthur
non aveva deciso subito se considerare quel gesto
come un atto di misericordia o di follia da parte di Antonio. La sua
voce
bianca era risuonata ovattata ma chiara nel vicolo addormentato:
«Prima
o poi ripagherò il mio debito, Antonio.»
«Questo
significa che ci rivedremo» lo spagnolo gli aveva
scompigliato i capelli stopposi, esclamando a bassa voce: «Hasta luego, Arthur!»
Erano
spariti in due direzioni opposte, uno correndo verso
la nave e l’altro incontro ad una destinazione incerta, la
loro tacita promessa
che ancora alleggiava nel mezzo di quella via.
Il
viso di Arthur riemerse dal cappello.
«Ci
ho messo quindici anni per restituirti il favore»
valutò.
«Ognuno
ha i suoi tempi» catalogò Antonio.
«Quindici
anni di contrasti» sospirò l’altro,
ignorando
l’intervento dello spagnolo.
Nella
loro vita da corsari si erano trovati a volte sullo
stesso galeone, a volte su vascelli nemici, a volte su navi alleate,
finché
entrambi non si erano guadagnati l’agognata divisa da
capitano. Il loro era
sempre stato uno strano rapporto, indeciso tra un’amicizia
incendiata di competizione
e rivalità ammantata di rispetto. E, a discapito delle
differenze di cultura,
lingua, o bandiera, tra i due era sempre intercorsa
un’inspiegabile fiducia.
«Quindici
anni di divertimento» confutò Antonio.
«Come
abbiamo fatto a rimanere in contatto per tutto questo
tempo?» si sorprese Arthur.
La
fronte dello spagnolo si sollevò, sorpresa
dall’ovvietà
di quella domanda.
«Perché
siamo amici» rispose, tranquillo. «O meglio,
perché
io ho una grande capacità di sopportazione e tu una grande
voglia di
pavoneggiarti con qualcuno.»
«Ti
ricordo che posso ancora dare ordine ai miei uomini di
gettarti ai pescecani» ringhiò Arthur, buttandosi
di nuovo il cappello in
faccia.
Antonio
scosse la testa, rassegnato e spensierato.
Aveva
capito quanto fossero profonde le radici dell’ostinazione
nell’animo dell’inglese da quando un tredicenne
indolenzito e malnutrito era
rimasto in piedi una notte intera a fissarlo.
Non
si sarebbe di certo offeso per il suo brutto carattere
dopo tutto quel tempo.
***
Rientrò
in cabina a notte fonda, e non si sorprese nel
trovare il letto già occupato. Una zazzera scarmigliata
emergeva dalle coperte
e affondava nel cuscino.
Antonio
si sedette sul letto, ed afferrò con due dita il
più
ribelle tra tutti i ciuffi ramati. Dalle pieghe del cuscino ruzzolarono
fuori
alcuni rimbrotti seccati, di cui Antonio riuscì a cogliere
solo l’ultima parte:
“bastardo”. Continuò a giocherellare con
la ciocca prigioniera finché dalle
lenzuola non spuntò un pugno diretto al suo stomaco.
«Ho
detto di lasciarmi in pace, bastardo» brontolò
assonnato
Lovino. Le coperte mulinarono nell’aria, scalciate
dall’italiano che si rizzò a
sedere sul materasso, gli occhi gonfi e l’espressione
corrucciata.
«Ho
fatto tardi» si scusò Antonio. «Non
c’era bisogno che mi
aspettassi alzato.»
«Stavo
dormendo, finché qualcuno non ha cominciato a tirarmi
i capelli» si risentì l’italiano.
Lo
spagnolo perse tempo per ridere della sua solita acidità,
e il ragazzo approfittò di quella distrazione per studiarlo
meglio.
Durante
la loro navigazione, aveva parlato spesso con i
mozzi della nave. Aveva scoperto che i marinai adoravano raccontare
storie,
specie se truculente. In molte delle loro favole da bucanieri il
protagonista
era Antonio.
Osservò
le dita dell’uomo, rovinate dagli anni per mare e dal
lavoro alla locanda. Quelle dita non erano mai state meno che gentili
con lui:
gli avevano curato le ferite sulla schiena, inferte dal suo precedente
padrone,
e lo avevano accarezzato sul letto dell’ex-capitano, senza
mai procurargli il
minimo dolore. Eppure, aveva udito storie terribili su quante volte
quelle
stesse mani si fossero bagnate di sangue.
«Lovino?»
lo chiamò Antonio, vedendolo assorto.
Il
ragazzo si riscosse con uno scatto, come un gatto
selvatico.
Non
riusciva a conciliare l’idea del corsaro spietato con la
faccia premurosa e preoccupata che lo fissava, così come non
era riuscito a
collegare l’immagine aitante del capitano della Reina con il locandiere bonaccione, la
prima volta che lo aveva
visto. Non riusciva nemmeno a credere che il Nicolas che
l’aveva tormentato e
l’amico d’infanzia di Antonio fossero la stessa
persona. Lui stesso era
cambiato enormemente, dall’arrivo in Spagna
all’incontro con il suo amante.
Non
conosceva il corsaro dei racconti, il capitano senza
paura, ma aveva vissuto con il locandiere sempre allegro e,
soprattutto, era
stato conquistato dall’uomo innamorato. Ed era il solo a
conoscere quell’ultima
gradazione dell’anima di Antonio.
La
sua fronte si appoggiò alla spalla dell’uomo con
un tonfo
sordo.
«Sono
stanco» notificò.
Le
braccia del compagno si avvolsero attorno alla sua
schiena affaticata, con quella gentilezza che solo lui conosceva.
Nessuno di
quei marinai avrebbe potuto inserirla nei suoi racconti.
Si
adagiarono entrambi sul materasso, Lovino ancora premuto
conto il petto dell’amante.
«Buona
notte» sussurrò Antonio, baciandogli la fronte.
L’italiano
rumoreggiò qualcosa prima di acquietarsi.
Era
rimasto quasi sconvolto dalla leggerezza con cui aveva
sorvolato quei racconti di sangue. Avrebbero dovuto sconvolgerlo,
invece non lo
avevano quasi sfiorato, come se non riguardassero l’uomo con
cui era giaciuto
tante volte.
All’immagine
di un Antonio crudele, si sovrapponeva il viso
che diventava radioso solo per lui; al pensiero di un corsaro senza
coscienza,
si affiancava il racconto di un bambino braccato dal suo migliore
amico.
Chiuse
gli occhi per lasciarsi avvinghiare dal calore
dell’uomo e dal battito del suo cuore.
Antonio
gli aveva parlato qualche volta dei suoi trascorsi
in mare. E non era mai stato estremista come quei marinai. Avrebbe
dovuto
prevederlo: i bucanieri erano le comari del mare. Gonfiavano i racconti
come le
pettegole inventavano maldicenze: una comune battaglia diventava una
guerra
epica, e un capitano capace diventava un demone vomitato
dall’Inferno.
Loro
non conoscevano l’Antonio nato dopo aver dato
l’addio
al mare, il locandiere aggrappato ad un bastone da passeggio. E nemmeno
avrebbero potuto farlo.
Morse
le labbra, come se da esse potesse uscire
inavvertitamente quel pensiero imbarazzante: era diventato
tremendamente
possessivo nei confronti del suo amante, da quando erano sulla nave e
aveva
notato l’aura di costante ammirazione in cui Antonio si
muoveva.
Aveva
quasi riso della paura dello spagnolo di vedere il suo
compagno molestato o corteggiato dai marinai, e ora si trovava a
tremare per lo
stesso timore.
Scosse
la testa, affondando il naso sul declivio del collo
dell’uomo.
Erano
entrambe paure senza ragione di esistere: Antonio non
avrebbe abbandonato la sua occasione, e Lovino non avrebbe rinnegato la
sua
scelta.
Si
strinse più forte al suo compagno, nonostante il caldo
torrido. E Antonio ricambiò l’abbraccio.
Non
rividi la Queen
of Pirates fino
all’autunno successivo.
E
molte cose
erano cambiate.
Eccoci
approdate
al secondo capitolo XD
Non
mi aspettavo
che questa storia avrebbe ricevuto un’accoglienza
così calorosa *w* È stata
una graditissima sorpresa<3<3<3
Grazie di nuovo a tutti voi *offre biscotti a tutti i lettori*<3
Mi
sono
divertita a descrivere il primo incontro/scontro di Arthur e Antonio XD
Era una
cosa che progettavo dai tempi di Rosario *la mente malata della Red non
si
ferma mai u.u*… e alla fine è uscita fuori XD
Spero vi sia piaciuta<3
Dirigiamoci
senza indugi verso il terzo capitolo che, nei miei progetti, se non
vengono
rallentati da esami/pulizie/modulistica/finedelmondoposticipata,
sarà
pubblicato tra una settimana :D
A
presto<3
Red
P.S.
