Ticket to Paris

di Kia85
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vieni via con me ***
Capitolo 2: *** Sul cuscino ***
Capitolo 3: *** Gelosia, folle gelosia ***
Capitolo 4: *** Pronti a tutto ***
Capitolo 5: *** Occhi sempre aperti ***
Capitolo 6: *** La nostalgia è... ***
Capitolo 7: *** La fata verde ***
Capitolo 8: *** Colpevole ***
Capitolo 9: *** Coraggio ***
Capitolo 10: *** Frullati ***
Capitolo 11: *** Duetto ***
Capitolo 12: *** Buon compleanno ***
Capitolo 13: *** Mani ***
Capitolo 14: *** Pioggia ***
Capitolo 15: *** No nights by myself ***
Capitolo 16: *** Insieme ***



Capitolo 1
*** Vieni via con me ***


Note dell’autrice #1: dopo la mia breve parentesi non-slash con “Good night, Julian”, eccoci qua con una long. E sì, stavolta torno allo slash… Premetto che le long le odio e le amo: mi piace progettarle ma poi perdo l’ispirazione. Ogni categoria di efp in cui ho scritto contiene almeno una mia long incompleta. L Tuttavia qualcuna l’ho conclusa, quindi c’è speranza che possa concludere anche questa, considerato che si tratterà di al massimo 15 capitoli.

Bene, dopo questa incoraggiante premessa, vi auguro buona lettura. Naturalmente parliamo di John, Paul e il viaggio a Parigi. Mica pizza e fichi. J

 



 

Ticket to Paris

 

Capitolo 1: “Vieni via con me”

 

Un centone.

Un vero centone.

Cento fottute sterline lì, fra le sue mani, fra le mani ancora tremanti di John Lennon. Ed erano tutte per lui, come regalo per il suo ventunesimo compleanno. Circa cinque sterline per ogni anno della sua misera vita. Valeva davvero così tanto?  E tutti quei soldi regalati da qualche parente lontano in quel di Edimburgo, uno zio, che era già tanto se John lo andasse a trovare una volta all’anno. Forse avrebbe dovuto ringraziarlo, magari inviargli un telegramma: “Caro zio stop- Grazie per il bel gruzzolo stop- Prometto che ne farò un uso accorto stop- Ti ricordo che l’anno prossimo ne compio ventidue stop- Non perdiamoci di vista stop”

Quando John si era fatto vivo a ora di pranzo, Mimi gli aveva consegnato il vaglia e lui lo aveva aperto con fare indifferente, totalmente inconsapevole del tesoro che si nascondeva dentro quella piccola busta di carta ruvida. Aveva dovuto rileggere più volte di cosa si trattasse e soprattutto contare bene gli zero dopo l’uno. Erano quelli che facevano la differenza, in fondo. Chi l’avrebbe mai detto, un numero tanto insignificante come lo zero, che diventava in realtà così incredibilmente importante se accostato ad un altro numero. Era in qualche modo un messaggio di speranza: tutti gli zero del mondo, tutti i perdenti come John avevano qualche possibilità di diventare qualcuno. Avevano solo bisogno di trovare il compagno perfetto, quello che li avrebbe resi speciali, preziosi.

Forse era stato questo pensiero a far scattare John verso la porta di casa, prima che zia Mimi potesse chiedergli: “Che ci vuoi fare con tutti questi soldi, John?” oppure partire subito con un “Non sarebbe meglio metterli da parte, John?”  Ma John sapeva già come utilizzare quei soldi. I soldi significavano principalmente libertà, la libertà di fare quello che si desiderava, anzi meglio, di andare dove si desiderava. Non c’era nient’altro che un ragazzo di quell’età, imprigionato in una città umida e maleodorante come Liverpool, bramasse di più.

Fortunatamente John ne conosceva un altro, con i suoi stessi sogni e la stessa urgenza di lasciare quella città. E lui forse era proprio quel compagno perfetto, quello che l’avrebbe reso speciale e importante proprio come uno zero su quel vaglia ed era quindi giusto che John condividesse questo magico, formidabile regalo con quella persona. Per questo motivo John si era precipitato fuori di casa e ora correva a perdifiato, come un pazzo, per il campo da golf, con quel piccolo pezzo di felicità stretto saldamente fra le mani e il vento che gli scompigliava i capelli e accarezzava le guance, incurante del fatto che con le sue scarpe stesse praticamente sollevando intere zolle di erba e rovinando, di conseguenza, il terreno perfettamente curato. Rise.

Che si fotta il campo da golf con tutti i suoi golfisti snob!

Così distratto e stordito era, che inciampò  sul marciapiede, rovinando a terra, sfregando uno zigomo contro il duro asfalto. John imprecò ad alta voce e nella sua testa. Maledetti, fottutissimi i suoi occhi ciecati! Ma la scarica di adrenalina, che ancora attraversava il suo corpo, era più forte del dolore e questo fu breve: così come era arrivato, infatti, scomparve. John si rialzò con un balzo un po’ maldestro, sistemando la sua giacca di pelle, e riprese la sua corsa. Sapeva dove stava andando, sapeva che le gambe lo stavano portando , eppure il cuore batté sorpreso e un po’ più veloce quando entrò nel cortile di Forthlin road. Batté all’unisono con la mano di John, che bussò alla porta, impaziente, e sussultò con il corpo di John quando dall’interno della casa giunse una voce familiare.  

“Arrivo!”

Il respiro di John, già ansante, si fece ancor più pesante quando sentì lo scricchiolio del legno sotto i passi non proprio leggiadri del giovane uomo che un istante dopo aprì la porta: Paul McCartney era di fronte a lui, con i suoi jeans logori, la camicia forse un po’ troppo grande e in mano un sandwich, che aveva già subito il suo famelico attacco.  

“Oh, John! Che sorpresa.” lo salutò, sorridendo e osservando divertito mentre l’amico, piegato in due, cercava di riprendere fiato con una mano sul petto.

Mannaggia ai suoi quasi ventun anni! Non aveva più l’età per quegli sforzi fisici. Chi gliel’aveva fatto fare di correre in quel modo? Ah già, lui!

“Che cosa ti è successo alla faccia?” domandò poi preoccupato, notando i graffi sul suo viso.

“Oh… - sospirò John, mentre la respirazione lentamente si calmava -…ho avuto un duello. Un duello all’ultimo sangue con un marciapiede presuntuoso che non mi voleva far passare. Inutile dire che ho vinto io.”

John ammiccò con quella sua espressione sempre molto furba e Paul sbuffò, contrariato.

“Certo, e magari se qualche volta indossassi quegli stupidi occhiali potresti evitare di ritrovarti sempre con qualche cosa che non va su quella faccia da schiaffi che ti ritrovi.”

“Gli occhiali, Paul, ispirano zero rock ‘n roll.” commentò John, scuotendo il capo con quell’atteggiamento da persona saggia che davvero non gli si addiceva per nulla.

Paul alzò gli occhi al cielo, sospirando rassegnato. Su determinate questioni John diventava un vero testone. No, ma che cosa stava pensando? John era sempre stato un fottuto idiota che faceva di testa sua. Poteva sbatterci la testa cento volte, ma non recepiva mai il messaggio.

“Se lo dici tu. Vuoi entrare per, che ne so, disinfettarti? – gli domandò Paul, facendogli un cenno con la mano - Stavo per mangiare con papà, ma penso che possa aspettare qualche altro minuto.”

John scosse il capo energicamente.

“No, grazie. Per così poco. Per chi mi hai preso, una femminuccia?” domandò indignato.

“Non mi permetterei mai, è solo che, sai, potrebbe infettarsi e… oh, lascia perdere. Fa’ come ti pare.” sbottò infine.

Al diavolo John e tutte le volte in cui Paul si preoccupava per lui! Che senso aveva, se John neanche lo stava a sentire?

“Comunque se proprio desideri fare qualcosa per aiutarmi, potresti offrirmi quella delizia che ti ritrovi in mano.”

Paul guardò il suo sandwich e ritirò la mano, il più lontano possibile da John: “Niente da fare, è mio, l’ho preparato con molta fatica solo per me.”

“Molta fatica? Tu chiami fatica riempire due fette di pane con un po’ di burro, lattuga e formaggio?”

“Sempre meglio del qui presente signor ‘resta a cena, nessuno brucia le uova col bacon meglio di me’!”

John aggrottò la fronte: “Ehi, è successo una volta sola.”

“Una volta che mi ricorderò per tutta la vita. Grazie.”

“Andiamo, Paul, dammi quel sandwich. – lo pregò John - In cambio ti darò qualcosa che vale mille dei tuoi preziosi e faticosi manicaretti.”

Paul guardò titubante l’espressione maliziosa dell’amico: non prometteva niente di buono. Tuttavia la curiosità in Paul era troppa: perché John era corso da lui, sfigurandosi mezza faccia? E che cos’era quel pezzo di carta stretto forte nella sua mano? Che cosa voleva da Paul? Con un gran sospiro, infine, Paul gli porse il panino e John lo afferrò con un agile e rapido movimento del braccio, divorandolo subito dopo in un sol boccone, sotto lo sguardo sconsolato di Paul.

Per tutta risposta John gli rivolse un ghigno soddisfatto e fece un vago gesto con la mano: “Non fare quella faccia, mi sdebiterò prima che il tuo stomaco possa protestare.”

Paul incrociò le braccia sul petto e si appoggiò allo stipite della porta.

“Sono tutt’orecchi.”

“Lo vedi questo?” gli domandò John, cominciando a sventolare il vaglia postale sotto il suo naso, mentre Paul lo fissava incerto.

“Cos’è?”

Questo, amico mio, è il biglietto per lasciare questa città di merda.”

L’incertezza sul volto di Paul divenne ora vera e propria perplessità. Aveva sempre considerato se stesso come uno dei pochi in grado di sapersi rapportare con John Lennon e soprattutto capirlo. Ma c’erano momenti, come quello a cui stava attualmente assistendo, in cui John arrivava e con la sua impetuosità lo travolgeva e lo lasciava interdetto. E Paul non sapeva mai cosa fare né cosa dire.

John sorrise fra sé e gli afferrò le spalle: “Paul, partiamo!”

Paul sbatté le palpebre e la sua doveva essere un’espressione davvero ebete perché tutto quello che riuscì a dire fu: “Eh?”

“Sinceramente, amico, ti credevo più sveglio.”

“Per essere sveglio ho bisogno di mangiare e qui c’è qualcuno che me lo sta non solo impedendo, ma mi sta anche sottraendo il cibo.”

John rise. Era così euforico che non si curava più di tanto del tono usato da Paul o delle parole che uscivano dalla sua bocca.

“Partiamo, andiamocene via da Liverpool.”

“Si può sapere che stai farneticando?”

“Non sto farneticando, ragazzino. Sto dicendo, vieni via con me.”

“Per andare dove con esattezza?”

“Non lo so, Francia o Spagna o… Trovato! Andiamo in Spagna. Con tutte quelle ragazze prosperose. Uh, il divertimento è assicurato. Che ne dici?” gli domandò poi, guardandolo impaziente e speranzoso.

Paul gli sorrise appena, prima di chinare il capo e arrossire lievemente: “La proposta è allettante, John, ma non posso, voglio dire… Lo sai che non abbiamo molti soldi…”

“Ehi, non mi sembra di averti detto ‘fatti dare i soldi dal vecchio Jim e partiamo’. Ho detto solo ‘partiamo’, non ti devi preoccupare di tutto il resto. Si è già preoccupato qualcun altro di questo. – gli spiegò, facendogli l’occhiolino e indicandogli il vaglia - Cento splendide sterline solo per noi. Regalo di compleanno anticipato, mio caro.”

Paul lo guardò davvero sconcertato per un istante, con la bocca semiaperta e il cuore che aveva perso un battito: “Mi stai dicendo che vuoi che venga con te e che non devo pagare nulla?”

“Sì, una cosa del genere.” rispose John, ridendo.

Era incredibile come in quel momento non riuscisse a smettere di sorridere, ridere, sentirsi così euforico ed elettrizzato per qualcosa che doveva ancora accadere.  

“Ma John! Sono soldi tuoi, dovresti usarli per te, metterli da parte per il futuro oppur-“

“Oh, smettila, stai cominciando a parlare come Mimi. Potresti evitare di rovinarmi fottutamente i piani? I soldi sono miei e ne faccio quello che mi pare e piace. E Paul, mi piacerebbe tanto fare una vacanza con il mio migliore amico.”

Aveva detto la parola magica. Anzi, le parole magiche. Sapeva che Paul non avrebbe resistito a quelle piccole, preziosissime parole, per tutti quei suoi pensieri struggenti per cui, nella sua opinione, John gli avrebbe preferito Stuart. Ma erano due cose diverse, agli occhi di John, erano due ruoli completamente diversi, quello di Stuart e quello di Paul.

Il sorriso che Paul trattenne sulle sue labbra fu ciò che gli confermò di aver colpito nel segno.

“Che sia chiaro, Paul, se non vieni tu, guarda che impiego meno di un secondo, a trovarmi un altro compagno di viaggio. Sono sicuro che a George piacer-”

“No, no, no, ci sto. – si affrettò a dire Paul, il viso improvvisamente in fiamme - Vengo con te.”

“Ottimo!”

“E’ solo che… mio padre, sarà difficile da convincere.”

“Sono sicuro che saprai fare del tuo meglio. Pensa a quello che ci aspetta: nuove eccitanti esperienze, ragazze, cibo che non puzza di porto, ragazze, nuovi generi musicali e… ho già detto ragazze?” domandò ridendo e la sua euforia riuscì a contagiare anche Paul, che si unì a lui.

“Vedrò cosa posso fare.”

“Ti conviene essere convincente, Paul. – esclamò John, afferrandogli il mento con una mano - Altrimenti ti rapisco e ti porto via lo stesso, principessa.”

Poi lo spinse lievemente con una mano sulla spalla.

“Vai da paparino, ora. Altrimenti col cazzo che ti manda, se ritardi ancora il suo pranzo.”

“John!” lo rimproverò Paul, a voce e con lo sguardo.

Il giovane ridacchiò e cominciò ad allontanarsi. Paul rimase sull’uscio di casa, guardandolo andare via.

“Mettiti gli occhiali per tornare, coglione, alle ragazze spagnole non piacciono i volti tumefatti.”

John, appena fuori dal cancelletto, indossò gli occhiali, si voltò verso di lui e gli sorrise, alzando il pollice. Messaggio ricevuto.

L’istante successivo John non c’era più, ormai era sparito dalla sua visuale, ma Paul aveva ancora lo sguardo fisso nel punto in cui l’amico si era fermato a sorridergli, incapace di muoversi, incapace di ascoltare qualunque altro suono che non fosse la voce di John illustrargli il suo invito gentile e il battito del suo cuore martellare nelle orecchie un po’ più veloce.

Sorrise liberando quel sorriso che poco prima si era costretto a trattenere, ripensando a tutte le volte in cui aveva dovuto nascondere a John e a chiunque altro, l’effetto che quel ragazzo con gli occhiali e il naso aquilino aveva su di lui. L’effetto che aveva su di lui da quando si erano incontrati, da quando la sua vita era cambiata in quella calda, afosa giornata di inizio luglio.

****

Schiamazzi di bambini che giocavano e richiami di madri forse troppo apprensive giungevano da qualche parte del cortile della chiesa, intorno a lui. Ma tutto arrivava a Paul come un unico suono ovattato, come se avesse appena immerso la testa in una bacinella piena di acqua tiepida e le voci, i rumori, giungevano alle sue orecchie come una vibrazione distorta e indistinta. La sensazione era rafforzata dal caldo atipico di quella giornata. Il sole splendeva alto nel cielo, riscaldando piacevolmente l’ambiente circostante, ma su Paul aveva un effetto maggiore. Piccole e numerose gocce di sudore gli imperlavano la fronte e il collo e lui era anche convinto di averne sentito una scivolare per tutta la lunghezza della sua schiena. Ma fintanto che il sudore non si appropriava anche delle sue mani, non era un problema per Paul.

Stava suonando e cantando “Twenty flight rock” con una chitarra che non era sua e si era dovuto arrangiare, imbracciandola al contrario.

Stava suonando con una dozzina di occhi puntati su di lui: c’era il suo amico Ivan, che l’aveva convinto ad accompagnarlo a quella festa e c’erano anche i componenti di quel piccolo gruppo di musica skiffle, che poco prima si era esibito alla festa, su un palco improvvisato. Paul aveva assistito alla loro performance con una concentrazione tale che in quel momento aveva fatto sparire tutto il resto: proprio lì, di fronte a quel palco traballante, Paul era rimasto in piedi, catturato dalla musica che stava ascoltando, risucchiato in un luogo dove c’erano solo lui e quei ragazzi, suoi coetanei, non molto diversi. Non si era mai sentito così entusiasta, così coinvolto da un gruppetto sconosciuto e sgangherato, il cui cantante non ricordava neanche le parole delle canzoni e suonava con una tecnica decisamente discutibile. Ma forse era proprio questo ciò che l’aveva colpito maggiormente. I Quarrymen, o come diavolo si chiamavano, non avevano paura di sbagliare, neanche di fronte a decine e decine di persone che erano lì, ad ascoltare loro. E non perché probabilmente la maggior parte degli spettatori non si sarebbe neanche accorta dei loro errori. Non avevano paura perché in quel momento non era importante, sbagliare o fare gli accordi giusti. Ciò che contava davvero era suonare, suonare per un momento in cui sparivano tutte le ingiustizie della vita, suonare insieme ai propri amici, condividere quell’emozione che probabilmente non avrebbe potuto ripetersi.

Lasciarsi andare e al diavolo tutto il resto! Lo sapeva bene il cantante del gruppo. Ivan lo conosceva, si chiamava John, gli aveva detto. E Paul l’aveva osservato divertito: un nome tanto semplice e comune per un ragazzo che era indubbiamente sicuro di sé e a giudicare da come si atteggiava su quel palco, con quelle movenze spavalde e quelle espressioni che sembravano prendere in giro il pubblico, piuttosto che ricercarne l’approvazione, anche alquanto eccentrico. Non poteva chiamarsi “solo John”. Sarebbe stato più appropriato qualcosa come Humphrey o Driscoll o, perché no, Gaylord. Insomma un nome che sarebbe rimasto impresso, un nome che potevi andare in giro a dire: “Ehi, conosco un tizio di nome Gaylord.” E qualcuno ti avrebbe inevitabilmente domandato: “E che tipo è?”, perché uno con quel nome doveva avere sicuramente delle caratteristiche uniche nel loro genere, che lo differenziavano da tutti gli altri. A quel punto potevi incominciare a sciorinare ogni più piccolo, succoso particolare del tizio in questione, sicuro di avere tutta l’attenzione concentrata su di te. Ma John? Non potevi dire: “Ehi, conosco un tizio di nome John.” Tutta la considerazione che potevi ricevere era un: “E allora? Io ne conosco sette.”

Forse anche John era dello stesso parere e per questo motivo stava puntando tutto sul proprio aspetto (capelli alla Teddy boy, decisamente alla moda), le espressioni del suo viso (ammiccanti e maliziose), la postura (audace e impertinente)… In qualche modo doveva catturare l’interesse di qualcuno, di chiunque. Beh, c’era riuscito. John aveva avuto tutta l’attenzione di Paul su di sé.

E ora John ricambiava il favore, fissando Paul con i suoi occhi magnetici, osservando ammaliato come le sue dita da mancino si muovevano abilmente sulle corde della chitarra, creando accordi diversi da quelli che John aveva imparato e sì, forse un po’ più corretti, ma giusto un po’. Era solo un ragazzino dopotutto. Quanti anni poteva avere? Quattordici? Non poteva sapere più cose di John, lui era già un uomo. Quel Paul ai suoi occhi era solo un bambino, un bambino che giocava con qualcosa più grande di lui.

Giocava bene, però, John doveva riconoscerglielo. Non l’avrebbe mai detto, quando Ivan li aveva raggiunti e interrotto i loro festeggiamenti per la riuscita del concerto, con il moccioso al suo fianco, introducendolo come “Paul McQualcosa”. John si era limitato a rivolgergli un vago cenno del capo, prima di tornare a immergersi nella sua birra e nei commenti post-concerto con gli altri membri del suo gruppo. Ma poi Ivan aveva aggiunto qualcosa sul fatto che anche Paul sapesse suonare la chitarra. John non vedeva proprio come questo potesse essere considerato un argomento di suo interesse. Molti ragazzi ormai sapevano strimpellare una chitarra, non era un fatto così impressionante. E se John lo desiderava, Paul poteva suonare qualcosa proprio lì, in quel momento, con la sua chitarra, la chitarra di John. No, John non lo desiderava, non lo desiderava affatto. Tuttavia non voleva guastarsi la festa sapendo di aver fatto piangere un ragazzino insicuro, a causa della sua scarsa considerazione. Perciò gli aveva consegnato la sua chitarra con uno sguardo che andava dal “se proprio devi farlo” al “ti spezzo in due se la graffi”.

Paul non era così insicuro come sembrava. Nel momento in cui la sua mano si chiuse sul manico della chitarra, la sua espressione cambiò improvvisamente. Come se avere quello strumento fra le mani significasse tutto per lui, significasse essere finalmente completo. John l’aveva percepito bene, questo cambiamento, perché era ciò che avveniva in lui ogni qualvolta imbracciava la sua chitarra e cominciava a suonare. Era ciò che contava davvero nella sua vita. Erano bastati un paio di accordi, le prime parole cantate per far capire a John che voleva quel ragazzo nella sua band e che questo non avrebbe potuto fare altro che migliorare la loro tecnica, le loro sonorità. Sarebbe stato come dare stabilità alla loro carretta scardinata, sistemare le viti delle ruote traballanti. Ma d’altra parte aveva anche paura. In quel momento Paul non sembrava poi così diverso da John nell’atteggiamento. Se l’avesse preso nel suo gruppo, avrebbe dovuto condividerne la leadership. Paul non era come gli altri, Paul aveva qualcosa, qualcosa che John cercava e temeva in qualunque altra persona al di fuori di se stesso: la sicurezza. Una cosa che John faceva solo finta di avere e che lì, di fronte a Paul che suonava in quel modo, era svanita all’improvviso, facendolo sentire ora incredibilmente nudo. Era assai probabile che alla fine Paul non solo avrebbe condiviso la leadership con John, ma avrebbe anche potuto usurparne il ruolo, relegando John a essere un semplice frammento di cornice a quel quadro di nome Paul McQualcosa.  

Cosa doveva fare? Cosa doveva fare ora che Paul aveva terminato la sua esibizione e tutti stavano guardando John?

Il giovane si scrollò le spalle, prese la chitarra e la consegnò a Pete. Poi avvolse un braccio intorno alle spalle di Paul.

“Quanti anni hai, ragazzino?” gli domandò, la bocca a pochi centimetri dal suo viso.

Paul aveva cercato, fallendo, di trattenere una smorfia disgustata: “Quindici.”

“Te ne avrei dati quattordici.” rispose John, colpito.

“Non vedo tutta questa differenza.”

“Forse perché non ti apparti mai in bagno da solo, è così?”

Paul sgranò gli occhi, arrossendo violentemente e John ridacchiò divertito insieme ai suoi compagni, dandogli una pacca sulla schiena.

“Ti va un po’ di birra?” gli domandò, offrendogli la bottiglia che aveva in mano.

“No, grazie.”

“Beh, allora…- sospirò John, prendendo un sorso della bevanda ambrata- Paul, è stato incantevole fare la tua conoscenza, ma sai, abbiamo un altro concerto stasera. Come qualunque artista che si rispetti, dobbiamo riposare e ritrovare la concentrazione.”

Paul annuì comprensivo, mentre John gli rifilava una potente pacca sulla spalla, e dopo un ultimo cenno ai ragazzi, si voltò e si allontanò. John lo seguì con lo sguardo. Senza che se ne accorgesse, un sorriso si era allargato sul suo volto e una decisione era stata presa nella sua testa e nel suo cuore, una decisione rischiosa. Ma se c’era una cosa di cui nessuno poteva dubitare, era che John Lennon amasse il rischio.

Anche Paul amava il rischio, non lo sapeva nessuno, ma c’era una parte di lui che era spericolata, intrepida. Era quella parte che l’aveva aiutato a suonare non bene, benissimo pochi minuti prima; quella parte che aveva ignorato, al suo posto, la pressione di quegli sguardi curiosi e sorpresi su di lui; quella parte che aveva litigato con il suo lato più coscienzioso, quando John si era avvicinato a lui e gli aveva parlato con il fiato intriso dell’alcol della birra. Avevano litigato infervorate perché se da un lato Paul pensava, “Ma che cazzo vuole questo coglione da me?”, dall’altro era sicuro che quel ragazzo non fosse come voleva apparire, che in lui ci fosse qualcosa di completamente diverso che attirava Paul, qualcosa che Paul avrebbe imparato ad amare, anche sotto quella coltre fetida di birra.  

John aveva qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.

****

E l’aveva cambiata davvero. Grazie a John, che l’aveva accettato nel suo gruppo, Paul aveva vissuto esperienze che altrimenti avrebbe potuto solo sognare. La sua vita era stata tutto un susseguirsi di eventi che l’avevano fatto crescere, maturare sia dal punto di vista musicale, sia da quello umano.

Paul era ora un giovane uomo  sicuro di ciò che voleva e lui voleva solo seguire John, dovunque fosse andato. In qualche strano modo, ogni volta che Paul accettava le proposte di John, quelle più eccentriche, così come quelle più ordinarie, non si pentiva mai.

E mentre sospirava, ancora in piedi nello stesso punto dove aveva visto sparire l’amico, Paul era certo che John non l’avrebbe deluso neanche questa volta.

 

 

Note dell’autrice #2: ebbene, via con uno. Sto cercando di attenermi il più possibile a fatti realmente accaduti, ovviamente per quanto possibile. Ho letto solo recentemente che i parenti che inviarono le famose cento sterline a John erano di Edimburgo. Naturalmente quando si tratta di Beatles non si è mai sicuri della veridicità di certe affermazioni, se qualcuno dovesse sapere con certezza che non fosse così, me lo faccia pure notare.

Bene allora ringrazio kiki che ha corretto e si è già letta quasi un terzo della storia. XD E ringrazio Lights per lo splendiderrimo banner.

Il prossimo capitolo si intitola “Sul cuscino”.

A presto

Kia85

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Capitolo 2
*** Sul cuscino ***




 

Ticket to Paris

 

Capitolo 2: “Sul cuscino”

 

“Che cazzo ha detto?”

La voce di John sembrò quasi un ringhio e Paul dovette zittirlo con una mano sulla bocca.

Shh! Hai promesso che non ti saresti arrabbiato.” gli ricordò, mantenendo la mano in posizione.

John lo guardò, aggrottando la fronte e rivolgendogli uno sguardo penetrante e assai infastidito. Come osava fargli una tale richiesta dopo quello che gli aveva riferito?

“John, ti prego. Se cominci a parlare a voce alta, sveglierai Mike e… papà.”

John guardò verso l’alto e fece scrollare le spalle, accogliendo docilmente  la preghiera di Paul. Dopotutto erano a casa McCartney, John era solo un ospite. Avrebbe dovuto comportarsi in modo educato, altrimenti chi la sentiva Mimi?

Avevano passato la sera ad ascoltare i dischi di Paul, suonare la chitarra e quando il signor McCartney gli aveva intimato di andare a dormire, avevano spento la luce e continuato a parlare e parlare e ancora parlare. Era passato solo un anno da quando John aveva deciso di rischiare e prendere Paul nella sua band, era solo da un anno che si frequentavano, eppure gli sembrava di conoscerlo da tutta una vita. Avevano gli stessi gusti, provato gli stessi dolori, ritrovato la gioia di vivere grazie alla musica…

Poi la conversazione aveva deviato verso la band, verso il loro futuro, ciò che ne sarebbe stato di quel piccolo gruppo, che prospettive avessero realmente… E nel bel mezzo di quello scambio di idee e sogni, Paul gli aveva riferito, ridendo e facendo prima promettere a John di non arrabbiarsi, una frase del padre: “Perché non vi liberate di John? È uno che porta guai.” (1) E John era semplicemente andato su tutte le furie. Era la band di John, nessuno poteva togliergli tutto ciò che stava dando un senso alla sua vita, tutto ciò che aveva costruito con fatica. Non riusciva a trattenersi quando si trattava di questo particolare argomento. Si arrabbiava e si arrabbiava ferocemente perché nessuno, a parte i componenti della band, poteva ficcare il naso nei loro affari e soprattutto dire ciò che dovevano fare o non fare. Poteva parlarne John, poteva parlarne Paul, potevano parlarne anche George e Colin ma nessun altro.

E Paul, subito dopo, lo rassicurò perché, “La band non va da nessuna parte senza di te!” e “L’ha detto solo perché non ti conosce ancora bene, John. Non ti conosce come ti conosco io.”

John ridacchiò e si stese sul letto, a pancia in su.

“Tu non mi conosci, Paul.” gli disse, scuotendo il capo, un sorriso sconsolato tirava le sue labbra.

Paul lo guardò preso in contropiede solo un istante, ma si destò immediatamente e si sdraiò accanto a lui.

“Sì, invece.”

Non era uno che si lasciava scoraggiare facilmente e John lo sapeva bene ormai.

“Ascolta, ti conosco, John, meglio di chiunque altro. Magari non lo ammetterai mai, ma non puoi neanche negarlo. Per esempio… so che entrambi impazziamo per Elvis e so che preferiresti andare a sbattere contro un palo della luce, piuttosto che indossare quegli stupidi occhiali.”

“Sì, ma non sai che spero di andare a sbattere contro un palo della luce per sistemare questo naso del cazzo che mi ritrovo.” esclamò John ed emise  un’altra piccola risata.

Paul rise con lui e si voltò appena per guardare il profilo del suo viso: “Stronzate. Lo fai perché speri sempre di incontrare la tua Brigitte Bardot dietro l’angolo. Cosa che, tra l’altro, lasciatelo dire, non accadrà mai, quindi mettiti l’anima in pace.”

“La speranza è l’ultima a morire, Paul, non lo sai?” affermò con enfasi, “Allora, dimmi, cos’altro pensi di sapere di me?”

“So che il tuo colore preferito è il verde, so che la mattina non rinunceresti mai a fare colazione con i cereali (2) e che in camera tua nascondi dei disegni di dubbio gusto.”

Paul trattenne una risata, portandosi una mano sulla bocca, e John lo guardò indispettito.

“Si chiama arte, Paul, tu, per caso, capisci qualcosa di arte?” lo prese in giro, sempre più divertito dal fatto che Paul credesse davvero di conoscerlo solo grazie a queste cose.

Ma Paul ignorò il suo prendersi gioco di lui, perché sapeva che era un’altra delle sue caratteristiche, scherzare su qualcosa che invece corrispondeva alla realtà, e continuò a parlare con un tono di voce più quieto, quasi riservato, ma anche sicuro di sé.

“So anche che la morte di tua madre ti ha sconvolto più di quanto tu stesso voglia ammettere…”

L’espressione di John cambiò drasticamente. Prima sorpreso, poi incredulo per il fatto che Paul si fosse addentrato, temerario, in un campo così ostile e pericoloso, lo sguardo di John, i lineamenti del suo viso divennero in un istante freddi e distaccati, ma per qualche strano motivo lui cercò comunque il suo sguardo. 

“Ragazzino.”

E Paul, incurante dell’aria minacciosa sul volto dell’amico, proseguì: “…e so che ti stai trattenendo dal mostrare quanto realmente tu stia soffrendo, perché credi che significherebbe mostrare a tutti la tua debolezza.”

John aggrottò la fronte e lo riprese, con un tono sempre più d’avvertimento, sperando che lui si fermasse, si fermasse subito, ORA, prima di farlo incazzare sul serio, prima di costringere John a chiudergli quella fottuta bocca con uno dei suoi pugni.

“Paul-”  

“Ma non è così, John, non devi avere paura, perché, sai,  ci vuole grande forza anche per lasciarsi andare, per dire che la vita fa fottutamente schifo, per piangere, per-”

John si voltò sul proprio fianco e gli afferrò la maglietta con le mani. Stronzo d’un Paul, perché non stava zitto? Perché stava portando allo scoperto qualcosa che John aveva faticosamente sotterrato, giù, in profondità, così profondamente che nessuno avrebbe più potuto trovare quella… cosa, e portarla fuori, lì, dove tutti, in particolare John, avrebbero potuto vederla. 

“John Lennon non piange, chiaro?” sibilò, un ghigno malevolo gli torceva le labbra, “Ficcatelo in quella zucca vuota che ti ritrovi e poi vai a farti fottere.”

Ma, nonostante quell’aria intimidatoria, quelle parole aggressive, quei gesti ostili, non un singolo brivido di paura attraversò il viso di Paul, che continuò a guardare John e parlare con lui serenamente, come se stessero ancora discutendo dei progetti della loro band, come se volesse fargli notare, dolcemente, che in realtà non aveva nascosto quel dolore così bene, che al contrario era lì, in superficie e solo Paul riusciva a vederlo.

Solo lui.

“Oh sì, invece, non desideri altro dalla morte di Julia, vuoi solo piangere, piangere fino a quando la testa fa male, fino a quando non ti rimangono più lacrime da versare per lei, perché lei non c’è più-”

“Chiudi quella cazzo di bocca!” gli intimò, stringendo intensamente la maglietta nei suoi pugni.

Sentì gli occhi inumidirsi e provò a fermare le lacrime imminenti, ma non ci riuscì, e la realtà era che non voleva fermarsi e Paul sembrava saperlo meglio di lui, perché vi era già passato. O forse perché lo conosceva davvero?

“…e tu non puoi fare nulla per riportarla indietro e ti disperi, impotente, pensando che non l’hai mai abbracciata abbastanza e che non sentirai più il suo profumo, quel profumo che da bambino era tutto ciò che serviva per calmarti. Non lo sentirai più, John, non la vedrai né toccherai più.”

“Ti ho detto di smetterla, stronzo!” sbottò John e lo spinse contro il muro, con meno forza di quella che aveva desiderato, con la vista annebbiata dalle lacrime mai versate, con il cuore che le stava spingendo fuori, nonostante tutto in John gli stesse urlando di non farlo, non lasciarsi andare di fronte a quel ragazzino.

Ma Paul ormai le aveva viste, le lacrime che avevano cominciato a scorrere sul viso di John e che andavano a morire sul cuscino.

“Sai che è così, John, e sai che non vuoi fermarmi perché ne hai bisogno, ne hai fottutamente bisogno.”

“Vaffanculo, Paul!” gli urlò, ma la voce gli uscì spezzata, a causa dei singhiozzi che stavano lentamente prendendo il sopravvento su di lui.

Infinito era l’odio che John provava per se stesso perché era debole, perché aveva combattuto tutta la sua vita per non essere così, per non piangere ogni volta che la vita gli riservava l’ennesimo, straziante torto; poi era arrivato Paul e con poche parole, con il suo tono pacato o forse con quella profonda comprensione che intravedeva nei suoi occhi, era riuscito a farlo crollare. John lo detestava, detestava tutto quello che riusciva a scatenare in lui in un modo così dannatamente facile.

“Ti prometto che andrà tutto bene, John, che se vuoi piangere, puoi farlo, perché anche a me viene voglia di piangere quando penso a lei. È solo… normale. E ti prometto anche che sarà il nostro segreto e che nessuno saprà che il grande John Lennon, colui che diventerà più famoso di Elvis, ha pianto sul letto del suo amico Paul McCartney, colui che diventerà anche più famoso del suddetto John Lennon.”

John, impotente, si lasciò scappare una risata, rifilandogli un debole pugno sul petto: “Sì, ti piacerebbe, eh?”

C’era un’altra cosa che detestava di Paul, e cioè come lui altrettanto facilmente potesse trasmettergli serenità e fiducia, in se stesso e nel futuro, come potesse infondere in lui tutti quei sentimenti positivi che John pensava di non poter provare e che, al contrario, sembravano sempre presenti in Paul.

“Sarà un segreto solo nostro, John. Fra me e te.” gli sussurrò, portandosi un dito alle labbra, “E il cuscino.”

Un’altra risata e poi si arrese e John pianse e pianse e Paul rimase al suo fianco, mormorando di tanto in tanto parole di conforto e piangendo con lui, per rassicurarlo che non era solo nel suo dolore, che non doveva necessariamente essere solo e che quando lo desiderava, poteva aggrapparsi a lui e condividere quella perdita a cui nessuno poteva porre rimedio.

E da quel momento John e Paul piangevano insieme per la morte e qualche volta ne ridevano anche insieme. Perché loro potevano farlo, ma questa volta solo loro e nessun altro, nessuno, neanche George o Colin. Solo loro due, su quel cuscino, che volente o nolente, accoglieva e cancellava le loro lacrime e le loro risate.

****

Paul accarezzò il cuscino su cui ogni sera riposava il capo e sospirò, ripensando ai numerosi e importanti eventi di quella giornata.

Aveva da poco terminato di parlare con suo padre per la questione del viaggio. 

Da quando, quella mattina, John lo aveva invitato a fare quel viaggio con lui, tutti i sentimenti in Paul si erano accesi e scatenati contemporaneamente, rendendolo fin troppo irrequieto: c’era l’eccitazione per una nuova, misteriosa avventura; poi il dolce tepore infuso da quelle poche parole che Paul aveva aspettato e desiderato sentirsi rivolgere e che finalmente John aveva liberato; e c’era anche il timore di dover comunicare a suo padre che stava per partire, chissà per quanti giorni e per dove esattamente, con quel ragazzo che proprio non gli piaceva.

Ma doveva farlo! Non poteva semplicemente prendere e andarsene di casa. Di sicuro al ritorno, la porta di casa sua sarebbe stata chiusa, forse per sempre.

Così, per tutto il pomeriggio aveva riflettuto e cercato di trovare le parole e il modo migliore per comunicare la notizia al padre. Non era mai stato tanto difficile, neanche quando aveva dovuto riferirgli dell’ingaggio di Amburgo. In fondo in quel caso si trattava di un lavoro, parola che piaceva assai al padre, e Paul magari avrebbe anche guadagnato qualche soldino. Ma questo? Era solo un viaggio, uno svago, non ne avrebbe ricavato proprio nulla, solo una colossale perdita di tempo. Gli sembrava quasi di sentirle già, quelle parole rivolte a lui, col tono sempre calmo di suo padre. “Perché sprecare il tuo tempo in questo modo, quando potresti trovarti un lavoro? Un lavoro vero.” Quel tono pacato che lo feriva molto più di una bella sfuriata, come facevano tutti gli altri padri del mondo. Ma Paul ormai vi era abituato, avevano già percorso molte volte questa strada e lui sapeva di non dover mai lasciarsi abbattere da ciò che suo padre pensava di lui, di ciò che faceva, di come si vestiva, degli amici che frequentava, perché dopotutto rientrava nel naturale conflitto generazionale tra genitori e figli. Era un concetto che gli ripeteva sempre John, forse in un modo un po’ troppo sgarbato a volte, ma Paul l’aveva capito e si fidava sempre di quello che John aveva da dire e offrire.

La sera, dopo aver cenato, dopo che Mike aveva dato la buonanotte ed era sparito su per le scale, Paul si era infine deciso a parlare, trovando il coraggio di affrontare suo padre da qualche parte dentro di lui. Dove esattamente non lo sapeva, ma sapeva che c’era e che l’aveva piantato John nel corso degli anni, fin dalla prima volta che lui aveva trovato la forza per lasciarsi andare di fronte a Paul, su quello stesso letto, sullo stesso cuscino. Ripensando a quel momento, Paul aveva informato il padre della sua intenzione di partire con John, con lo stesso tono, lo stesso atteggiamento che aveva usato con l’amico, deciso, non timoroso, ma anche tranquillo. Non doveva sembrare troppo arrogante e presuntuoso, ma neanche troppo sottomesso. Aveva diciannove anni ormai. Non gli stava chiedendo il permesso di partire, lo stava semplicemente informando per correttezza, tutto qua.

Suo padre non l’aveva presa bene, in un primo momento, ma non proprio per il motivo che si aspettava Paul. Non capiva perché John volesse spendere tutti quei soldi anche per lui. Se Paul l’avesse saputo con esattezza, avrebbe anche potuto rispondergli. Ma no, non lo sapeva e forse non voleva saperlo: John gli stava facendo questo regalo e Paul era sicuro che neanche lo stesso John fosse a conoscenza del motivo che l’aveva spinto a fare quella proposta, ma Paul l’avrebbe accettata, senza chiedere perché o percome.

A suo padre aveva rivolto semplicemente una scrollata di spalle e un orgoglioso, “Sono il suo migliore amico”, era una risposta niente male, anche se Jim gli aveva rivolto uno sguardo alquanto scettico. Paul non aveva capito se lo scetticismo del padre fosse dovuto alla risposta o all’evidente orgoglio che aveva accompagnato quelle parole. Tutto ciò che aveva capito era che il suo vecchio gli avesse rivolto un cenno del capo, un cenno che voleva dire inequivocabilmente ok e Paul aveva sentito una piccola parte di sé saltare per la sorpresa e per la gioia, mentre l’altra si preparava ad accogliere qualunque richiesta avesse dettato il padre, perché ci doveva comunque essere sotto qualcosa in cambio di quel via libera ottenuto così semplicemente. Per questo motivo Paul aveva accettato di fare i mestieri in casa per un intero mese, di cucinare per lui e Mike e soprattutto, considerato che il viaggio era pagato da John, di non ricevere neanche uno scellino da parte sua per questo viaggio. Nessun problema, avrebbe usato un po’ dei suoi risparmi. Tutto sommato, poteva andare peggio. Doveva ritenersi fortunato. Molto fortunato.

E ora se ne stava lì, sul suo letto, a guardare il soffitto, le mani ben infilate sotto il cuscino. Era così felice che se avesse lasciato la presa sul cuscino, avrebbe potuto sollevarsi a mezz’aria. Stava per partire con John e suo padre lo stava lasciando andare, senza nessun rancore. Stava per partire con John per la Spagna, in un lungo viaggio in cui avrebbero attraversato la Francia e magari avrebbero anche potuto vedere Parigi con il suo Moulin Rouge, i suoi Champs- Élysées e quell’ammasso di ferraglia, famoso in tutto il mondo come Tour Eiffel. Era solo ferraglia, ma l’avrebbe vista con John e John era in grado di far apparire come un capolavoro assoluto anche un mozzicone di sigaretta.

Paul pregustava già il divertimento che lo aspettando: sarebbero stati solo loro due, Paul e John, perché John aveva scelto lui per primo, aveva pensato al suo migliore amico. Il sorriso che nacque spontaneamente ripensando a quelle parole si spense quasi subito, quando una piccola vocina dispettosa cominciò a sussurrargli, diabolica, che John aveva scelto lui perché ormai Stuart non c’era più, perché il fottuto Stuart era rimasto ad Amburgo e John non poteva più contare sulla sua amicizia ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni alla settimana… Ma no, non era così. John aveva scelto Paul solo perché era Paul, non un ripiego, non il rimpiazzo di Stuart. Doveva essere così. 

La vocina diabolica continuava la sua cantilena e Paul strinse il cuscino sulle orecchie. La odiava, quella parte di sé che doveva sempre razionalizzare tutto e di conseguenza rovinare tutto. Perché non poteva essere solo come John? Istintivo allo stesso modo, menefreghista quando occorreva…

Poi si ricordò, si ricordò delle lacrime di John sul cuscino, di quel suo lato debole che mostrava solo a lui nelle notti disperate, si ricordò di tutto ciò che c’era dietro quel John e fu felice di essere Paul. Ricordò le parole strazianti di John, sul non essere desiderato dai propri genitori, sul fatto che non ci potesse essere dolore più grande. Lui, al contrario, Paul era stato amato dai suoi genitori, suo padre aveva sempre bisogno di lui e lo stesso valeva per Paul. Ricordò il modo tragico e improvviso in cui la morte aveva strappato Julia alla vita e a John, e ripensò a sua madre, all’essersi abituato lentamente alla sua morte e fu grato di averle potuto dire addio. Una pietà concessa a lui e non a John, un destino crudele che si faceva beffe di chi non meritava tali atroci sofferenze.

Era grato di essere Paul e lo sarebbe sempre stato, perché solo Paul avrebbe potuto avvicinarsi a John in quel modo. Se non fosse stato Paul, forse sarebbe stato solo “quello che suonava con John”, un misero conoscente o, al massimo, un amico come tanti, ma non il migliore.

Lui era il migliore, non c’era alcun dubbio.

Il migliore amico di John.

Sorrise, rilassato e soddisfatto per aver messo a tacere quell'odiosa vocina, e guardò l’orologio. Era appena passata mezzanotte. Non appena fosse sorto il sole, si sarebbe alzato e sarebbe corso da John per comunicargli la bella notizia e John sarebbe stato fiero di lui per come aveva affrontato il padre, per essere stato convincente e perché ora John non aveva bisogno di rapirlo.

Con l’euforia che scorreva nelle sue vene, Paul si voltò per stendersi sul fianco, nascondendo il viso nel cuscino e inspirando a fondo l’odore sulla federa. Poteva quasi sentire ogni singolo lamento, ogni singola risata sua e di John, poteva percepirne l’umidità, poteva udirne il suono, poteva sentire tutto ciò che quel cuscino aveva assorbito di John e Paul. La migliore ninna-nanna.

Sospirando, chiuse gli occhi, pronto per abbandonarsi ai suoi dolci sogni e sperò che la notte passasse presto, solo per poter parlare con John e dirgli…

“Vengo via con te.”          

 

 

(1)- Citazione presa dall’Anthology

(2)- Colore e cibo preferito di John sono stati trovati su una di quelle carte collezionabili dei Beatles degli anni ’60.

 

 

Note dell’autrice: sì, beh, non volevo aggiornare oggi, ma volevo festeggiare il meraviglioso banner che la mitica Lights ha fatto per me. Se avete bisogno di banner per la vostra storia, potete contattarla qui: https://www.facebook.com/pages/Banner-Lights/324802020873918?fref=ts

Allora, siamo al secondo capitolo. Tutto il ricordo iniziale è basato sull’Anthology, praticamente. Quando John e Paul ascoltavano la musica insieme e poi come ha detto John, piangevano della morte e ne ridevano ma potevano farlo solo loro e nessun altro.

Ringrazio kiki che ha corretto il capitolo e chi ha recensito o anche solo letto. ^_^

Abbiamo accennato in questo capitolo alla gelosia per Stuart, ebbene, la riprenderò nel capitolo 3, “Gelosia, folle gelosia”.

Buona domenica e alla prossima

Kia85

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Capitolo 3
*** Gelosia, folle gelosia ***




 

Ticket to Paris

 

Capitolo 3: “Gelosia, folle gelosia

 

“Sai che ore sono, Paul?”

Paul gli sorrise, squadrando John da capo a piedi: aveva ancora indosso il pigiama, gli occhi assonnati, i capelli arruffati e un paio di occhiali sul naso. Gli stava rivolgendo lo sguardo più seccato che gli avesse mai visto, ma a Paul poco importava perché la notizia che doveva comunicargli lo avrebbe rallegrato.

“E’ l’ora giusta per dirti che partiamo.”

“Questo lo sapevo già, idiota.” esclamò John, alzando gli occhi al cielo.

“Ma no, John. Partiamo!” ribadì lui, scandendo bene le parole, “Ieri sera l’ho detto a papà e non ha fatto storie. Mi lascerà venire con te.”

John si lasciò scappare uno sbadiglio come se non gliene importasse poi molto della notizia sensazionale di Paul.

“Oh sì, fantastico, Paul. Ora, se vuoi scusarmi, devo andare a dormire un altro po’.”

E fece per chiudere la porta, ma Paul rise e la bloccò con una mano: non era uno stupido, sapeva che John lo stava prendendo in giro e che stava facendo finta di non condividere il suo stesso entusiasmo. La verità era nei suoi occhi, gli occhi di John brillavano del suo spirito avventuroso che pian piano si stava risvegliando con lui quella mattina.

“Andiamo, John, non puoi dormire. Dobbiamo preparare un sacco di cose, organizzare il viaggio, decidere l’itinerario…”

“E dobbiamo farlo adesso? Adesso adesso?!”

Paul scrollò le spalle: “Certo, perché indugiare? Non sai che chi dorme non piglia pesci?”

“Se mi avessero dato uno scellino per tutte le volte che mi sono sentito rivolgere questo detto, a quest’ora sarei ricco, fottutamente ricco!”

John sbuffò e lo lasciò entrare, chiedendosi perché avesse scelto proprio Paul “il pignolo” McCartney per quel viaggio.

“Sua Signoria vuole concedermi almeno il permesso di lavarmi prima?”

“Oh, naturalmente.”

“Allora, vieni di sopra.” gli disse facendogli strada su per le scale, “Aspettami in camera mia.”

“Posso usare la tua chit-” cominciò subito a chiedere Paul con un sorriso a trentadue denti stampato sul viso.

Ma non fece in tempo a finire la frase, in quanto John si voltò bruscamente e gli puntò un minaccioso indice a un soffio dal suo naso: “Toccala e sei un uomo morto!”

“D’accordo.” esclamò Paul, ridendo, “Allora posso sfogliare i tuoi disegni?”

“Non li hai già sfogliati l’ultima volta che sei venuto qui?”

“E allora? Mi piacciono!”

“Ma non li trovavi di, aspetta com’era…ah! Di dubbio gusto?” gli chiese John confuso.

“Beh, un uomo non può cambiare le proprie idee?” ribatté scrollando le spalle.

John sospirò, mentre arrivavano in cima alle scale e raggiungevano la sua camera da letto.

“Va bene, allora, ma guai a te se tocchi altro.” gli rammentò dandogli un pizzicotto sul fianco.

Paul si contorse ridendo e gli promise che sarebbe stato un bravo, obbediente ragazzo e subito dopo, John si sfilò la maglietta, la lanciò violentemente addosso all’amico e sparì nel bagno. Paul sorrise fra sé, stringendo la maglietta fra le mani ed entrò nella stanza. Si guardò un po’ intorno. Come al solito, era in disordine: il letto era ancora disfatto, la chitarra fuori dalla sua custodia, sulla scrivania vi erano numerosi fogli, su cui vi erano riportate poesie o forse canzoni e i vestiti del giorno prima erano abbandonati un po’ sul pavimento, un po’ sulla sedia, un po’ dovunque fosse passato John. Se era vero che la camera di un ragazzo rispecchiava il suo animo, allora nel caso di John si poteva tranquillamente affermare che la sua camera da letto fosse la sua anima. C’erano così tante cose, sempre in costante disordine. Eppure in quel disordine, John riusciva a orientarsi molto bene e trovare ciò che cercava. Una volta Paul aveva provato a ordinare la sua scrivania, solo per fargli un favore, disponendo i disegni con i disegni e le poesie con le poesie, ma John si era arrabbiato moltissimo, perché li aveva sistemati con un criterio ben preciso e raggruppati in quel modo non avevano più senso. Gli aveva detto: “Perché deve essere sempre tutto bianco o nero per te? Esiste anche il grigio, sai?”

Era vero, in fondo, pensò Paul. Per qualunque cosa il suo approccio era sempre  totalmente interessato o disinteressato. Non aveva vie di mezzo. Quando qualcosa gli piaceva, allora vi dedicava tutto il tempo del mondo e avrebbe potuto parlarne per ore e ore. Al contrario, nei confronti di argomenti scomodi lui si chiudeva, ignorandoli come se non esistessero. Era sempre stato così e se ora stava cambiando era anche grazie a John. John aveva portato le sfumature nella sua vita, perché per lui esistevano solo quelle e niente era completamente impossibile né completamente fattibile. Le vie di scampo, le grane erano sempre pronte, dietro l’angolo, e Paul aveva imparato a riconoscerle.

Sorridendo per i suoi pensieri, si sedette sul letto, sprofondando nel soffice materasso e poi allungò una mano sotto il letto, lì dove John nascondeva il suo album degli schizzi. Era un piccolo quaderno con la copertina bordeaux, un po’ logora agli angoli e con alcuni sbaffi di tempera gialla, arancione e verde. Paul si sdraiò sul letto, appoggiando la testa sul cuscino e cominciò a sfogliare l’album. Non aveva problemi a dire che la prima volta che aveva visto i disegni di John fosse rimasto piuttosto spiazzato, proprio come quando l’aveva conosciuto. Non capiva esattamente quale fosse l’ispirazione o l’intenzione dietro al disegno. Cosa aveva portato John a disegnare quel particolare soggetto in quella particolare posizione? Poi osservando i diversi disegni, che ritraevano piccoli omini completamente nudi, pelati con pance prominenti, quasi degli uomini a forma d’uovo, aveva ridacchiato. Paul aveva imparato ad apprezzare quegli schizzi, con quello stile semplice e diretto, con quell’ironia che traspariva anche dalla sua arte, non solo dal suo modo di fare musica. Gli piacevano perché non era necessario trovare sempre una spiegazione all’arte, ma soprattutto perché quei disegni non rappresentavano nient’altro che ogni minimo particolare che passava per la testa del loro autore. Quelle scene, surreali certo, erano perfettamente nitide dentro di lui, John le vedeva con gli occhi della mente e rapidamente le riportava su carta, senza esitazioni. Il suo tratto era deciso, quasi elegante… perfetto! E sì, Paul trovava l’arte di John assolutamente affascinante.

“Questo è nuovo?” chiese, quando John entrò in camera e cominciò a vestirsi con un paio di jeans e una maglietta.

“Sì, l’ho fatto ieri sera.”

Paul si mise a sedere, continuando a guardare il disegno: c’era uno di questi omini pelati simili a uova, che suonava la tromba per chiedere l’elemosina e in mano aveva un bastone e il guinzaglio di un cagnolino. (1)

“Senti, John, se non riusciremo a sfondare con la band, potresti provare a farlo con questi. Magari riesci a piazzarne qualcuno come ha fatto Stuart (2).”

John scoppiò a ridere, mentre si infilava gli stivali e quasi perse l’equilibrio: “Sì, certo. Come se qualcuno fosse interessato a comprare questa merda.”

“Perché no? Riesco già a vederla, la mostra delle opere del grande John Lennon. E le file per poter entrare per dare solo un rapido sguardo ai tuoi disegni.”

“Ragazzino, ti ho già proposto di partire con me, puoi anche smetterla di leccarmi il culo, anche perché l’ho appena lavato.”

“Ma dico sul serio, John.” protestò Paul sinceramente.

John gli si avvicinò e lo guardò per un lungo istante, con una sorta di tacita gratitudine negli occhi; poi sorrise, scompigliandogli affettuosamente i capelli con una mano e facendo comparire sul suo volto una smorfia infastidita.

“Piuttosto, che ne dici di cominciare a spendere un po’ di queste sterline?”

La domanda spazzò via in un battibaleno il fastidio che Paul stava provando dal momento che i suoi capelli non erano più ordinati come lui li aveva pettinati.

“Dico… grande!”

“Andiamo allora.”

John gli fece cenno di uscire e Paul sistemò l’album sotto il materasso, al proprio posto. Poi si alzò e seguì John fino al piano di sotto.

“Esattamente dove stiamo andando?” gli chiese mentre uscivano di casa.

“Pensavo che, considerato che dovremmo muoverci con l’autostop, ci conviene essere presentabili. L’aspetto da Teddy boy non è particolarmente raccomandabile, ti pare?” gli fece notare John e poi sbuffò terribilmente contrariato.

“Cosa proponi allora?”

“Ragiona, Paul, qual è l’inconfondibile segno di riconoscimento del classico gentiluomo inglese?”

Paul ci pensò un po’ su, portandosi un dito sulle labbra. Poi la risposta gli balenò nella testa, come un fulmine a ciel sereno.

“La bombetta!”

“Esattamente.” esclamò John e gli diede una sonora pacca sulla spalla, “Recuperiamone un paio, che ne dici?”

Paul scoppiò a ridere: “Mi sono sempre chiesto come sarei sembrato con una bombetta in testa!”

“Come un coglione, Paul. Ma ci serve.” gli disse John, afferrandogli la manica della giacca e tirandolo per affrettarsi.

Paul annuì e tenne il passo. Poi all’improvviso si ricordò di una sua grave mancanza nei confronti di John, una mancanza a cui doveva assolutamente porre rimedio. Come aveva potuto non rivolgergli quella parola dopo tutto quello che John stava facendo per lui?

“John?” lo chiamò Paul, fermandosi in mezzo alla strada.

“Mm?”

“Grazie.”

L’amico si voltò a guardarlo con un’espressione sorpresa e divertita nello stesso momento: “Per cosa?”

“Per aver scelto me.”

 “Chi altri avrei dovuto scegliere?” gli domandò lasciandosi scappare una risata, come se credesse che Paul non stesse parlando sul serio, che fossero ancora in modalità “burloni”.

Ma Paul arrossì e scosse il capo, evitando lo sguardo di John: “Nessuno, John. Nessuno.”

Ma John era riuscito a vederlo, il dubbio negli occhi di Paul, il dubbio reale che Paul stava goffamente cercando di nascondergli. E non era solo nei suoi occhi, era scritto su tutto il suo volto chi altri John avrebbe potuto scegliere.

Stupido ragazzo.

John sorrise lievemente.

“Paul, lo sai che, anche se ci fosse stato lui, avrei scelto sempre te?”

****

Eccolo lì. Stuart non-azzecco-una-nota-una Sutcliffe.

Più Paul lo guardava, più sentiva ribollire in lui il sangue. Stuart non era mai stato un grande bassista, anzi, poteva affermare benissimo che non fosse neanche un musicista. Era nella band perché era il migliore amico di John. E quella era decisamente una ragione molto valida, con tutta la storia che la band era di John e bla bla bla vari…

Peccato che l’unico vero contributo che Stuart stava dando al gruppo fosse il richiamo di un flusso costante di ragazze, perché lui era quello più bello, più elegante, più pacato. Era quello che dopo ore e ore di suonare e cantare, era ancora perfettamente asciutto, pulito e profumato, mentre tutti gli altri sembravano aver partecipato alla maratona delle Olimpiadi. Come faceva? Come-cazzo-faceva? Dopo ogni esibizione Paul puzzava come se non si fosse mai lavato in vita sua. Fortunatamente era una questione che sembrava non importare alle ragazze che rimorchiava ogni sera. Dopotutto, anche lui aveva un fascino niente male. Era un aspetto di se stesso che aveva cominciato a notare quando era entrato a far parte della band di John. Aveva cominciato a notarlo e soprattutto aveva cominciato a curarlo. Quando ti esibisci su un palco non basta il talento, conta molto anche l’aspetto esteriore e Stuart era l’esempio perfetto. E quando ti esibisci di fronte a ragazze in preda agli ormoni, il talento conta ancor meno.

Tuttavia Paul non si impegnava a suonare per questo genere di pubblico. O almeno non solo per loro.

Avevano da poco terminato di esibirsi per quella notte. Come al solito c’era un gruppo di pollastrelle tedesche in attesa di fiondarsi su di loro, e da come John e George ammiccavano fra loro, anche quei due sembravano impazienti di tuffarsi in quell’attività post-concerto. Paul non era da meno ovviamente, ma prima sentiva il bisogno impellente di far notare a tutto il gruppo una certa questione.

“Abbiamo fatto fottutamente schifo questa sera!” sbottò adirato, mentre ognuno riponeva il proprio strumento nella custodia.

“Cosa? No, non è vero.” ribatté John, sorridendo.

“Sì, invece, George era completamente scordato-”

“Ehi, vaffanculo, sono le corde nuove!” protestò accaldato il componente più piccolo della band.

Ma Paul lo ignorò e proseguì, rivolgendosi a John: “Tu hai dimenticato le parole di ‘Sweet little sixteen’ e non fammi parlare di Stuart, perché altrimenti restiamo qui per tutta la notte.”

“Paul-” cominciò John, con il tono di chi stava per affrontare una questione trita e ritrita, ma fu interrotto da Stuart che lo affiancò.

Sul suo bel viso vi era la più serena delle espressioni. Tutto l’opposto, invece, mostrava il viso di Paul.

“No, John, lascialo parlare. Sono curioso di ascoltare ciò che ha da dire il nostro piccolo amico.”

Paul corrugò la fronte ancor di più, se fosse stato effettivamente possibile, e le sue mani si strinsero immediatamente in pugni: “Lo sai che cazzo devo dire, che suoni di merda e che con te nel gruppo non riusciremo mai a sfondare, che a causa tua resteremo sempre bloccati in questi locali squallidi, a suonare per un piatto di fottuti fagioli. Non è questo il mio obiettivo e non starò a guardare mentre tu rovini le nostre vite e ci-”

“Finiscila ora!” lo interruppe bruscamente John, evidentemente turbato dalla situazione che stava degenerando.

Al suo fianco Stuart ridacchiava estremamente allegro: “Sei davvero uno spasso, Paul. Potrei farmi la ramanzina da solo ormai, dici sempre le stesse cose.”

“Almeno qualcuno lo dice in questo gruppo di merda. Nessuno ha il coraggio di farlo, a quanto pare, vero, John?”

“Oh, Paul, suvvia…non tirare in ballo il povero Johnny. Non è mica colpa sua se sono io a sbagliare.”

“Ma è colpa sua se sei nella band.”

“John mi sta dando una possibilità perché sono il suo migliore amico, Paul.” commentò Stuart, guardandolo con un’aria e un sorriso che agli occhi di Paul parvero di sfida.

E insieme alle parole che Stuart aveva pronunciato, ‘migliore amico’, quella sfida lo colpì in pieno petto con la lama infuocata della gelosia. Non era nient’altro che gelosia, folle, sconvolgente gelosia. La gelosia che lo rendeva cieco, la gelosia che Paul non aveva mai provato in quel modo morboso per qualcuno e che provava ora per John.

“Ma tu non la stai sfruttando e di certo non lo stai ripagando per la fiducia.”

Stuart rise nuovamente: “E chi sei tu? Il suo avvocato difensore?”

E con queste ultime parole, Stuart avvolse un braccio intorno al collo di John. Paul non ci vide più. Non era l’avvocato difensore di nessuno, anzi, forse lui avrebbe dovuto cercarne uno dopo quello che aveva intenzione di fare.

Si lanciò su Stuart ed entrambi caddero per terra con un tonfo sordo, tra gli sguardi sbigottiti degli altri componenti della band. Paul aveva cominciato a sfogare la sua rabbia sul ragazzo sotto di lui, con pugni ben piazzati sull’elegante mascella di Stuart. Il suo contendente non rimase a guardare, scalciava alla cieca, nella speranza di colpire il suo aggressore e con le mani cercò di afferrarlo per le spalle. Quando ci riuscì, ribaltò le loro posizioni e l’istante dopo, fu lui quello a riversare una scarica di pugni sul bel viso di Paul. I loro compagni cercarono di farli ragionare a parole, ma accorgendosi che nulla avrebbe potuto fermare i due folli rivali e notando che il sangue era magicamente apparso sul labbro dell’uno e dell’altro, decisero di intervenire fisicamente. George e Pete afferrarono Stuart, attirandolo lontano da Paul, mentre John agguantava il ragazzino che aveva scatenato per primo quella rissa e lo costringeva ad alzarsi. Poi lo spinse malamente  giù dal palco.

“Vai a farti un giro, Paul, e cerca di schiarirti le idee.” sbottò infastidito John.

Paul si asciugò il sangue sul labbro e lo guardò, come se fosse stato John a causargli quella ferita. E in un certo senso era proprio così. L’aveva appena fatto, prendendo le difese di Stuart prima, con le sue parole piene di rancore ora, con il suo spintone arrabbiato. L’aveva ferito. No, non sul labbro. L’aveva ferito più in profondità, molto in profondità, dentro di lui.

“Sì, certo, tanto lo sapevo.”

John guardò l’espressione afflitta sul volto dell’amico e sospirò esausto, passandosi una mano fra i capelli: “Cosa?”

“Che avresti scelto Stuart, John. Scegli sempre Stuart.”

****

Paul annuì timidamente sotto lo sguardo sincero e ardente di John.

Ma certo che avrebbe scelto Paul, era stato John a sceglierlo come suo compagno di band e l’avrebbe scelto per sempre. John l’aveva voluto al suo fianco. Con Stuart era completamente diverso. Stuart era capitato nella sua vita, come la maggior parte delle persone capitano nella vita di chiunque. John aveva fatto amicizia con lui a scuola e lo riteneva certamente uno dei suoi amici più cari, ma non l’aveva scelto lui per primo.

E chissà se Paul sarebbe mai riuscito a capire quella piccola, grande differenza, chissà se quella stupida, inutile gelosia che provava per lui sarebbe mai cessata. Una piccola parte di John si sentiva così incredibilmente lusingata dal fatto che Paul tenesse tanto a lui e che probabilmente avrebbe trascinato con sé quella gelosia per tutta la sua vita; ma tutto dentro di lui gli urlava che Paul fosse solo uno stupido ragazzino perché provava un sentimento del genere nei suoi confronti, che sprecasse tempo ed energie a ricercare così ossessivamente l’affetto e l’attenzione di John, perché in realtà non ne valeva la pena. John era solo uno stronzo epocale che non meritava neanche lontanamente di stare con Paul e si meravigliava che lui gli offrisse un’amicizia così pura e sincera, così fondamentale ormai per la sua vita, che sarebbe stato John a soffrire per primo nel non avere Paul sempre al suo fianco.

Per questo l’aveva scelto e avrebbe continuato a farlo per tutta la sua vita, anche quando Paul si fosse stancato di lui o quando avesse trovato una ragazza tutta per sé.

“Bene, allora proseguiamo e guai a te se rompi ancora con questa storia del cazzo. Chiaro?”

“Cristallino, John.” rispose Paul, con un sorriso decisamente più rincuorato.

Ripresero a camminare e John cominciò a illustrargli i suoi progetti per il viaggio. Avrebbero fatto l’autostop fino a Dover e poi preso il traghetto per Calais ( “Traghetto? Mi verrà di nuovo il mal di mare, John!”, “Preferisci farla a nuoto? È un bel pezzo fino a Calais.”, “Il traghetto andrà più che bene, John.”) e da lì di nuovo autostop. Paul era così eccitato mentre ascoltava John e fu grato di stare camminando, perché sentiva il bisogno di muoversi in qualche modo, con qualunque parte del suo corpo. Non era solo a causa del loro viaggio imminente, era anche dovuto a quello che gli aveva detto John.

John non era mai stato uno a cui piaceva parlare dei propri sentimenti e faceva fatica a mostrare quanto tenesse a una persona, Paul lo sapeva bene. Lo sapeva perché aveva lasciato che John lo prendesse in giro per quella sua folle gelosia e qualche volta John aveva usato anche parole forti da rivolgere contro di lui, parole che Paul non si aspettava, ma era arrivate e lui le aveva accolte pazientemente, senza rispondere, perché quello era solo il modo di rapportarsi di John. Così come sapeva essere il ragazzo allegro e dolce che si precipitava dal suo migliore amico per chiedergli di partire con lui, poteva anche diventare scorbutico, violento e pesante quando indirizzava a Paul appellativi poco cortesi e no, non in un modo scherzoso. Eppure Paul sopportava tutto, perché quando decidi di stare con qualcuno, devi accettare ogni parte di lui. E Paul aveva accettato il sole di John così come le sue tenebre.

Per questo motivo, sentirgli dire ora, che avrebbe scelto Paul su chiunque altro lo aveva letteralmente mandato in estasi. Avrebbe voluto mostrargli chiaramente come si sentisse, avrebbe voluto scrivergli una canzone per arrivare a lui, ma si trattenne, altrimenti poi John lo avrebbe preso in giro e non era una cosa su cui lui volesse essere preso in giro. Era il sentimento d’amicizia più caro che avesse e in quanto tale lo custodiva come il tesoro più prezioso, dentro di lui, al sicuro da chiunque avesse voluto distruggerlo senza pietà.

Così seguì John quando si infilò nel primo negozio di cappelli che incrociarono per strada, lo seguì per provare quelle bombette così tipicamente inglesi ( “Mi va piccola”, “Non dovresti sorprenderti, John, con il testone che ti ritrovi!”, "Stu, oh Stu, torna da me! Tu sì che eri un vero amico…"), lo seguì quando pagarono i due cappelli alla cassa. E poi il suo sguardo fu così attento, così preso da come il cappellaio stesse impacchettando le bombette che improvvisamente perse di vista John. Paul si guardò intorno nel locale e non lo vide: doveva essere uscito. Prese le due scatole, salutò e ringraziò l’uomo e uscì dal negozio. John non era da nessuna parte per strada, né nel negozio vicino.

Dove diavolo era finito?