I banner di
questa fanfic sono opera di Clau-tan<3<3<3
Bacheca:
Streghe
di Zucchero e Segreti di famiglia (Fandom: Harry
Potter; Pair: ScorpiusAlbus, RoseNuovoPersonaggio)
Quello
che vedi nella tela (Fandom: Hetalia; Pair: GerIta)
Deimos
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Angeli e Demoni)
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Capitolo 3 *** Autunno ***
Capitolo
Tre – Autunno
Una
mano gentile gli accarezzò la schiena per svegliarlo.
«Farai
tardi al lavoro» lo spronò gentilmente la moglie.
Diego
si rivoltò sul materasso con uno sbuffo, allungando le
braccia per afferrare la consorte e farla ruzzolare sulle lenzuola
assieme a
lui.
Si
erano sposati non appena le ferite sulla schiena
dell’uomo erano guarite. Antonio e Lovino avevano preso il
mare da qualche mese
quando erano riusciti finalmente ad organizzare le nozze; la loro
assenza era
stata l’unica pecca della cerimonia, tenutasi nella culla
tiepida del mese di
giugno.
Diego
aveva temuto il momento in cui il francese, che li
aveva assunti come dipendenti nel suo atelier, avrebbe pronunciato il
discorso
di congratulazioni in vece di Antonio, ma la sua paura si era rivelata
immotivata: Francis aveva accantonato le creste più frivole
del suo carattere
per il tempo dell’omelia, ed esibito un sorriso malinconico
nel celebrare il
loro amore.
Consuelo
lo colpì con il guanciale per riottenere la sua
libertà, e si rialzò puntando le mani ai fianchi.
«Sveglierai
Domingo» non aveva terminato di rimproverarlo
che un vagito infastidito si levò dalla culla poco distante.
Avevano ricavato
il giaciglio per il neonato da una cesta di vimini, opportunamente
imbottita e
decorata dalle sartine dell’atelier, elettrizzate per la
nascita.
Anche
Domingo era nato in assenza di Antonio e Lovino.
Consuelo
sollevò il figlio e lo strinse al seno, cullandolo
piano per non farlo strillare.
Il
tempo aveva cambiato le date e le persone: le ferite
sulla schiena di Diego erano ormai cicatrici sbiadite, e i capelli di
Consuelo
erano cresciuti fino a sfiorarle le spalle, robusti dopo il taglio
radicale. Le
mani della donna, che avevano impugnato una pistola contro gli
Inquisitori, ora
reggevano con delicatezza il neonato, e le dita dell’uomo,
cui erano stati
legati degli aghi avvelenati durante lo scontro con Nicolas, avevano
rinsaldato
le loro ossa, sebbene un po’ storte, e l’anulare si
beava della fede nuziale.
I
camerieri erano ora impiegati in un atelier, l’uomo e la
donna erano divenuti marito e moglie.
Consuelo
osservò il suo sposo da sopra la spalla.
«Spero
che Lovino e Antonio tornino presto. L’atmosfera è
più allegra, quando ci sono loro» si
augurò.
Diego
annuì, chinato per allacciarsi le scarpe.
Ogni
tanto, quando di sera stavano abbracciati sul letto,
avevano parlato della vita alla locanda. Sarebbe stato bello tornare
tutti
insieme ad accogliere forestieri e chiacchierare con i bucanieri di
fiducia. Ma
era impossibile: loro erano sposati, e avevano bisogno di
stabilità per il
bambino, mentre Lovino e Antonio avevano intrapreso una strada di maree
e
creste di spuma salata. Inoltre, non erano più tutti
insieme: qualche volta
aveva osservato il mare, e chiuso gli occhi per arrivare con la mente
fino allo
scoglio dove avevano adagiato il cuoco.
La
nostalgia del passato si era ripresentata alla loro
soglia, ma l’avevano sempre scacciata in poco tempo: bastava
abbracciare il
coniuge o cullare il figlio per gioire del presente, nonostante i tempi
difficili che avevano attraversato.
Baciò
Consuelo sulle labbra e Domingo sulla fronte prima di
uscire per iniziare una giornata di lavoro.
E,
come ogni mattina, il suo cuore inviò un saluto al cuoco,
ad Antonio e a Lovino.
Che
potessero avere una buona giornata, ovunque si
trovassero.
***
Avevano
una
faccia spaesata, come se fossero approdati su di un altro mondo, e non
sulle coste
marsigliesi.
D’altronde,
erano digiuni di diverse informazioni. Fu un pomeriggio costellato di
racconti
e ricordi, mentre tutto l’atelier narrava agli stupiti
corsari il matrimonio di
Consuelo e Diego, e la nascita di Domingo. Antonio, in particolare,
aveva
un’espressione esterrefatta; mi ha ricordato una novella
fantasiosa, in cui il
protagonista cade addormentato sotto un incantesimo e si risveglia dopo
duecento anni, trovando il mondo completamente stravolto: la piega
della sua
bocca e l’interrogativo nei suoi occhi erano gli stessi di
quel personaggio.
Consuelo
aiutò
Antonio a prendere in braccio Domingo, e il piccolo agitò le
manine per
afferrargli le guance. E notai gli occhi di Lovino: il loro bel castano
ramato
si era incupito, come un fuoco soffocato da un panno bagnato.
Chissà quante
volte quella domanda ha attraversato la sua mente: “sarebbe
stato meglio se io
fossi nato donna?”
Ah,
Lovino, è il
destino di noi tutti affrontare almeno una volta quel terribile
interrogativo:
l’amore del nostro compagno sarebbe più completo
se il nostro sesso fosse
diverso?
Vorrei
dire al
leoncino italiano di rilassare i suoi nervi troppo tesi e il suo
cervello
troppo ansioso: non esiste creatura al mondo, di alcun sesso, razza o
religione,
che avrebbe mai fatto dimenticare il mare ad Antonio; nessuno, eccetto
Lovino.
Un uomo con l’oceano nelle vene che adora la terraferma solo
perché calpestata
dalla persona che ama: è quasi un miracolo, come se un pesce
imparasse a volare
per raggiungere il gabbiano di cui si è invaghito.
Io
non sono
riuscito a catturare il mio squalo. Continua a rifugiarsi nei flutti,
ed esce
solo il tempo necessario per ferirmi ancora una volta. E, nonostante
questo, persisto
nel chiedere allo squalo di uscire dall’acqua per regalarmi
uno dei suoi
sanguinosi baci.
Le
cose non
cambierebbero, nemmeno se il mio sesso fosse diverso: avrei solo una
propensione più spiccata al pianto una volta rimasta sola, a
filare al telaio.
Se
lo squalo non
vuole abbandonare l’oceano, l’airone deve essere
libero di volare. E trovare
qualcuno con cui dividere l’immensità del cielo.
Arthur
non disse una parola.
Rimase
pietrificato sulla poltrona, un’espressione
ostentatamente neutra sul volto rigido.
L’attenzione
della sala era rivolta al gruppetto spagnolo:
Diego e Consuelo non avevano ancora terminato di aggiornare Lovino e
Antonio
sugli avvenimenti degli ultimi mesi, e le sartine facevano a turno per
coccolare Domingo.
Solo
l’inglese era stato stravolto da un piccolo intralcio
di una novantina di centimetri piazzato sulle ginocchia del francese.
I
vestiti del pupo provenivano indubbiamente dall’atelier di
Francis: avrebbe riconosciuto la cura maniacale per i dettagli e le
cuciture tra
tutte le sartorie esistenti al mondo, nonché la predilezione
del francese per
il colore dei fiordalisi. Non era altrettanto chiaro quale fosse la
provenienza
delle fattezze del moccioso: gli occhi avevano lo stesso azzurro
intenso di
Francis, ma i lineamenti erano ancora troppo arrotondati
dall’infanzia per
scorgere la benché minima somiglianza con il francese. I
capelli erano castani,
senza alcuna traccia del biondo vigoroso dell’uomo.
Il
bambino lo fissava, vacuo, ciondolando le gambette tozze
nel vuoto.
«È
tuo?» domandò infine, rinunciando a un esordio
più
morbido.
Francis
appoggiò il mento sulla testa del bambino,
sfoggiando un irritante sorriso sornione.