Infine lo vide, in un vicolo che costeggiava il negozio di cappelli, fra le braccia di una ragazza con la gonna che arrivava alle ginocchia, un maglioncino di lana soffice e i capelli lunghi e biondi, John fra le braccia di Cynthia, sulla sua bocca, con le mani dovunque sulla sua schiena.

Paul indietreggiò subito, rendendosi conto che nonostante tutto, John non avrebbe potuto scegliere sempre lui, che qualunque cosa John gli avesse detto, Paul sarebbe stato solo il suo folle amico geloso e lo sarebbe stato per sempre.

 

 

(1)- Il disegno descritto lo trovate qui: http://articles.latimes.com/2010/oct/08/entertainment/la-et-lennon-20101008

(2)- Nel 1959 Stuart riuscì a vendere uno dei suoi quadri per la cifra di 65 sterline. Dopo essere stato convinto da John e Paul, Stuart utilizzò quei soldi per comprare un basso che gli permise di entrare nella band.

 

 

Note dell’autrice: e quindi siamo al tre e alla gelosia di Paul. Povero piccolo! Mi sembra di aver letto sull’Anthology che lui non è mai riuscito a superare questa gelosia. Urca! XD

Chiedo venia per il tipo di linguaggio usato, è il motivo principale per cui ho messo il rating arancione (insieme a qualche scena di risse, che tra l’altro non sono neanche brava a descrivere, ahi ahi!). Ma dopotutto, usare “perdindirindina” invece di un più esplicito “c***o” mi sembrava non onorare appieno i protagonisti.

Ok, ringrazio kiki che corregge i capitoli e mi incoraggia sempre. J E anche tutti quelli che recensiscono o leggono semplicemente.

Nel prossimo capitolo, “Pronti a tutto”, è ora di partire… un piccolo indizio sul flashback: le parole Nerk Twins vi dicono qualcosa? ;)

Buona giornata

Kia85

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Capitolo 4
*** Pronti a tutto ***




 

Ticket to Paris

 

Capitolo 4: “Pronti a tutto”

 

Il Fox and Hounds era un pub nel quartiere di Caversham (1). Non era certamente il pub più conosciuto, ben curato e pulito del sobborgo, ma Paul poteva affermare senza alcun dubbio di aver frequentato locali molto più squallidi e maleodoranti nella sua ancora giovane vita.

Con le vacanze di Pasqua era giunta anche la proposta della cugina Betty di lavorare nel pub che gestiva con suo marito Mike. “Tanto, Paul, non hai niente di meglio da fare.” Beh, questo lo pensava lei e forse anche suo padre, ma non lui. Aveva le prove della sua band e poi c’era Dot, non poteva lasciare a se stessa quella povera ragazza. Come avrebbe fatto senza Paul? Lui avrebbe anche potuto sopravvivere per qualche giorno senza i suoi baci appassionati e le sue carezza audaci, ma lei? Dot si sarebbe chiusa in camera sua a piangere e disperarsi per la mancanza del suo splendido ragazzo. Non avrebbe avuto neanche voglia di uscire per rimorchiare qualche altro mocciosetto con cui passare la serata, perché una volta che assaggi Paul McCartney, tutti gli altri impallidiscono nel confronto, tutti gli altri sarebbero stati insulsi, insignificanti, insipidi e molti altri insulti che iniziavano con “in-”.

Alla fine, aveva accettato la proposta di lavoro, costretto soprattutto da suo padre, e Paul aveva pensato bene di trascinare con sé anche John, così almeno il viaggio non sarebbe stato una noia totale. E difatti era stato piuttosto divertente, oltre che stancante, fare l’autostop da Liverpool fino a Caversham. Poi, una volta giunti al pub, il divertimento era svanito e loro erano stati relegati dietro il bancone del pub a lavorare, servendo i clienti, lavando le stoviglie, buttando la spazzatura e molto spesso pulendo i servizi igienici. Decisamente un duro lavoro, ma la compagnia di John rendeva tutto più sopportabile, anzi, diventava quasi piacevole lavorare al suo fianco dietro al bancone, con John che, spietato, commentava le ordinazioni dei clienti e faceva ipotesi improbabili sulle loro vite private. 

Poi un giorno Mike aveva proposto a Paul e John di suonare proprio lì, nel suo pub, il sabato sera. E loro avevano accettato senza remore, ben lieti di potersi esibire per un pubblico e fare pratica, evitando quindi di far ristagnare le loro doti artistiche. Fortuna che avevano portato con loro le chitarre, le loro immancabili compagne per qualunque viaggio. In men che non si dica avevano trovato un nome per il loro duo, i Nerk Twins, e avevano suonato e cantato in quel piccolo, sconosciuto pub, disperso da qualche parte in Inghilterra. Avevano cantato senza microfoni, sgolandosi per un pubblico che forse non li apprezzava particolarmente, ma almeno li stava ad ascoltare, senza lanciargli addosso il primo oggetto a portata di mano. (2)

Paul ripensò alla sera precedente, mentre sciacquava nel lavandino le pinte per la birra e le sistemava negli scaffali. I Nerk Twins non erano niente male, avevano un loro fascino, pur essendo solo in due. Certo, all’inizio era stato strano, erano troppo abituati alle sonorità di un gruppo più completo come quello a cui erano così legati e che ancora non aveva trovato il suo nome definitivo. Tuttavia Paul doveva ammettere che funzionavano anche in due e ora era riluttante ad ammetterlo, ma si era divertito molto di più a suonare solo con John, improvvisando insieme a lui, potendo contare solo sul suo supporto, sul suo sguardo d’incoraggiamento… Era stato magico.

“Ehi, pupa!”

La voce familiare giunse alle spalle di Paul e lui si voltò, guardando esasperato John e portando le mani sui fianchi in un totale atteggiamento da “non è divertente”. E non lo era affatto!

“Oh, mi perdoni, signore!” esclamò l’amico, portandosi una mano sulla bocca, “L’avevo scambiata per un’appetitosa pollastrella!”

John si sedette al bancone, ridendo della propria battuta. Fu l’unico, perché Paul lo stava guardando con un profondo cipiglio sul volto, pur non essendo realmente offeso.

“Dove sei stato?”

“A pulire quei cessi che, lasciamelo dire, ma mai la definizione ‘di merda’ è stata più appropriata.” spiegò lui con la smorfia più disgustata che Paul avesse mai visto sul suo viso.

In quel momento, con quell’aria sofisticata, quasi altezzosa, la differenza di classe sociale tra lui e Paul si fece più evidente. Era una cosa che John cercava di nascondere, comportandosi come uno che veniva dalla classe operaia, uno come Paul. Ma la realtà era che John era più borghese di quanto desiderasse e Paul ridacchiò quando i suoi lineamenti mostrarono quel lato di sé che John cercava di nascondere.

 “Sporco lavoro, eh?”

“Puoi dirlo forte, dolcezza. Stavo per vomitare.” sospirò e lasciò cadere la testa sul bancone, “Ora servimi qualcosa da bere, sto morendo di sete.”

“Cosa preferisci?” domandò, recuperando un bicchiere pulito.

“Quello che preferisci tu. Ti lascio carta bianca.”

Paul annuì e pensò per pochi istante a cosa potesse preparare per dissetare l’amico esausto e nauseato. L’idea che gli balenò nella mente a quell’immagine calzava a pennello e il ragazzo cominciò a preparare una bevanda che avevano conosciuto solo lì, una bevanda tipica di Londra e dintorni: il Pimm’s (3). Lo servì a John con l’aggiunta di un po’ di whisky, che John apprezzava particolarmente.

“Ecco a te.”

John alzò la testa e osservò il bicchiere con il liquido ambrato, i cubetti di ghiaccio, una fetta d’arancia e una foglia di menta. E poi, incuriosito, guardò Paul.

“Perché?”

“Perché cosa?” ribatté Paul, confuso.

“Perché hai scelto proprio questo?” domandò, appoggiando il capo sulla mano.

“Mm, fammi pensare, perché è snob ed elegante come te-”

“Io non sono snob!” protestò John accalorato.

“Lo sei, John, lo sei.” ribadì Paul, annuendo, “ Ma soprattutto l’ho scelto perché, com’è che ha detto Betty…sì, è quello che ‘piace alla gente che piace’. Niente di più adatto al grande John Lennon, no?”

John sbuffò: “Io non piaccio.”

Paul si lasciò scappare una risata e appoggiò i gomiti sul bancone: “Tu piaci eccome, John.”

“No, non è vero.”

“Sì, invece. Tu piaci a tutti, John, solo che non tutti sanno quanto gli piaci, anche se ti rispondono o trattano male: fanno così perché gli piaci così tanto da spiazzarli e loro non sanno proprio come rapportarsi con te. Il fatto è che mandi tutti in confusione, John.” spiegò Paul, sorridendo divertito.

John sembrava perplesso, quasi disorientato: era convinto che Paul lo stesse prendendo in giro, ma quella non era la faccia di chi lo stava prendendo per i fondelli su uno degli argomenti che più lo turbavano.

“Anche tu?”

Glielo chiese con una punta d’innocenza così strana da sentire nella sua voce che sì, anche Paul andò in confusione. Solo per un attimo, si capisce. Lo guardò con gli occhi spalancati per quell’attimo e poi scoppiò a ridere.

“Ammetto che forse il giorno in cui ci siamo incontrati, potresti avermi spiazzato giusto un po’, niente di più. Ma poi ho imparato a conoscerti e no, John, io sono l’unico che non potrai mai mandare in confusione.”

“Però ti piaccio lo stesso?” domandò speranzoso.

E Paul, a quella speranza che lo fece sorridere, annuì: “Ma certo, John, certo che mi piaci.”

John sorrise, compiaciuto, e il suo sorriso permase mentre appoggiava le labbra sul bicchiere e gustava la fresca bevanda. Il suo sapore terribilmente amaro, in un primo momento, si trasformò poi in qualcosa di estremamente dolce e fruttato e il profumo intenso del liquore stuzzicò piacevolmente le sue narici. 

Mentre beveva, guardò Paul, tornato nel frattempo al suo lavoro. Oh, quel piccolo furfante! Aveva mentito, aveva mentito a John, proprio a lui, perché sì, John gli piaceva e sì, John mandava anche lui in confusione. Solo che Paul sapeva come nasconderglielo e negli anni John aveva imparato a riconoscere quando lo faceva, aveva imparato a riconoscere il modo in cui il suo atteggiamento si affrettava a mostrare esattamente l’opposto di ciò che era scritto nel suo sguardo, perché gli occhi di Paul non mentivano mai, erano ciò su cui John faceva sempre affidamento, ciò che gli permetteva di comprendere appieno Paul e quello che provava, quello pensava, quello che desiderava… Non era forse anche questa una delle caratteristiche di Paul che piacevano di più a John?

“Anche tu mi piaci, Paul.” disse a bassa voce, il bicchiere ancora sulle labbra.

Paul si voltò e gli rivolse uno sguardo confuso: “Hai detto qualcosa?”

John sorrise con un ghigno quasi sardonico.

“Sì, ho detto che quel grembiulino ti sta una meraviglia, cara. Sei proprio una donnina da sposare, Macca.”

Paul sospirò esasperato e alzò gli occhi al cielo.

“John, tesoro, lascia che te lo dica una volta per tutte: vai a farti fottere!”

“Credo che questo sia impossibile, ragazzi.” s’intromise una voce maschile.

I due ragazzi si voltarono per vedere Mike, il marito della cugina Betty, avvicinarsi con passo affrettato. Il suo sguardo cadde sul bicchiere fra le mani di John e sul suo volto apparve all’istante una severa espressione di rimprovero.

“Stavamo solo scherzando, Mike.” spiegò Paul.

“Beh, allora, invece di fare gli spiritosi, preparatevi perché voglio che suoniate ancora fra dieci minuti.”

“Ora? Ma non c’è nessuno!” protestò Paul, indicando il locale che era praticamente vuoto, se non si contavano tre uomini seduti ognuno in tavoli diversi, con l’unica compagnia di una pinta di birra.

“E’ ora di pranzo, qualcuno arriverà di sicuro. Stesso repertorio di ieri sera, ragazzi. Partite con ‘The world is waiting for the sunrise’ e poi ‘Be bop a lula’.”

“Va bene.” disse John, incrociando le braccia, “Ma se vuoi che ci esibiamo anche oggi, devi sganciare dieci sterline, cinque a me, cinque a Paul.”

Gli occhi di Mike si spalancarono profondamente indignati e lo stesso accadde a Paul, ovviamente  per la sorpresa.

“Cosa?”

“Prendere o lasciare, amico. Non mi esibisco con il mio compare gratuitamente. È solo una questione di rispetto del mio lavoro.”

Mike lo guardò intensamente. Il disappunto era svanito dal suo volto e aveva lasciato il posto a qualcosa di molto simile all’interesse.

“Tre sterline.” rilanciò.

“Otto.”

“Quattro e vi pago il treno per il ritorno.”

“Affare fatto.”

“Bene, allora preparatevi.”

Mike se ne andò e Paul guardò John solo un secondo prima di scoppiare a ridere insieme a lui.

“Ma che ti è preso?” domandò quando le risate scemarono.

“Ragazzino, è il duro mondo dello spettacolo. Ti ci devi abituare per quando diventeremo famosi con la band.”

“A proposito…” cominciò a dire Paul, togliendosi il grembiule, “Chissà cosa staranno pensando gli altri.”

“Di che cosa?”

“Del fatto che siamo spariti così, da un giorno all’altro.”

“E’ solo una settimana, Paul. Cosa vuoi che pensino?”

“Non so, magari che vogliamo sciogliere il gruppo e… suonare solo noi due, insieme.”

John lo guardò, pensieroso. Non era un pensiero strano, lui stesso, negli ultimi giorni, aveva pensato a questa possibilità. Era un’idea allettante. Avrebbero dovuto dividere i compensi solo in due e mettere d’accordo due sole teste. Due teste calde magari, ma avevano dalla loro parte la loro amicizia, il loro capirsi al volo, con un semplice sguardo, uno scambio rapido che rivelava però un’intesa infinita, così straordinaria che ogni volta John ne restava sorpreso, strabiliato.

“Intendi uno di quei pettegolezzi interni che colpiscono i grandi gruppi della storia della musica?”

Paul rise: “Sì, proprio quelli. I pettegolezzi che poi portano davvero allo scioglimento del gruppo.”

“Beh, se siamo a questo punto, significa solo due cose.” commentò John pensieroso.

“Ovvero?”

“O siamo sul punto di scioglierci oppure stiamo davvero per sfondare. In entrambi casi va bene per me.”

“Perché?”

“Perché se ci sciogliamo, saremo solo io e te.”

Paul gli rivolse uno sguardo profondamente scettico, poi gli sorrise.

“Te ne pentiresti due secondi dopo. Hai impiegato molto tempo per dare vita e solidità a questa band, hai fatto sacrifici e sprecato energie, John, non potresti mai sopportare lo scioglimento del gruppo, neanche per continuare a suonare solo con me.”

Eccolo, Paul che entrava in azione, il suo incredibile compagno d’avventura che guardava nel punto più profondo dentro John e gli dava voce. Aveva ragione, John non avrebbe mai rinunciato al suo gruppo. Dopotutto era la sua fottutissima band!

“Lo sai, Macca, forse per una volta da quando ti conosco, hai detto una cosa sensata.”

“L’idea comunque è bella, teniamola per il futuro, quando saremo ricchi e famosi…” esclamò Paul, facendogli l’occhiolino.

“Quando non ne potremo più di tutti gli altri, di vedere ogni giorno le loro facce e le discussioni ci distruggeranno da dentro?”

“Noi non saremo mai distrutti, John.” affermò Paul.

John fissò l’ottimismo sul volto del ragazzo, udì il suo tono deciso, la sicurezza nelle sue parole e per un attimo si lasciò contagiare da tutti i sentimenti forti che Paul poteva infondergli con il gesto più semplice. Ridacchiò, bevendo l’ultimo sorso del suo drink, pensando che quel sapore amaro e dolce nello stesso tempo fosse proprio come quell’avventura musicale che stavano condividendo, con l’amarezza dei momenti difficili, delle crisi in cui pensavano che non sarebbero mai riusciti a sfondare e dare un senso ai loro sforzi, e con la dolcezza delle gioie che avevano provato insieme, di quegli attimi che sembravano aprire le porte per un futuro migliore, un futuro che avrebbe riservato loro solo felicità. Paul racchiudeva in sé ogni singola sfumatura della loro avventura e con lui accanto John avrebbe potuto affrontare qualunque cosa.

“Bene, allora recuperiamo le chitarre. Se non saremo noi a distruggerci, ci penserà tuo cugino.”

****

Alla fine la band non si era sciolta, anzi pochi giorni dopo quel mini-soggiorno fuori Liverpool, avevano anche trovato il nome definitivo, quello perfetto che era piaciuto a tutti: i Beatles. Poi erano arrivati gli ingaggi per Amburgo e ora John era sicuro che mancasse davvero poco, prima che fosse giunta la loro occasione d’oro, quella che li avrebbe portati ad avere un contratto discografico, le loro canzoni incise su un disco, quella che li avrebbe ripagati di tutti gli sforzi.

John era certo che quel momento sarebbe arrivato per loro e questo sarebbe stato possibile grazie soprattutto al ragazzo che era ora con lui e che aveva un colorito decisamente poco salutare sul suo viso.

Erano partiti da neanche un’ora con il traghetto da Dover, le bianche scogliere erano ormai una candida, sottile striscia che si stagliava all’orizzonte dietro di loro. Il sapore e l’odore dell’acqua salata del mare solleticavano le narici, l’aria frizzantina di fine settembre pungeva fastidiosamente il viso, ma con Paul che minacciava di rimettere anche l’anima da un momento all’altro era più appropriato restare all’esterno, sul ponte di poppa. Il ragazzo si trovava su una piccola panca di legno e John si voltò a guardarlo, appoggiandosi alla ringhiera bianca del traghetto. Aveva il volto pallido, quasi cadaverico: si era sdraiato sulla panchina, sollevando le ginocchia e portando una mano sulla fronte. Un piccolo rimedio per percepire meno i movimenti ondulatori del traghetto. Il mare non era propriamente piatto quel giorno, Paul era stato sfortunato.

“Ehi, principessa, come stai?”

“Vaffanculo.” fu la risposta breve, concisa e lamentosa.

Stava proprio male. Perciò John ridacchiò e si avvicinò, sedendosi accanto alla sua testa. Forse un po’ di sano conforto Lennoniano avrebbe giovato alla sua salute.

“John? Quanto manca, John?” domandò piagnucolando.

“Ancora un po’, resisti. Pensa a quante cose buone da mangiare ci aspettano al di là della Manica: calde e fumanti zuppe di cipolle, un cremoso paté di fegato dal sapore pungente e ah! Quei puzzolenti formaggi franc-”

Il viso di Paul assunse un’espressione disgustata: “JOHN! Se non vuoi che vomiti sui tuoi pantaloni, smettila subito!”

John rise e gli appoggiò una mano sui capelli.

“Povero piccolo Paul che si ritrova lo stomaco debole. Sembra promettere proprio bene questo viaggio, eh?” sospirò, “Speriamo che andrà meglio sulla terraferma. Che ne dici?”

Paul lo guardò dal basso e mise il broncio: “Mi dispiace.”

“Per cosa?” gli domandò, incrociando il suo sguardo.

“Ti sto rovinando la traversata.”

“Beh, non mi sembra che ci sia qualcosa di molto eccitante da fare su un traghetto, a parte stare seduto e guardare il mare e l’Inghilterra che si allontana sempre di più. Anzi,  il fatto che tu stia male rende il viaggio interessante. Per esempio, possiamo scommettere entro quanto tempo vomiterai e ipotizzare che cosa vomiterai, magari quel muffin con i mirtilli che abbiamo preso prima di imbarcarci. Se siamo fortunati riusciremo anche a recuperare i mirtilli…”

Bleah!” esclamò disgustato Paul e poi chiuse gli occhi, “Comunque, John, grazie.”

“Mm…” mormorò John, “Sempre pronto a nauseare i miei compagni di viaggio.”

E poi chiuse gli occhi anche lui, abbandonando la testa all’indietro.

Cominciò a passare distrattamente la mano tra i capelli di Paul e dopo pochi istanti notò che il ragazzo si era addormentato. Meglio così. Non desiderava davvero che Paul stesse male, era il loro viaggio, la loro grande fuga da Liverpool, avrebbero dovuto stare bene entrambi per godersi ogni piccolo istante di quella nuova eccitante esperienza.

John guardò il cielo con piccole candide nuvole che scorrevano sopra di lui e si rincorrevano vivacemente su quel campo di un azzurro intenso. Sospirò, passandosi la lingua per inumidire le labbra che il vento marino stava rendendo secche e si accorse di un sapore familiare nella sua bocca. Un sapore fresco, intenso, amaro e poi dolce, fruttato, tremendamente familiare. Come quel drink che gli aveva preparato Paul in quella breve vacanza trascorsa insieme, solo un anno prima. 

Lo stesso sapore intenso di quella prima avventura condivisa, la stessa euforia di quando avevano suonato in due solo per tre persone, senza lasciarsi scoraggiare dal pubblico indifferente… Sembravano essere sul punto di vivere un’altra grande emozione, che aspettava solo loro. Aspettava loro con le sue difficoltà, le sue sorprese, le sue gioie.

John sorrise fra sé a qualunque cosa si trovasse al di là della Manica.

Stavano arrivando. Erano pronti.

Pronti a tutto.

 

 

 

(1)- Caversham è un quartiere della città di Reading, nella contea del Berkshire, vicino Londra.

(2)- Altri particolari sui Nerk Twins e il loro soggiorno a Caversham si possono trovare qui: http://www.dailymail.co.uk/tvshowbiz/article-1078752/Meet-The-Nerk-Twins--John-Paul-called-gig-double-act--8211-drinkers-sleepy-Berkshire-pub.html

(3)- Informazioni sul Pimm’s: http://www.intravino.com/assaggi/snob-elegante-pimms/

 

Note dell’autrice: ecco qua, quarto capitolo. Volevo pubblicare domani, ma domani c’è l’aggiornamento di AGV e ho preferito anticipare.

Non ho molto da dire su questo capitolo, è una specie di capitolo corridoio. Bisogna solo capire per cosa sono davvero pronti questi due?

Grazie a kiki per la correzione e chi legge e recensisce!

Nel prossimo capitolo arriviamo in Francia, teniamo quindi gli “Occhi sempre aperti”.

A presto

Kia85

 

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Capitolo 5
*** Occhi sempre aperti ***




 

Ticket to Paris

 

Capitolo 5: “Occhi sempre aperti”

 

Quando il traghetto attraccò nel porto di Calais, Paul non era mai stato così felice di mettere piede sulla terraferma, su qualcosa di solido che non dondolasse. Certo, anche dopo essere sbarcati e aver subito tutti i noiosi e interminabili controlli alla dogana, percepiva ancora le onde del mare che facevano barcollare il suo corpo, per questo motivo John lo afferrò per la vita, stabilizzando le sue pericolose oscillazioni. Poi lo condusse nel primo pub che incrociarono per strada, proprio di fronte al porto. Non fu una sorpresa notare che la maggior parte della clientela fosse inglese.

Fottuti inglesi e lo loro manie di onnipresenza!

Il pub era decisamente molto affollato. I tavoli erano occupati, più in là vi era un jukebox tutto illuminato con neon colorati, gialli, verdi e arancioni e una piccola pista da ballo dove una decina di persone ballavano su un lento francese: John non conosceva il francese, ma era quasi sicuro che la donna della canzone stesse cantando dell’amore della sua vita che l’aveva tradita con una ragazza più giovane e più bella, con il nasino all’insù, e ora lei stava meditando il suicidio, magari tramite il taglio delle vene, più romantico e melodrammatico. In poche parole, una vera lagna. Tuttavia cambiare i gusti musicali dei francesi non era il suo obbiettivo più urgente. Doveva sistemare Paul su qualcosa di fermo, prima che rimettesse davvero tutto ciò che aveva mangiato quella mattina. Fortunatamente trovarono un paio di posti liberi al bancone.

“Come va?” gli chiese, assicurandosi che l'amico non dondolasse.

Paul annuì con un lieve movimento del capo e forse se ne pentì subito dopo, perché accennò una smorfia e si portò una mano alla testa.

“Bene, abbastanza bene... credo.”

“Te la senti di mangiare?" gli domandò e dal suo tono trasparve una punta di preoccupazione, "Magari ti farà passare la nausea.”

“Sì, d’accordo, però prima devo adattarmi al nuovo ambiente, così magari il mio stomaco la smette di muoversi. Ti dispiace aspettare pochi minuti o il tuo comincerà a brontolare?"

“Oh, beh, in effetti l'aria di mare mi mette sempre fame, ma va bene, signorina. Prenda pure tutto il tempo che desidera."

“Allora…” iniziò a dire Paul, guardandosi intorno incuriosito, “Si può sapere dove siamo con esattezza?”

I suoi movimenti erano ancora lenti, sì, ma in qualche modo incoraggianti.

“Francia.” esclamò John con un ghigno sardonico sul volto.

Per tutta risposta Paul riportò lo sguardo su di lui con quella espressione da "che cosa ho fatto di male per meritare tutto ciò?" e questo non fece che aumentare il piacere che John provava quando prendeva in giro Paul. Era talmente facile e soddisfacente.

“Sì, grazie, John. Dove siamo più specificatamente?”

“Il primo pub che ho trovato." rispose il giovane, scrollando le spalle con aria indifferente, "Siamo ancora vicino al porto comunque.”

“Mm…" mormorò Paul e arricciò il naso con un’espressione lievemente disgustata, "Cazzo se si sente!"

E a quella imprecazione così colorita, accompagnata da un tono vivace John non poté fare a meno di sorridere.

“Allora, ti sei ambientato, vedo."

"Sì, più o meno." rispose Paul, alzando le spalle, "Sto cominciando a rendermi conto di essere sulla terraferma e non più su quelle fottute onde."

"Fantastico. Allora possiamo ordinare, giusto? Sto morendo di fame io.” si lamentò esageratamente, come se non mangiasse da chissà quanti giorni e invece sul traghetto si era divorato ben quattro hamburger sotto lo sguardo schifato di Paul, che dopo il primo panino aveva deciso di tornare sul ponte di poppa.

Non poteva sapere se quella visione decisamente ben poco celestiale avesse potuto infine dargli il colpo di grazia.

“Ehi, non è mica una cosa che passa da un momento all’altro." protestò accaldato, "Ci vuole tempo.”

John si limitò a sollevare un sopracciglio con scetticismo, accorgendosi che quella protesta accesa non aveva fatto altro che rendere evidente il suo miglioramento.

“Ah sì? A me sembra che tu stia già molto meglio. Ti è tornato anche un colorito accettabile. Ora invece di essere verde marcio, hai delle guanciotte rosa come quelle di un maialino." sogghignò John, dandogli un pizzicotto sulla guancia paffuta.

Paul, infastidito, scosse il capo per scrollarselo di dosso e poi sospirò: “Invece di fare il coglione, potresti fare qualcosa per aiutarmi a tornare a posto."

“Tutto quello che vuoi. Basta che dopo mangiamo." sbottò, "Di che si tratta?'

“Una canzone di Elvis al jukebox."

John sbuffò con fare altezzoso: "Perché, secondo te conoscono Elvis qui? In Francia?!"

“Certo, Elvis è dovunque, John.” gli fece notare Paul, sorridendo.   

John fu lieto di poter vedere quel sorriso: confermò che Paul stesse decisamente meglio ora, perché il suo viso si illuminò con quel sorriso e sulle guance rosee erano anche apparse le fossette, segno evidente della sua buona salute.

“E devo andare io a sceglierti una canzone o riesci ad alzarti sulle tue gambine e farlo tu?”

“Vado io, grazie, sono io quello che si deve riprendere, ma devi darmi degli spiccioli. Io ancora non ne ho."

John annuì e poi cercò una monetina in tasca per porgerla a Paul.

“Tieni.”

“Grazie, Johnny.” gli disse Paul, facendogli l’occhiolino.

John ridacchiò mentre Paul si allontanava e finalmente (finalmente!) ordinò un paio di hamburger e due birre per lui e Paul.

“Siete inglesi?” gli chiese all’improvviso una voce accanto a lui, con un forte accento francese.

John si voltò per guardare chi avesse richiamato la sua attenzione: si trattava di un uomo molto più basso e molto più grande di lui. Era assai probabile che avesse il doppio dei suoi anni. Doveva essere una specie di operaio del porto. Indossava una camicia a quadri di flanella, alquanto logora, con le maniche risvoltate fino ai gomiti. Sul capo portava una coppola di colore grigio fumo, da cui spuntavano riccioli brizzolati. Il viso era arrotondato, dalla pelle olivastra e decorato con una barba corta e ispida. Gli occhi piccoli e acquosi rivelavano, insieme alla pinta di birra quasi vuota, che l’uomo fosse chiaramente ubriaco. Era seduto al bancone come John e lo fissava con un sorriso sghembo sul volto.

“Sì.”

“Non sarete venuti qui per cercare lavoro?" domandò ridendo sconsolato, "Perché vi avviso, non ce n’è per nessuno, neanche per i francesi.”

“No, siamo in vacanza.” rispose John, non gradendo il tono polemico usato dall'uomo.

Era in vacanza, maledizione, in vacanza e l'ultima cosa che voleva era deprimersi a causa dei problemi dei francesi. Aveva già avuto e continuava ad avere la sua bella dose di grane personali, ci mancavano solo i francesi.

L’uomo annuì vagamente e bevve le ultime gocce di birra dalla sua pinta. Poi si voltò completamente verso John, appoggiando un braccio al bancone.

“Quello è amico tuo?” chiese indicando con un cenno del capo Paul, che in questo momento era chino sul jukebox per leggere i titoli delle canzoni disponibili.

John seguì l’indicazione, facendo una smorfia infastidita al forte odore di birra che fuoriuscì dalla bocca dell’uomo quando questi si sporse verso di lui: “E a te che cazzo frega?”

“Niente.” rispose l’uomo ridacchiando e scrollando le spalle, “E’ solo che è un po’ strano, no?”

“Prego?”

“Non sarà mica…” iniziò a dire e fece un vago gesto con la mano.

John lo guardò, la fronte corrugata per la confusione: “Cosa?”

“Sì, insomma, non sarà, sai…” rispose chinandosi di più verso John, “…frocio?”

Quando la sua mente elaborò violentemente il significato di quella parola, gli occhi di John si spalancarono e le mani si mossero per afferrare il colletto della sua camicia.

“Che cazzo dici? Prova a ripeterlo se hai coraggio.” gli intimò, minaccioso.

L’uomo rise e si tirò indietro alzando le mani.

“Ehi, stavo solo chiedendo. Sai, io non sono…” e abbassò improvvisamente la voce, “…frocio, ma penso che con quella bella faccia che si ritrova il ragazzino, potrei provare a lasciarmi fare un gran bel lavoro di boc-”

Non finì la frase perché John gli aveva rifilato un gancio destro che lo fece cadere a terra. Il ragazzo non aveva avuto il tempo neanche di rendersi conto di ciò che stava facendo, se n’era accorto solo quando l’uomo aveva colpito il pavimento. Il fatto era che quando aveva udito quegli insulti rivolti al suo migliore amico, John non aveva capito più niente. La rabbia l’aveva accecato e aveva fatto muovere il suo pugno per scontrarsi contro la mascella di colui che aveva gettato fango su Paul. E ora l’uomo stava cercando di sollevarsi, ma John si avventò su di lui nuovamente, mosso dal sentimento feroce che lo stava divorando e che veniva alimentato da quelle immagini che il piccolo, insignificante ometto aveva creato nella sua mente. Paul, il suo migliore amico, con un uomo, un uomo qualunque. Impossibile!

Le voci intorno a loro si fecero concitate. John non riusciva a decifrare cosa stessero dicendo o urlando. Tutti i suoi sensi erano concentrati nella sua missione che consisteva nel dare una lezione a quel perfetto sconosciuto che aveva osato dire certe cose su Paul. Il suo tatto percepiva solo la pelle ruvida del viso dell’uomo. La vista era quasi totalmente accecata, tutto intorno a lui era sfocato, solo l’uomo tra le sue mani era messo a fuoco. Il suo olfatto percepiva l’odore di fumo e alcol, un mix che John conosceva bene e che guidava i suoi colpi. Il gusto assaporava l’inconfondibile aroma metallico del sangue nella bocca, dovuto al fatto che il suo avversario stava cominciando a ribellarsi e colpire John, aiutato da un paio di amici sopraggiunti da qualche parte del pub. E l’udito captava suoni indistinti di sedie che si ribaltavano e uomini che gridavano e incitavano. Poi qualcuno, una voce familiare lo chiamò per nome.

John!

Ciò che accadde dopo, colse di sorpresa John. Un attimo di distrazione fatale. Qualcuno da dietro lo aveva colpito e lui era finito violentemente a terra. Disteso sul pavimento di legno, John stava per subire l’attacco del nuovo avversario, ma due braccia forti lo allontanarono e poi afferrarono John, costringendolo ad alzarsi e uscire di corsa da quel pub.

Mentre correva John riacquistò il corretto uso dei suoi sensi. All’improvviso si rese conto del dolore sparso in diversi punti del suo viso, quello più intenso era concentrato intorno all’occhio destro e poi c’era il labbro che sanguinava; si rese anche conto della strada che scorreva sotto i suoi piedi, del freddo della sera, dell’umidità che avvolgeva lui e Paul. John non capì bene dove stessero andando, seguiva solo Paul, guardandosi dietro ogni tanto per controllare che quei fottuti francesi non li seguissero. Grazie al cielo, no, non li stavano seguendo. 

Quando dopo quelli che parvero secoli si fermarono, i due ragazzi si accasciarono a terra, contro un muro, cercando di riprendere fiato dopo l’immane sforzo.

“Beh, John…” disse Paul, il viso arrossato e sudato e il petto ansante.

John lo guardò e l’amico gli rivolse un sorriso divertito.

“Benvenuto in Francia.”

****

Paul non sapeva come diavolo fosse cominciata tutta quella storia.

Stavano suonando al Grosvenor Ballroom a Wallasey, una città, che rispetto a Liverpool, era situata sulla riva opposta del Mersey (1). Loro, i Silver Beetles stavano suonando come avevano suonato tante altre volte prima d’ora. Non c’era niente di particolare che lasciasse presagire ciò che stava per accadere, non stavano neanche cantando canzoni improponibili, anzi, Elvis, Chuck Berry erano molto apprezzati, a volta anche richiesti.

Paul sapeva solo che il momento prima erano tutti presi dalla loro esibizione e quello dopo stavano fuggendo a gambe levate dal palco, trascinandosi dietro tutti gli strumenti. Forse qualcuno aveva urtato qualcun altro, o forse quel qualcuno aveva rivolto uno sguardo troppo prolungato alla ragazza di qualcun altro. Fatto sta che da una piccola miccia, era scoppiata una rissa di proporzioni colossali: pugni e calci volavano a destra e a manca, uomini di qualsiasi età e dimensione venivano spinti in qualunque angolo della sala, anche verso il piccolo spazio riservato a loro. E quando questo accadde, John non esitò un solo istante prima di fare cenno a tutti che fosse giunto il momento di “sloggiare”. Come non essere d’accordo?

In un batter d’occhio raccolsero baracca e burattini e cominciarono a scappare il più velocemente possibile, prima di essere coinvolti in qualche mischia o peggio ancora, prima che i loro preziosissimi strumenti potessero essere rovinati a causa di qualche spintone o calcio volante. E quello fu il terrificante momento in cui Paul si rese conto con orrore di aver lasciato il suo magnifico, costoso amplificatore Elpico, quello nuovo di zecca, proprio nel punto dove stavano suonando fino a pochi minuti prima. Dannazione, aveva risparmiato mesi e mesi per comprarlo, era il suo piccolo tesoro. Ricordava ancora la grande gioia che aveva provato quando finalmente aveva realizzato di disporre di una quantità sufficiente di soldi per acquistarlo e di come gli tremavano le mani, quando il negoziante gli aveva impacchettato il prezioso strumento. Paul temeva anche solo di sollevare quella scatola, per paura che le mani tremanti potessero farla scivolare e rovinare, di conseguenza, il suo nuovo, importante acquisto. Se fosse accaduto, gli si sarebbe spezzato il cuore. Ma fortunatamente c’era John con lui e lui l’aveva aiutato a portarlo a casa. Per questo motivo non poteva semplicemente abbandonarlo in quel modo, nel bel mezzo di una rissa; non c’era niente di più pericoloso di uomini sbronzi e attaccabrighe per un povero, indifeso amplificatore.

‘Fanculo!’ fu l’unica cosa che riuscì a pensare prima di fare dietrofront e cercare di tornare lì dove era iniziata la loro fuga.

A fatica si addentrò nella ressa, facendo lo slalom tra i gruppetti di ragazzi che se le davano di santa ragione. Dalle urla che provenivano dalla sala e che lo stordivano, Paul capì che si trattava di un regolamento di conti fra quartieri della stessa città. Fantastico, le cose si facevano complicate e rischiose quando si trattava di questo genere di conflitti!

Il palco era a pochi metri ormai, una decina di passi e l’avrebbe raggiunto. Doveva stare attento, sembrava che i ragazzi più bellicosi si fossero raggruppati tutti lì vicino. Cercò di stare il più lontano possibile dal centro del putiferio, non voleva di certo essere scambiato per uno che apparteneva all’uno o all’altro quartiere. Stava per salire le scale del palco, quando miracolosamente riuscì a schivare un destro micidiale. Lo aveva visto arrivare con la coda dell’occhio e aveva subito indietreggiato di un passo. Ma il ragazzo lo aveva agguantato per le spalle e spinto contro il muro, inchiodandolo con tutto il suo peso.

“Non ti muovere.” gli intimò, la voce minacciosa e chiaramente ubriaca, “O sei maledettamente morto!” (2)

Un brivido percorse Paul, un brivido di paura. Il ragazzo, che sembrava più piccolo di lui, ma che era molto agguerrito per la sua giovane età, aveva un coltellino in mano e da quello che poté vedere Paul, lo maneggiava bene, fin troppo bene per i suoi gusti. Non osava immaginare cosa potesse fare con quella piccola, ma estremamente pericolosa arma in mano. E soprattutto non voleva immaginare cosa potesse fare a lui.

“Sei uno di quelli, vero?” gli domandò, avvicinando la lama affilata alla sua guancia.

Paul trattenne il fiato. Ma con tutti i posti in cui potevano suonare, proprio lì dovevano andare? Maledetto John e i suoi-

“Ehi!” esclamò una voce all’improvviso, sorprendendo sia Paul che il suo aggressore.

Quello che accadde dopo fu che il ragazzino fu messo k.o. da un colpo ben piazzato da parte di un giovane uomo che si rivelò essere proprio…

“John?!” esclamò Paul, ritrovando in qualche modo il fiato che aveva perso quando tutta quella storia era cominciata.

Era salvo, forse… No, doveva essere così. Ora c’era John con lui e non gli sarebbe accaduto nulla di male. Non gli accadeva mai nulla di spiacevole accanto a John.

“Paul? Sei impazzito? Si può sapere che diavolo stai facendo?” domandò John, l’espressione estremamente angosciata.

“Volevo salvare l’amplificatore.” Spiegò, arrossendo sotto lo sguardo preoccupato di John.

“E non potevi chiedermi di aiutarti? Qui son tutti impazziti e ubriachi, esattamente qual era il tuo piano? Entrare, prendere l’amplificatore e sgattaiolare via, passando inosservato fra queste teste di cazzo?”

Paul arrossì sempre di più, rendendosi conto che in effetti il suo piano aveva qualche punto debole: “Beh, una cosa del genere.”

“Ma, porca miseria, Paul. Quanto sei idiota da zero a dieci? Quante volte ti devo dire di evitare le risse? Sei davvero l’ultima persona al mondo che possa passare indenne in mezzo a un putiferio del genere.”

Paul mise il broncio: non gli piaceva proprio John quando lo considerava debole come una femminuccia. Lui non era debole. Non lo era affatto, dannazione! Forse non era forte come John, ma poteva essere altrettanto furbo e quando si impegnava, sapeva piazzare anche lui un paio di pugni.

“Ce l’avevo quasi fatta.” protestò debolmente.

Tuttavia, sapeva che John si stava solo preoccupando, perché John teneva a lui, in qualche modo, in un modo che non mostrava mai apertamente, ma era così. Paul lo sapeva, Paul ne era certo e per questo gli era grato.

“Sì, certo, nei tuoi sogni.” esclamò John, afferrandolo per un braccio, “Andiamo e ricorda quello che ti dico sempre.”

“E sarebbe?”

John puntò due dita agli occhi: “Occhi aperti, Paul, occhi sempre aperti.”

****

“Ahia, cazzo, Paul!”

Paul rise: "Santo cielo, non ti facevo così frignone, John!"

Dopo essere fuggiti dal pub in cui John era stato coinvolto... no, in cui John aveva causato quella rissa, Paul era riuscito a convincere l'amico a prendersi cura della sua faccia che riportava ora un occhio nero e un labbro insanguinato. Solo che non avrebbe mai immaginato che John fosse uno che si lamentava in modo così melodrammatico. Lui che si atteggiava sempre a tipo tosto, con quella spavalderia che certe volte agli occhi di Paul appariva come una maschera che poco gli si addiceva, che John non desiderava e che toglieva solo in presenza di Paul. Quest’ultimo ridacchiò mentre gli asciugava il sangue sul labbro con un fazzoletto pulito.

Appena fuori dal pub aveva trascinato John presso la fontanella più vicina, sul lungomare di Calais, e lo aveva fatto sedere su una panchina. Questa volta Paul non aveva sentito alcuna ragione ed era riuscito a convincerlo a sottostare alle sue cure (per motivi prettamente estetici, intendiamoci, “Vuoi venire con un occhio nero sulle foto che faremo durante il viaggio, John?”, “Giammai!”).

"Fa male, Cristo santo!" imprecò nuovamente John, dimenandosi sulla panchina.

Paul non riusciva davvero a smettere di ridere e ne approfittò per prendere in giro John, un piccolo diletto che poco gli era concesso, a causa della permalosità dell’amico: "Quante storie per così poco. Sei proprio una femminuccia, John!"

John aggrottò la fronte e gli afferrò il polso, mentre l'amico gli tamponava il labbro con un fazzoletto bagnato con acqua fredda.

"Ehi! Non mi far pentire di aver preso le tue difese con quel maiale poco fa."

Paul sorrise, mostrando all'improvviso un interesse maggiore per il guaio in cui si era cacciato John.

"Perché, Johnny caro, cos'ha detto o fatto per farti arrabbiare in questo modo?"

John distolse rapidamente lo sguardo: "Non lo vuoi sapere davvero."

"Voglio. Perché ormai non ha più il potere di farmi male.” spiegò Paul, tranquillamente, “Tu l'hai mm... per così dire, sistemato, prima che la situazione degenerasse e io fossi costretto a salvare il tuo culetto."

"Avevo tutto sotto controllo." ribatté John altezzoso.

“Oh, sì, questi infatti sono i risultati di chi aveva tutto sotto controllo.” Paul sbuffò, indicando tutto il volto di John, "Un semplice grazie sarà sufficiente, John. E ora, ti prego, racconta."

“No, ti rovinerebbe la vacanza.”

Paul rise: “Andiamo, John, non fare tanto il misterioso. Mi fai solo diventare più curioso. E se divento più curioso, divento anche più insistente e più insistente per te significa più fastidioso e all-”

“Ok, ho capito, ho capito.” ripeté John, alzando le mani in segno di resa, “Basta che chiudi quella cazzo di bocca.”

Paul sghignazzò, soddisfatto di se stesso e sciacquò il fazzoletto, prima di sedersi accanto a John: “Ebbene?”

“Ebbene, quello stronzo ha fatto commenti poco carini su di te.” rispose John, la voce turbata da quel sentimento feroce che stava tornando ad accendersi in lui.

“Fin qua c’ero arrivato. Cosa ha detto?” chiese Paul, incrociando le braccia sul petto.

John guardò le sue mani che si torturavano fra loro, appoggiate sul suo grembo e dopo un lungo minuto sollevò il capo per fissare Paul negli occhi.

“Non lo immagini?”

Il sorriso sulle labbra di Paul si affievolì e assunse una lieve sfumatura sconsolata: “Ah, quello.”

“Ma non ti preoccupare.” si affrettò ad aggiungere John, “Dovrei aver chiarito che non deve osare fare mai più certe insinuazioni su di te.”

“Immagino di sì.” sospirò Paul, scrollando le spalle, “Ti ringrazio, John, ma non penso che possa servire a qualcosa.”

“Perché?”

“Perché se non sarà lui a dirlo, lo farà qualcun altro.”

“Beh, e allora? Sistemeremo anche lui.”

“Per quale motivo, John?”

“Come sarebbe a dire ‘per quale motivo’? Perché sì, perché non si devono permettere di dire quelle cose su di te.”

“E secondo te a me importa davvero qualcosa di ciò che pensa il primo sconosciuto che incontro?”

John, preso in contropiede, lo fissò totalmente sbalordito. Si era tuffato in quella zuffa per difendere l’onore del suo amico e ora Paul gli diceva che praticamente non gliene importava più di tanto, anzi affatto. Seguì l’amico con gli occhi quando si alzò in piedi, infilando le mani in tasca e perdendo lo sguardo da qualche parte sul terreno.

“Sono solo persone che non mi conoscono, John, e che molto probabilmente, anzi certamente non rivedrò mai più.” disse, calciando un sassolino che rimbalzò un paio di volte sulla strada principale, “Non è proprio come se me l’avesse detto il mio migliore amico, giusto?”

Paul si voltò verso di lui e gli sorrise. John non riusciva a crederci, tutto si aspettava da lui, tranne questa reazione. Paul avrebbe dovuto infuriarsi, imprecare con le ingiurie più pesanti contro l’uomo che si era permesso di pensare queste cose e poi avrebbe deciso di tornare al pub per dargliele di santa ragione di persona, ma John l’avrebbe fermato e gli avrebbe fatto notare che aveva già pensato lui a dargli una bella lezione. E a quel punto, Paul gli avrebbe sorriso, certo, e l’avrebbe ringraziato.

Ma no, Paul non aveva fatto nulla di tutto ciò, a parte rivolgergli quel sorriso triste, rassegnato. E così facendo, John si ritrovò a chiedere a se stesso perché l’aveva fatto, perché aveva preso così a cuore quella situazione. Solo perché si trattava di Paul? Sì, ok, Paul era il suo migliore amico e per lui avrebbe fatto qualunque cosa. Tuttavia c’era qualcosa che l’aveva fatto reagire in quel modo violento, scaricando tutta la sua furia sull’uomo già a terra, qualcosa che diventava inquieto se la sua mente formava le immagini che gli erano state suggerite, qualcosa che ancora adesso ruggiva in lui, mentre guardava Paul giocherellare con i sassolini per terra, prendendoli lievemente a calci, lì, sotto quel lampione che illuminava la strada con la sua luce fioca. Era come un senso di protezione, un sentimento dolce che era in grado di tirare fuori il peggio e il meglio di lui. Forse stava impazzendo, sì, stava sicuramente impazzendo. Da quando in qua si fermava a riflettere su qualcosa che aveva fatto per Paul?

“Certe volte, Paul, non riesco proprio a capirti.”

Paul ridacchiò, la triste malinconia sul suo viso era di colpo sparita: “Wow, vuoi dire che dopo tutti questi anni riesco ancora a sorprenderti?! È fantastico. Io, Paul McCartney che coglie di sorpresa John Lennon!”

“Non ti ci abituare, però.” commentò John, alzandosi in piedi. “Ora cerchiamo un posto dove dormire. Non ho alcuna intenzione di dormire sotto un ponte.”

In realtà, John aveva il timore che Paul l’avrebbe sorpreso ancora e non aveva idea di come sentirsi a riguardo. Era esaltato e allo stesso tempo spaventato, era curioso, ma anche indifferente. C’erano così tanti sentimenti in lui che proprio non sapeva a quale dare la precedenza.

 “Potremo sempre tornare in quel pub…” propose Paul, ridendo sotto i baffi.

 “No, grazie.” John rise, cominciando a camminare al suo fianco sul lungomare, “Piuttosto pensa a tenere gli occhi aperti, idiota.”

“Per cosa?”

“Per un posto migliore, ovviamente.”

John decise che anche lui avrebbe tenuto gli occhi ben aperti, per non lasciarsi sorprendere ancora da quel ragazzino così particolare che si era portato dietro in quel viaggio.

 

 

(1)- Il flashback si basa su un fatto realmente accaduto, riportato qui: http://www.beatlesbible.com/1960/07/23/live-grosvenor-ballroom-wallasey-9/

(2)- Citazione di Paul

 

 

Note dell’autrice: un capitolo un po’ particolare questo, è stato molto difficile da scrivere, non sono brava con le risse e qui ce n’erano ben due. Per quanto riguarda l’insulto omofobico presente nel capitolo, volevo chiarire che non rappresenta la mia opinione, è stato inserito solo per la storia, ma davvero non è qualcosa che userei per insultare qualcuno.

Per quanto riguarda il flashback, avevo letto sull’Anthology di quella volta che scapparono e Paul tornò indietro per salvare il suo nuovo amplificatore Elpico e fu aggredito da un tizio. Avventure beatlesiane! XD

Ringrazio kiki che ha corretto il capitolo e poi la ringrazio ancora, insieme a mamogirl e cranberry_sauce per aver sopportato le mie paturnie nel momento in cui dovevo scegliere il nome da dare alla storia. :D

Grazie a quelli che leggono, recensiscono e un grazie a Mrs.McCartney per l’interessamento alla storia. J

Il prossimo capitolo è “La nostalgia è…” Cos’è?

Alla prossima

kia85

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Capitolo 6
*** La nostalgia è... ***




 

Ticket to Paris

 

Capitolo 6: “La nostalgia è…”

 

Come prima notte ad Amburgo non era esattamente ciò che si era aspettato John. In realtà non sapeva bene cosa aspettarsi, era tutto così nuovo per lui. Ma di certo questo no!

Erano arrivati solo poche ore prima con il loro furgoncino, dopo un lungo viaggio. Partiti da Liverpool eccitati e impazienti, avevano attraversato la Manica, poi il Belgio e infine erano giunti in serata ad Amburgo, troppo stanchi per accorgersi della città che prendeva vita di notte, con le sue luci al neon e i locali in cui c’era musica dal vivo, il rock ‘n roll, quello che avevano sempre sognato, quello che finalmente anche loro potevano suonare, come una vera band, come i professionisti.

Avevano subito incontrato colui che li aveva ingaggiati, il proprietario del locale in cui avrebbero suonato per i mesi successivi, tale Bruno Koschmider (1). Era un uomo sulla quarantina, basso, tarchiato, il viso quadrato, gli occhi infossati, una gamba che zoppicava… insomma, non era proprio il tipo di uomo con cui John pensava di dover avere a che fare per lavoro. Si aspettava qualcuno con un sorriso più incoraggiante, l’espressione gioviale, dei modi affabili, insomma uno come il manager di Elvis (2). Invece Bruno, Bruno… C’era qualcosa in lui che metteva a disagio e John odiava sentirsi a disagio. Odiava non sapere come comportarsi, odiava avere paura di ciò che non conosceva, perché era qualcosa di totalmente inutile temere l’ignoto e affrontarlo con il timore di non sapere cosa sarebbe successo, non avrebbe reso più sicuro il futuro, anzi. Molto probabilmente l’avrebbe solo peggiorato. E John era un completo idiota per sentirsi così.

Il loro datore di lavoro li aveva subito portati a visitare il locale in cui avrebbero suonato, un posto chiamato “Indra club”, un nome molto esotico. Sì, a John sarebbe piaciuto. E poi li aveva informati che avrebbero dormito lì vicino, dietro un cinema che si chiamava “Bambi Kino”. Tuttavia solo per quella sera sarebbero stati ospiti a casa del signor Koschmider, in quanto le loro sistemazioni non erano ancora pronte. Il problema era che c’era solo un letto matrimoniale e cinque quattro ragazzi alti e robusti. Quello che non rientrava nella categoria “robusti” era George, naturalmente. John ridacchiò al pensiero. George non era robusto, non lo era affatto; non era neanche da considerarsi magro. Potevi vedere George solo perché si vestiva, altrimenti era quasi trasparente da quanto fosse pelle e ossa. E dire che mangiava tanto quanto loro, come un normale ragazzo di diciassette anni, che aveva ancora bisogno dei nutrienti per crescere.

Quindi ora John si ritrovava in un letto insieme ai quattro ragazzi con cui aveva appena cominciato quell’avventura tedesca. Erano schiacciati come sardine, John in bilico sul bordo del letto. Se qualcuno si fosse mosso o avesse scalciato, preda di qualche incubo inquietante, il povero ragazzo sarebbe caduto a terra. Nonostante ciò, non poteva davvero lamentarsi. Dopotutto avevano una coperta e un materasso su cui sdraiarsi e loro stavano dormendo uno a fianco all’altro. Ricordò quando durante il tour in Scozia erano stati costretti a dormire nel loro piccolo furgoncino, Stuart nel parafanghi e tutti loro sdraiati l’uno sopra l’altro per riscaldarsi (3). Situazioni assurde, davvero, e in confronto a quello, questa sistemazione era quasi da re. Dei privilegiati, ecco cos’erano!

Peccato che il livello d’insonnia fosse sempre lo stesso, almeno per lui. Tutti gli altri ronfavano beatamente e ognuno di loro russava con ritmi e tonalità diverse, rendendo l’impresa di prender sonno ancora più ardua. Che cazzo aveva fatto di male per meritare una simile tortura uditiva?

Sospirò intensamente, premendo la testa contro il cuscino, e in quel momento percepì un piccolo movimento provenire dal corpo dietro di lui, la cui schiena calda era schiacciata contro la sua. John sbatté le palpebre, perplesso, chiedendosi se anche quel qualcuno non riuscisse a dormire, proprio come lui. Muovendosi cautamente, cercando di non finire per terra per sua stessa mano, John si voltò ritrovandosi di fronte una massa scompigliata di capelli neri.

“Paul?” lo chiamò a bassa voce.

Nessuna risposta dal corpo di Paul, ma John sorrise fra sé perché sapeva che l’amico era sveglio, aveva percepito i piccoli movimenti delle sue gambe, delle braccia, i piccoli sospiri scappati dalla sua bocca e ora voleva disperatamente sapere cosa stesse tenendo sveglio anche lui.

Per questo motivo lo scosse lievemente per una spalla: “Paul? Paul, so che sei sveglio. Che ti prende?”

“Non è affar tuo.” sbottò il giovane, rannicchiandosi su se stesso.   

“Oh, andiamo. Neanche io riesco a dormire e visto che siamo in due ad avere lo stesso problema, possiamo cercare di risolverlo insieme, mh?”

Di nuovo, la risposta di Paul fu secca e scostante: “No!”

“Perché?” domandò lui, imbronciandosi e appoggiando il mento sulla spalla dell’amico.

Paul voltò brevemente il capo per guardarlo negli occhi, soffermandosi solo un istante, poi tornò a fissare apaticamente i capelli di George: “Perché mi prenderesti per il culo.”

“Chi? Io?” esclamò sbalordito John, “Mio caro Paul, ti prego, stai parlando di me! Potrei  mai prenderti per il cu-”

Paul si voltò nuovamente e questa volta lo fissò con un’evidente espressione di biasimo. John si lasciò scappare una risata.

“D’accordo, lo ammetto. Può essere che qualche volta questo sia succes-”

“Qualche volta?” ripeté Paul incredulo e indignato, scrollandoselo di dosso, “Qualche volta dice lui!”

“Ma…” continuò John, ignorando le parole stizzite dell’amico, “Giuro, giuro che non lo farò questa volta.”

E così dicendo si fece una croce sul cuore con aria solenne. Tuttavia Paul non si lasciò incantare dai suoi metodi teatrali, erano talmente esagerati che nessuno, nessuno avrebbe potuto farsi abbindolare, figuriamoci uno come Paul che ormai aveva capito con chi aveva a che fare.

“Sì, lo farai.”

“No, non è vero.”

“Ti dico di sì, invece.”

“Avanti, Paul!” lo esortò John con una piccola spinta alla spalla, “Fidati una volta, che ti costa?”

“Mi sono già fidato, ma tu mi prendi sempre in giro.” ribatté prontamente Paul, incrociando le braccia.

“Allora fidati una volta di più, non te ne pentirai.” propose John, ammiccando verso di lui.

Le labbra di Paul si contrassero in un’espressione tesa, prima di lasciar sfuggire un sospiro rassegnato e alzare gli occhi al cielo. Ora avrebbe ceduto alla richiesta di John e alla fine se ne sarebbe pentito amaramente. Dannato John e dannata anche la sua insonnia! Perché non poteva dormire anche lui come tutti gli altri e lasciare Paul solo nella sua impossibilità di prendere sonno?

“Ma, John, te lo giuro…” cominciò a dire Paul, voltandosi lentamente verso di lui, “Se mi sfotti, domani torno subito a Liverpool e ti lascio nella merda.”

John sollevò le sopracciglia, impressionato dal suo ammonimento: “E chi dice che mi lasci nella merda?”

Lo sguardo affilato che gli rivolse Paul fu tutto ciò che servì per metterlo a tacere una volta per tutte.

“D’accordo, ho capito.” esclamò ridacchiando e si sollevò per puntare un gomito sul cuscino e appoggiare la testa sulla mano, “Allora, sentiamo, perché non riesci a dormire?”

Paul si morse il labbro, era ancora timoroso a lasciarsi andare e John non capiva perché. Cercò di rivolgergli un sorriso incoraggiante e avrebbe voluto che lui potesse leggergli nella mente, perché l’unico suo pensiero al momento era “fidati di me”.

Alla fine Paul lo fece. Si fidò di lui e del suo sorriso, o forse gli aveva davvero letto nel pensiero e John si diede subito dello stupido mentalmente: certe volte, anzi spesso, tendeva a sopravvalutare Paul, conferendogli poteri prodigiosi e decisamente impossibili. E quando accadeva John ne restava sconcertato, come se quel pensiero non potesse essere stato concepito dalla sua mente. Forse perché non aveva mai pensato di poter tenere in così alta considerazione uno dei suoi amici.

“Mi manca Liverpool.”

Ma Paul non era “uno dei suoi amici”, Paul era il migliore amico che avesse mai avuto e John sentiva che forse avrebbe anche potuto dirglielo prima o poi.

Un giorno… chissà.

“Ah, capisco.” mormorò, ridestandosi dai suoi pensieri sdolcinati, “Si tratta di nostalgia.”

“E?”

John sbatté le palpebre, perplesso: “E cosa?”

“E non devi dirmi niente, per esempio: ‘Paul, ma ti rendi conto di quanto sei femminuccia a piangere perché ti manca casa tua?’ oppure, ‘Sii uomo e pensa solo a quanto ci divertiremo ad Amburgo’.”

“No, non ti dirò niente di tutto questo e non perché l’ho promesso. Non l’avrei fatto comunque perché è normale, sentire la mancanza di casa, voglio dire. È la prima volta che siamo in un paese straniero e ci resteremo per almeno tre mesi. Tutti quelli che hanno un cuore proverebbero nostalgia in questa situazione.”

“Quindi non pensi che sia debole?” gli domandò, guardandolo con una sorta di ansia che danzava sul suo viso, nei suoi occhi, nel modo in cui le sue dita strinsero lievemente il lenzuolo.     

Eccolo, il timore di Paul, che in qualche modo aveva sempre a che fare con l’importanza che dava all’opinione che John aveva di lui. Guai se John avesse pensato cose del genere su Paul. Questo avrebbe causato catastrofi atroci paragonabili solo alle tragedie storiche più memorabili: per esempio John avrebbe potuto non confidarsi più con lui, avrebbe potuto allontanarlo per sempre, oppure preferirgli…Stuart. Dio ce ne scampi!

“Ma certo che no, idiota.” esclamò John ridendo e gli prese il naso tra due dita, “Penso che tu abbia un cuore grande e molto caldo, perché, a differenza di me, non hai paura di mostrare i tuoi sentimenti, di qualunque sentimento si tratti.”

“Certe volte penso che non vorrei essere così.”

“Perché?”

“Perché non riesco a controllarle, tutte queste sensazioni, non ce la faccio a sopportarle. Soprattutto la mancanza di casa. Non ce la faccio, da quando è morta la mamma, mi sento colpevole a lasciare soli papà e Mike. La nostalgia è troppo dolorosa.”

John capiva bene quello che provava Paul, anche lui certe volte si sentiva in colpa a lasciare casa per un tempo così lungo, lasciare casa e quei pochi cari che gli erano rimasti, Cynthia e Mimi, naturalmente, perché dopotutto lei l’aveva cresciuto e si era occupata di lui amorevolmente, come mai nessun altro aveva fatto per John.

Nei suoi primi viaggi John era rimasto turbato da quel sentimento nostalgico, perché come Paul temeva di apparire debole e John Lennon non poteva permetterselo, non poteva provare lo stesso sentimento che veniva associato ai romanticoni di prima categoria o, peggio, agli anziani, lui che non aveva ancora vent’anni. Eppure era così e alla fine John si era convinto che non si trattasse di qualcosa che avrebbe potuto renderlo vulnerabile, anzi. Era qualcosa che poteva anche dare forza nei momenti di scoraggiamento, perché significava che da qualche parte, in questo mondo assurdo e crudele, c’era un posto in cui lui stava bene, in cui la sua vita era più facile e anche i problemi erano meno complicati di quanto realmente fossero. Da qualche parte c’erano persone che si preoccupavano per lui, che aspettavano lui, a braccia aperte e con il sorriso più luminoso sui loro volti. E questo, per John, era qualcosa di estremamente importante.

“Ma, Paul, non penso proprio che tua madre vorrebbe che ti sentissi così, lei vorrebbe solo il meglio per te e il meglio per te è questa fottuta band. Quello che provi tu, la nostalgia, è inevitabile perché lì c’è la tua famiglia, la tua casa, la tua ragazza. Tu appartieni a tutte queste cose. E la loro mancanza dovrebbe farti sentire felice per questo motivo, farti sentire desiderato o perché no, prezioso. Non è affatto debolezza, è appartenere a qualcosa o qualcuno. È comprensibile sentirsi così e nessuno può prenderti per il culo solo per questo.” gli disse con voce fiduciosa e gli diede una piccola stretta sul braccio.

Paul gli sorrise dolcemente e poi John fece una cosa stupida, una cosa terribilmente sentimentale. Davvero patetica!

La stretta della sua mano sul braccio di Paul si allentò appena e lo accarezzò brevemente in un gesto che voleva solo confortarlo, mentre gli diceva le parole più affettate che avesse mai pronunciato: “E poi non dimenticare che appartieni un po' anche a me e questo renderà più sopportabile la lontananza di casa. Ci penserò io a non fartela pesare.”

Ma dentro di lui sapeva che non vi era alcuna traccia di falsità in quelle parole, che molto probabilmente era il discorso più sincero che fosse uscito dalla sua testa e dalla sua bocca e questo andava bene. O forse no? Gli andava bene condividere così tanta sincerità con Paul? Era giusto che fosse proprio lui il destinatario della parte più vera di John?

John si schiarì la gola, di certo non poteva pensarci con Paul che lo guardava con quel sorrisino sciocco sulle labbra e lo sguardo piacevolmente sorpreso.

“Anzi quando ne hai voglia…” si affrettò ad aggiungere, “Ti do il permesso di odorarmi, giusto per sentire un po’ dell'odore di Liverpool; però magari aspetta che sudi un po', così sei sicuro di percepire l'inconfondibile tanfo del porto. Niente di meglio per sentirsi a casa.”

Paul scoppiò a ridere e John dovette subito zittirlo con una mano sulla bocca.

“Ehi, vuoi svegliare gli altri?”

Paul scosse energicamente il capo e John ritirò la mano.

“Va meglio ora?”

“Sì, grazie, John.”

“Allora adesso dormi, perché domani finalmente ci esibiremo e ho bisogno che tu sia nella tua condizione migliore, altrimenti sono io quello che ti lascerà nella merda.”

“Che paura!” Paul ridacchiò e chiuse gli occhi, “Buonanotte, John.”

“Buonanotte.” disse, poi lo guardò per un po’, osservando come lentamente il suo respiro cominciasse a farsi pesante, segno evidente che Paul era scivolato nel mondo dei sogni.

 E d’improvviso John sentì di avere anche lui molto sonno e se avesse chiuso gli occhi, si sarebbe infine addormentato. Forse anche la sua insonnia era dovuta a un disagio da lontananza da casa e forse averne parlato con Paul ed essersi confrontato con lui, l’aveva aiutato a prendere coscienza del problema, affrontarlo e risolverlo. Ora tutta quella nuova avventura sembrava più sopportabile, più luminosa, più incoraggiante.

Forse parlare con Paul era servito più a se stesso che all’amico e nel realizzare questo, John chiuse gli occhi e sospirò.

Cinque minuti dopo nella camera da letto si udì un quinto Beatle russare: John.

****

La cosa davvero incredibile di un viaggio era guardare il cielo. Soprattutto il cielo stellato. Paul lo stava apprezzando particolarmente solo quella sera.

Stava osservando il cielo che li sovrastava, mentre erano in viaggio per Parigi. Lui e John avevano fatto l’autostop da Calais e dopo un paio di giorni, diversi cambi e perfino un treno avevano finalmente trovato qualcuno che li portasse almeno fino alla capitale francese. Poi da lì si sarebbero arrangiati diversamente. Il buon samaritano che li aveva raccolti era un camionista francese, il suo viso bonario mostrava un bel paio di baffi cespugliosi con le punte all’insù, le guance erano arrossate e gli occhi grandi ed espressivi. L’uomo era alla guida di un piccolo autocarro e nella cabina non vi era spazio sufficiente per loro. Così decisero di sistemarsi nel vano di carico. Forse non sarebbe stato il massimo della comodità, ma almeno lui e John avrebbero potuto parlare, cosa che sarebbe risultata impossibile nella cabina a causa dell’imbarazzante silenzio che sarebbe inevitabilmente calato per il fatto di trovarsi in compagnia di qualcuno che non capiva la loro lingua, e sicuramente sarebbe stato scortese dialogare fra loro, escludendo il loro gentile amico.

Peccato che una volta partiti John si fosse addormentato, diventando così un compagno di viaggio decisamente noioso. Paul era rimasto seduto accanto a lui, con la schiena appoggiata alla parete del vano di carico e quando la testa ricadde all’indietro, le sue labbra si distesero in un sorriso.

Era sbalorditivo come tutto intorno a lui cambiasse quando viaggiava e ormai poteva affermare tranquillamente di aver viaggiato un bel po’. Eppure il cielo notturno e le stelle erano sempre uguali. Dovunque andasse vedeva posti nuovi, colori nuovi, persone nuove, ma la sera bastava che alzasse lo sguardo ed eccolo lì, lo stesso panorama che vedeva ogni notte dalla finestra della sua camera a Forthlin road, prima di andare a dormire. La stessa incantevole visione che gli permetteva di essere meno nostalgico, di sentirsi un po’ più a casa anche a migliaia di chilometri da Liverpool.

In quel momento la testa di John ciondolò e si appoggiò alla spalla di Paul e lui cercò di trattenere una risatina.

Anche quando dormiva, trovava il modo di rivendicare ciò che era suo.

Va bene, sì, era anche merito di John se Paul riusciva a sopportare di più la nostalgia di casa, se questa ad ogni viaggio diventava meno angosciante, meno ingombrante nel suo petto. Era soprattutto merito suo. John frequentava casa sua così spesso che i suoi capelli, i suoi vestiti, la sua pelle erano ormai pregni degli odori di casa McCartney: il sapone delle lenzuola pulite del letto di Paul, il tè Typhoo quando lui e John lo fumavano con la pipa di suo padre, le uova strapazzate alla mattina… Tutti così forti  che bastava che Paul chiudesse gli occhi e avvicinasse il naso ai capelli dell’amico per sentirsi immediatamente a casa, immaginando se stesso nel salotto, con suo padre sulla poltrona tutto intento a leggere il giornale e Mike al piano di sopra che studiava.

Ad ogni viaggio la nostalgia di casa diminuiva sempre più solo perché era con John e John significava tutto per Paul, in primis casa sua. Era allo stesso modo confortevole e tranquillo, a volte anche troppo piccolo e asfissiante, ma era casa. E lo era così incredibilmente che ora l’unica nostalgia che potesse provare Paul era quella di John. Gli mancava quando non era con lui e gli mancava ancor di più quando era con lui.

Perché, come gli aveva detto John, nostalgia significava appartenere e Paul apparteneva a John.