«Possibile»
tastò il francese.
«Non
prendermi in giro» sibilò il capitano.
«Non
è mia intenzione» Francis mosse le ginocchia, in
modo
che il bambino sopra di esse sobbalzasse e ridesse per il gioco.
«Potrei aver
cercato compagnia durante i tuoi pellegrinaggi per mare.»
«Non
hai ancora risposto alla mia domanda» sottolineò
l’inglese.
«No,
non l’ho fatto» il sorriso del francese
aumentò,
screziato dall’espressione tormentata degli occhi.
«L’incertezza non è una
sensazione piacevole, non è così?»
La
linea della mascella del capitano si indurì sotto
quell’accusa non troppo velata.
Era
una vendetta, per le tante – troppe – volte in cui
aveva
preso il largo senza di lui.
Arthur
portò una mano al ventre, avvertendo una strana
fitta. Francis aveva sopportato quell’acido caustico sul
fondo dello stomaco
per mesi e mesi, facendosi bastare l’ostinata speranza che,
prima o poi, le
vele della Queen of Pirates
avrebbero
squarciato di nuovo il cielo marsigliese. Qual era stato il momento
preciso in
cui la sua testardaggine era venuta meno, e aveva smesso di sospirare
al mare
per mormorare all’orecchio di una donna?
Francis
passò una mano tra i capelli fini del bimbo, e
considerò:
«Il
nostro è sempre stato un rapporto senza promesse e senza
garanzie. Non dovresti sorprenderti troppo.»
L’inglese
estrasse la pipa dal tascapane, meditabondo e
corrucciato.
Quello
che diceva Francis corrispondeva alla verità, eppure
lui aveva sempre coltivato l’immotivata convinzione che il
francese lo avrebbe
aspettato fedelmente. Forse era stato poco realista nel giudicare il
compagno:
un capitano fantasma valeva meno di una donna in carne ed ossa.
Non
si era mai aspettato verginale candore da Francis,
durante i mesi di separazione: era certo che qualche volta anche lui
avesse avuto
bisogno di sfogarsi, e il fatto che non ne parlassero tra di loro non
annullava
la presenza di quelle tresche notturne. Ma non aveva mai contemplato un
marmocchio come via di uscita dalla soffocante attesa.
Osservò
il tabacco pressato sul fondo scuro della pipa, e
l’odore pungente dell’erba schiacciata gli
restituì il ricordo delle parole di
Antonio, quindici anni prima.
È
bello essere
liberi.
Aveva
capito quali sentimenti si nascondessero in quella
frase solo molto tempo dopo, durante una nottata in cui Antonio gli
aveva
parlato dell’Inquisizione: una mole inimmaginabile di
sofferenza e un immenso
sollievo di essere di nuovo padrone del proprio destino.
Arthur
amava la sua libertà: ricordava ancora ogni nota dei
profumi della città di Marsiglia, la sera in cui era fuggito
lungo i suoi
acciottolati, ogni sfumatura della notte cupa che lo aveva nascosto
dalla cerca
dei pirati. E lo scricchiolio della porta che si era aperta offrendogli
asilo,
e gli occhi color fiordaliso avvampati di curiosità nel
sentire l’idioma
anglosassone srotolarsi dalla bocca ansante dello straniero.
Francis
lo aveva ospitato finché non aveva racimolato i
soldi necessari per imbarcarsi in direzione della sua amata
Inghilterra. Non si
erano visti per anni, finché la pubertà
più avanzata non aveva cosparso una
barba irregolare sul volto di entrambi. Arthur vestiva
l’uniforme da ufficiale
di medio rango, e Francis era diventato il braccio destro dei genitori
nella
gestione dell’atelier di famiglia quando si erano incontrati
di nuovo. La sua
nave aveva fatto scalo in Francia svariate volte, ma solo in quel
giorno di
maggio era inciampato nuovamente nel ragazzo che lo aveva aiutato tanti
anni
prima.
Le
sopracciglia folte del capitano si incontrarono in un
cipiglio scorbutico.
Era
stato allora che era cominciato tutto. Doveva essere un
rapporto senza impegno, e per lui lo era stato, almeno in principio:
era bello
essere senza catene, e non aveva intenzione di rinunciare alla sua
libertà per
nessuno. Anche la loro sovrana, la Regina Vergine, aveva preferito
evitare ogni
legame sentimentale, e lui avrebbe seguito il suo esempio.
Eppure,
si era ritrovato più volte a desiderare di approdare
a Marsiglia e, benché avesse addomesticato quella brama come
si fa con un
animale troppo rumoroso, non era riuscito a cancellarla completamente.
Così
l’aveva ignorata, per distaccarsi da una relazione che
avrebbe potuto
coinvolgerlo troppo.
E
ora si sentiva sconfitto e umiliato, come un capitano
stupido che non ha saputo riconoscere il tesoro più prezioso
nel suo forziere e
ha permesso ad un ladro occasionale di sottrarglielo.
Francis
vide passare le mille ombre del dubbio e del rimorso
sul volto scultoreo del capitano: sapeva riconoscere gli infinitesimali
mutamenti nel suo broncio saldato. Solleticò il pancino del
bimbo e lo appoggiò
a terra, spingendolo con gentilezza verso il gruppo festante delle
sartine.
«Non
è mio.»
Arthur
sentì uno strappo allo sterno, come se un pescatore
avesse preso il suo cuore all’amo e glielo avesse strappato
dal petto. Gli
occorse qualche istante per articolare:
«Non
è tuo?»
«È
il figlio di mia sorella» Francis picchiettò un
indice
sulla coda dell’occhio sinistro. «Ha preso le iridi
dei Bonnefoy. Per questo mi
chiedono spesso se sia mio figlio.»
Arthur
non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che
il francese continuò, lapidario:
«Non
è mio, ma potrebbe esserlo. È vero che sono
l’ultimo
dei romantici, dei veri
romantici»
sogghignò melodrammatico, reclinando il capo
all’indietro. «E questo mi ha
permesso di aspettarti ogni volta, per tutto il tempo necessario.
Credimi,
Arthur, non avrei atteso nessun altro al mondo con la stessa pazienza.
Ma…»
lasciò per un attimo la frase in sospeso e socchiuse gli
occhi: «Ma non so mai
quando tornerai, e se tornerai. E,
per quanto io sia innamorato di te…»
abbassò la voce su quell’ultima parte, per
non mettere in imbarazzo il capitano. «L’idea di
invecchiare da solo mi
spaventa. Per questo voglio essere onesto fino in fondo: il bambino non
è mio,
ma forse un giorno tornerai a Marsiglia e mi troverai accasato, con un
nanerottolo che mi gironzola attorno.»
«E
saresti soddisfatto?»
Il
tono dell’inglese fu assolutamente piatto, così
come la sua
espressione, e fu compito di Francis spezzare l’atmosfera con
una risata priva
di allegria.
«Voglio
provare ad essere il coniuge ufficiale, per una
volta. Essere sempre l’amante bistrattato da tuo marito,
l’oceano, è snervante.
E avvilente.»
Di
nuovo, l’inglese non poté aggiungere nulla: una
sartina
arrivò a trascinare Francis per un braccio verso il gruppo
di spagnoli, chiocciando
qualcosa su quanto fosse adorabile il piccolo Domingo.
Arthur
sprofondò nella poltrona e nei propri pensieri.
Una
relazione “senza promesse e senza garanzie”, come
l’aveva definita Francis, non poteva che finire con una
separazione: ognuno
avrebbe scelto il cammino più confacente alla propria
indole, allontanandosi
inevitabilmente dall’altro.
Soppesò
la pipa nella mano destra, pensoso.
Sarebbe
cambiato qualcosa, tra di loro, se solo ci fosse
stato un appiglio più tangibile di una speranza effimera?
***
«Ti
sei scordato la tua pipa.»
Francis
entrò nella stanza di Arthur senza nemmeno bussare.
Dopo
la discussione avuta il primo giorno, non avevano
passato nemmeno una serata da soli. Aveva previsto una reazione simile
da parte
dell’inglese, ma sopportare la solitudine mentre il capitano
era ad una sola
porta di distanza era frustrante oltre ogni dire.
Aveva
approfittato della scoperta della pipa di Arthur sul
proprio comodino per fare irruzione nella stanza dell’ospite:
come
quell’oggetto fosse finito in camera sua era un mistero, ma
Francis non si era
preoccupato di risolverlo.
L’inglese
squadrò la pipa tra le dita dell’uomo senza
particolare interesse, e spostò di nuovo la sua attenzione
fuori dalla finestra
mentre dichiarava:
«Non
l’ho scordata.»