 

 

(1)- Alcune info utilizzate nel capitolo, sulla prima sera ad Amburgo le ho prese qui: http://www.beatlesbible.com/1960/08/17/live-indra-club-hamburg/

(2)- Il manager di Elvis era il colonello Tom Parker.         

(3)- Informazione presa dall’Anthology

 

Note dell’autrice: altro capitolo corridoio, un po’ malinconico, forse, ma penso che nonostante facessero tanto gli spavaldi, anche loro fossero sopraffatti qualche volta da un po’ di nostalgia.  

Ringrazio kiki per la correzione, LuckyMc per le recensioni sempre così affettuose e tutti quelli che leggono, recensiscono e inseriscono la storia nelle preferite e/o seguite.

Siamo praticamente a un terzo della storia. :D Nel prossimo capitolo si arriva finalmente a Paris. Sarà un po’ sovrannaturale, il capitolo 7, “La fata verde”. Qualche idea di cosa si tratti?

Buona domenica e alla prossima

Kia85

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Capitolo 7
*** La fata verde ***




 

Ticket to Paris

 

Capitolo 7: “La fata verde”

 

Parigi era straordinaria.

Parigi era meravigliosa.

Parigi era amore, musica, vita… tutto!

Ma Parigi era anche una semplice tappa del loro viaggio. Una sosta rapida, rapidissima. Toccata e fuga.

Arrivati a Parigi nel primo pomeriggio, erano stati lasciati in un punto non ben precisato di un quartiere qualsiasi della città. Il loro cortese autista gli aveva semplicemente detto “Opéra(1) nella sua lingua. John stava per dirgli che no, non avevano alcuna intenzione di andare all’Opera, ma l’uomo aveva proseguito sulla sua strada, abbandonando i due ragazzi a loro stessi.

“Beh, almeno siamo a Parigi.” gli disse Paul, sorridendo.

E di fronte al suo ottimismo, John non poté fare altro che unirsi al suo sorriso e annuire: “Sì, siamo a Paris.”

Dopo una rifocillante merenda, a base di un fresco succo di frutta e una profumata crepes alla marmellata, i due decisero di passare almeno una notte nella capitale francese. Una volta che erano a Parigi, potevano anche dare un’occhiata intorno. Sarebbe stato un peccato lasciarsi scappare quest’opportunità.

Una sola notte in hotel, aveva detto John, e poi il giorno seguente avrebbero ripreso il viaggio verso la Spagna. Una notte per riposare la schiena dopo lo scomodissimo sonnellino sull’autocarro. Paul non poteva che essere d’accordo.

Si resero conto che non sapere il francese era davvero un problema, anche perché la gente del posto non sembrava voler venir loro incontro, cercando di capire i loro gesti e il linguaggio che era un ibrido fra inglese e simil-francese. Anzi, torcevano le labbra sdegnati e poi si allontanavano con il naso all’insù.

Fottuti anche i francesi!

Infine avevano deciso di affidarsi al loro istinto che non sbagliava mai. Forse. Fu Paul a prendere le redini della situazione e cominciò a camminare seguendo una via stretta costeggiata da edifici di un colore pallido, una specie di avorio, che rendeva la viuzza incredibilmente caratteristica e affascinante. A un certo punto passarono di fronte a una serie di rampe di scale, divise da una ringhiera in cui si alternavano lampioni dall’aspetto anticato, finemente decorati nella parte superiore. (2) Con grande orrore di John, Paul cominciò a salire le scale.

“Scusa? Posso sapere che cosa stai facendo?”

Paul si fermò con un piede a mezz’aria e si voltò: “Voglio vedere dove porta questa scala.”

“Forse non l’hai notato, ma sembra interminabile.”

“Hai paura di non avere abbastanza fiato, John? Come me, che sono più piccolo di due anni?” gli domandò Paul, malizioso, con un sorriso di sfida.

John alzò gli occhi al cielo. Quel ragazzino sapeva sempre come fargli fare tutto ciò che voleva! E ora aveva colpito il suo punto debole, il suo continuo confrontarsi con Paul.

“Va bene, allora. E scale siano!” esclamò, cominciando a salire.

All’inizio fu divertente, salire e ammirare i dintorni e gli alberi che costeggiavano le rampe di scale, alberi che ormai avevano indossato i caldi colori dell’autunno. Tuttavia, dopo un po’ la cosa si fece faticosa. Stancante. Sfiancante! Le scale non finivano più e loro cominciarono ad ansimare e sorreggere gran parte del loro peso al corrimano, senza forze e sudati.

“Non…pensavo che…esistesse davvero…una…oh! Una scalinata…per il…Paradiso…” cercò di dire John, rivolgendo poi uno sguardo torvo a Paul.

Ma lui abbozzò un sorriso divertito tra gli ansiti.

“E…che…tra tutte le…le città…fosse…proprio… a Parigi…”

John scoppiò a ridere e maledisse subito Paul per questo, perché non aveva il fiato necessario, il che rese l’impresa molto ardua.

Forse in cima c’era davvero il Paradiso, perché la fine della scalinata infinita fu la visione più celestiale che i due ragazzi avessero mai visto. E quando la raggiunsero, la prima cosa che fecero fu di abbandonare le loro membra stravolte sulla prima panchina che trovarono. Restarono in silenzio, cercando di riprendere fiato, incuranti di tutto ciò che non fosse il loro bisogno di aria.

Quando le condizioni dei due pazienti migliorarono, cominciarono a guardarsi intorno per capire…

“Dove cazzo siamo?” domandò John.

“Non lo so davvero.” rispose Paul, voltando il capo a destra e a sinistra, “In compenso sappiamo che da qui c’è una vista mozzafiato.”

E così dicendo, Paul si alzò e corse verso il belvedere da cui si poteva ammirare tutta la città di Parigi che si estendeva sotto di loro.

John lo seguì fino alla balconata. Il panorama rischiava davvero di togliergli il fiato che aveva da poco recuperato. Si vedevano i palazzi con le persone affacciate alle finestre, le estese zone di verde, la magnificenza dei monumenti più caratteristici di Parigi, il tutto baciato dalla luce dorata e calda del pomeriggio. E quella cartolina sembrava davvero voler dire loro, “Benvenuti a Parigi, stranieri.”

Paul estrasse subito la macchina fotografica e scattò un paio di foto, mentre John lo osservava interessato mettere a fuoco e poi spingere il pulsante, mentre fissava il suo profilo accarezzato dallo stesso sole che accarezzava Parigi, rendendolo altrettanto mozzafiato.

"Vuoi che ti faccia una foto, John?" gli chiese, destandolo improvvisamente dai suoi pensieri.

"Non ci penso proprio!" sbottò lui e scosse energicamente il capo per mandare via quei pensieri il più in fretta possibile perché... che cazzo stava pensando? Su Paul oltretutto? Forse aveva lasciato, anzi perso la testa a metà delle rampe di scale. Oppure tutto quell'ansimare aveva bruciato la parte razionale di sé, lasciando intatta quella più pericolosa che lo stesso John faceva fatica a tenere a freno.

 “Che ne dici se cerchiamo di capire dove siamo?” gli domandò, costringendosi a riprendersi in qualche modo. In qualunque modo!

Paul ripose lo strumento delicato nella sua custodia: “D’accordo.”

Girarono un po’ intorno fino a quando non videro un piccolo cartello bianco su cui era riportata l’indicazione per “Sacre Coeur de Paris, Monmartre”.

Montmartre? Erano finiti a Montmarte, il quartiere degli artisti? Proprio loro che erano degli artisti a tutti gli effetti!

“Quando si dice il caso, eh, Paul?” esclamò John incredulo.

“O il destino.”

Entusiasti della loro scoperta, cominciarono a girare per il quartiere, ammirando le esibizioni degli artisti di strada che suonavano o improvvisavano una piccola recita, coinvolgendo i passanti. Tuttavia ciò che stavano cercando davvero, ciò che era normale che due ragazzi di quasi vent’anni cercassero a Montmarte, era il Moulin Rouge. Ci sarebbero dovute essere più indicazioni per raggiungerlo, indicazioni più numerose e sgargianti. E lo stesso Moulin Rouge avrebbe dovuto emettere luci e suoni per richiamare i turisti, ma no, non c’era nulla di tutto questo. Le viuzze di Montmarte erano così piccole e numerose, si intersecavano fra loro, riportandoli negli stessi punti e ben presto, complice anche la ripidità di certi tratti di strada, i due ragazzi si stancarono di cercarlo e tutto ciò che desideravano ora era un posto dove mangiare e al diavolo il Moulin Rouge!

Così quando cominciò a calare la sera, trovarono una piccola pensione dove soggiornare la notte e non lontano da lì, all’angolo della strada, un bistrot molto illuminato, molto affollato, di conseguenza molto promettente. John guardò l’insegna e storse il naso. Non sapeva il francese, ormai questo l’aveva appurato, ma era certo che il nome del locale dovesse essere pronunciato in modo pomposo e snob.

Au Rendez-vous des Amis.

“Che cazzo vuol dire?”

“Cosa?” gli chiese Paul.

“Quello.” rispose indicandogli l’insegna.

“Ah!” esclamò l’amico, seguendo l’indicazione di John, “Sembra un nome molto bello. Magari è qualcosa di simpatico e accogliente. Penso che possiamo fidarci.”

Paul avanzò facendogli segno di seguirlo, e John scrollò le spalle.

“Se lo dici tu…”

Entrarono e si guardarono subito intorno alla ricerca di un tavolo o due semplici sedie. Il locale era illuminato da lampadari da parete sparsi un po’ dappertutto, la mobilia era di legno di mogano e tutto intorno a loro vi erano francesi di qualunque genere ed età. La maggior parte sembravano essere artisti, forse poeti, pittori, musicisti e l’occhio esperto di John riuscì a notare qualche ragazza che sicuramente lavorava al Moulin Rouge: avevano una sicurezza negli occhi che quasi sfociava nella sfrontatezza, qualità indispensabile per un lavoro del genere. Ne vide una in particolare, con lunghi capelli biondi, arricciati in morbidi boccoli, labbra rosse come il fuoco così in contrasto con gli occhi di ghiaccio. Aveva un corpo spettacolare, adorno di un semplice vestitino verde brillante, ed era tutta una curva, come Brigitte Bardot. E Dio solo sapeva quanto John impazzisse per quella donna. In altre circostanze si sarebbe fiondato su di lei, ma era circondata da un numero notevole di ragazzi, tutti pronti a offrirle una sigaretta se voleva fumare o un bicchiere di champagne se voleva anche solo bagnarsi le labbra. Sarebbe stata una situazione molto pericolosa con lui e John non aveva davvero voglia di finire in un’altra rissa. Era in Francia da neanche tre giorni e già si era fatto riconoscere.

La ragazza però rivolse uno sguardo verso di loro e John sbatté le palpebre interessato. Peccato che lo sguardo fosse diretto a Paul che, incurante dello schianto di ragazza che aveva messo gli occhi su di lui, stava cercando un tavolo libero e quando lo trovò diede una gomitata a John, indicandogli un angolo in fondo al locale. John fu ben lieto di seguirlo e distogliere l’attenzione dalla ragazza.  

Si sedettero e decisero che in quanto turisti, sarebbe stato molto opportuno, per non dire obbligatorio, ordinare subito (con un cameriere che, da bravo, aveva studiato l’inglese) delle baguette farcite con formaggi francese e paté, insieme a un paio di birre. E nell’attesa fumarono una sigaretta, dando quindi il loro contributo a quella  leggera nebbia che aleggiava nel locale.

“Sembra che sia frequentato da gente affascinante.” commentò Paul, che non riusciva proprio a non voltare la testa da una parte e dall’altra per guardare tutto ciò che lo circondava.

“Cosa ti aspettavi? Siamo nella zona del Moulin Rouge, credo, sempre che non l’abbiano spostato prima del nostro arrivo.”

“Potremmo andarci più tardi, intendo se lo troviamo.”

“Al Moulin Rouge? No, grazie, mi è passata la voglia. E comunque non posso entrare là dentro, rischierei un infarto alla tenera età di quasi ventun anni.”

Paul ridacchiò, abbassando lo sguardo, e diede un piccolo colpetto alla sigaretta per far cadere la cenere nel portacenere.

“Già, certo. Troppe gambe in mostra.”

John annuì e alzò lievemente lo sguardo oltre la spalla di Paul, per notare che la biondina si era avvicinata ed era solo a un paio di tavoli di distanza ora, ma i suoi occhi erano ancora fissi su Paul. Si chiese se avrebbe dovuto avvisare Paul. Un vero amico l’avrebbe fatto, così Paul avrebbe ottenuto una toccata e fuga in paradiso quella notte. E poi anche lui si sarebbe comportato da vero amico e avrebbe messo una buona parola per John. Era impossibile che qualcuno dicesse di no a John Lennon o peggio, che gli preferisse Paul. Era per gli occhi, ormai John l’aveva capito. Il ragazzino aveva due occhi tali che ogni suo sguardo era una carezza insieme delicata e lasciva. Gli occhi di John, invece, non erano così, erano più diretti e la maggior parte delle volte spaventavano.  

Evidentemente anche questa ragazza aveva subito il fascino dello sguardo di Paul.

Per tutta la durata della loro baguette e delle due birre che servirono per mandarla giù, John continuò a guardare la ragazza bionda a pochi passi da loro. Parlava tranquillamente con i suoi accompagnatori, ma non mancava mai di lanciare sguardi fugaci nella loro direzione.

“La baguette, la baguette… la baguette fa schifo, cazzo!” si lamentò John, con una smorfia disgustata sul volto.

“Ma no, dai, non è così male.”

“Stai scherzando, vero? Preferirei mangiare mille dei tuoi sandwich.” commentò John, ridacchiando.

“Addirittura?!” esclamò Paul, mentre un lieve e involontario rossore si appropriava delle sue guance, “Devi essere proprio disperato, allora.”

“Già, disperato è la parola giusta.”

John notò con divertimento che Paul era arrossito, che l’aveva fatto arrossire proprio lui e per un istante trovò la situazione estremamente deliziosa. Ma poi di nuovo, imprecò mentalmente, dandosi del coglione, uno molto patetico per di più a causa di questi pensieri, e si disse che quello schifo di paté gli stesse facendo male in qualche modo. Forse stava avendo un’intolleranza, perché ora che ci pensava bene, non aveva mai mangiato del vero, francesissimo paté di fegato d’oca. Quindi era verosimile che potesse esserne allergico.

In quel momento il cameriere, un sant’uomo che lo salvò dai suoi pensieri perversi e catastrofici, si avvicinò al loro tavolo con un vassoio in mano e appoggiò una piccola bottiglia di liquido verde insieme a due bicchierini, due cucchiaini forati, delle zollette di zucchero e una bella brocca di acqua ghiacciata.

“Ehi, non abbiamo ordinato nient’altro.” gli disse John.

“La offre una pevsona che vuole restave anonima.”

“Ma…” iniziò a dire Paul, cercando di richiamarlo, ma il cameriere si era già allontanato.

John allora cominciò ad analizzare la bottiglia.

Assenzio.

Assenzio, il distillato all’aroma di anice o… la fata verde!

Lo sguardo di John cercò la ragazza che aveva adocchiato Paul, la ragazza col vestitino verde, ma sembrava improvvisamente sparita. Tuttavia lui era sicuro che l'offerta fosse da parte di quella ragazza. Di quella fata verde. E se c'era una cosa che sapeva per certo era che non bisognava mai fidarsi della fata verde.

"Andiamo via." disse John.

Paul sgranò gli occhi: "Cosa? Perché?"

"Lo so io perché." ribadì lui, facendo per alzarsi e afferrando la manica della giacca di Paul.

"Oh andiamo, John.” esclamò Paul, liberandosi dalla stretta, “Qualcuno ci ha offerto una bottiglia di assenzio. Quando ci ricapita un' occasione simile?"

Detto questo versò una generosa dose di liquido verde nel bicchiere e lo buttò giù in un solo sorso, prima che John potesse fermarlo. Il suo viso si contorse in una smorfia per l'inevitabile amaro del liquore. Poi scosse il capo e ridacchiò.

"Wow. Questo sì che è forte." commentò e riempì ancora il proprio bicchiere insieme a quello di John, "Dai, bevi un po'. È scortese non farlo. Pensa se ci stesse guardando chi ce l'ha offerta..."

Ma John sapeva che non li stava guardando. O almeno non da un punto in cui anche John potesse guardarla. Così sospirò sconsolato.

“D’accordo, ma non berlo così, ti fa fuori subito questa roba.” esclamò John, memore della sua precedente, sconvolgente, sovrannaturale esperienza con l’assenzio.

Fece sciogliere nei due bicchieri un paio di zollette di zucchero con l’acqua ghiacciata tramite il cucchiaino forato e solo dopo bevve il liquore che era fresco e dolcissimo in modo inebriante. (3)

Andarono avanti così per un po', con John che cercava di contenersi perché uno dei due doveva pur restare lucido, e Paul che si lasciò andare e beveva sostenendo che, essendo la classica bevanda degli artisti ed essendo loro degli artisti, non potevano certo non berla. Di conseguenza, ben presto le guance di Paul si tinsero di un lieve colore rossastro e gli occhi si annebbiarono. Ma fu solo quando cominciò a ridere per qualunque cosa vedesse o dicesse o facesse o pensasse che John capì che ormai era ubriaco. Era in quello stadio in cui tutto sembrava meraviglioso, tutto era possibile… E quando l'amico fece per versarsi ancora dell’assenzio, John gli afferrò il polso bloccandolo energicamente.

"Paul, direi che per il momento sei a posto, che ne pensi?"

Paul lo guardò con un'espressione esageratamente schifata.

"Penso che non sei mai stato così noiooooooso."

"Sei già ubriaco fradicio. Scommettiamo che non riesci neanche a camminare sulle tue gambe?"

Paul storse le labbra: "No, non scommetto con la gente noiosa."

"Ehi, mi sto solo preoccupando per te, idiota." protestò John, accaldato.

"Beh, se volevo…no, se avessi voluto viaggiare con qualcuno che si preoccupava per me, sarei andato con mio padre non con te. Anzi, forse sarebbe stato più divertente."

John scosse il capo. Paul sapeva diventare un'insopportabile testa di cazzo già da sobrio...figuriamoci da sbronzo.

Vai a preoccuparti per i tuoi amici, John, questo è come si viene ripagati.

"Fai come ti pare, allora. Vado in bagno, cerca di non combinare guai."

"Tipo?"

"Tipo sparire."

****

"Dov'è finito Paul?"

John non riusciva a vederlo da nessuna parte nel piccolo locale dell'Indra club (4). Suonavano lì solo da qualche sera e stavano adattandosi a fatica a quei ritmi assurdi. Suonare per tutta la notte, dormire la mattina, e poi bere, bere e divertirsi con ragazze di cui neanche conoscevano il nome. Non che gli dispiacesse, per carità. Dopotutto stavano seguendo la classica regola che si confaceva a degli artisti come loro: sesso, droga e rock 'n roll. Mancava ancora la droga, ma John l'aveva vista girare tra i ragazzi che lavoravano al locale ed era quasi sicuro che prima o poi avrebbero provato anche quella. Era dell’opinione che si dovesse provare tutto nella vita, proprio perché aveva solo una vita per provare tutto.

No, la cosa davvero difficile era stare al passo con tutti questi ritmi sfiancanti e nello stesso tempo badare agli altri compagni di band. Non che avessero bisogno della balia e nessuno in effetti aveva chiesto a John di farlo, ma in quanto leader e fondatore del gruppo John si sentiva in dovere di badare a tutti gli altri. Soprattutto i più piccoli, George e Paul. Ora, George era lì al tavolo con lui, ma di Paul non c'era alcuna traccia.

Si erano fermati un’oretta fa in un locale vicino al Bambi Kino per bere qualcosa. Assenzio, aveva consigliato Stuart.

"È la bevanda degli artisti, John, un classico."

E se lo diceva Stuart doveva essere vero. Così avevano ordinato una bottiglia e l’avevano divisa fra di loro.

Certo che era forte l'assenzio e anche abbastanza terribile. John non si era mai sentito così accaldato e sballato dopo un solo bicchierino. E dire che lui reggeva bene l'alcool. Ma ora gli girava la testa vorticosamente e dannazione, come poteva sentirsi allo stesso momento invincibile e impotente?

George lo riportò alla realtà con la risposta alla sua domanda: “Io l’ho visto uscire con una.”

John aggrottò la fronte.

“Quello stronzo, non poteva almeno avvisare? Troppo sforzo per il cervellino che si ritrova?”

“Andiamo, John, non è così grave.”

“Col cazzo che non è grave. Ora mi sente.” sbottò infastidito e si alzò.

Forse lo fece troppo rapidamente, perché ebbe un capogiro e dovette appoggiarsi alla spalla di George.

“Ehi, sei sicuro di riuscire a camminare? Mi sembri un po’-”

“Un po’ cosa?” gli ringhiò contro.

“Un po’ sbronzo.”

“Sto benissimo, grazie. Non mi hai mai visto davvero sbronzo, Georgie!”

Gli diede un pugno sulla spalla e poi si allontanò barcollando verso l’uscita. Una volta fuori John sbatté le palpebre per mettere a fuoco l’ambiente circostante. Il problema era che i suoi occhi ciecati non glielo permettevano. Avrebbe potuto strizzarli quanto voleva, ma la visuale era sempre quella, sfocata, annebbiata, indistinta… porca miseria, avrebbe dovuto usare gli occhiali, ma forse era davvero sbronzo come sosteneva George, perché non ricordava di averli portati con sé e anche se li avesse portati con sé, non ricordava in quale tasca li aveva sistemati. Sì, insomma, diciamo che non aveva proprio voglia di cercarli.

“Tanto lo sai, John, che non hai bisogno di quegli stupidi occhiali.” disse una vocina.

Il ragazzo voltò il capo a destra e a sinistra, poi in alto e in basso, ma non c’era nessuno. La vocina però parlò di nuovo, dopo aver ridacchiato allegramente.

“Sono dietro di te, sciocchino.”

John si girò e la bocca gli ricadde aperta. Davanti a lui svolazzava uno strano esserino: era molto simile a una minuscola ragazza, non poteva essere più grande della sua mano, con braccia e gambe sottili come stuzzicadenti; i suoi capelli biondi, pieni di boccoli, fluttuavano leggiadri nell’aria come le frange del suo vestitino verde brillante, che lasciavano scoperta una buona porzione di pelle. Dannazione, se fosse stata a grandezza naturale se la sarebbe fatta lì e subito.

“Che cazzo sei? Un folletto?”

“I folletti non esistono, come diavolo ti viene in mente? Io sono la fata verde, John.”

John scoppiò a ridere. Santo cielo, doveva essere maledettamente sbronzo! Il suo cervello era andato in tilt e aveva creato quella visione per ingannarlo e prendersi gioco di lui. Quale individuo normale veniva imbrogliato da se stesso? Tuttavia John non aveva tempo di combattere i suoi demoni e stare al gioco era più facile e a quanto pareva, anche piuttosto divertente.

“E sentiamo, fatina, come fai a sapere il mio nome?”

“Io so tutto di te, dal momento in cui mi hai assaggiato, i tuoi desideri sono diventati i miei, i tuoi pensieri, la tua anima sono miei… Tu stesso sei mio, John.”

“Ah davvero?”

“Certo, per esempio so che in questo momento stai cercando un’unica persona e se proprio lo vuoi sapere, posso condurti da lui. Per questo non hai bisogno degli occhiali, basta che segui me.”

“E chi dice che dovrei fidarmi?”

“Dovresti fidarti perché sono una visione solo tua, amore, se non ti fidi tu, chi può farlo?”

John la guardò perplesso. Forse il suo ragionamento non faceva una piega e la voglia che aveva di trovare Paul, ora, era troppa per restare fermo a ponderare se seguire la fata verde oppure no.

 “Va bene, allora. Fammi strada.”

La fata verde gli sorrise, poi svolazzò intorno alla sua testa e cominciò a condurlo giù per la strada illuminata dai neon dei locali a luci rosse. Doveva essere impazzito. Doveva  aver davvero bevuto troppo e ora aveva pure delle strane visioni. John scosse la testa cercando di tornare in sé, ma niente da fare. La fata era ancora davanti a lui, volava decisa, lasciando dietro di sé una fragranza pungente e amara, come quel liquore che aveva bevuto fino a pochi minuti prima.

L’assenzio lo stava portando da Paul, sulle sue gambe traballanti, facendogli ignorare tutto il resto, quelle sventole che vendevano il loro corpo per pochi marchi tedeschi e i travestiti che lo chiamavano con le loro voci calde e profonde, “Vieni, vieni, mio piccolo schnudel pudel.” (5)

Lo strano essere l’aveva portato al Bambi Kino. I rumori del cinema gli arrivavano come suoni ovattati e non gli davano fastidio come le altre notti. Forse perché tutti i suoi sensi erano storditi e non c’era nulla che potesse giungere a lui nitidamente. La fata verde si fece strada verso i loro piccoli appartamenti, fermandosi davanti alla porta e indicandola con un dito. John aggrottò la fronte e la aprì, barcollando all’interno. Venne accolto da versi strani e il buio che ormai quel piccolo appartamento riservava loro ogni sera. Ma per fortuna c’era la sua fatina verde a fargli luce.

John cominciò ad avanzare e quasi inciampò in qualcosa che si rivelò essere la giacca di Paul. Si chinò a prenderla e notò che vi era una scia di vestiti che conduceva allo stanzino di Paul. Ma certo, quel coglione era venuto lì per spassarsela con la puttanella di turno. Guardò la fata verde che annuì, come se gli avesse appena letto nel pensiero. Ora anche i versi che echeggiavano nella camera risultavano più chiari: non erano nient’altro che gemiti e ansiti che i due ragazzi stavano emettendo come segno inconfondibile del piacere che donavano l’uno all’altra.

All’improvviso John si rese conto di essere molto arrabbiato con Paul, anche se non capiva bene perché. Aveva senso che fosse arrabbiato con lui per essere sparito in quel modo, senza dirgli nulla e tutto questo solo per una scopata?

“Certo che ha senso.” gli rispose la fata, “Pensa se gli fosse successo qualcosa. È uno sciocco ragazzino inglese, che non sa neanche parlare il tedesco e si è addentrato in questo quartiere malfamato da solo. Tu lo sai che gente frequenta questi posti, vero, John? Lo sai che ci sono certe facce da cui anche tu staresti lontano. Pensa cosa potrebbero fare a uno sprovveduto come Paul.”

Già, cosa potevano fargli? Derubarlo e magari picchiarlo e lasciarlo in mezzo alla strada sanguinante. E poi cosa sarebbe successo, se John non l’avesse trovato? Se nessuno di loro l’avesse trovato? Forse sarebbe morto e allora come avrebbe fatto lui, senza Paul? Era un pensiero talmente assurdo, inconcepibile, insopportabile che davvero John non sapeva cosa rispondere.

Tuttavia sapeva una cosa per certo. Sapeva che doveva dimostrare a Paul quanto sbagliato fosse stato il suo comportamento, quanto l’avesse fatto preoccupare.

La fata verde giunse in suo aiuto e gli indicò i vestiti della ragazza. John sorrise. Ma certo! Sarebbe stato troppo scontato colpire direttamente Paul, mentre geniale sarebbe stato colpire colei che aveva causato il cattivo comportamento di Paul. E John, da bravo genio qual era, faceva solo cose geniali.

Così si avvicinò al suo letto e trafficò nel suo borsone fino a quando non trovò quello che cercava: un rasoio con cui la mattina si faceva la barba, quando ne aveva voglia. Estrasse la lametta e poi riversò le sue malefiche attenzioni al vestito della ragazza, cominciando a ridurlo a brandelli.(6)

“Fa’ presto!” gli sussurrò la fata verde.

John drizzò le orecchie: lei aveva ragione, doveva fare presto. I gemiti di Paul stavano diventando più forti e rapidi e lui sapeva, grazie alle numerose gare di seghe che facevano a Liverpool, che mancava davvero poco prima che il tutto terminasse e che la ragazza venisse liquidata in quattro e quattr’otto da un Paul molto appagato e molto assonnato.

Perciò infierì senza pietà sul vestito e guardò il suo lavoro alla flebile luce verde della fata. Certo poteva ancora essere indossato, ma sicuramente la ragazza non sarebbe passata inosservata!

Infine il grido d’estasi di Paul riempì la stanza e le sue orecchie, e John decise di completare la sua opera dando qualche ritocco sartoriale anche alla biancheria intima. Ecco, ora la sua opera era completa. Anche la fata verde sembrava soddisfatta.

“Ottimo lavoro, John!”

“Che stai facendo, John?”

Le due frasi si sovrapposero e John guardò in alto per vedere Paul, con le braccia incrociate e uno sguardo di profondo rimprovero sul volto. La ragazza accanto a lui cercò di coprirsi le nudità, ma quando si rese conto di ciò che aveva fatto John, la sua espressione cambiò drasticamente e tutto il suo pudore scomparve nel nulla. Si accovacciò per terra, strappando dalle mani di John i propri vestiti, e cominciò molto probabilmente a imprecare in tedesco. John non ne era molto sicuro, perché ancora non conosceva bene quella lingua, però i lineamenti contorti del volto e il tono, che doveva essere più duro del solito per i parametri tedeschi, lo fecero arrivare a questa intuizione.

Poi la ragazza cercò di rivestirsi in qualche modo e nel frattempo sbraitava anche contro Paul, che forse non se lo aspettava, e John non poté fare a meno di ridacchiare. Paul non sapeva cosa dire. Solo quando lei recuperò le scarpe e fece per andarsene, lui le si avvicinò, sbiasciando qualcosa che assomigliava molto a "Enwart!”(7)

E poi lei uscì, salendo su per le scale e Paul la seguì, o almeno ci provò.

Es tut mirmircazzo!” (8)

John intanto rimase a terra, continuando a ridere, sentendosi ancora stordito per la sbornia. Percepiva la fata verde dentro di lui, lì dove si era rifugiata all’arrivo dei due ragazzi. Ridacchiava in approvazione, complimentandosi per il suo lavoro, dandogli piccole pacche sulle spalle.

“John?!” lo richiamò Paul, “John?”

“È stato divertente."

"Oh sì, spassoso da morire. Si può sapere che ti è successo?"

Paul non sembrava particolarmente arrabbiato. Tuttavia John poté captare nella sua voce una nota infastidita che non gli piacque. Non era lui dalla parte del torto. Almeno non stavolta.

"Che mi è successo? A me?? Cos’è successo a te, Paul? Sparire così senza avvisare nessuno."

"Non mi sembra di aver preso ed essere partito di punto in bianco per Honolulu. Sono venuto solo qui."

"Ma, Paul, non capisci? Siamo un gruppo, un gruppo in un paese straniero. Dobbiamo stare insieme e proteggerci a vicenda. Non posso perdere d'occhio nessuno."

Soprattutto lui, aggiunse la solita vocina dentro di lui. Era ancora la fata verde?

L'espressione corrucciata di Paul si rilassò in qualcosa di più piacevole e compiaciuto, "È solo questo quindi?"

John annuì, lentamente e quasi timoroso.

"Hai fatto tutto questo perché eri preoccupato per me?"

"Beh, preoccupato è una parola grossa.” si affrettò a spiegare John, scrollando le spalle, “E poi se avessi saputo quello che avrei trovato, neanche sarei venuto a cercarti."

"Ma l'hai fatto. Il che significa che eri preoccupato." ribadì Paul, incrociando le braccia, incapace di spostare lo sguardo da John.

"Finiscila!"

"Avanti ammettilo. Non c'è niente di male."

"Se lo faccio, la smetterai di ripeterlo?"

Paul annuì energeticamente.

"Va bene." disse, chinando appena il capo e sentendosi arrossire lievemente.

Perché diavolo stava arrossendo?

"Ero preoccupato per te."

Il sorriso che Paul gli rivolse dopo quelle parole fu la risposta alla sua domanda. Era arrossito perché aveva avuto paura di vedere una reazione simile sul volto di Paul. Di vederla e forse...desiderarla?

"Grazie, John. Ti prometto che la prossima volta ti avviso prima di sparire."

"Non devi sparire." aggiunse John, a bassa voce.

"Non lo farò. Ma anche tu devi promettere qualcosa.”

“E sarebbe?”

“Prometti che prima di dare di matto, conterai fino a dieci? Così magari le tue folli idee spariscono, prima che tu ti metta davvero nei guai."

John voleva dirgli che era stata opera della fata verde, ma non lo fece per paura di essere preso davvero per matto questa volta. Decise invece di accettare la promessa da fare a Paul e ne fece una anche a se stesso. Non si sarebbe più fidato della fata verde.

“D’accordo.”

Anche se, diamine, per quel sorriso avrebbe seguito tutte le fate verdi del mondo.

****

Non ci poteva credere.

Era ancora lei? Eppure John non aveva bevuto l'assenzio in modo esagerato. E l’aveva bevuto diluito alla francese. Poteva capire l’allucinazione della sua prima ubriacatura da assenzio in quanto l’aveva bevuto puro. Ma ora? Perché lei era lì? Lì, con il suo vestitino verde, i capelli biondi e soprattutto appiccicata a Paul?

Paul tra le braccia della fata verde.

John scosse il capo. Poi si ricordò della promessa che gli aveva fatto e contò fino a dieci. Contò lentamente fino a dieci.

1…2…

Niente da fare, lei non era sparita. Al contrario, sembrava più vera che mai. Le sue labbra rosse sfioravano la guancia di Paul, la sua mano gli accarezzava il petto cercando di insinuarsi sotto la giacca…

3…4…5…

La fata verde non era un’illusione questa volta ed era molto più pericolosa della sua allucinazione perché era reale ed era con Paul, Paul ubriaco fradicio, che aveva gli occhi chiusi, la testa ciondolante e un sorriso ingenuo sulle labbra, che di tanto in tanto si apriva in una risatina stupida come stupido era anche lui.

6…7…8…

La mente di John lavorò freneticamente, pensando che era stata lei a mandare quella bottiglia, per qualche strano motivo che forse aveva a che fare con la mano della ragazza che vagava sotto la giacca di Paul, lì dove Paul teneva il portafogli.

Fanculo il contare fino a dieci!

John si avvicinò al tavolo con passo affrettato e allontanò la ragazza da Paul, afferrandola per la spalla.

“Lascia stare il mio amico.” le intimò, “Subito!”

La ragazza non si scompose particolarmente, si appoggiò allo schienale della sedia, accavallando le gambe snelle e gli rivolse uno sguardo malizioso.

Pourquoi? Tu geloso?” domandò con sensuale accento francese.

“No, ma segui il mio consiglio. Lascialo perdere, è impegnato!”

Mais oui? Con te?”

La ragazza ridacchiò della sua battuta e John sbuffò, profondamente irritato da quel fare civettuolo e antipatico nello stesso momento.

“Sei totalmente fuori strada, dolcezza.”

“Dici? Alors, tu proprio geloso. Tu mi ha guardata tutta la soir, tu geloso. Ma tuo ami è tres jolie. Mi piace.”

“Sarà anche tres jolie, ma è anche molto ubriaco grazie a te. Quindi togligli le mani di dosso.”

Calmez-vous, chérie. Noi divertirci seulement. Se tu vuoi, trovo qualche fille anche pour toi. Molte amis qui.” disse, passando la mano fra i capelli di Paul, che ora aveva appoggiato la testa al muro e non sembrava più neanche cosciente di ciò che stava accadendo.

Il desiderio di sbarazzarsi della ragazza e occuparsi di Paul divenne improvvisamente un’urgenza che occupò tutto lo spazio nella mente di John.

“Certo, così le tue amichette mi distraggono mentre tu ti occupi del mio amico. Lo so cosa hai fatto, bellezza, hai puntato il mio amico perché con quella faccia sembra una preda facile, per di più siamo stranieri. Ci hai mandato l’assenzio per stordirci, così il tuo colpo sarebbe stato più facile, ma ti dirò una cosa, mia piccola fata verde.” esclamò afferrandola per un braccio e costringendola ad alzarsi, “Non mi inganni più. E ora sparisci dalla mia vista, prima che diventi davvero cattivo.”

La ragazza arrossì vistosamente e liberandosi dalla stretta di John, se ne andò, con quel broncio snob tipico delle ragazze francesi, con il solito naso all’insù. Passò davanti a lui, sistemandosi i capelli lunghi con la mano e il profumo di anice solleticò le sue narici.

Ce l’aveva fatta. Questa volta John era riuscito a riconoscere la fata verde e sconfiggerla. Era molto fiero di se stesso. Forse per la prima volta in vita sua.

Poi un tonfo catturò la sua attenzione e vide la testa di Paul che era caduta e aveva sbattuto contro il tavolo. Totalmente senza sensi. Storse la bocca, al pensiero di ciò che sarebbe inevitabilmente seguito.

Cinque minuti dopo era per strada, con Paul-peso-piuma-McCartney sulle spalle, in direzione della loro pensioncina. Le sue braccia avvolte intorno al suo collo, il suo naso che sfiorava il suo orecchio, il suo respiro intriso d’alcol gli solleticava la pelle sensibile del viso. Ancora una volta si stava prendendo cura di Paul come se fosse un fratello minore, con la stessa tenerezza con cui Paul si prendeva cura di Mike.

E anche questa volta era stato a causa della fata verde, era a causa sua, o forse era grazie a lei se ora si trovava in quella situazione, se riservava ora tutte queste delicate premure a Paul, era grazie a lei se provava questo sentimento di dolce affetto, quasi dedizione, quasi brivido.

Un sentimento che forse va oltre l’amicizia? gli suggerì la solita vocina dentro di lui.

Ma no, non poteva essere. Si stava sbagliando. Riconosceva quella vocina, era ancora lei, l’insidiosa fata verde. Doveva essere lei.

E lui aveva promesso di non fidarsi mai più della fata verde.

 

 

(1)- Opéra è un quartiere di Parigi.

(2)- La scalinata per Montmartre potete trovarla qui, l’ultima immagine in fondo alla pagina: http://viaggilowcost.blogosfere.it/2011/12/capodanno-2012-montmartre-il-cuore-romantico-di-parigi.html

(3)- Tutte le info sull’assenzio usate nel capitolo sono state prese da qui: http://www.zii.it/fun/assenzio.asp

(4)- Info sui luoghi di Amburgo qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Luoghi_beatlesiani#Bambi_Kino

(5)-  Schnudel pudel”, ovvero “Micione”, citazione dall’Anthology.

(6)- In realtà John usò delle forbici per ridurre a brandelli i vestiti della ragazza di Paul. (Fonte: Anthology)

(7)- “Enwart”, ovvero “Aspetta!” in tedesco.

(8)- Paul sta cercando di dire “Es tut mir leid”, cioè “Mi dispiace”.

 

 

Note dell’autrice: mi assumo tutta la responsabilità di questo capitolo sovrannaturale. Non so come mi sia uscito… Non è vero, lo so eccome! XD Stavo cercando qualcosa con cui far ubriacare Paul e all’improvviso mi sono ricordata della scena del film di Moulin rouge, in cui bevono l’assenzio e arriva la fata verde. È stato più forte di me, dovevo inserirla a tutti costi, anche perché vedevo bene John a parlare con lei. XD

La questione delle ehm… “gare di seghe”, l’ho letta su “Il piccolo libro dei Beatles”.

Ultima cosa, il flashback è un fatto realmente accaduto, dicono che fosse dovuto, oltre all’essere ubriaco, al senso di protezione che aveva John nei confronti degli altri. Non potevo non inserirlo.

Ringrazio kiki che ha corretto il capitolo. Inoltre per questo capitolo ringrazio anche Lights, la creatrice del banner, per alcune info su Parigi e il quartiere di Montmarte e per avermi fatto consultare le foto dal suo ultimo viaggio a Parigi, dal momento che io non ci sono mai stata… E ringrazio anche weasleywalrus93 per le frasi in tedesco.

Per il francese mi sono rivolta alle poche reminiscenze che ho conservato dalle medie. XD

Il prossimo capitolo si intitola “Colpevole”, a chi si riferirà? Dai che è facile!

Penso che gli aggiornamenti d’ora in poi arriveranno sempre la domenica, mi è più comodo! J

Alla prossima

Kia85

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Capitolo 8
*** Colpevole ***




 

Ticket to Paris

 

Capitolo 8: “Colpevole”

 

Quando Paul aprì gli occhi si maledisse all'istante. Le pareti che lo circondavano stavano vorticando, senza alcuna intenzione di fermarsi. Era come se fosse nell'occhio del ciclone e prima che un conato di vomito avesse la meglio su di lui, Paul chiuse di nuovo gli occhi, concentrandosi sugli altri sensi che erano rimasti vigili, o perlomeno funzionanti.

Sapeva di essere sdraiato su qualcosa di morbido, sotto il confortevole tepore di morbide coperte. Sapeva di avere un mal di testa assurdo, come se nel suo cranio ci fosse un picchio che si divertiva a colpirlo sulle tempie, poi sulla fronte e infine sulla nuca e di nuovo da capo. Stupido animale!

Lentamente Paul portò due mani sulle tempie, massaggiandole con movimenti circolari.

Dove si trovava lui c'era silenzio. Gli unici rumori provenivano da fuori, ma erano ovattati e non propriamente chiari.

Paul rimase in quella posizione il tempo necessario per uscire dal dormiveglia e assicurarsi di non vomitare una volta aperti gli occhi. Poi raccolse il suo coraggio e lo fece. Aprì gli occhi e mise a fuoco il soffitto. Era tutto bianco con un piccolo, semplice lampadario al centro.

Bene, era in una stanza. Il problema era scoprire quale stanza. Voltò la testa alla sua destra: no, decisamente non riconosceva il posto in cui si trovava. O forse non lo rammentava, il che era abbastanza probabile. La camera era ammobiliata con una piccola poltrona e un armadio con due ante. Sul muro di fronte al letto c'era una finestra chiusa, con le persiane serrate. La fioca luce del mattino entrava come timidi spiragli, come se sapesse e volesse rispettare le condizioni non ottimali di salute di colui che era all'interno.

Paul riconobbe per terra e sulla poltrona il suo zaino, insieme a quello di John.

Ah già! John!

Non c'era alcun segno della sua presenza in camera. E dire che lui era uno che si faceva notare anche con il gesto semplice e silenzioso del respirare. Paul voltò la testa alla sua sinistra. La parte del letto accanto a lui era vuota, sul cuscino i segni di qualcuno che vi aveva dormito sopra, e le coperte erano ben tirate verso l'alto, in modo che neanche un po' di freddo potesse entrare per aggredire chi ancora dormiva. Paul.

Sorridendo fra sé e prima che potesse accorgersene, la sua mano destra scivolò sotto le coperte, sfiorando le pieghe sul lenzuolo lasciate dal corpo di John, percependone ancora il calore che emanava quando dormiva accanto a lui, immaginando i suoi movimenti durante il sonno che in confronto a Paul erano quasi nulli. John aveva la straordinaria capacità di risvegliarsi nella stessa posizione in cui si era addormentato. Come se per un momento smettesse di vivere. Paul rabbrividì allo spaventoso pensiero. Poi spostò la sua mano sul cuscino di John, stringendolo con le dita. In questo modo si accorse di avere ancora indosso la maglietta del giorno prima e anche i pantaloni.

Non ricordava molto della sera precedente. Era tutto un po' sfocato. Rammentava l'arrivo a Parigi, la sfacchinata su quelle dannate scale e il trovare in modo del tutto casuale Montmartre. Poi c'era stata la futile ricerca del Moulin Rouge e la discreta baguette al bistrot e alla fine tutto  improvvisamente diventava verde. Sapeva solo di essersi risvegliato in quella camera d'albergo.

Senza John.

A proposito, dov'era finito? E che ore erano?

Con estrema calma Paul avvicinò il polso destro al viso e controllò l'orologio: dieci meno un quarto.

Proprio in quel momento la porta si spalancò e John entrò, canticchiando allegramente a bocca chiusa. Quando si accorse che l'amico era sveglio, sorrise e saltò sul letto, che ondeggiò pericolosamente, e Paul imprecò fra sé per un movimento di stomaco che per fortuna cessò subito.

"Ben svegliato, mio bell'addormentato. Pensavo che non aprissi più i tuoi occhietti."

Paul fece una smorfia infastidita, sfiorando con le dita la propria fronte: "John, ti prego, non urlare."

La sua voce era rimbombata nelle sue orecchie con i decibel di cento dei loro concerti, tutti messi insieme. Una vera tortura.

"Postumi della sbornia, eh? Mi sembra il minimo, con quello che hai bevuto." esclamò John con l'aria di chi la sapeva lunga.

Ed effettivamente era così, lui in fondo aveva perso il conto di quante volte era finito a vomitare anche l'anima in un parco con uno dei suoi amici, soprattutto Paul, a tenergli la testa e rassicurarlo sul fatto che presto sarebbe finito tutto.

"Che cosa ho bevuto?"

"Assenzio. Di pessima qualità, se proprio vuoi saperlo."

"Oh."

"Ma! Il tuo amico John, qui, a cui un giorno dovrai dedicare un monumento o almeno un'intera canzone, è uscito questa mattina per portarti degli ottimi rimedi al tuo essere un totale idiota."

"Di che si tratta?" domandò Paul e scelse di ignorare il piccolo insulto di John per il semplice, meraviglioso fatto che lui si fosse alzato relativamente presto per i suoi standard da vacanza e fosse uscito per comprare qualcosa per farlo stare meglio. Proprio lui, John.

Il giovane si sedette a gambe incrociate e gli mostrò un sacchetto di carta, prima di aprirlo ed estrarne il contenuto. Si trattava essenzialmente di un paio di bottiglie d'acqua e...

"Allora qui abbiamo quelle che sembrano delle succose mele rosse.” disse adagiando sul letto quattro bei frutti, dall’aspetto succulento,  “Lo sai cosa si dice della mela, vero, Paul? Il frutto del peccato e altre cazzate del genere? Ma noi sappiamo anche che fa molto bene quando sei vittima dei postumi della sbornia. È una ricca fonte di zuccheri. In più abbiamo anche un po' d'acqua. Devi berne molta per eliminare prima quella schifezza che hai trangugiato. Tieni!" esclamò infine porgendogli una mela e una bottiglia d’acqua.

Paul guardò le offerte e poi John, mentre prendeva l‘acqua e il frutto dalle sue mani. Fece per portarsi la mela alla bocca, quando all'improvviso si fermò e rivolse uno sguardo scettico a John.

"Mm. Sei sicuro che possa fidarmi?"

"Certo che sì. Non l'ho mica avvelenata."

"E chi me lo può assicurare?" domandò scrollando le spalle, "In fondo non so neanche dove le hai prese. Potrebbe succedermi di tutto. La mela avvelenata potrebbe farmi cadere in un sonno eterno e solo il bacio del vero amore potrà svegliarmi..."

"In tal caso penso che rimarresti così per sempre." commentò John, ma Paul proseguì senza badare a lui più di tanto.

"Oppure, Dio mio, potrei rendermi conto di essere completamente nudo e che tu hai abusato di me."

John lo guardò, profondamente annoiato dal McCartney’s show.

"Ti farebbe male il culo in quel caso. E comunque..." disse dandogli un ceffone sulla nuca, "Sta' zitto e mangia quella cazzo di mela!"

Paul ridacchiò e obbedì dando un morso al frutto, gustandone il dolce sapore in bocca. John lo imitò subito e Paul lo osservò divertito, pensando che quel momento, quella deliziosa colazione a letto fosse finora il momento più bello della loro vacanza perché sapeva di tranquillità, una cosa che difficilmente riuscivano ad avere a Liverpool o durante i loro soggiorni ad Amburgo. E in fondo una vacanza non doveva prevedere solo divertimento, ma anche momenti di relax. Altrimenti non era una vacanza!

"Allora, ti ricordi qualcosa di quello che è successo ieri sera?"

Paul scosse il capo: "No, sono fermo a dopo la baguette. Vuoi essere così gentile da illuminarmi?"

John lo guardò per un istante e si morse il labbro inferiore, mentre si chiedeva se avrebbe dovuto dirgli cosa fosse effettivamente successo, cioè che era quasi stato derubato da una francesina sfrontata. Conoscendolo, se John glielo avesse detto, si sarebbe vergognato da morire, sarebbe diventato tutto rosso sul volto e le labbra si sarebbero assottigliate per la tensione. Per non parlare del fatto che per tutta la giornata avrebbe rimuginato su quello che era accaduto, sarebbe stato taciturno e non si sarebbe goduto le bellezze che quel viaggio aveva da offrire loro.

“D’accordo. Allora sappi, mio caro Paul, che ieri per colpa tua abbiamo perso un’occasione d’oro con due belle pollastrelle che ci avevano adocchiato.”

“Per colpa mia?” ripeté Paul, sbattendo le palpebre.

“Certo, colpa tua e della tua stupida sbronza. Le ragazze erano uno schianto e sicuramente ci sarebbero state, ma no, tu eri così fottuto che ho dovuto rinunciare a un po’ di sano divertimento per prendermi cura di te, perché non eri più con noi.”

Paul chinò il capo, guardando la mela in mano: “Mi dispiace, John."

"Fai bene a dispiacerti. Ho cercato di farti svegliare, ma niente. Eri completamente andato. E tutto questo perché non mi hai dato retta, quando ti ho detto di andarci piano con quella roba."

Paul ascoltò i rimproveri di John e giocherellò con la mela tra le mani, per non pensare al rossore che stava appropriandosi delle sue guance.

"Paul, mi hai fatto preoccupare davvero quando non mi rispondevi." affermò John con quel tono che ora aveva perso il tono scherzoso, "Ho dovuto portarti qui sulle spalle. E l’unica stanza disponibile, ovvero questa, è al secondo piano. Sai cosa significa fare due rampe di scale con il tuo dolce peso sulle spalle?"

Paul scosse il capo e cercò di combattere il sorriso che si stava facendo strada sulle sue labbra all'immagine che John aveva creato nella sua mente, e ci riuscì pensando di essere stato così conciato da essersi completamente perso quel momento. Sì, era stato lì, sulle spalle di John, ma senza sensi. Senza poter percepire le sue braccia che lo sorreggevano o l'odore della sua pelle o peggio ancora, le imprecazioni che doveva avergli rivolto durante il breve tragitto. Lo divertivano sempre moltissimo. Ma ora non ne avrebbe avuto memoria, solo parole, cose effimere che non potevano emozionarlo tanto quanto un gesto o il suo ricordo.

"Prometto che non ti farò più preoccupare, John. Davvero." gli assicurò.

"Sì, come no. Questa l'ho già sentita." sbottò John, incrociando le braccia.

"Vero, ma non l'ho mai promesso e ora lo sto facendo."

"Non so. Potrebbero essere i residui di alcol a parlare al posto tuo."

"Lo sai che sono io." gli disse, guardandolo negli occhi.

John ricambiò lo sguardo per un lungo minuto, poi sospirò.

"Se mi fai ancora preoccupare in questo modo, riceverai una bella punizione. Stanne certo."

"D'accordo." esclamò Paul sorridendo, "Allora, pace fatta?"

"Pace fatta? Perché, abbiamo litigato?"

Paul scrollò le spalle: "Beh, ho fatto una cosa terribile come impedirti di andare con quelle ragazze..."

John rise, abbandonandosi all'indietro sul letto e stiracchiandosi.

"Oh, sai, non erano poi tutta questa grande bellezza. Può darsi che sia stata una fortuna. Ero così stanco per colpa di quelle tue fottute scale che la mia prestazione sarebbe stata piuttosto insulsa. E sai, John Lennon ha una reputazione da difendere. Una molto alta." spiegò, facendogli l’occhiolino e Paul ridacchiò.

"Oh, ma certo, John."

"Adesso mangia queste cazzo di mele, altrimenti ti ammazzo."

"Sissignore, signore."

“Così almeno vediamo di darci una mossa oggi, e non restare tutto il giorno qui.”

Paul annuì e si affrettò a mangiare la mela. Di tanto in tanto alzava lo sguardo per rivolgerlo rapidamente, furtivamente verso John che sgranocchiava la sua mela, sdraiato sul letto con la testa accanto alla piccola collinetta delle coperte sotto cui vi erano i piedi di Paul.

John non sembrava davvero arrabbiato, decretò Paul. Sicuramente aveva fatto tutta quella messinscena per farlo sentire in colpa perché aveva perso l’occasione con quelle ragazze, ma Paul non poteva sentirsi in colpa. Anzi era quasi felice di ciò che era accaduto. Non desiderava davvero che John andasse con qualche insulsa francesina, conosciuta solo mezz’ora prima, che non sapeva neanche da dove venisse. Era in viaggio con lui, dannazione, con Paul, e tutti gli altri potevano anche andare a farsi fottere solo per un attimo, invece che distrarre John da quel piccolo, prezioso momento che stavano condividendo insieme, un ricordo che sarebbe appartenuto solo a loro due e nessun altro.

Un viaggio che stava facendo fuoriuscire tutti quei sentimenti che Paul aveva sepolto da qualche parte nel suo cuore, e solo ora si stava accorgendo di non aver fatto un buon lavoro. Proprio come anni prima aveva percepito che John, dietro la sua facciata spavalda, stesse soffrendo per la morte di una madre persa due volte, allo stesso modo ora era consapevole che neanche lui riuscisse più a nascondere quei sentimenti e che fosse proprio John a tirarli fuori. Era come se fossero nascosti semplicemente dietro una tenda e John, in quel viaggio, con tutti quei piccoli gesti di preoccupazione, protezione verso Paul, il suo prendersi cura di lui, aveva solo compiuto il semplice movimento di scostare appena la tenda, come se volesse guardarvi all’interno. Paul aveva paura che lui lo facesse, ma allo stesso tempo lo desiderava, voleva che lui guardasse in quel punto della sua anima che era sempre stato chiuso per tutti, anche per John. Forse anche per lo stesso Paul. Perché solo John avrebbe avuto la forza di scostare quella tenda e perché dentro non avrebbe trovato nient’altro che se stesso.

Paul non poteva sentirsi colpevole per questo. Proprio non ce la faceva.

****

Che schifo di serata!

Era stato uno di quei giorni in cui Paul aveva rimuginato su tutti quei pensieri, dubbi e problemi che ogni tanto si divertivano a tornare a galla e tormentarlo. E quando lo tormentavano, sapevano essere crudeli. Se decidevano di occupare la sua mente per tutta la giornata, non c’era alcun modo di far cambiare loro idea. E così da quando si era svegliato, aveva avuto la mente impegnata in quel lavoro decisamente poco gradevole, perché in questi casi un'occupazione simile coinvolgeva tutte le sue capacità, con il risultato che Paul era distratto e con i riflessi rallentati. Anche suonare diventava complicato e capitava spesso che sbagliasse. Come era accaduto quel pomeriggio e quella sera al Top Ten.

Non capitava spesso che Paul sbagliasse un accordo o un'entrata. Di solito lui era quello precisino e perfettino della band e quando toccava a lui sbagliare, tutti i suoi compagni ne approfittavano per prenderlo in giro e sfogarsi in questo modo per tutte le critiche che Paul aveva sempre rivolto loro. A parte John. John lo guardava con un misto di preoccupazione e delusione perché da lui non se lo aspettava. Perché se inciampava Paul, gli aveva detto una volta, inciampavano anche tutti loro. E quello, quel suo semplice sguardo era più tagliente di qualunque insulto potessero rivolgergli George o Pete o quel coglione di Stuart. Lo sguardo di John aveva la straordinaria capacità di farlo sentire colpevole, come se gli avesse ammazzato il cagnolino.

E ora Paul stava recandosi verso l'unico luogo, verso l'unica cosa che avrebbe potuto consolarlo: una rapida scopata nel suo letto con la prima ragazza disponibile.

Fino a pochi secondi prima era seduto al bancone del bar, lo sguardo perso nei cubetti di ghiaccio del suo drink, stranamente interessato al modo in cui galleggiavano nell'alcol. Aveva aspettato lì che qualcuno del gruppo lo raggiungesse per fargli l’ennesima strigliata, magari John, che l’avrebbe rimproverato per bene, forse anche pesantemente. Ma poi sarebbe finita, John avrebbe lasciato tutto alle spalle, sicuro che Paul avesse compreso la sua paternale, sicuro di aver chiarito quanto fosse importante, fondamentale per lui il suo ruolo nella band, e sarebbero tornati allegri e spensierati come prima.

Tuttavia John non si era fatto vedere. E Paul si era sentito quasi dispiaciuto. Non voleva che calasse la notte sugli errori che aveva commesso, sui dispiaceri che aveva procurato a John. Voleva dirgli che era mortificato, che non sapeva proprio cosa caspita gli fosse successo e assicurarlo che cose simili non si sarebbero più ripetute. Ma niente, di John neanche l’ombra.

Poi era arrivata questa biondina tedesca che l'aveva abbordato con un inglese traballante, ma decisamente migliore rispetto al modo in cui lui parlasse tedesco, e Paul inizialmente non era stato particolarmente entusiasta. Non aveva proprio voglia di parlare con nessuno, a parte John, naturalmente. Paul aveva fatto schifo durante l'esibizione e John l'aveva rimproverato con quei suoi occhi chiari e penetranti che per un momento Paul si era sentito totalmente spoglio di fronte a lui, con tutti quei pensieri e sentimenti in bella mostra per John e nessun altro. La sensazione era stata così impotente che alla fine Paul aveva colto  l’occasione con quella ragazza solo perché finalmente avrebbe avuto il controllo di qualcosa quella sera, solo perché gli avrebbe permesso di tenere occupata la testa e non pensare, né provare nulla al di fuori del semplice piacere.

Perciò ora stava scendendo rapidamente le scale verso il loro piccolo appartamento, con la mano della ragazza stretta nella sua. Aveva fretta, ma non perché fosse eccitato. In effetti non lo era, non sentiva il sangue correre nelle sue vene, riscaldare ogni parte di lui, non percepiva quella piacevole sensazione che gli alleggeriva la pancia, una sensazione di trepidante attesa. Aveva il cervello stordito, però, e la vista offuscata, proprio come quando stava per darsi da fare con qualche ragazza. Sapeva che questo dipendeva dall’urgenza che aveva di spegnere la sua mente e tutto quel suo rimuginare che lo stava tormentando da quando si era svegliato quella mattina, come se si stesse preparando per qualcosa, come se stesse per succedere qualcosa di importante… il che lo rendeva solo ancora più agitato.

Oh, aveva davvero bisogno di quella distrazione!

Fu sollevato quando giunse davanti alla porta e la spalancò con impazienza. La spalancò, attirò dentro la ragazza e subito si fermò. Per tutta la stanza echeggiavano gemiti e grugniti e Paul capì subito da dove provenissero. Nel lettino di fronte, c’era un piccolo sedere che andava su e giù, avvolto da due gambe snelle (1).

John che si dava da fare con una ragazza.

“Oh, cià okkupato.” disse la ragazza accanto a Paul e ridacchiò scioccamente.

La sua risatina ebbe come effetto il far fermare i movimenti di John e l’amico si voltò bruscamente verso di loro, lasciandosi scappare un brontolio. Paul lo vide socchiudere gli occhi per mettere a fuoco gli intrusi, con quell’espressione infastidita che molte volte aveva visto sul suo viso. Non gli piaceva essere interrotto quando parlava, figuriamoci quando dava e riceveva piacere da una ragazza. Erano guai seri per chi lo faceva!

“Paul?! Che cazzo ci fai qui?!”

Quasi gli ringhiò contro e Paul aggrottò la fronte: “Beh, questa sarebbe anche camera mia.”

“Ma porca puttana! Non si può avere un attimo di privacy, qui.”

“Oh, laszalo pertere.” disse la ragazza sotto di lui, stringendolo ancor di più con le gambe e le braccia, invitandolo a voltarsi verso di lei per un bacio profondo, invitandolo a non prestare alcuna attenzione a Paul.

A ignorarlo.

John rise, riprendendo a muoversi dentro di lei con foga. Paul tornò sui propri passi, la ragazza lo seguì nel piccolo ingressino, e poi lui chiuse la porta, appoggiandovi la schiena: i gemiti di John giungevano ancora alle sue orecchie, riverberando in lui attraverso il legno.

Cosa gli stava succedendo?

Stava tremando, sentiva tutto il suo corpo fremere, le mani, le braccia, il petto e il cuore all’interno, che sussultava irrequieto ed eccitato e felice e spaventato. 

Perché?

Per quello che aveva visto? Non aveva visto niente di così insolito, solo John e la sgualdrina di turno.

E poi perché se n’era andato? Dopotutto non era la prima volta che condividevano la stessa stanza durante quei momenti di intimità con una ragazza. Allora perché, perché cazzo se n’era andato?

“Allora, ke zi fa?” gli domandò la ragazza, piuttosto annoiata.

Paul sussultò a quella domanda che lo aveva sorpreso nel bel mezzo dei suoi pensieri, dei suoi perché che portavano a risposte che lo spaventavano. Per un momento si era dimenticato di lei e ora, bruscamente riportato alla realtà, Paul la fece scostare da un lato e senza dirle una parola se ne andò, lasciandola da sola e allibita, davanti alla porta del loro appartamento. All’improvviso il divertimento che lei poteva offrirgli perse d’interesse e Paul voleva solo andare lontano, il più lontano possibile da quella ragazza, da quell’appartamento e sì, anche da John. Soprattutto da John e quella puttanella che senza farsi problemi, gli aveva detto di lasciarlo perdere. Lui, Paul! Lei che senza la benché minima conoscenza di John, di Paul, di ciò che erano e avevano condiviso e continuavano a condividere, aveva osato avanzare quella richiesta.

Paul si portò una mano sulla bocca, mentre avanzava a passo spedito lungo la Reeperbahn, ignorando tutto ciò che lo circondava e tentava di richiamare la sua attenzione, eccezion fatta per quell’insistente martellare del suo cuore nel petto, nelle orecchie, in qualunque parte del suo corpo.

Era come se una parte di lui si sentisse più felice ora, più leggera e spensierata, mentre l’altra era disperata e spaventata da questo sentimento che gli offuscava la vista e annebbiava la mente e che lo faceva vagare senza meta, con un solo pensiero in testa. Il pensiero che sarebbe stato assai più felice da qualche parte, da qualunque parte con John che lo rimproverava perché aveva suonato da schifo per tutto il giorno, magari anche insultandolo con cattiveria, piuttosto che lasciarlo a divertirsi con quella sgualdrina.

Se quella era davvero gelosia, così come chiaramente sembrava, allora lui era davvero fottuto. Andava bene essere geloso di John a causa di Stuart, in qualche modo Paul se n’era fatto una ragione. Inoltre aveva un po’ di senso, Paul voleva essere l’amico speciale, quello specialissimo di John.

Ma essere geloso di John a causa di una ragazza? Era diverso, oh, era così terribilmente, pericolosamente diverso. Significava che Paul non volesse essere solo l’amico speciale di John. Significava che Paul volesse essere la persona speciale per John.

L’unica.

L’unico a provare per lui quel sentimento che era insieme dolcezza e possessività.

Perché lo stava provando?

E soprattutto, cos'era?

****

Paul sospirò intensamente, al ricordo che aveva appena attraversato la sua mente e che l’aveva fatto arrossire. Sospirò perché in effetti aveva tutti i motivi del mondo per sentirsi colpevole.

Perché quella fu la sera in cui si accorse di amare John.

No, non come amava George e neanche come amava Mike o suo padre.

Lo amava con quel sentimento che sconvolge e conforta e poi scoraggia e ancora rasserena. Quel sentimento che era nato lentamente, così lentamente in lui che quando se n’era accorto era troppo tardi per rimuoverlo o ridimensionarlo o cercare di trasformarlo in qualcos’altro.

E poi a pensarci bene, neanche voleva cancellarlo. Non voleva pensare di non aver mai provato qualcosa del genere per John. La sola ipotesi era più terribile della sua situazione attuale, che era già abbastanza disperata.

Amare John Lennon? Amare il suo migliore amico? Doveva essere pazzo. Aveva sempre pensato che quello pazzo fra i due fosse John. Invece infinite erano le sorprese che poteva riservare la vita e questa, in fondo, è solo ciò che accade quando si è impegnati in altri progetti (2). E Paul aveva sempre pensato che un giorno, ancora lontano, sia chiaro, si sarebbe innamorato di una ragazza e se ne sarebbe accorto in modo banale, prendendola per mano come al solito e guardandola negli occhi.

Con John non era accaduto nulla di tutto questo. Era stata una rivelazione violenta e improvvisa. Di punto in bianco Paul aveva aperto gli occhi, nel cammino della sua vita, e si era accorto che al suo fianco c’era John: camminava con lui, nella stessa direzione, camminava con il suo stesso passo, verso gli stessi sogni, la stessa felicità, lasciandosi alle spalle le stesse esperienze, gli stessi dolori.

Come un’anima gemella.

E questo, la condivisione di un’intera vita era così potente che Paul non aveva potuto fare a meno di innamorarsene. Della vita. Della sua vita con John. Dello stesso John.

“Ehi!”

In quel momento John lo richiamò dandogli un pizzicotto sulle dita del piede, attraverso la coperta, facendo saltare letteralmente Paul sul letto. Il giovane lo guardò e arrossì vistosamente per essere stato colto nel bel mezzo dei suoi pensieri più intimi che coinvolgevano quel ragazzo con cui condivideva la camera e la vita.

“Che c’è?” gli domandò.

La voce tremava, ma Paul era ormai allenato a camuffarla, in modo che John non si accorgesse che qualcosa, qualcosa che riguardava proprio lui, lo stesse turbando.

“Stavo pensando una cosa.” cominciò a dire John portandosi le mani dietro la testa.

“Di che si tratta?”

“Ti andrebbe di restare a Parigi per tutta la settimana?”

“A Parigi?” ripeté Paul, spalancando gli occhi per la sorpresa, “Ma tu non volevi andare in Spagna?”

“Oh sì, ma è così lontana. E sai, in fondo questa camera non è male.”

“No, non è affatto male, John. Per non parlare del letto, è così comodo.” disse Paul e sorrise, allungandosi sotto le coperte con i movimenti felini di un gatto.

“Esatto. È sempre meglio di quelle macchinine e quei camion su cui dovremmo dormire se decidessimo di proseguire per la Spagna.”

Paul si morse il labbro, pensandoci su: “In effetti non abbiamo visitato Parigi per bene.”

“E in Spagna potremmo sempre andarci l’anno prossimo, quando riceverò ancora i soldi per il mio compleanno.”

John gli fece l'occhiolino e Paul scoppiò a ridere.

“E se non ne riceverai proprio?”

“Beh, allora ci andremo quando saremo famosi. Perché sai che un giorno accadrà, vero?”

Paul annuì, lo sapeva perché ci credeva John e John non sbagliava mai. Almeno per quanto riguardava il loro gruppo. Così gli sorrise e scrollò le spalle.

“Ma sì, restiamo a Parigi. La Spagna rimane dov’è, giusto?”

“Giusto! Chi la sposta da lì?” esclamò e poi gattonò sul letto verso di lui, scostando all’improvviso le coperte.

Una ventata d’aria fredda colpì Paul che subito ritrasse le gambe.

“John!”

“Dai, ragazzino, abbiamo una città che aspetta solo noi. Datti una mossa e vai a lavarti. Non ho intenzione di trascorrere la mia giornata in hotel.”

“Ok, ok, ho capito.”

Paul si alzò e gli rivolse uno sguardo prolungato, prima di dirigersi verso il bagno.

Forse era davvero colpevole e il suo reato era quello di amare il suo migliore amico. Un reato grave che probabilmente nessuno, neanche lo stesso John, avrebbe potuto capire e tollerare.

Forse amare John sarebbe stata la cosa più difficile da affrontare nella sua vita. Sarebbe stata la fine della loro amicizia, se non addirittura la fine della sua stessa vita. Era un’opzione plausibile, quella storia poteva avere un’unica fine, un'unica sentenza: il suo cuore a pezzi. Una morte lenta e dolorosa che aveva cercato lui stesso.

Ma andava bene così.

Come si dichiara l’imputato?

Non avrebbe rinunciato ad amare John per tutte le assoluzioni del mondo.

Colpevole, Vostro Onore.

 

 

 

(1)- Citazione dall'Anthology, quando Paul dice di aver sorpreso una volta John con una ragazza e di aver visto un "piccolo sedere che faceva capolino su e giù e sotto c'era una ragazza".

(2)- Riferimento al verso della canzone “Beautiful boy” di John.

 

Note dell’autrice: pubblico questo capitolo dopo il concerto della tribute band dei Beatles. Ah, che bella serata. :D

Allora, un capitolo importante questo, per una rivelazione importante sul nostro Paul.  Spero che sia uscito bene come me lo immaginavo io.