Francis
lanciò un’occhiata interrogativa al tabacco
pigiato,
come se quelle foglioline scure potessero rispondere al suo quesito.
«Cosa
intendi dire?» chiese quindi.
Arthur
rialzò la testa e le spalle, ma gli occhi acquamarina
continuarono ad essere rivolti al vetro notturno e le labbra rimasero
sigillate.
Come
sempre, il francese dovette interpretare il silenzio
dell’inglese, e la sua mente ricamò con chiarezza
gli eventi che li avevano
portati a quel punto: Arthur che si macerava nei dubbi come il giorno
in cui
gli aveva fatto conoscere il suo nipotino, con la solita espressione
granitica scolpita
in viso per non far trasparire i suoi pensieri; il capitano che
continuava a
rigirarsi la pipa tra le mani, finché proprio
quell’oggetto non era diventato
la soluzione ai suoi problemi; l’inglese che entrava nella
sua stanza per
appoggiare la pipa sul comodino e poi se ne andava, senza nemmeno un
biglietto
per spiegare quel gesto.
Francis
picchiettò indeciso sull’imboccatura consumata.
Era
davvero l’ultimo dei romantici se pensava una cosa simile di
un orpello
dimenticato nella sua camera… la domanda
scoppiettò sulle sue labbra prima che
se ne rendesse conto:
«È
la garanzia che aspettavo? Un pegno?»
Arthur
si strinse nelle spalle, borbottando:
«Dovrò
tornare a prenderla.»
La
pipa venne portata all’altezza degli occhi azzurri, che
sorbirono ogni suo dettaglio. Non era un anello, non era una promessa
insaporita di parole dolci: era una dichiarazione di legno dal profumo
secco,
perfettamente in sintonia con il carattere aspro dell’inglese.
Non
doveva essere troppo felice: se il capitano si fosse
stancato del clima francese, avrebbe sempre potuto acquistare una nuova
pipa da
qualche altra parte. Ma Francis, al contrario dell’inglese,
non era nato per
soffocare le proprie emozioni: appoggiò la pipa sul
cassettone, con la massima
cura permessa dalle sue mani tremanti, e con quelle stesse dita
instabili
abbracciò saldamente il capitano.
Arthur
protestò verbalmente, ma il corpo rimase fermo nella
stretta del francese. Francis lo cinse con maggiore forza, mormorando:
«Quindi
non mi lascerai invecchiare da solo.»
Vide
la nuca del capitano aggrottarsi, e sorrise sui suoi
capelli crespi. Certe espressioni dell’inglese erano visibili
perfino di
spalle.
«Niente
marmocchi. Odio i loro strilli» patteggiò brusco
Arthur.
«Niente
marmocchi» accordò Francis. «Ma
tornerai.»
Le
parole furono veicolate da un sospiro esasperato:
«Devo
riprendere la mia pipa.»
Lo
sbuffo si ingolfò in un’esclamazione inviperita
quando la
mano del francese cominciò a sbottonargli la camicia.
«Che
diavolo fai?» inveì Arthur, stringendo nel pugno i
lembi aperti.
«Tra
poco ripartirai. E abbiamo già sprecato troppo
tempo»
rispose angelico il francese, continuando a spogliare il capitano.
«Non
hai un minimo di decenza?» si ribellò
l’inglese,
voltandosi di scatto nell’abbraccio dell’altro.
La
fronte di Francis si appoggiò a quella del corsaro, ed il
suo respiro accarezzò il viso del compagno con la successiva
risposta:
«Ne
ho avuta fin troppa. In questi giorni, e nei mesi
precedenti.»
Il
viso dell’inglese si abbatté sulla sua clavicola,
e le
parole si sbriciolarono contro la sua camicia.
«Almeno
spegni la luce, voyerista.»
Francis
lasciò a malincuore il capitano per andare a
smorzare il lume della lampada ad olio, e si ricongiunse a lui il prima
possibile.
Avrebbe
voluto assaporare con calma quel momento, ogni asola
slacciata, ogni stridio della fibbia dei pantaloni, ogni fruscio di
stoffa. Ma
aveva aspettato troppo a lungo per rispettare quel desiderio.
Un
sentore di lavanda si spanse dalle lenzuola pulite quando
si sdraiarono sul letto. Arthur serrò proteste e gemiti
dietro le labbra
morsicate, e Francis si portò le sue gambe attorno alla vita
per unirsi a lui.
Lo
baciò più a lungo e più a fondo quella
notte di quanto
non avesse fatto in tutte le altre serate che avevano passato insieme:
quel
pegno, anche se era solo una pipa impregnata di tabacco, aveva reso il
capitano
più suo, lo aveva ancorato a quell’atelier, e
Francis volle degustare infinite
volte le labbra che avevano giurato di fare ritorno.
Fu
la prima volta che giacque con l’inglese senza avvertire
la falce del mare incombere su di loro.
***
«Monsieur.»
Una
mano nivea lo scosse docilmente per la spalla,
riscuotendolo dal suo torpore.
«Vi
siete assopito, monsieur»
si giustificò la sartina, inchinandosi con grazia.
Francis
coprì lo sbadiglio con una mano e si stiracchiò
sulla poltrona.
Non
aveva dormito molto, nelle ultime notti, ma il motivo
della sua insonnia non avrebbe potuto essere più piacevole.
Lanciò
un sorriso beato al monile che aveva posizionato sul
caminetto, in modo da poterlo vedere in ogni momento della giornata. La
pipa
gli restituì un orgoglioso luccichio sul legno lavorato.
Le
vele dei corsari avevano di nuovo galoppato il vento,
portando lontano il galeone e il suo capitano. Aveva salutato il
veliero con
uno spirito nuovo, rinato grazie al pegno legnoso e rinvigorito dalle
notti
passate con l’inglese.
«Aspetto
con ansia il tuo ritorno» sussurrò alla pipa e al
capitano assente. E non aveva mai creduto tanto nelle sue stesse
parole: aveva
la certezza che Arthur sarebbe davvero tornato.
Francis
si alzò in piedi, un sorriso splendente negli occhi
e nel cuore.
«Coraggio
ragazze!» le animò, prendendo posto al suo tavolo
da lavoro. «Abbiamo un sacco di ordinazioni da
soddisfare!»
Lo
squalo era
tornato all’oceano, lasciando l’airone.
Ma
il volatile
non era più solo: avrebbe aspettato il ritorno dello squalo
grazie alla goccia
di mare che gli era stata regalata.
Era
proprio un
airone innamorato per emozionarsi tanto per un dono privo di qualunque
romanticismo. Innamorato, e felice. Nostalgico, ma felice.
L’autunno
incalzava, l’inverno incombeva.
E
le stagioni
non avevano esaurito le loro sorprese.
…
ovviamente
dico: “Voglio postare in una settimana” e via che
partono i giorni -.-“
Vi
chiedo scusa,
ma preparare l’ultimo esame è stato massacrante
çAç
Ma
ora – e lo
dico con la massima gioia possibile – gli esami sono
finalmente FINITI e io
sono libera e felice di scrivere<3 (finiti nel modo
più assoluto, ad ottobre
laurea, se lo stage in Giappone va bene *O*)
Ed
eccoci giunti
al terzultimo capitolo ç_______ç Di
già ;________; Basta,
devo staccare il cordone ombelicale da
questa fanfic, o l’addio sarà traumatico XD
Diramerò
però ai
quattro venti una dichiarazione d’intenti: finita questa
storia, si aprirà una
nuova saga piratesca. Anche se i corsari della fanfic che sta pian
piano
prendendo forma nella mia testa affollata e incasinata non hanno molto
a che
spartire con i protagonisti di questa saga XD Fandom Hetalia, of
course<3
Ambientazione: spazio galattico<3
Come
sempre,
grazie per essere arrivati fin qui a leggere :D<3
A
presto<3
Red
P.S.
Mi pongo di
nuovo l’obiettivo di aggiornare esattamente tra sette giorni.
Che Francis mi
schiaffeggi con i fiordalisi se non rispetto l’impegno u.u
|
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Capitolo 4 *** Inverno ***
Capitolo
Quattro: Inverno
Un
cielo di
cenere gravava sui tetti di Marsiglia, attorcigliando le sue nubi
perlacee ai
tetti delle case.
L’albero
maestro
della Queen
of Pirates non avrebbe pungolato
quell’aria gravida di neve: i corsari non
avrebbero fatto ritorno prima dell’avvento di marzo.
La
primavera è
certamente la stagione più consona al poetare
d’amore: i boccioli sembrano il
calco floreale delle promesse ancora non pronunciate degli innamorati.
Ritengo
però che
l’inverno sia sottovalutato, a riguardo: il freddo pungente
che spinge le
persone a stringersi tra di loro per riscaldarsi non è forse
ammiccante? E la
notte che si protrae più a lungo, concedendo maggiore
intimità a chi non può
vivere il proprio amore alla luce del mattino, non è
più suggestiva di un sole
spietato?
Temo,
tuttavia,
che la mia rivalutazione dell’inverno sia nata il giorno in
cui i corsari
fecero ritorno e un nuovo pettegolezzo da galeone giunse alle mie
orecchie,
bisbigliato dal mio adorato squalo. E temo che quel piccolo italiano
turbolento
conficcherebbe la mia testa su una picca se solo intuisse che mi sto
concedendo
la licenza poetica di narrare le sue romanticherie.
«Hai
dimenticato la pipa?»
Le
mani del capitano talvolta afferravano l’aria, le dita
disposte come per agguantare il ventre rotondo del legno tanto caro
all’inglese, per scuotersi un secondo dopo, memori del
destino della pipa.
Antonio aveva notato quella strana patologia già da alcune
settimane.
«Devo
averla scordata da qualche parte» recise Arthur,
stringendosi nei vestiti pesanti. Una bufera di neve, come non se ne
vedevano
da decenni, li aveva bloccati sulle gelide coste inglesi. La cicatrice
di
Antonio era quasi impazzita con quel clima, e l’uomo era
stato costretto a
passare qualche giorno senza camminare prima di arrischiarsi ad
afferrare il nuovo
bastone da passeggio.
«Strano.
Non l’hai mai dimenticata prima d’ora» lo
stuzzicò
con indifferenza Antonio, puntando gli occhi verdi sulla fiamma che
scoppiettava nel camino.
«Sarà
la tua influenza nefanda che mi fa rimbecillire»
ricambiò Arthur, particolarmente scontroso.
Lo
spagnolo non aggiunse altro, pago del tono spinoso
dell’inglese: questioni sentimentali avevano trattenuto la
sua pipa a
Marsiglia. Impossibile confondere quella particolare
tonalità acida con le
altre.
Il
capitano tese i palmi verso le braci, aprendo le dita a guisa
di stella marina: i polpastrelli erano arrossati e induriti dal freddo,
nonostante gli abiti di lana e i camini accesi, e le nocche piagate dai
geloni.
L’inverno inglese era una bestia terribile e ingorda.
«Che
importanza potrebbe mai avere un simbolo?» sbottò
così
all’improvviso che perfino Antonio, pur essendo assuefatto ai
suoi sbalzi di
umore, si sorprese.
«Ti
avveleneresti il sangue per un oggetto?» ribadì il
capitano, quando le iridi smeraldine gli trasmisero solo confusione.
Il
navigatore passò una mano tra i capelli scuri,
inselvatichiti come se il maltempo fosse rimasto intrappolato tra di
essi.
«Dipende
dal tipo di oggetto» valutò infine. «Se
fosse
qualcosa di particolarmente caro…»
«Davvero
ti rovineresti il sonno per un gingillo?»
«Bastava
un monile con accenni pagani per essere arrestati
dall’Inquisizione» la tristezza passò
sul viso di Antonio rapida come una
folata di vento, subito sostituita da un’espressione
meditabonda: «Comunque,
credo che sia il valore affettivo a decretare l’importanza di
un oggetto. O
quello simbolico. Pensa alle fedi nuziali: sono solo due cerchi di
metallo,
eppure gli sposi le conservano con cura per tutta la vita; si fanno
addirittura
seppellire con quegli anelli.»
Arthur
alzò gli occhi al cielo e li riabbassò con uno
sbuffo,
corrugando le spesse sopracciglia: paragonare la sua pipa ad una fede
era come
comparare una scultura marmorea ad un pugno di fango. E non voleva
pensare di
aver dato un pegno di fedeltà a quel tediante, pedante,
irritante francese.
Quasi
a contraddirlo per dispetto, le sue dita ebbero di
nuovo il guizzo di stringersi attorno alla conca legnosa. Doveva
arrendersi
alla realtà: aveva lasciato la sua preziosa pipa a Francis
Bonnefoy, sarto di
Marsiglia. E l’aveva abbandonata nella sua stanza come tacita
promessa di fare
ritorno.
Sprimacciò
i capelli stopposi, inspiegabilmente inviperito: la
compagnia di quello spagnolo innamorato era più contagiosa
dell’influenza
invernale. Sfortunatamente, non si era vaccinato in tempo per restarne
immune,
e, come risultato, la sua pipa giaceva sullo scaffale di una bottega
francese.
Era bello avere qualcuno da incolpare per quell’inspiegabile
eruzione di
sentimenti che lo aveva colto a Marsiglia.
«C’è
qualche oggetto che ti rode l’anima, Arthur?» si
preoccupò Antonio, con la premura canzonatoria della volpe.
«Assolutamente
no» negò l’inglese, con troppa veemenza
per
risultare credibile.
Lo
spagnolo accettò la sua versione con un cenno del capo,
accomodante. La razza anglosassone, dopo tanti secoli di evoluzione,
ancora non
era riuscita a stipulare patti chiari con il proprio cuore.
Mosse
le dita davanti alle braci, immergendosi in un altro
tipo di riflessione.
Lui
e Lovino non avrebbero mai potuto indossare gli anelli
del matrimonio. La loro relazione era quasi costata la vita a entrambi,
sotto
la scure dell’Inquisizione, ed era un miracolo poter passare
la vita assieme
senza dare adito a troppi sospetti o maldicenze.
Tuttavia,
desiderava un simbolo che gridasse al mondo che
quel giovane era soltanto suo.
Sospirò,
passando una mano sulla vecchia cicatrice. Forse un
giorno anche per le coppie come loro ci sarebbe stata la
possibilità di
scambiarsi promesse eterne in presenza di testimoni, ma era un futuro
troppo
lontano per potervi riporre qualche speranza.
Un’idea
affiorò pian piano ai limiti della sua mente, e si
fece strada fino a non lasciare spazio ad altro.
Antonio
si alzò in fretta, si congedò velocemente dal
capitano perplesso e si precipitò nei corridoi.
L’italiano
sobbalzò quando il navigatore irruppe nella sua
stanza.
«È
scoppiato un incendio?» domandò, anche se
l’espressione
di puro tripudio dello spagnolo non lasciava presagire catastrofi
incombenti.
Antonio
scosse la testa con forza, e ignorò felicemente la
dura invettiva della cicatrice quando si inginocchiò ai
piedi della sedia su
cui era adagiato il giovane.
«Lovino!»
riuscì solo a pronunciare il suo nome, mentre gli
porgeva il palmo aperto.
Le
palpebre dell’italiano si incontrarono un paio di volte,
le idee che si chiarivano ad ogni nuovo battito: la mano dello spagnolo
era il
trono di una normalissima peseta,
legata
da un sottile cordoncino nero. Non faticò molto nel
collegare quella moneta
all’assurda gioia del compagno.
«Non
mi dirai che questa è… quella
peseta?»
sillabò,
incerto tra la sorpresa e l’irritazione.
All’epoca
del loro primo incontro, l’italiano era tornato
alla locanda per riscuotere la moneta mancante per la gerla di pomodori
che
aveva portato durante la mattina. Era stato allora che Antonio lo aveva
assunto, e la peseta era stata la
scusa ufficiale per il suo soggiorno lavorativo alla locanda fino alla
sera in
cui si era unito all’ex-capitano per la prima volta.
Credeva
che fosse rimasta abbandonata in qualche angolo
della camera patronale, o che Antonio l’avesse spesa in
qualche modo. Di certo
non immaginava che l’altro l’avesse conservata.
«Tu
sei malato!»
inveì.
«Non
è proprio quella
peseta» ammise malinconicamente Antonio.
«Temo che quella sia
rimasta sotto il comodino, alla locanda.»
Lovino
quasi sospirò di sollievo: lo spagnolo non era del tutto
ammattito, fortunatamente.
«Perché
sei venuto con una peseta,
allora?» l’imbarazzo gli graffiò la
voce: c’era qualcosa di
strano nella posizione inginocchiata dell’uomo, in quella
mano protesa verso di
lui e nello scintillio degli occhi color sottobosco. Antonio sorrise in
risposta alle guance di Lovino, il cui rossore non era provocato dal
calore del
camino.