Il prossimo capitolo, “Coraggio”, sarà l’ultimo con i flashback.

Grazie a kiki per la correzione e weasleywalrus93 per il consiglio sulle frasi italiane pronunciate dalle ragazze tedesche. J

Con la pagina “Two of us” sto partecipando a un contest con questa storia: parla di un Paul che cerca di trovare John dopo la sua morte, grazie all’aiuto di una pastiglia di LSD. http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2227469&i=1

Se voleste leggerla e mettere mi piace al link che trovate alla fine della oneshot, ve ne sarei grata. J

A domenica prossima, con il capitolo 9.

Kia85

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Capitolo 9
*** Coraggio ***




 

Ticket to Paris

 

Capitolo 9: “Coraggio”

 

John Lennon sapeva che Paul McCartney fosse un idiota. Sapeva che fosse un idiota colossale.

Tuttavia questo, QUESTO, non se lo aspettava proprio da lui.

Erano appena tornati dal loro incredibile soggiorno ad Amburgo ed erano già stati ingaggiati per suonare al Cavern, a Liverpool. Praticamente un sogno che diventava realtà. John era così eccitato che la prima persona a cui aveva pensato di telefonare era stato colui che, insieme a John, era il componente di più lunga data della band: Paul.

Così John gli aveva illustrato nei più piccoli particolari l'offerta, con una voce che tremava per le scosse incontrollabili dovute a quell'euforia che lo stava sopraffacendo.

Tuttavia non era pronto a ricevere come risposta quelle due parole che Paul gli rivolse in modo asciutto: "Non posso."

John rimase in silenzio, cercando di riprendersi, sempre che fosse possibile, e quando fu in grado di parlare di nuovo, gli chiese perché.

Di nuovo Paul rispose, e lo fece con la frase che John più temeva di sentire uscire dalla sua bocca.

"Ho trovato un lavoro."

"Hai trovato un che?" domandò John, ridacchiando non tanto per il divertimento, quanto piuttosto per il nervosismo.

Inoltre la sua voce era aumentata di tre toni, il che di solito non prometteva mai niente di buono.

"Lavoro, John, la-vo-ro." Paul scandì bene le parole, per fare in modo che John comprendesse ciò che gli stava dicendo.

"E sentiamo, che tipo di lavoro avresti trovato?" gli domandò, stringendo involontariamente la mano attorno alla cornetta, come se stesse per crollare e cercasse un sostegno che Paul non poteva più dargli.

"Qualcosa alla Massey & Coggins." rispose vagamente Paul. (1)

John sorrise con un ghigno che avrebbe infastidito Paul se avesse potuto vederlo, e avrebbe potuto infastidire anche se stesso perché, che cazzo di risposta era? Come poteva questa risposta fare chiarezza nella mente stordita di John? Gli aveva detto poco o niente. Come  poteva farlo stare meglio?

Al contrario lo faceva solo arrabbiare di più, perché John sapeva cosa c'era dietro tutta quella storia.

"È stato tuo padre, vero? Ti ha trovato lui questo lavoro del cazzo?" quasi ringhiò contro il telefono, ma doveva essere così.

Non poteva essere un'idea di Paul. John l'aveva visto ad Amburgo, quanto Paul si entusiasmasse a suonare con loro, con lui, quanto si divertisse, quanto tenesse alla loro band, a George, a Pete, perfino a Stuart. A John, naturalmente. L'aveva sentito e John non avrebbe creduto per niente al mondo che tornato a Liverpool, Paul fosse uscito di casa un giorno, per cercare lavoro.

"Ti sbagli, John." gli rispose, ma la sua voce aveva indossato la veste trasparente dell'incertezza, che John sapeva togliere con fin troppa facilità.

"Paul!" sbottò arrabbiato.

"Oh, e anche se fosse? Non sono cazzi tuoi."

"Certo che lo sono, se per accontentare lui lasci nella merda me."

"Sono sicuro che troverai qualcun altro al posto mio." gli fece notare Paul e John non mancò di percepire una punta di delusione nella sua voce.

“Sì, come no! Non c’è nessuno che possa prendere il tuo posto, Paul.”

John non sapeva proprio come gli fossero uscite quelle parole dalla bocca. Forse era stato a causa della troppa rabbia. La rabbia perché Paul lo stava lasciando nei guai, la rabbia perché stava preferendo qualcun altro a lui, la rabbia perché pensava che non fosse abbastanza per la band e per John, quando al contrario era tutto. Senza di lui John non avrebbe neanche imparato a suonare bene la chitarra.

All’altro capo del telefono c’era silenzio, come se Paul non sapesse più cosa dire. E John sapeva che toccava a lui fare qualcosa.

“Paul, non hai bisogno di lavorare. Abbiamo la nostra band." gli disse con tono rincuorante, quando un po' di rabbia passò.

“Sì, invece. Tu non capisci.”

“Fammi capire allora.” esclamò esasperato John.

Aveva voglia di averlo tra le sue mani per schiaffeggiarlo e farlo tornare in sé, o forse per implorarlo di non abbandonarlo.

“So già cosa mi diresti.”

“Provaci lo stesso.” lo incoraggiò l’amico.

“No, John, mi dispiace. Devo lasciare la band.”

Era una cosa molto da Paul, dribblare l'argomento che proprio non gli andava giù, restare sul vago, così John non sapeva dove sbattere la testa per rispondergli. Paul era un campione ormai in questa specialità. Primo, secondo e terzo posto.

“Paul, domani abbiamo le prove. Se non vieni, sei fuori. Chiaro?” (2)

Gli era costato molto dirlo, ma sapeva di dover mettere Paul con le spalle al muro, per fargli cambiare idea, per spronarlo ad affrontare suo padre una volta per tutte sulla questione della band. Sapeva che in Paul c’era il coraggio necessario per farlo. Paul doveva solo crederci, credere che se avesse cercato in profondità dentro di sé, da qualche parte l’avrebbe trovato, il coraggio di affrontare suo padre e qualunque altra cosa nella sua vita.

Paul doveva crederci come John credeva in lui e allora avrebbe fatto la scelta giusta, John ne era convinto.

“Chiaro.” sospirò Paul,  “Ciao, John.”

E riattaccò.

John restò al telefono, ascoltando il segnale di occupato rimbombare nel suo orecchio.

Non poteva perdere Paul proprio quando avevano ottenuto il Cavern. Dannazione, quante volte avevano riso perché credevano che mai e poi mai avrebbero potuto esibirsi lì? E ora che il sogno stava diventando realtà, Paul lo lasciava.

Col cazzo che lo lasciava!

John non aveva intenzione di rinunciare a lui. Ne aveva bisogno. Ne aveva disperatamente bisogno. All’improvviso l’idea di suonare senza di lui era così spaventosamente orrenda e insignificante. Come se, senza Paul, John non fosse in grado di fare più nulla, come se niente potesse essere più interessante, come se con lui se ne andasse anche il sole dalla sua vita.

Paul non poteva lasciarlo.

E John l'avrebbe impedito a qualunque costo.

****

Il cuore gli batteva velocemente e Paul non ne conosceva davvero il motivo.

Forse perché stava per tagliarsi i capelli e abbandonare quella pettinatura col ciuffo.

O forse perché ogni tanto, per la sua testa, passava l’assurdo desiderio di voler confessare a John il segreto che da tempo giaceva dentro di lui, costretto in quella gabbia malinconica dallo stesso Paul, perché, santo cielo, nessuno doveva saperlo. Nessuno, soprattutto John. Sarebbe stata la fine di tutto e Paul non voleva. Eppure ultimamente, si sentiva sempre più spesso pronto ad aprire quella gabbia ed era proprio John che gli stava porgendo la chiave. Sentiva di essere coraggioso abbastanza per rischiare tutto quello che aveva costruito con John, per questo sentimento che lo tormentava senza fine. In un certo senso era come se pensasse che sì, d’accordo, probabilmente avrebbe rovinato tutto, ma John avrebbe capito. In qualche modo avrebbe capito quello che Paul aveva da offrirgli e l’avrebbe tenuto con sé, nella band, perché in fondo aveva bisogno di Paul, come musicista e come amico. Lui, naturalmente, avrebbe sofferto, ma almeno avrebbe potuto continuare a frequentarlo. Una parte di lui sapeva che non sarebbe più stato lo stesso con John, che sarebbe inevitabilmente cambiato tutto, che Paul non avrebbe accettato il cambiamento, che non si sarebbe più accontentato.

In quel momento John rise, perché Jürgen aveva appena tagliato un centimetro da una delle sue ciocche ramate.

Paul lo guardò, sorridendo fra sé. La risata di John riusciva sempre a metterlo di buonumore, lo contagiava all’istante e Paul si rilassò. Non avrebbe mai potuto rinunciarvi. Allora sì, avrebbe sofferto come un cane ascoltando John dire che non avrebbe potuto che offrirgli semplice amicizia, ma Paul si sarebbe accontentato di stare accanto a lui in qualunque modo avesse desiderato John, perché la vita senza John sarebbe stata inutile e triste e fredda.

Poi, dannazione, c’era anche l’ipotesi che John non avrebbe mai potuto capirlo e gli scenari di tale ipotesi erano terribili e Paul non voleva neanche prenderli in considerazione, altrimenti soffocava e-

Si dimenò sul divanetto, cercando di trovare una posizione migliore. Era fottutamente scomodo quel divano, ma provò comunque a respirare a fondo e calmarsi.

Con loro grande gioia e sorpresa, solo poco tempo prima avevano incontrato Jürgen Vollmer in un quartiere della rive gauche di Parigi (3). Erano seduti al bar a guardare gli universitari francesi che si affrettavano per tornare a lezione dopo la pausa pranzo, quando avevano intravisto una sagoma familiare che scattava foto al paesaggio della Senna che bagnava Parigi.

“Porca miseria!” aveva esclamato John e subito dopo aver stretto il braccio di Paul, si era alzato per raggiungere il ragazzo.

Paul l’aveva seguito e passo dopo passo, aveva iniziato a riconoscere anche lui l'amico fotografo da Amburgo.

Che piacevole sorpresa trovare un viso familiare tra i tanti sconosciuti che incrociavano in quella città. E trovarlo per caso rendeva tutto più eccitante. Se Paul pensava che erano riusciti a incontrarsi proprio a Parigi, che si erano ritrovati nello stesso punto del mondo, nello stesso giorno, alla stessa ora senza neanche mettersi d’accordo… cielo! Era così incredibilmente elettrizzante. Era in quei momenti che Paul cominciava a credere davvero che ci fosse qualcuno che manovrava le loro vite come dei burattini, che ci fosse qualcuno che decideva dove dovessero andare, chi dovessero incontrare e amare. Alcuni lo chiamavano destino, altri fortuna, altri ancora Dio. Paul non sapeva come chiamarlo, ma era certo che l’incontro con Jürgen a Parigi fosse stato inevitabile, e allo stesso modo, inevitabile era stato anche l’arrivo di John, in quella calda giornata d’estate di quattro anni prima.  Era stato programmato da qualcuno, era un capitolo importante di quel grande libro dal titolo “Vita di Paul McCartney”. E non solo il suo arrivo, ma anche il suo essersi innamorato di John era stato fatale, come se una volta che fosse entrato a contatto con John, non avrebbe potuto evitare che questo accadesse, neanche se si fosse impegnato, neanche se avesse voluto.

Jürgen si era trasferito a Parigi per frequentare l’università e studiare fotografia. Da solo. Paul ne era rimasto piuttosto impressionato. Ci voleva un grande coraggio per poter abbandonare la sicurezza della propria città natale per andare in un paese straniero. Ci voleva coraggio per intraprendere un tale viaggio da solo, lasciando la famiglia e i propri amici ad Amburgo, per farsene di nuovi lì, a Parigi. Paul in qualche modo lo ammirava. E questo lo aveva costretto a pensare se anche lui avesse potuto fare qualcosa di simile. Forse no. Sì, lui era andato ad Amburgo, avevano intrapreso anche un tour in Scozia prima dell’avventura tedesca, ma Paul era stato in compagnia. Aveva il gruppo: si difendevano a vicenda, si incoraggiavano e facevano forza l’un l’altro. Non erano mai stati soli in quei viaggi. Jürgen invece aveva avuto il coraggio necessario per fare tutto questo da solo, e Paul desiderava avere un pizzico di quel coraggio per poterlo utilizzare in qualunque aspetto della sua vita: per far rispettare le sue idee nella band, per spiegare una volta per tutte a suo padre che lui voleva fare musica e vivere di questo, per confessare a John il suo segreto più oscuro.

“Ehi, Paul! Che ne dici?” lo richiamò John.

Paul scosse il capo e si avvicinò a John e Jürgen. Sotto la sedia dove era seduto John, c’erano tante piccole ciocche ramate, che la forbice fra le mani di Jürgen aveva tagliato con movimenti incerti.

Quando avevano incontrato Jürgen, John era rimasto molto colpito dall’acconciatura dell’amico. I capelli erano schiacciati sulla testa, con la frangia sulla fronte. Erano molto diversi da come li portavano John e Paul e negli ultimi giorni, frequentando quella città dall’animo così giovane, i due ragazzi si erano accorti che fosse un taglio molto diffuso. E tutto ciò che era all’ultima moda, doveva essere provato anche da John e Paul. Così avevano cercato di convincere Jürgen a tagliare i loro capelli con la stessa acconciatura. Ma lui all’inizio era stato riluttante perché, “No, ragazzi, no. Mi piacete come rockettari, siete grandiosi.” (4)

Tuttavia John non era uno che si lasciava scoraggiare facilmente e così aveva implorato, l’aveva stressato come solo lui sapeva fare.

"Andiamo!" gli aveva detto John, "Siamo in vacanza ed è nostro sacrosanto diritto divertirci e gettare al vento la prudenza."

Così Jürgen aveva infine acconsentito e ora si trovavano nella sua camera d’albergo e Paul stava guardando il risultato sulla testa di John, che si era offerto come cavia. Sembrava così diverso. Non era proprio come il taglio di Jürgen, sembrava più il cappello di un funghetto. Paul dovette fare molta fatica per non scoppiare a ridere e far arrabbiare di conseguenza John, e magari anche Jürgen perché evidentemente il taglio non gli era riuscito proprio bene. Questo lo fece riflettere. Era pronto per un cambiamento così drastico? Dopotutto si poteva capire molto dal taglio di capelli di una persona e loro fino a quel momento erano sembrati dei veri professionisti del rock ‘n roll, proprio come Elvis. Ma ora che impressione avrebbero fatto sulla gente? Quell’acconciatura stava bene a universitari e intellettuali bohémien, come Jürgen e quei ragazzi che frequentavano il quartiere della rive gauche della Senna, mentre avrebbe potuto far apparire John e Paul come delle persone normalissime, nessuno avrebbe potuto dire da quel taglio di capelli che fossero delle rockstar e cosa assai più tragica, i fans avrebbero potuto abbandonarli. Questa sarebbe stata la fine per il loro gruppo.

Tuttavia John sembrava soddisfatto dal taglio di capelli, mentre si guardava allo specchio, confrontandosi con Jürgen e complimentandosi per il lavoro. Allora forse Paul l’avrebbe seguito anche in quest’avventura senza esitazione. Se John si fidava, perché non avrebbe dovuto farlo anche lui?

"Wow, John. Adesso potresti tranquillamente frequentare l'università e atteggiarti a vero bohémien."

"Ottimo. Allora tocca a te adesso." esclamò John e si alzò per cedere il posto a Paul.

Il suo cuore sussultò quando John lo spinse sulla sedia.

Perché Paul aveva paura di seguire John? Era sempre per la fottuta questione  del coraggio di cui Paul era sprovvisto, mentre sembrava che John ne avesse in abbondanza. Ma Paul era sicuro che dietro quel taglio di capelli ci fosse un significato più profondo: non avrebbe cambiato solo il suo aspetto, ma anche se stesso e di conseguenza il suo futuro, la sua vita.

Chissà, magari avrebbe potuto trasmettergli un po’ di quel coraggio che Paul tanto agognava avere.

“D’accordo.” esclamò, stringendo con le mani i braccioli della sedia, “Diamoci un taglio.”

****

Paul non si era presentato.

Quel coglione aveva saltato le prove e John era semplicemente furioso: era convinto che Paul li avrebbe raggiunti dopo l’ultimatum di John. Sapeva che a Paul non piaceva essere messo alle strette, soprattutto da John. Di conseguenza era sicuro che Paul alla fine avrebbe scelto lui e trovato la forza di ribellarsi al volere del padre. Invece no, questa volta John aveva perso il confronto e la cosa lo stava rendendo pazzo. John non perdeva mai e soprattutto John non poteva perdere Paul.

Ma John sapeva anche che la partita non era ancora finita e alla fine avrebbe vinto lui.

Ecco perché ora si stava dirigendo verso il luogo in cui Paul lavorava. Non era stato difficile scoprire dove si trovasse, George sapeva sempre tutto di Liverpool. Era una specie di pettegolo e questo tornava molto utile in casi del genere. Paul stava lavorando alla Massey & Coggins, John lo sapeva, glielo aveva detto lo stesso Paul. Era una ditta che si occupava di motori elettrici e altre cose simili di cui John non capiva niente. Ma il ragazzino non gli aveva detto che il suo lavoro consisteva nello spazzare i cortili, mentre George l’aveva scoperto andando a trovarlo sul posto di lavoro per convincerlo a tornare nella band. Tentativo che era evidentemente andato a vuoto.

“Ti vergognavi a dirmelo, eh, Paul?” aveva pensato John quando George gli aveva riferito tutto.

Era un motivo in più per andare a prenderlo e trascinarlo via. Se doveva lavorare lì, allora Paul avrebbe dovuto esserne fiero, di qualunque lavoro si trattasse, proprio come era fiero di far parte della band. In questo modo, invece, non aveva fatto altro che comunicare inconsciamente a John che voleva essere salvato, voleva essere disperatamente salvato e John non si tirava mai indietro, quando un amico chiedeva aiuto.

Quando arrivò sul luogo incriminato, si guardò un po’ intorno, cercando di ricordare le istruzioni di George: “Devi lasciarti la porta d’ingresso sulla sinistra. Poi vai avanti e costeggi il muretto. Lo segui fino a quando svolta a sinistra. Pochi metri più in là, dall’altra parte del muro, trovi Paul.” (5)

E così fece John. Il muretto era più alto di lui di almeno trenta centimetri. Trovò una piccola rientranza in un mattone rovinato e vi infilò il piede, sollevandosi e aggrappandosi in cima alle file di mattoni rossi ben allineati. Spinse verso l’alto, facendo forza sulle braccia e infine sollevò una gamba, gettandola dall’altra parte.

Paul era davvero lì, tutto intento a spazzare il cortile con una vecchia scopa di saggina, la schiena un po’ ricurva, l’espressione concentrata, ma anche piuttosto annoiata. Certo, John lo vedeva proprio bene a fare quel lavoro per il resto della sua vita. Paul non era così, e neanche John. Sapeva che la loro strada sarebbe stata un’altra.

“Guarda che se stai così, ti viene la gobba.”

Paul si voltò verso di lui e sembrò piuttosto sorpreso di trovare il suo amico appollaiato sopra quel muretto.

“John? Che ci fai qui?” domandò, guardandosi intorno nervosamente.

John con un agile salto lo raggiunse a terra.

“Sono venuto a riportarti una cosa che hai dimenticato l’ultima volta che hai dormito da me.”

Paul lo fissò con sguardo incerto, mentre si avvicinava a lui: “E sarebbe?”

John sorrise e gli rifilò un lieve ceffone sulla nuca.

“Il tuo cervello, zuccone!”

“Ahi!” si lamentò Paul, strofinandosi la parte colpita.

“Ecco, ora è tornato al suo posto.” John ridacchiò, poi lo afferrò per la manica della camicia, “Dai, andiamocene da qui.”

Ma quando cominciò a trascinarlo verso il muretto, Paul si fermò, liberandosi dalla sua presa.

“Aspetta un attimo, cosa stai facendo?”

“Mi sembra evidente, ti sto portando dove dovresti essere in questo preciso momento. Alle prove con la nostra band per il concerto al Cavern. Te la ricordi la band, vero, Paul?” esclamò con un sorrisino sghembo sulle labbra.

“John, no, non posso.”

“Come sarebbe a dire ‘non posso’?” ribatté John, aggrottando la fronte.

L’impresa si stava rivelando più difficile del previsto e John sentiva che avrebbe richiesto un impegno considerevole da parte sua, nonché una condivisione di sentimenti che era riluttante a mostrare a Paul. Per quale motivo, però, era ancora un mistero.

“Voglio dire che non posso continuare a stare nel gruppo, te l’ho già spiegato.”

“Allora spiegamelo di nuovo, perché sai quanto io sia lento di comprendonio!”

“Ho un lavoro fisso ora, John, e mi pagano bene, quasi otto sterline a settimana.”

“Oh, sì, una vera fortuna.” commentò John, acido, ma Paul scelse di ignorare il suo tono, continuando a parlare pacatamente.

“Sono soldi sicuri, John, non come quando andiamo in tour in Scozia o ad Amburgo, dove è già tanto se veniamo pagati.”

“Si tratta di resistere ancora un po’, Paul, stiamo per sfondare.” esclamò John e si avvicinò a lui per afferrargli gentilmente le spalle, “Lo sento.”

“Non sappiamo quanto durerà questo periodo di tempo, non siamo neanche sicuri che il successo arriverà e John, sicuramente questo per adesso non mi darà da vivere. Al contrario, questo lavoro mi permetterà di aiutare mio fratello e mio padre.”

John non ci vide più e lo afferrò per la camicia, facendogli subito dopo sbattere la schiena contro il muro e inchiodandolo lì, con una mano premuta all'altezza del cuore. La scopa di saggina cadde per terra, facendo un gran rumore e John sperò che nessuno sarebbe uscito per controllare cosa stesse accadendo.

"Stammi bene a sentire, ora. Sappiamo entrambi che tu hai voglia di lavorare qui tanto quanto me, cioè per nulla. Sappiamo entrambi che lo stai facendo per tuo padre e sappiamo che ti stai tappando le ali da solo e che io te lo impedirò perché non posso perderti. La band non può stare senza di te."

Neanche John a quanto pareva. E a questo punto, a John non importava nient’altro, se non il riprendere Paul con sé, averlo di nuovo al suo fianco… riconquistarlo.

"Perché?"

"Perché da solo non ce la faccio. Questa band è qualcosa che funziona, Paul, e tu lo sai. Cazzo, lo sai meglio di me. Ne sono certo. Lo sai dalla prima volta che ti ho visto suonare. Ma so anche che il potenziale di questo gruppo dipende principalmente da noi due. Dici sempre che sono il leader dei Beatles. La verità è che senza di te non ci sarebbero stati i Beatles e neanche io."

Paul non seppe davvero cosa rispondere. Aveva tante cose da dire, cose che concordavano con John, cose che discordavano con John, cose che si deliziavano con quanto detto da John, così tante cose che alla fine Paul scelse di stare in silenzio, limitandosi a guardare John e l'espressione sofferente del suo viso. Paul vedeva la paura e il dolore nascosti un po' dappertutto: dietro i suoi occhi chiari, negli angoli tirati delle labbra, nel modo in cui il suo naso aquilino si era lievemente arricciato... Aveva riconosciuto tutto questo così facilmente, perché era quello che stringeva il suo cuore all'idea di lasciare i ragazzi e John. Era stato uno dei motivi per cui aveva comunicato la terribile notizia a John al telefono. Se l'avesse visto così turbato, non avrebbe più avuto la forza di lasciarlo.

Ma ora John era lì, cercando di convincerlo a cambiare idea e stare con lui, a un passo dall'implorarlo di non lasciarlo come avevano fatto tutti gli altri.

"E mio padre?"

"Devi affrontarlo una volta per tutte, Paul. Io sono sicuro che capirà. Non sono esperto di padri, sai, ma ho sentito dire che alcuni di loro vogliono molto bene ai propri figli e penso che tuo padre sia fra questi. Alla fine capirà che questo..." disse, indicando l'edificio alla loro spalle, "Questo non ti renderà mai felice. Mentre la band ed io sì. E tu devi avere il coraggio di farlo, Paul, devi venire via con me, uscire da qui e prendere quello che vuoi. Quello che noi vogliamo."

Paul chinò il capo, guardando la scopa di saggina abbandonata accanto ai suoi piedi. Giaceva lì, senza vita, come la voglia che aveva Paul di lasciare John e lui era felice che l’amico fosse venuto a salvarlo dal suo destino. O forse da ciò che stava remando contro il suo destino, che ora più che mai Paul sapeva essere John e i Beatles. E suo padre e chiunque altro avrebbero dovuto semplicemente accettarlo, perché questa era la sua decisione e d'ora in poi non avrebbe più cambiato idea per nessuna ragione al mondo.

"Cazzo, John, che stiamo aspettando ad andarcene da qui?" esclamò, con un gran sorriso sulle sue labbra.

John finalmente si lasciò andare, imitando la sua espressione, e strinse inconsapevolmente la camicia di Paul nella sua mano. Sentiva di volerlo abbracciare, per fargli sapere quanto lo apprezzasse, quanto lo stesse rendendo felice. Ma il suo orgoglio lo fermò, facendogli notare che si era già abbastanza umiliato con quel discorso melenso e che per oggi poteva bastare.

Così annuì, incapace di smettere di sorridere: "Andiamo."

L'istante successivo Paul stava aiutando John ad arrampicarsi sul muretto e quando l'amico fu al sicuro in cima, allungò una mano per aiutare Paul a fare lo stesso. Paul la guardò solo un istante, pensando che dopo ciò, non poteva più tornare indietro. Mai più. Ma ancor prima che se ne accorgesse, la sua mano era volata in avanti e aveva stretto quella di John, che lo sollevò fino a quando Paul non fu seduto accanto a lui.

E prima che potessero saltare giù e correre via, verso un futuro che avevano sempre sognato, John si concesse il delizioso capriccio di colpire con un pugno la spalla di Paul.

"Ehi! E questo?" esclamò Paul, indignato.

"Questo è per avermi fatto preoccupare, razza di idiota." rispose John con un sorriso sornione, “Guai a te se provi ad abbandonarmi ancora.”

Paul si strofinò un po’ la spalla, poi rise: "Capito."

Dopo un ultimo sorriso, John saltò e guardò Paul dal basso, l’espressione del suo viso lasciava trasparire una trepidante attesa.

Forse Paul, in fondo, era più coraggioso di quanto lui stesso pensasse, perché per seguire John in qualunque ambito della loro vita era sempre stato necessario il coraggio, una quantità enorme di coraggio.

E con quel pensiero, Paul saltò.

 

 

 

 

(1)- Nel 1961 Paul lavorò per poco tempo in un’impresa di motori elettrici a Liverpool. Guadagnava 7 sterline e 14 scellini alla settimana. (Fonte: Anthology)

(2)- Sull’Anthology ho letto che John gli diede davvero questo ultimatum al telefono.

(3)- La rive gauche è naturalmente, la parte a sinistra della Senna, un quartiere universitario e di intellettuali.

(4)- La citazione è vera e l’incontro con Jürgen è raccontato meglio in questo sito: http://www.beatlesbible.com/1961/09/30/john-lennon-paul-mccartney-travel-paris/

(5)- Foto di Massey & Coggins qui: http://www.beatlelinks.net/forums/showthread.php?t=43533

 

Note dell’autrice: allora, questo è l’ultimo capitolo con il flashback. Di conseguenza ne ho inseriti due. Il primo si ispira al vero aneddoto secondo cui, quando Paul trovò lavoro alla Massey & Coggins, John gli fece l’ultimatum al telefono. E il secondo lo ha raccontato Paul nell’Anthology, ma io l’ho un po’ modificato perché in realtà furono John e George ad andare a prenderlo.

Bene, ringrazio kiki che ha corretto la storia e chi ha inserito la storia nei preferiti. Confesso che è un mio piccolo sogno, vedere una delle mie storie fra le più popolari del fandom dei Beatles e spero un giorno di riuscirci. Magari con questa, chissà, e sicuramente con il vostro aiuto. J

Il prossimo capitolo si intitola “Frullati”, inteso sia come il frullato di latte, sia in senso più lato.

Con la mia pagina “Two of us” sto partecipando a un contest con questa storia un po’ flungst: parla di un Paul che cerca di trovare John dopo la sua morte, grazie all’aiuto di una pastiglia di LSD. http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2227469&i=1

Se voleste leggerla e mettere mi piace al link che trovate alla fine della oneshot, ve ne sarei oltremodo grata. Anche perché ormai è lì, da più di una settimana, senza neanche una recensioncina e sigh, è un po' triste, in effetti. :( 

A domenica prossima.

Kia85

 

 

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Capitolo 10
*** Frullati ***




 

Piccolo doverosa dedica a BeaTh, per l’affetto con cui segue questa povera autrice e soprattutto questa piccola storia. J

 

Ticket to Paris

 

Capitolo 10: “Frullati

 

"Questa la devi proprio sentire, Paul. Nel 1912 un sarto parigino, Reichelt, tentò di volare lanciandosi giù dalla torre munito di un mantello adatto per formare delle ali, e si schiantò davanti una grande folla. Secondo l'autopsia, morì d'infarto prima ancora di toccare terra."(1)

John lesse l'aneddoto sulla piccola guida che avevano comprato il giorno in cui avevano deciso di restare a Parigi per tutta la settimana. Avevano bisogno di una mappa soprattutto per non perdersi e rischiare di incappare in un’altra interminabile scalinata, come quella che portava a Montmartre. Grazie alla guida, tra l’altro, scoprirono che si poteva salire sulla collinetta con la funivia, e il motivo per cui John non le avesse suonate di santa ragione a Paul, per averlo sfiancato con quell’impresa, era ancora una specie di mistero per lui.

Ora, però, John si ritrovò a ridere per quanto aveva appena letto sulla guida, perché per quanto tragica, la storia era terribilmente divertente.

"Non pensavo che questi francesi potessero essere sballati come noi inglesi, eh, Paul?" domandò, guardando verso l’amico.

Quella mattina avevano deciso finalmente di andare a vedere da vicino quel mucchio di ferraglia che rispondeva al nome di Tour Eiffel. E ora erano lì, ad ammirarla dal basso, seguendo con lo sguardo la sua lunga curva che si protendeva verso l'alto. Tuttavia Paul aveva l'aria assente. Fissava la punta che toccava il cielo sereno, ma era come se la sua testa fosse da un'altra parte e non lì con John; magari era proprio in cima a quella torre. Non aveva neanche riso alla sua battuta, e di solito Paul si sbellicava dalle risate quando si trattava di John. Era una cosa deliziosa, non tanto perché c'era qualcuno che stava davvero ad ascoltare le sue cazzate e le apprezzava, quanto piuttosto per la sensazione lieve che provava John osservando Paul ridere per causa sua. Sapere di avere questo potere su di lui e farlo stare così bene, provocare quella sua risata adorabile, era qualcosa che John amava troppo. Lo faceva sentire importante, lo rassicurava perché sapeva che a qualcuno, a Paul, importava molto di lui. Insomma, quando la sua autostima scendeva ai minimi storici, gli bastava andare da Paul, fare due moine e la sua espressione subito riportava l’autostima di John a livelli accettabili.

Perciò ora che Paul l'aveva totalmente ignorato, John aggrottò la fronte perplesso.

"Ehi! Terra chiama Paul. Paul, sei ancora con noi?" esclamò John, dandogli infine una gomitata.

Paul perse un po’ l’equilibrio e scosse il capo, tornando a guardare John.

“Cosa?”

John ridacchiò: “Eri un po’ fra le nuvole. Ho appena raccontato una storiellina divertente e tu, come l’emerito imbecille che sei, l’hai persa.”

“Oh, mi dispiace. Potresti rileggerla per me?” gli chiese con occhi imploranti, “Giuro che riderò come mai prima d’ora.”

“Sì, come no. Leggitela da solo, il treno è passato, bello mio.” esclamò John, spingendo la guida sul suo petto, “Si può sapere che ti prende? È già da qualche giorno che sei così.”

“Scusa, John, sono solo un po’ sovrappensiero.”

“Questo l’ho notato, vorrei capire per quale motivo ora.”

Paul arrossì lievemente e distolse lo sguardo, cominciando a sfogliare distrattamente la guida che John gli aveva passato: “Niente di importante, non ti preoccupare.”

La verità era che non ce la faceva più, stava odiando e amando questo viaggio. Amava dormire ogni notte accanto a John e odiava dover stare lontano da lui nel letto, non potersi avvicinare per stringerlo tra le sue braccia o passare la mano tra i suoi capelli. Certe notti aspettava che John si addormentasse solo per provare a toccarlo, durante il sonno, solo sfiorargli la guancia o i capelli, niente di più. Ma poi il timore che lui si svegliasse e lo sorprendesse, fermava la sua mano a pochi centimetri e lui si girava dall’altra parte, maledicendosi più volte.

Amava anche passeggiare con lui, sedersi nei tavolini per mangiare qualcosa e odiava non potergli stringere la mano, davanti a tutti. Amava e odiava anche John, perché lo faceva impazzire solo per essere se stesso e pur essendo un ragazzo sveglio e in gamba, non si accorgeva dell’effetto che aveva su Paul, che ora non riusciva più a contenersi, come prima di quel viaggio. Forse era anche colpa di quella città, di quei monumenti maestosi, di quei vicoli caratteristici che facevano crollare le sue difese e gli sussurravano in ogni istante di parlare con John, aprirgli il suo cuore una volta per tutte: maledizione, Paul, sii uomo!!

Una persona normale, con tutti questi pensieri in testa, era naturale che cadesse nella distrazione spesso e volentieri. E anche se si fosse impegnato a dedicarsi totalmente a John, concentrarsi solo su di lui, sarebbe stato controproducente. Le mille emozioni che ribollivano in lui gli avrebbero sicuramente fatto fare qualcosa di avventato, come afferrargli il colletto della giacca di pelle, attirarlo a sé, dirgli, “Cazzo, John, sono pazzo di te” e poi baciarlo davanti a tutti. E no, non andava bene, perché questo voleva dire rovinare tutto. Paul, invece, voleva fare le cose con calma, ragionandoci sopra, scegliendo con cura le parole da usare, perché quello era il discorso più difficile che avrebbe fatto in tutta la sua vita.

“Ma, Paul-“ iniziò a dire John.