«Non
potremo essere come Diego e Consuelo» sistemò
più
comodamente le gambe, poiché la cicatrice aveva deciso di
complicare quella
dichiarazione. «Ma vorrei che tu portassi questo.»
Lovino
squadrò la moneta con sospetto: grazie alla sua forma
circolare, non era complicato capire di quale oggetto fosse la
sostituta.
«Potresti
pentirtene» borbogliò Lovino, distogliendo lo
sguardo dalla peseta che lo
fissava
speranzosa.
«In
che modo?» chiese Antonio, paziente nonostante il dolore
della cicatrice sotto sforzo.
L’italiano
si abbracciò le spalle magre, indeciso se
rigettare l’acido che si era cagliato sul suo stomaco da
quando avevano levato
gli ormeggi dal porto di Marsiglia. Un piede salì sul piano
della sedia,
facendolo assomigliare a un buffo fenicottero quando
rimbrottò:
«Un
giorno potresti desiderare un figlio, per esempio.»
Non
concluse la frase: il suo fisico indubbiamente
mascolino, sprovvisto di utero, parlava con sufficiente chiarezza.
«Lovino…»
«Ci
sono tante cose che legano le coppie normali, al di là
dei sentimenti. Una di queste sono i marmocchi.» Anche in
quel caso, non
terminò il paragone. Loro avrebbero dovuto fare affidamento
solo sulle proprie
emozioni, come garanzia per un futuro assieme.
Come
sempre, Antonio estrasse dal proprio repertorio la
risposta più ovvia e più stupida. E anche quella
più capace di frantumare le
difese dell’italiano.
Si
sollevò sulle ginocchia, andando a catturare gentilmente
con le dita i capelli ribelli sulla nuca del giovane.
«Tu
sei la mia occasione, Lovino, e non mi serve altro. Non
ti fidi abbastanza di me per crederci?»
L’italiano
girò il capo con troppa forza, e le loro fronti
si strofinarono nell’abbozzo di una testata.
«Non
mi fido del tempo. Cambia sempre le cose, e sempre in
peggio» ringhiò.
«Quindi
la nostra relazione è il meglio, per te.»
«Smettila
di tagliare dal discorso solo le parti che ti sono
comode!» la testata fu completata, dopo
quell’imprecazione, e il navigatore
dovette massaggiarsi la fronte mentre l’italiano si
rannicchiava contrariato
sulla sedia.
«E
se un giorno ti rendessi conto che in realtà desideravi
una famiglia?» lo sfidò, polemico.
«Non
accadrà» replicò tranquillo lo
spagnolo.
«Come
fai a esserne certo?» protestò Lovino.
«Perché
nessuna donna mi ha mai fatto ringraziare la Dea del
Mare per avermi lasciato sulla parte sabbiosa del suo regno. Nessuno,
prima di
te.»
Le
labbra dell’italiano dipinsero un cerchio basito, prima
di accartocciarsi in una brusca invettiva:
«Sei
davvero un idiota!»
Il
palmo dell’uomo fluttuò davanti al suo naso,
porgendogli
la peseta.
«La
indosserai?» lo invitò, la voce arrochita di
un’ottava.
Lovino
fissò con ostilità la moneta che palpitava per la
sua
risposta.
«Si
arrugginirà» notò caustico.
«Te
ne regalerò un’altra» replicò
pratico Antonio.
«Potrebbe
cadermi in mare.»
«Anche
in quel caso, te ne regalerei un’altra.»
«Perché
ti sei intestardito su questa peseta?»
Le
dita del navigatore accarezzarono la nuca ribollente di
imbarazzo, e un sorriso amalgamato dalla felicità e dalla
malinconia si stese
sulle labbra dell’uomo.
«Perché
vorrei poterti regalare una fede, Lovino, e non
posso. Ma posso donarti qualcosa che abbia valore solo per
noi.»
Nessuno,
guardando quella moneta, avrebbe immaginato qualcosa
di diverso dal metallo un po’ scheggiato e delle incisioni
spagnole lievemente
consumate. Solo Antonio avrebbe rivisto un ragazzino denutrito che
tornava
piegato dalle botte del padrone, e solo Lovino avrebbe ricordato il
comodino
sotto cui era scivolata la peseta,
durante la loro prima notte insieme.
«Sei
davvero un cretino…» ripeté, incapace
di articolare
pensieri più complessi, le orecchie così rosse da
mimetizzarsi con la tinta
ramata dei capelli.
Le
dita di Antonio stesero il cordoncino in tutta la sua
lunghezza, lasciando che la peseta
penzolasse strategicamente davanti al collo del giovane.
«Posso
allacciarla?» s’informò, vellutato.
Lovino
deviò lo sguardo, non potendo fare lo stesso con la
risposta.
«Fai
come vuoi» concesse, abrasivo.
Le
braccia dell’uomo gli circondarono le spalle e il calore
del petto del compagno si schiacciò sul suo mentre il filo
veniva annodato
dietro la sua testa. La peseta si
depositò trionfale nella conca del suo sterno quando la
procedura fu ultimata, entusiasta
per la vicinanza con il cuore.
Antonio
sollevò la moneta con due dita, e vi accostò le
labbra: il pescatore sentì quel bacio bruciare sul proprio
petto, come se la
bocca dell’uomo avesse sfiorato lui e non il metallo freddo.
«Ti
sta benissimo, Lovino» si complimentò, rilasciando
la
presa. L’italiano non gli permise di farlo:
avvinghiò con la propria la mano
del compagno, che ancora stringeva la peseta,
e trascorse qualche istante a mordersi le labbra prima di lasciare loro
la
libertà di muoversi.
«Questa
maledetta isola è gelida.»
«Chiederò
ad Arthur se hanno qualche altra coperta…»
«Ho
detto che è gelida.»
Le
guance del ragazzo competevano con il fuoco del camino
per il titolo di oggetto più rosso e caldo nella stanza.
Antonio racchiuse tra
le mani le gote lisce e arroventate, depositando un bacio su entrambe.
«Hai
proprio ragione» concordò, occhieggiando verso il
letto. «Questa camera è un ghiacciaio.»
Quella
sera i borbottii dell’italiano non rumoreggiarono a
tempo con i crepitii del camino: Lovino fu stranamente
accondiscendente, quella
notte, anche se non si negò qualche istante di pura
ribellione.
La
peseta scottava
sul suo petto, ma senza fargli male: era un bruciore che si innestava
nel
cuore, e lì ne accelerava i battiti fino a dargli il
capogiro.
Avrebbe
voluto urlare qualcosa di velenoso contro quello
spagnolo dal sorriso beato, o perlomeno sibilargli qualche insulto, ma
l’unica
protesta vocale che riuscì a emettere furono inconsulti
brontolii trattenuti
tra i denti.
Era
una specie di bizzarra prima notte di nozze, in fondo.
Doveva cercare di essere un poco più romantico.
Nascose
la testa sotto il cuscino in un impeto di rabbia,
quando si accorse di aver pensato a una simile sciocchezza
appiccicaticcia di
sentimentalismo: la stupidità dello spagnolo non aveva
colpito solo il capitano
inglese.
«Lovino?»
«Stai
zitto, bastardo! È sempre colpa tua!»
Antonio
cercò di sbirciare oltre l’orlo del cuscino, che
per
tutta risposta venne premuto contro la faccia del giovane fino a quasi
soffocarlo.
«Di
quale colpa sono accusato?» domandò. La sacca di
piume
emise un suono strozzato, per poi zittirsi completamente. Antonio
attese che le
nocche riprendessero colore dopo essere sbiancate per la forza della
stretta, e
allontanò il guanciale dal viso del giovane.
«Hai
ancora una pronuncia orrenda» sentenziò Lovino con
un
cipiglio disgustato, riemergendo dalle pieghe del cuscino.
Antonio
impresse il suo sorriso sulle labbra del giovane,
mentre una mano maliziosa scivolava sotto la sua camicia grezza.
«È
passato troppo tempo dall’ultima volta che te l’ho
detto»
considerò amareggiato lo spagnolo, senza allontanarsi dalle
sue labbra.
Lo
disse di nuovo, quella notte, ma non troppe volte per non
sciupare l’incantesimo che quelle due parole stendevano su di
loro: lo disse
abbastanza da far arrossire e scalciare l’italiano, lo disse
con sufficiente
passione da sciogliere le sue resistenze poco convincenti, e mentre il
corpo
del ragazzo si stringeva a lui, rabbrividendo per gli spifferi e per le
carezze,
gli parve di sentire una piccola frase ruzzolargli sulla spalla.
La
bocca del giovane si sigillò contro la curva del suo
collo, e si rifiutò di ripetere.
Antonio
preferì strappare a quelle labbra imbronciate altri
baci anziché una confessione. Inoltre, anche se
l’italiano si era sforzato di
mangiarsi le parole, aveva capito benissimo.
«Hai
ragione, Lovino» bisbigliò, abbracciandolo con
tutto il
suo corpo. «La mia pronuncia è davvero
orrenda…»
La
bocca del ragazzo si contrasse indispettita, ma le
braccia non smisero di stringerlo.
«Avrai
tutta la vita per migliorarla. Perfino uno stupido
come te ce la farebbe, dopo anni e anni.»
«Ciò
significa che dovrai stare al mio fianco per
correggermi» patteggiò scaltro Antonio.
«Dovrò
farti da insegnante per anni?» si nauseò Lovino.
Non
riuscì a dire altro perché le sue gambe vennero
ripiegate contro il petto, e una folla di gemiti si incastrò
nella sua gola.
«Per
tutta la vita» mormorò Antonio al suo orecchio
imbarazzato. «Sarà necessario molto tempo per
imparare…»
«Perché
sei un idiota.»
Quello
fu l’ultimo insulto che gli rivolse, per quella notte.
La peseta sul suo petto, e la
promessa di cui quel metallo era testimone, lo ammansirono come mai
prima di
allora.
Non
si fidava del tempo e non si fidava della gente; sapeva
che non si potevano fare progetti per un futuro troppo lontano,
poiché
sarebbero stati inevitabilmente sgretolati dallo scorrere degli anni.
Ma
Antonio aveva una specie di sortilegio nella sua voce
roca, un incantesimo che rendeva tutto semplice. Abbastanza semplice da
potervi
riporre fede.
Lovino
non
credeva negli ideali della patria, non confidava nella Provvidenza, non
si
fidava delle persone.
L’unica
persona
in cui riponeva fiducia era Antonio. Perché la patria
chiedeva morte e restituiva
medaglie al valore; Antonio domandava solo di rimanergli accanto, e
ricambiava
con sorrisi solari. Perché dove gli dei tacevano Antonio
rispondeva, quando le
persone voltavano la testa Antonio tendeva la mano.
E
il suo amore
era caldo, presente e vivo, al contrario dell’attaccamento
freddo a un paese,
all’affetto inudibile delle alte sfere o
l’indifferenza sterile del popolo.
Probabilmente,
Lovino è consapevole di questi suoi sentimenti, ma non ha
l’onestà dei
francesi, né la loro alata abilità narrativa.
Nonostante
ciò,
ammetto che è un’impresa ardua tentare di
descrivere la sua espressione, quando
si presentò nuovamente alla sartoria. Una peseta ciondolava al suo collo, e il suo viso era
una contraddizione continua: la bocca serrata in un broncio manteneva
un barbiglio
di sorriso negli angoli; le sopracciglia erano aggrottate, ma gli occhi
scintillavano come solo quelli degli innamorati riescono a fare; le
spalle
erano contratte, a dispetto delle mani, che sembravano smaniare per
l’assenza
del compagno.
Ho
sorriso
vedendo la sua peseta, e ho sorriso ulteriormente guardando la mia pipa.
Sono
giuramenti,
al pari delle fedi nuziali di Consuelo e Diego, sono promesse che
dureranno per
una vita intera.
Una
vita intera.
Sembra
un lasso
di tempo ridicolmente breve.
Ritardo
pazzesco
e mostruoso, me ne rendo conto çAç
I
preparativi
per la partenza hanno assorbito tutto il mio tempo, purtroppo .-.
Scusatemi
ancora ç_ç
Anyway…
questo
era l’ultimo capitolo. Manca solo l’epilogo, e la
saga dei pirati potrà dirsi
conclusa ç____ç
Perlomeno,
questa saga di pirati.
Perché, una volta
pubblicato l’epilogo, posterò l’inizio
della nuova serie. Come darvi qualche
anticipazione senza spoilerare troppo… dunque, avete
presente l’Isola del
Tesoro della Disney? E 1982 di Orwell? Bene, anche se vi sembrano
affini come l’olio
e l’acqua, tentate di mescolarli e otterrete la traccia
generale su cui si
muoveranno i personaggi. Per quanto riguarda le coppie…
Spamano come centrale,
GerIta e RoChu; le altre sono in fase, diciamo così,
“mobile” XD Grandi interrogativi:
UsUk o FrUk, Franada o PruCan? E così via…
insomma, da definire XD
Altre
informazioni (e, possibilmente, il link al primo capitolo<3)
saranno
rilasciati con il prossimo capitolo (l’epilogo
ç_________________ç oddio
çAAAç).
Grazie
ancora a
tutti per il sostegno e l’affetto dimostrato alla storia e a
questa autrice
derelitta<3
Un
bacione<3
Red
|
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Capitolo 5 *** Di nuovo Primavera ***
Capitolo
Cinque: Di nuovo Primavera
«Mamma!»
Il
sole rovesciò una fitta trama di riflessi sui capelli di
Consuelo, quando la donna si voltò.
Ormai
i suoi boccoli corvini arrivavano a sfiorarle la vita.
Gli anni trascorsi dalla sera in cui era stata rasata per travestirsi
da
maschio non avevano solo permesso alla sua chioma di ricrescere; le
dita del
marito si erano rinsaldate, nonostante la forma curva rivelasse i
tragici
segreti dell’Inquisizione. E il piccolo Domingo era cresciuto
fino ad
affacciarsi sull’adolescenza.
Correva
verso di lei con le sue gambette magre, carico di
stoffe e vestiti mezzi imbastiti.
«Mamma,
dove appoggio questi?» trillò, rovesciandosi quasi
sotto il peso dei tessuti.
«Nell’armadio
sulla parete di destra» Consuelo alleggerì il
figlio di qualche taglio di stoffa, e lo aiutò a piegarle e
riporle al giusto
posto.
«Sta
crescendo bene» si compiacque Francis, osservando il
piccolo che zampettava attorno alle gonne della madre.
«Ci
stiamo impegnando» sorrise Diego. «Cerchiamo di
fargli
imparare anche la nostra lingua natia. È nato qui in
Francia, ma le sue radici
sono comunque spagnole.»
«Contate
di ritornare in Spagna, un giorno?»
Diego
scosse tristemente la testa.
«Non
c’è più posto per noi, in quella terra.
Anche se
Nicolas è morto, le accuse contro di noi sono ancora vive.
Se rimettessimo
piede in Spagna, finiremo sul rogo nel giro di pochi giorni»
le sue mani ritorte
subirono un tremito sotto la stretta stoffa dei guanti. «Ma
nostro figlio non
deve subire la nostra stessa sorte. Se un giorno volesse stabilirsi in
Spagna,
voglio che possa farlo senza problemi.»
Francis
si appoggiò completamente allo schienale della sedia
e commentò, serafico:
«Non
credo che Domingo desidererà mai una cosa del genere.
La sua casa siete voi. E non credo esista un altro posto in cui voglia
vivere.»
Notando
lo sguardo dei due uomini, Domingo sfrecciò verso il
padre e gli si avvinghiò alle ginocchia.
«Papà,
quando tornano i pirati?» cinguettò.
«Sono
corsari» lo corresse bonariamente Francis.
«Torneranno
in estate» Diego scompigliò i capelli del
figlio, che emise uno squittio risentito e corse lontano dal genitore
malefico.
Francis
passò una mano nella chioma color miele, e il suo
cuore ebbe un piccolo spasmo quando avvertì la consistenza
secca della tintura.
Nella sua capigliatura avevano cominciato a germogliare alcuni
sporadici
capelli bianchi, e il francese non poteva permettere un simile scempio
della
sua immagine. Tuttavia, rimpiangeva amaramente la morbidezza dei suoi
capelli
naturali.
«Sono
passati già tredici anni» considerò in
un sospiro,
osservando Domingo, l’indice più lampante del
tempo trascorso.
«E
sono quasi sei anni che non vediamo Antonio e Lovino»
aggiunse Diego. «Mi chiedo se anche questa volta Arthur ci
porterà solo una
lettera.»
Francis
sgranchì le dita delle mani una per una, e valutò:
«Temo
di sì. Hanno trovato la loro casa, ed è nel Nuovo
Mondo, molto lontano da qui.»
Una
nuvola di tristezza rabbuiò il volto di Diego, prima che
un sorriso la dissipasse.
«Non
importa. Sono sicuro che, ovunque siano adesso, non si
sono scordati di noi. E un giorno ci ritroveremo.»
«Dove?»
Una
rassegnazione stemperata di gioia si spanse sul volto
dell’uomo, rendendolo talmente luminoso da essere quasi
doloroso.
«Nel
regno del mare. Sono sicuro che il cuoco ci stia
tenendo un posto di fianco a lui. Avremo una vita di avvenimenti da
raccontargli.»
Ho
ammirato
Diego in quel momento. Ho ammirato tutta la sua famiglia.
Esuli
dalla loro
terra e separati dai loro compagni, hanno comunque la forza di
sorridere. Diego
la trova nel viso della moglie e del figlio, Consuelo la avverte nelle
carezze
del marito e negli abbracci del bambino, e Domingo ne è
sommerso grazie
all’affetto incondizionato dei suoi genitori.
E
non hanno
biasimato Antonio e Lovino per la loro scelta. Li aspettano ai cancelli
del
regno del mare, dove tutte le genti del mondo si riuniscono.
Capisco
la
sottile pena striata di nostalgia che caratterizza l’attesa.
Anche
io la sto
provando, in questo momento.
Ma
è molto
diversa. Io non dovrò aspettare il prossimo mondo.
Questo
sarà
l’ultimo viaggio di Arthur. Me l’ha promesso.
Le
sue prossime
avventure le vivrà qui, a Marsiglia, nella migliore sartoria
della città.
Voglia
il cielo
che quel momento arrivi il prima possibile.
«Stai
invecchiando.»
Lovino
non si preoccupò di velare la sua accusa con un
minimo di gentilezza, e Antonio accettò la brutale
schiettezza del compagno con
seraficità.
«È
inevitabile: il tempo non smetterà di scorrere solo per
me» l’ex-locandiere si allungò per
abbracciare il compagno e stringerlo a sé. «Ma
ne sono felice: i miei capelli si sono imbiancati, ma tu sei ancora
qui. Vuol
dire che sei stato al mio fianco per anni.»
Lovino
avrebbe voluto replicare seccamente, ma la peseta
scivolò fuori dal bordo della
camicia. Ribellarsi mentre portava quello stupido pegno al collo
sarebbe stato
ridicolo.
Sbuffò
con tutta l’aria che aveva nei polmoni, mentre si
girava ad abbracciare ruvidamente il suo compagno.
«Ho
la pazienza di un santo» si lodò burbero, prima di
staccarsi da lui.
Qualche
anno prima, la gamba di Antonio aveva deciso di non
poter più sopportare i viaggi per mare, forzando lo spagnolo
a fermarsi in
America. E Lovino aveva di nuovo voltato le spalle all’oceano
per il suo
amante.
Qualche
volta avevano parlato di tornare in Francia, dove li
aspettavano Diego, Consuelo, Francis e il piccolo Domingo. Ma la ferita
di
Antonio non gli avrebbe permesso di imbarcarsi troppo presto, e gli
anni che
avanzavano facevano impallidire progressivamente quella
possibilità. Ma c’era
sempre una candela che bruciava, sul comodino della loro camera, una
fiamma
accesa per illuminare la via ai loro amici in terra francese.
Si
erano stabiliti in una casa modesta, in uno dei
possedimenti coloniali che Arthur era incaricato di controllare. La
nostalgia
della locanda spagnola e delle avventure per mare mordeva loro le
viscere
mentre aiutavano nella gestione delle piantagioni, ma qualunque
sentimento
sgradevole spariva quando la sera si stendevano nello stesso letto.
Era
molto più di quanto Antonio avesse mai sperato, e di
quanto Lovino avesse previsto.
Potevano
vivere insieme per tutta la loro vita, in una terra
lontana dalle ombre della persecuzione. Quella normalità era
il più grande dono
per cui avrebbero potuto pregare.
«Resterai
con me anche quando i miei capelli saranno
completamente bianchi?» domandò sulla chioma
ramata, malamente regolata con il
rasoio.
La
risposta di Lovino lo stupì piacevolmente.
«Solo
se tu resterai finché non nevicherà anche sulla
mia
testa.»
Antonio
sfoderò il sorriso e il tono rauco che solo la
presenza dell’italiano facevano sorgere.
«Fino
ad allora, ed oltre» sussurrò, chinandosi per
baciarlo. «Voglio incontrarti anche nella prossima vita,
Lovino.»
L’italiano
bubbolò qualcosa a labbra strette, ma le schiuse
docilmente per accogliere il suo amante.
La
Dea del Mare doveva rassegnarsi alla perdita di due dei
suoi migliori corsari.
Avevano
trovato il loro mondo. Ed era grande quanto un
abbraccio.
Sono
sicuro che
Lovino non toglierà mai la peseta. Sono sicuro che quella moneta sarà
riscaldata dal petto del ragazzo per tutta questa vita. Così
come le fedi
nuziali non abbandoneranno mai gli anulari di Diego e Consuelo.
Vorrei
che tutti
potessero vedere ciò che vedo io: affetti sconfinati quanto
il mare che ha
fatto da sfondo a queste vicissitudini. A tutti coloro che dicono con
tanta
leggerezza che il vero amore non esiste, vorrei raccontare questa
storia.
Vorrei raccontarla e dire: “il vero amore esiste, ma bisogna
lottare per
difenderlo, ed è per questo che tanta gente si accontenta
della noia”.
Ognuno
di noi ha
lottato: contro il richiamo del mare, contro i cacciatori di eretici,
contro
un’attesa che uccide.
Diego
e Consuelo
si sono sposati, e il frutto della loro unione corre felice per
l’atelier.
Lovino e Antonio coltivano il loro amore su una terra sconosciuta.
Per
quanto mi
riguarda, attendo.
La
pipa mi
occhieggia dal camino, ricordandomi la promessa che il capitano ha
rinnovato a ogni
suo approdo a Marsiglia.
Quest’estate,
la
mia lotta con il mare finirà.
E
a tutti voi
che avete letto questa storia, rivolgo un augurio che assomiglia ad una
preghiera: se le nostre vite vi hanno lasciato un messaggio, un
pensiero o un
sentimento, conservatelo con cura e portatelo con voi. Non dimenticate
le
vicende di questi uomini divisi tra terra e mare, uniti nella lotta per
la
propria libertà. Serbate, in un angolo del vostro cuore,
questo bizzarro
racconto di flutti ed emozioni.
E
mentre voi
assaporerete l’ultima eco di questa novella, io
sarò sul molo ad aspettare che
l’oceano rispetti la sua promessa.
È
ancora in
debito con me di un capitano.
Scusate
per
l’abnorme ritardo çAç
Grazie
a niki_,
LadyRin, jei90 e shaya21 che hanno recensito lo scorso
capitolo<3
Perdonatemi se non vi rispondo singolarmente, ma il tempo per la
connessione è
scarso ç_ç (siamo in cinque con un solo cavo,
purtroppo çAç). Ho capito che qui
in Giappone il metodo: “rispondo appena prima di
aggiornare” non funziona
ç____ç dalla prossima volta vi
ringrazierò singolarmente appena recensite u.u Grazie mille,
davvero<3 Mi sono emozionata
a leggere i vostri commenti çAç sappiate che
avete fatto felice una piccola
scrittrice sull’arcipelago
nipponico<3<3<3 *sparge cuori*
Ora
sono in
Giappone, e tra studio, lavoro e tesi ho trovato davvero poco tempo per
scrivere @_@ Avrò lezione fino ad agosto (qui il semestre
comincia ad aprile
XD), quindi fino ad allora non so garantire la frequenza degli
aggiornamenti,
per le altre storie che ho in corso ç_ç
Anyway…
Adesso
è proprio
finita. Conclusa. Oddio, mi sembra di aver detto addio a un caro amico
ç____ç
Non
saprei cosa
aggiungere, Francis ha parlato saporitamente anche per me XD
Una
cosa sola:
grazie, grazie infinite a tutti voi che avete seguito la storia
dall’esordio e
siete approdati a Marsiglia insieme ai corsari<3 Grazie infinite
per il
vostro supporto e il vostro calore<3 Se questa saga è
continuata tanto, è
stato merito del vostro sostegno<3<3<3<3
Alla
prossima
storia, dunque J
Ah,
per chi
attendesse notizie sulla fanfic dei pirati nello spazio… non
so dare una data
precisa di emmissione ç_ç Ma posterò
qualunque news (anche sulla scelta delle
coppie 8D grazie ancora per i vostri
pareri<3<3<3) qui e qui.
Grazie
ancora<3
A
presto<3
Red
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