Tuttavia, prima che potesse continuare in qualunque cosa stesse per dire, Paul si guardò intorno e lo afferrò per il polso: “Ehi, perché non andiamo a mangiare, John? Sto morendo di fame.”

E cominciò a trascinarlo verso un piccolo chiosco non lontano da lì. John non si fece abbindolare così facilmente e prese il braccio di Paul nella sua mano, stringendolo con forza e arrestando il suo passo.

“Paul, se ci fosse qualcosa che non va, me lo diresti, giusto?”

Paul lo guardò negli occhi, sinceramente preoccupati, ogni singolo tratto del viso di John rispecchiava questa sensazione e lui non poté fare a meno di trattenere il respiro, a disagio. A disagio perché quando John lo guardava così, dannazione, lo mandava in confusione e lui non capiva più nulla. Era come se John lo stesse spogliando e aprendo letteralmente in due per cercare la risposta nel punto più profondo della sua anima, lì dove c’era solo lui. E Paul non voleva, non ancora.

Non era pronto.

“C-certo, certo che te lo direi.”

John annuì e l’espressione tirata del suo volto si rilassò un po’, così come la presa sul braccio di Paul. Poi chinò il capo verso il basso, senza poter nascondere un lieve rossore delle sue gote.

“Lo so che qualche volta, anzi spesso, sono un coglione, ma tu puoi dirmi tutto, lo sai?”

“Si, grazie, John.” rispose Paul, accennando un sorriso che aveva, però, un che di sofferente.

John lo guardò solo un istante, prima di annuire con un movimento incerto, che indicava quanto ancora non fosse pienamente convinto dalle parole di Paul. Nonostante ciò lo seguì, pensando che quando Paul fosse stato pronto per parlare con lui di qualunque cosa lo stesse turbando, l’avrebbe fatto senza alcun timore.

Tuttavia, la cosa gli lasciò una sorta di amaro in bocca; molto spesso, quasi sempre in realtà, riusciva a capire cosa stesse passando per la testa di Paul, senza bisogno di parole. Bastava un semplice scambio di sguardi e quando accadeva, ne restava sempre sbalordito. Non aveva mai avuto questo tipo di intesa con qualcuno e le prime volte ne era rimasto turbato. Come poteva comprendere così velocemente, così chiaramente un’altra persona, senza parlare? Eppure era così, Paul era un libro aperto, pronto per essere sfogliato da John e lo stesso valeva per il contrario. Non era mai stato così bene, così a proprio agio con persone che non fossero Paul. Ora, invece, c’era questa foschia che gli impediva di essere in sintonia con Paul e aiutarlo, e John non riusciva proprio a scoprire il motivo, a distinguere se quell’annebbiamento fosse nella sua testa o in quella di Paul.

Forse Paul non si stava divertendo. O forse era a causa del taglio di capelli? Forse Paul aveva paura che con quel taglio non sarebbe stato più bello come prima. Ma no, per quanto vanitoso potesse essere Paul, e diamine se lo era, sapeva di essere ancora affascinante, sapeva che le ragazze si voltavano ancora a guardarlo maliziosamente, e anche John era ben consapevole di quanto la sua avvenenza non fosse stata minimamente intaccata.

No, non era questo a turbare il suo amico.

Quando arrivarono al chiosco, mangiarono due hamburger in silenzio, sedendosi ad un piccolo tavolino, immerso in quella macchia di verde che costeggiava un lato della Tour Eiffel. C’era anche un laghetto poco più in là, dentro cui alcune paperelle dal candido piumaggio si tuffavano ogni volta che i turisti lanciavano loro delle briciole di pane. Sulle aiuole, invece, i merli cercavano da soli il proprio cibo, in mezzo all’erba.

Paul li osservò apaticamente, decidendo infine di lanciargli qualche briciola dal pane del suo hamburger. Sembrava essere caduto di nuovo in quel mondo fatto di pensieri e sentimenti in cui John non poteva raggiungerlo. Eppure John voleva riavvicinarlo a sé e forse sapeva anche come fare. Non voleva certo passare in secondo piano rispetto a degli stupidi uccelli!

Perciò lo lasciò a prendersi cura dei merli, che lo accerchiarono, grati che qualcuno pensasse anche a loro ogni tanto, e si alzò dal tavolino. Raggiunse il piccolo chiosco con l’intenzione di comprargli qualcosa per distrarlo da qualunque cosa lo stesse tormentando e guardando nel menù, John non ebbe dubbi su cosa prendergli.

“Tieni.” esclamò pochi minuti più tardi, appoggiando il bicchiere davanti all’amico.

Paul sbatté le palpebre e guardò sorpreso prima il liquido giallo pallido dentro il bicchiere e poi John: “Cos’è?”

“Un frullato.” rispose John, infilando una cannuccia affinché Paul potesse berlo.

“Mi hai comprato un frullato?” domandò, fissando perplesso l’oggetto di fronte a sé.

“Alla banana. C’era solo questo, mi dispiace.” si giustificò John, scrollando le spalle.

“Perché?”

“Evidentemente gli erano rimaste solo le banane.” spiegò John con una risatina.

Ma Paul scosse il capo dolcemente, perché non era proprio quello che intendeva lui: “No, perché mi hai preso un frullato?”

“Non sei un amante del latte? Beh, nel frullato c’è il latte.” esclamò John, avvicinando ancor di più il bicchiere a Paul, come a volergli dire, “Sta’ zitto una buona volta e pensa a bere!”

Paul inarcò un sopracciglio in modo scettico: “E questo sarebbe un motivo valido per comprarmi il frullato?”

“No, però almeno adesso hai distolto l’attenzione da quei merli del cazzo e stai parlando con me.” sbottò John, non senza un po’ di nervosismo.

Non che fosse arrabbiato con Paul, era semplicemente che non sopportava che la sua concentrazione fosse così lontana da lui, quando si trattava del loro viaggio.

“Oh.” fece Paul, guardando imbarazzato il bicchiere di vetro, “Scusa, John.”

“Non c’è problema. L’importante è che domani dedichi tutto te stesso a me.”

“Domani?” ripeté Paul, tornando a guardare l’amico.

“Sì, domani, Paul, domani è il motivo principale di questa vacanza, o forse l’hai dimenticato?” gli chiese, mettendo il broncio e incrociando le braccia.

Miseriaccia! Paul era stato così preso dai suoi sentimenti e dubbi e pensieri, che si era completamente dimenticato che il giorno dopo sarebbe stato il compleanno di John. E ora cosa doveva fare? Non aveva neanche comprato un regalo. Avrebbe fatto davvero una figura di merda dal momento che John stava spendendo tutti quei soldi per lui, e Paul non solo non gli aveva comprato uno straccio di regalo, ma se n’era quasi dimenticato. Che razza di amico era? E come poteva pretendere di diventare la persona speciale per John, se si comportava in questo modo?

Era la feccia della feccia degli amici, ecco cos’era. Non meritava la sua amicizia.

“No, non l’ho dimenticato.” mentì Paul, cercando di sembrare disinvolto, “Prometto che domani sarò un po’ più di compagnia.”

“Un po’ non basta.”

“Allora giuro che sarò il perfetto compagno di viaggio.” proclamò solennemente con una mano sul cuore e un lieve sorriso sulle labbra.

E lo sarebbe stato davvero, era una promessa che faceva non solo a John, ma anche e soprattutto a se stesso. Voleva meritare John, prima di aprirgli il suo cuore.

“D’accordo. Ma guarda che questa me la segno, eh?”

“Segnati quel cazzo che ti pare, John. Sono un uomo di parola, io.”

John sorrise fra sé e lo guardò divertito, mentre beveva con gusto il suo frullato. Si complimentò con se stesso per aver portato finalmente un sorriso sul suo volto. Era un potere che ormai sapeva gestire davvero bene e che, diciamocelo, lo entusiasmava e lo faceva sentire elettrizzato. Riportare il sorriso, uno di quelli sinceri, quelli che arrivano fino alle orecchie e illuminano gli occhi con l’incredibile bagliore della felicità, era qualcosa a cui John non avrebbe mai rinunciato. Per tutte le birre, le chitarre, le ragazze del mondo.

“Comunque, non ti devi preoccupare, Paul.”

Paul alzò lo sguardo, con la cannuccia ancora in bocca: “Di cosa?”

“Dei capelli. Piacerai ancora a Dot con questo taglio.”

Paul lo fissò sbalordito per un secondo, poi scoppiò a ridere e John sentì qualcosa in lui, forse il cervello o il cuore o qualche altra parte dentro il suo corpo sciogliersi come neve al sole, diventare liquida e dolce come quel frullato che aveva comprato per Paul. E questo lo costrinse a continuare a guardare Paul ridere, felice di aver ottenuto quello che desiderava e nello stesso tempo meravigliato, estasiato dalla visione come le altre volte, eppure anche in modo diverso. Sapeva, anzi, sentiva che c’era qualcosa di strano e John non sapeva di cosa si trattasse.

Tuttavia, quando più tardi si fecero strada nei viali alberati dei giardini del Trocadéro, a due passi dalla Tour Eiffel, John si rese conto che non gli importava sapere esattamente che cosa lo stesse sballando in quel modo. Tutto ciò che contava ora era come Paul ammirasse incantato l'ambiente circostante, le fontane con i giochi d'acqua e i giardini intorno. Paul, così come John, non aveva mai visto tutto quel verde in una sola volta.

Ok, forse non era solamente verde. In effetti, essendo ottobre il mese autunnale per eccellenza, gli alberi si erano magicamente colorati di rosso e arancione e giallo, portando un po' di calore nelle giornate che man mano diventavano più fredde. John aveva sempre pensato che la natura desiderasse rimandare il freddo il più a lungo possibile. Così gli alberi immagazzinavano il calore dell'estate e lo utilizzavano, sotto forma di veste dai colori caldi, per rallegrare le persone durante il malinconico autunno. E a giudicare dalle molteplici espressioni di meraviglia di Paul, Madre Natura ci stava riuscendo alla grande.

Per un momento, quella mattina, John aveva pensato che Paul non si stesse divertendo in questo viaggio con lui. Se non era il nuovo taglio di capelli, allora questo era davvero l'unico motivo che potesse spiegare il suo umore così a terra. Ma ora poteva vedere che non si trattava neanche di questo. Lo notava dalle piccole rughe d'espressione che comparivano intorno ai suoi occhi quando sorrideva, dalle fossette sulle guance, da come la bocca si spalancava estasiata, da come le mani si affrettavano a recuperare la macchina fotografica per immortalare un solo istante di quel viaggio, un viale alberato con un tappeto di foglie gialle che emettevano un dolce fruscio quando venivano spostate dai piedi dei turisti, o una colomba appollaiata su una statua, tutta intenta a riposare, o quando cercava di catturare il vivace gioco d'acqua delle fontane.

Sì. Paul si stava divertendo.

Anche se John era tanto impegnato a fissarlo e non capire cosa stesse accadendo a se stesso, almeno era certo che l’umore di Paul non dipendesse né dai capelli, né dal fatto che non si stesse divertendo.

Allora cos’era che l’aveva gettato in quello stato negli ultimi giorni? Perché Paul non condivideva con lui qualunque cosa lo tormentasse?

Perché?

****

Perché? Perché? Perché?

Un’unica domanda che rimbalzava da una parte all’altra della sua testa, anche quella notte, mentre John era sdraiato nel suo letto, fissando Paul al suo fianco.

Dopo una bella passeggiata nei giardini del Trocadéro e aver aspettato che il giorno lasciasse il posto alla notte, avevano deciso di mangiare e bere qualcosa lì vicino, ammirando il panorama della Tour Eiffel illuminata che dominava Parigi con maestosità.

Quante cose belle aveva trovato finora John in quella città? Quanti meravigliosi sapori e odori e panorami?

E soprattutto quanto lo stava rimbecillendo?

Stava diventando davvero un totale idiota perché… Era una cosa strana e stupida, molto stupida da pensare ma... era come se Paul ai suoi occhi ciecati fosse un'altra persona in quel momento. Oppure era un altro John che stava guardando Paul proprio adesso, sdraiato accanto a lui.

Era come se John lo vedesse per la prima volta, eppure era sempre Paul. Il solito vecchio Paul, con un nuovo taglio di capelli, certamente, e una piccola frangia davanti ai suoi occhi che la mano di John desiderava tanto spostare. Sicuramente se si fosse svegliato, gli avrebbe dato fastidio. E poi aveva due guance morbide con quella pelle forse liscia (forse, sia chiaro, perché John non l’aveva mai appurato per davvero) ma sicuramente bianchissima, bianca come il latte. Probabilmente ne aveva anche l’odore, odore di latte o di frullato. Era un’ipotesi molto più plausibile dal momento che John gli aveva comprato un frullato di banana proprio quella mattina. Cazzo! John voleva solo strofinare il suo naso proprio lì, per dare finalmente una risposta al suo dubbio.

E poi… poi, dannazione, c’erano anche quelle labbra, dal vivace colore rosa, dalla forma perfetta, così soffici. O almeno così sembrava. Erano labbra che avevano assaggiato quelle di molte ragazze e sembrava quasi ingiusto che John, il suo migliore amico, lui che sapeva tutto di Paul, molto più di qualunque ragazza, non avesse neanche una fottuta possibilità di provarle e sentire come si muovessero sulle sue, se fossero così attraenti come sembravano…

Il suo audace flusso di pensieri si arrestò all’improvviso, quando John si accorse che la sua mano si era pericolosamente avvicinata alla fronte di Paul.

Stupida, fottutissima mano, che cazzo ci fai lì?

E il cuore che stava combinando? Sussultava ansioso e felice, desiderando quel contatto come se avesse a che fare con l’ultimo modello di chitarra. Oddio, stava impazzendo, doveva essere così. John ritirò immediatamente la mano, al sicuro, accanto al proprio corpo, lì dove non avrebbe potuto combinare guai. Dopodiché si dedicò al compito di pensare a quello che aveva fatto, o quasi fatto.

Accarezzare Paul? Ma stiamo scherzando?

Doveva essere già stanco del viaggio, pensò John. Forse tutto quel camminare gli aveva fuso il cervello, l’aveva frullato insieme alle banane e lui ora era totalmente incapace di intendere e volere. Doveva essere quella l’unica spiegazione possibile.

Non poteva averlo desiderato perché…

Perché?

Beh, perché non poteva e basta. Perché Paul era un ragazzo. O forse perché Paul era Paul e John non voleva mandare a quel paese l’unica cosa buona che gli fosse capitata nella vita.

Ma che stava pensando? No, no, assolutamente no. Non poteva desiderare Paul perché era un ragazzo e John non era così. Non lo era mai stato, non lo sarebbe mai stato, mai e poi mai…

E mentre scuoteva il capo e cercava di aggrapparsi a questa sua convinzione, Paul si mosse nel sonno, solo un po’ più vicino, chinando il capo verso John e il suo braccio si spostò in avanti, appoggiandosi sul fianco di John. Quel tocco era apparso agli occhi di John come una scena a rallentatore. Avrebbe potuto evitarlo, se avesse voluto, spostandosi semplicemente più indietro nel letto. Ma non l’aveva  fatto e ora Paul era lì, con i capelli a un soffio dal naso di John e il braccio sul suo fianco, il contatto che bruciava, come l’incendio più devastante.

John non si era spostato perché l’aveva fottutamente aspettato e desiderato.

Cazzo!” quasi urlò, destando con un balzo Paul dal suo sonno, e si scostò immediatamente dall’amico.

“John, che succede?” domandò Paul, la voce impastata dal sonno, gli occhi socchiusi, cercando preoccupato lo sguardo del ragazzo.

“Niente!”

La risposta di John fu quasi un ringhio e il minuto dopo John si stava alzando dal letto, dirigendosi verso la poltrona, sotto lo sguardo sorpreso e turbato di Paul.

“Ma, John?”

“Fanculo, Paul, lasciami stare.” sbottò John, lasciandosi cadere sulla poltrona, rannicchiandosi per non disperdere calore, rannicchiandosi perché aveva paura di perdere anche se stesso definitivamente, perché quello che era successo, quello che aveva provato era solo un sintomo di quanto fosse ormai fuori di sé.

Ed era tutta colpa della fottuta Parigi. Maledetto il giorno in cui aveva deciso di restare in quella città.

“John?”

Nessuna risposta.

“John?”

La voce di Paul si fece sempre più debole, mentre cercava di ottenere una risposta dall’amico, ma questi non disse più nulla. Al contrario, chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi per dormire, ignorando Paul, ignorando la sua rabbia verso se stesso, verso Paul, verso Parigi e tutti i francesi.

Non sapeva neanche perché fosse così arrabbiato. Era stato un semplice movimento avvenuto durante il sonno, un movimento non voluto, inconsapevole, casuale, eppure John ne era uscito devastato in un modo che non riusciva a capire se fosse positivo o negativo.

C’era solo una cosa di cui era certo, pensò John mentre sentiva Paul tornare a sdraiarsi sul letto, gettando la spugna nell’impresa di ottenere una qualche spiegazione da John.

Niente più frullati per Paul!                  

 

 

 

(1)- Per questo aneddoto, ringrazio la mia guida ancora non utilizzata di Parigi.                      

 

Note dell’autrice: ah siamo arrivati a una svolta. Direi che era anche ora. Lol xD

Dunque non c’è molto da dire. Il titolo si riferisce ovviamente all’affermazione di Paul, secondo cui John a Parigi lo viziava comprandogli tutti i frullati di banana che voleva. È una cosa divertente e adorabile nello stesso tempo. :3

Ringrazio kiki per la correzione e Lights, la creatrice del banner, che mi ha parlato del Trocadéro  e fatto consultare le sue foto di Parigi.

Il titolo del prossimo capitolo devo ancora deciderlo. L

Spero che vi sia piaciuto anche questo.

Come al solito, se voleste leggere questa storia del contest e votare al link alla fine, ve ne sarei grata: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2227469&i=1

A domenica prossima.

Kia85

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Capitolo 11
*** Duetto ***




 

Ticket to Paris

 

Capitolo 11: “Duetto”

 

Il sonno della notte del suo ventunesimo compleanno fu molto agitato per John. La schiena gli doleva in modo incredibile, a causa della posizione scomoda su quella piccola poltrona. Aveva un fastidioso cerchio alla testa, il collo era tutto indolenzito e le gambe informicolate.

Eppure c’era qualcosa che lo faceva star bene, lo tranquillizzava e gli faceva dimenticare tutti i suoi dolori fisici. Era un profumo che lo avvolgeva come una coperta vellutata, una strana fragranza muschiata con un retrogusto dolce, tanto dolce come il latte. O come un frullato.

John si agitò un po’ nel sonno, mentre nel suo sogno un ragazzo dall’aspetto familiare si versava accidentalmente un po’ di frullato alla banana sulla giacca di pelle e ridacchiava.

“Sei proprio un imbranato, Paul.”

Paul!

John spalancò gli occhi, con il cuore che sussultava ferocemente nel suo petto. Impiegò qualche secondo per sbattere le palpebre, mettere a fuoco e riconoscere l’ambiente che lo circondava: la sua camera d’albergo.

Era stato un sogno o forse solo un ricordo, perché ora che ci pensava bene, il giorno precedente Paul si era davvero versato un po’ di frullato sulla giacca, durante una scenetta idiota in cui cincischiava con la cannuccia: un po’ del liquido lì intrappolato era scivolato sulla sua giacca di pelle. Fortunatamente era bastato un semplice fazzoletto per eliminare qualunque traccia, ma l’odore era rimasto e-

Un momento…

Perché la giacca di Paul si trovava sopra di lui? John non doveva essere sotto le coperte del suo letto?

No. Non doveva essere a letto, perché la sera prima si era spostato sulla poltrona, dopo quel piccolo incidente con Paul. Ora, con la mente che, nonostante la posizione scomoda, era ben riposata, John si rese conto che forse la sua reazione era stata un tantino esagerata. Dopotutto Paul si era mosso in modo inconsapevole verso di lui. Non era stato intenzionale.

Non lo era stato per nulla.

Quante volte a Liverpool si era svegliato troppo vicino a Paul, accoccolato dietro la sua schiena o con Paul rannicchiato sotto il suo braccio? Aveva perso il conto. Non che lui le contasse, non era affatto così. Era solo che, insomma, sapeva che ormai fossero tante.

Quindi sì, aveva esagerato nel diventare così sconvolto. Era accaduto tutto solo perché era stanco, e soprattutto perché era sveglio e aveva assistito ad occhi aperti al movimento di Paul che gli si avvicinava lentamente. Sapeva anche di essersi comportato male con Paul: era certo che fosse rimasto deluso per il modo sgarbato in cui John si era rivolto a lui, per come l'aveva liquidato e poi ignorato. E se c'era una cosa che John aveva imparato da tutti quegli anni trascorsi con Paul, era che a lui non piaceva essere ignorato, soprattutto da John. Di solito Paul ci restava così male che poi non gli parlava per un paio di giorni, ovvero il tempo necessario affinché John tornasse al suo solito umore e ricominciasse a dedicare le sue attenzioni a Paul.

Quindi ora John avrebbe dovuto trovare un modo per fargli capire che sapeva di essere stato un totale idiota la sera prima, che non voleva affatto reagire così e che quel giorno, il giorno del suo compleanno, non l'avrebbe ignorato perché Paul gli aveva promesso di dedicargli tutte le sue attenzioni.

Perciò, ancora avvolto dal calore della giacca di Paul e dal suo profumo, due cose che lo incoraggiavano a proseguire nel suo intento, John si sollevò dalla poltrona e guardò verso il letto.

Ma lì, dove avrebbe dovuto esserci il corpo di Paul, rannicchiato sotto le coperte, c'era invece il vuoto.

Dov'era finito Paul?

****

Dannazione. Quanto era stato idiota?

Come, come aveva potuto scambiare la sua giacca con quella di John? Era stato sicuramente per la fretta di uscire dalla stanza che condivideva con John, prima che l'amico si svegliasse.

Quella mattina, non appena sveglio, i ricordi della sera precedente lo avevano colpito come un secchio d'acqua gelida, lasciandolo ancora perplesso e dispiaciuto. Perplesso perché non aveva davvero capito cosa fosse accaduto; dispiaciuto perché qualunque cosa avesse fatto, aveva innervosito John. E lui odiava essere la causa del suo cattivo umore. 

Dopo il suo scatto John si era sistemato a dormire sulla poltrona, ignorando totalmente Paul e i suoi tentativi di chiarimento. Stando così le cose, Paul aveva deciso di rinunciare a provare a estorcere una qualche spiegazione dalla bocca di John, ed era tornato a dormire. O almeno ci aveva provato. Aveva passato almeno un'ora insonne, guardando John sulla poltrona che si muoveva ogni tanto per cercare una posizione migliore. Poi l'amico si era finalmente addormentato e Paul aveva deciso che stare lì, a fissarlo in silenzio, non sarebbe servito a nulla. Tanto valeva cercare di dormire un po' e pensare al da farsi con la luce del sole e le membra riposate.

Peccato che con la luce del sole, fosse arrivata anche la paura, la paura che qualunque problema avesse avuto John, questo riguardasse anche Paul e comportasse quindi una violenta sfuriata di John che Paul non era disposto a subire. Non voleva che un'eventuale e accesa discussione con John fosse il ricordo principale di quel viaggio. Paul desiderava che, quando in futuro avesse ripensato a quel viaggio, avrebbe ricordato solo momenti belli, felici, come John che gli comprava un frullato per riportare il sorriso sulle sue labbra, o Paul che si svegliava sempre cinque minuti prima di John, in modo da poterlo guardare in silenzio, all'insaputa del bel addormentato.

Per evitare tutto ciò che di spiacevole avrebbe seguito il risveglio di John, Paul si era lavato in quattro e quattr'otto, aveva afferrato la guida di John e la giacca e poi era uscito.  

E ora era seduto in un caffè agli Champs- Élysées, a guardare le persone che passeggiavano tranquillamente sull'Avenue in fermento. Il caffè che aveva bevuto era stato davvero orribile, ma in qualche modo se l'era fatto piacere. O meglio, John gliel'aveva reso gradevole, perché anche se l'aveva lasciato sulla poltrona, John era più presente che mai, accanto a lui.

Il fatto era che, prima di uscire dalla stanza, Paul aveva preso quella che aveva pensato essere la giacca di John e l'aveva utilizzata come una sorta di coperta per l'amico, il quale era lievemente scosso dai brividi di freddo. Infatti, ci mancava solo il raffreddore a peggiorare il suo umore. Tuttavia non appena fuori dalla pensione, Paul si era reso conto che quella che aveva ora indosso lui non era la sua giacca, bensì apparteneva a John. Lo aveva capito quando infilando una mano in tasca aveva estratto le sue sigarette, e solo allora si era reso conto che l’odore che lo circondava, per quanto familiare, non era il suo. Era un odore molto particolare, pungente e forte, eppure per lui era la fragranza più dolce del mondo, la più dolce e rassicurante, quella che sapeva di casa, di musica, di amore.

Il profumo di John.

Strinse di più la giacca al suo corpo, mentre pensava che in fondo gli era dispiaciuto lasciare John senza neanche un biglietto. Ma sapeva anche che John aveva bisogno di un po’ di tempo per stare da solo e sbollire qualunque cosa lo avesse fatto andare fuori di testa la sera prima.

E forse anche Paul.

****

Solo. John era completamente solo in quella stanza. Paul non c'era e chissà dove si trovava in quel momento.

Appena accortosi della sua assenza, John era balzato in piedi. L'aveva cercato in bagno, ma anche quello, come il letto, era vuoto. Poi si era precipitato nel corridoio e giù per le scale, fino alla strada fuori, guardandosi a destra e a sinistra, alla ricerca di una sciocca, familiare testa dai capelli scuri. Ma niente da fare. Paul non era lì.

Sconsolato, si era fatto strada di nuovo dentro la pensione, dove la proprietaria gli aveva fatto capire con gesti e una versione francese della sacra lingua di Sua Maestà, che il suo compare era uscito quella mattina.

Stupido, stupidissimo Paul!

Alla fine John era rientrato nella sua camera e per l’assoluta frustrazione che aveva provato in quel momento, aveva dato un calcio alla poltrona dove aveva dormito quella notte, prima di gettarsi sul letto.

Dov’era finito Paul?

Dove diavolo era andato tutto solo, senza sapere una parola di francese, con la sua giacca e soprattutto, con le sue sigarette?

Se proprio doveva fare il coglione e andarsene via, lasciando John a se stesso in quella piccola camera d’albergo, avrebbe almeno potuto fare attenzione nel prendere la giacca giusta. Invece no, si era comportato da idiota anche in questo, scambiando le due giacche e lasciandogli le sue orribili sigarette.

Cazzo, Paul, un po’ d’attenzione in più non guasterebbe, sai?

John sbuffò, rigirandosi a pancia in giù e nascondendo la faccia nel materasso. Non voleva ammetterlo, perché era troppo arrabbiato con Paul, ma sapeva che in fondo anche questa rabbia fosse dovuta principalmente alla sua preoccupazione; preoccupazione che stava cominciando a farsi in strada in lui, con i movimenti sinuosi di un serpente, avvolgendolo con le sue fredde spire, iniettando il suo veleno, ovvero tutte le possibili tragedie che potevano capitare a Paul.

E se qualcuno avesse notato la sua aria da turista e avesse deciso di derubarlo, come quella sciocca biondina del pub lì vicino? Era una possibilità. In fondo ne aveva già avuto un esempio e John era riuscito a evitare la catastrofe appena in tempo.

Oppure, se Paul non avesse avuto abbastanza soldi e fosse rimasto bloccato da qualche parte? Come avrebbe fatto a tornare da John? O ad avvisarlo?

Sempre che avesse voluto tornare da John. Santo cielo, se non fosse tornato, cosa avrebbe fatto John? Non sapeva da dove cominciare a cercarlo, Parigi era una grande città, avrebbe anche potuto non trovarlo più. E di certo, non poteva tornare a Liverpool senza il primogenito di casa McCartney. Sarebbe stata la volta buona che il vecchio Jim gli tagliasse la testa.

John scosse il capo violentemente. Stava decisamente esagerando. Forse Paul era solo uscito per prendergli un regalo, visto che non era stato difficile capire che Paul avesse mentito il giorno prima. Maledetto bastardo!

Quindi si trattava solo di minuti, prima che Paul tornasse in albergo, con un bel regalo per John fra le mani, in una bella busta di carta con l'insegna del negozio in rosso.

Eppure, c’era ancora quella spiacevole e nello stesso momento dolce sensazione che gli opprimeva il petto e gli faceva tremare le gambe e le mani, all’idea che qualcosa di brutto potesse capitare a Paul.

Per quale motivo si sentiva così?

Perché si preoccupava tanto?

****

Paul si morse l'unghia del pollice in un gesto di totale nervosismo. Nonostante fosse convinto di ciò che aveva fatto, ora le conseguenze di quel gesto stavano diventando più chiare in lui.

Che cosa aveva fatto? Sicuramente John era furioso in quel momento. Conoscendolo, la sua prima reazione sarebbe stata quella di insultarlo per la troppa rabbia. E poi, John avrebbe capito che in realtà era solo preoccupato per Paul, immaginando i peggiori scenari con la sua mente.

Era una cosa che non tutti si aspettavano da John, per quella sua corazza da duro che indossava da mattina a sera. Ma Paul aveva intravisto ormai più di una volta, il vero animo di John. Tra le fessure di quell'armatura aveva scorto quella parte di John dominata dalla sua insicurezza. Ed era per questo che John si preoccupava tanto per i suoi amici, a volte in maniera esagerata. Come se qualunque cosa, anche la più piccola potesse allontanare da lui le persone care. Come se queste non fossero in grado di badare a loro stesse, dal momento che si trattava di persone giovani sì, ma adulte.

Non lo sapeva, John, che Paul non si sarebbe mai allontanato da lui definitivamente? Non sapeva che Paul sarebbe sempre tornato da lui, anche se a separarli ci fosse stato l'ostacolo più insormontabile, la montagna più alta, l'oceano più esteso?

No. Così come Paul era sicuro che John fosse preoccupato per lui, era anche convinto che non sapesse davvero nulla di tutto questo.

Non lo sapeva perché esserne a conoscenza apriva tutta una serie di questioni che John non era pronto ad affrontare, e Paul si chiese se lo sarebbe mai stato a questo punto. Il pensiero lo faceva soffrire profondamente, ma Paul non avrebbe mai perso la speranza che un giorno, non lontano magari, sarebbe stato finalmente in grado di parlare con John e consegnargli  il proprio cuore. Il rischio che la mano di John potesse chiudersi e stritolarlo, riducendolo in una calda, rossa e palpitante poltiglia era costantemente presente ed era la paura più grande di Paul. Ma lo sanno tutti che la paura è solo l'arma migliore del nostro più acerrimo nemico: noi stessi. È il nostro limite e solo noi possiamo sormontarlo.

Così Paul avrebbe affrontato la questione con John, quando entrambi fossero stati pronti, ovvero non quel giorno, non nel giorno del compleanno di John.

Il compleanno di John?

Il compleanno di John, cazzo!

Era oggi. Paul era stato così preso da quanto accaduto la sera prima, che si era dimenticato della promessa fatta a John e cosa ben più grave, non aveva ancora un fottuto regalo. Doveva darsi una mossa una volta per tutte.

Si alzò dalla sedia del caffè dove aveva pranzato e si tuffò nella folla che trotterellava allegramente per l'Avenue.

Avrebbe trovato un regalo per John e magari, magari, se avesse giocato bene le sue carte, avrebbe anche potuto usarlo come scusa per evitare una discussione con John il giorno del suo ventunesimo compleanno.

Anche se non pensava che sarebbe mai stato in grado di mentire ancora a John. Se gli avesse detto una bugia, John se ne sarebbe accorto e Paul era quasi certo che l'amico avesse intuito che aveva mentito anche il giorno prima.

Allora quando si sarebbe rivisti e John gli avrebbe chiesto, "Perché te ne sei andato?", cosa avrebbe risposto Paul?

“Perché volevo lasciarti da solo ad affrontare ciò che ti ha tormentato ieri notte?”

“Perché volevo che riflettessi su ciò che hai fatto?"

“Perché avevo paura?”

Perché era andato via?

****

Le ultime due ore erano trascorse con John che non si era mosso dalla poltrona su cui si era stabilito, dopo aver passato tutta la mattina a cambiare posizione, dal materasso, poi in piedi, camminando per la stanza, e ancora giù in strada per cercare di scorgere inutilmente Paul. Alla fine aveva deciso di restare nella pensione, proprio nel caso in cui Paul fosse tornato: poteva accadere da un momento all'altro e John sarebbe stato lì.

All'ora di pranzo, però, Paul non era ancora tornato e a quel punto John capì che Paul non fosse davvero uscito per prendergli il regalo. Ci doveva essere qualche altro motivo, che quasi sicuramente aveva a che fare con il modo in cui John l’aveva trattato la sera prima. E come poteva biasimarlo? John era stato un tale imbecille a comportarsi in quel modo nei confronti di Paul. Era abbastanza ovvio che Paul ci fosse rimasto male, dal momento che John non si era neanche degnato di spiegare perché si stesse comportando in quel modo con lui. Se fosse stato nei suoi panni, anche John avrebbe evitato se stesso. Insomma, Paul aveva sopportato abbastanza i suoi continui sbalzi d’umori, gli improvvisi accessi d’ira, aveva sopportato tutto, ribattendo a tono la maggior parte delle volte, altre si limitava ad ascoltare in silenzio, ma in ogni caso Paul era rimasto accanto a lui.

Quanta pazienza doveva avere avuto con lui Paul?

Una pazienza immensa e ammettiamolo, anche un grande affetto. Eppure anche questi avevano dei limiti, John era consapevole che non fossero infiniti e non pretendeva certo il contrario. Non riusciva ancora a capacitarsi di come Paul fosse tuttora al suo fianco. E forse proprio la sera precedente era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso e Paul l’aveva semplicemente mandato al diavolo, decidendo di godersi il resto del viaggio da solo, quindi in santa pace.

Ma John non voleva. Non voleva mai che Paul lo lasciasse da solo.

Era davvero per questo che se n’era andato?

Per quanto potesse essere comprensibile, e John lo comprendeva bene, lui sentiva in fondo che non era questo il motivo. Ci doveva essere sotto qualcos’altro.

John sospirò malinconico, afferrando quasi inconsciamente la giacca di Paul, abbandonata proprio lì, sul bracciolo della poltrona, e la indossò, mentre veniva nuovamente accolto dall’odore dell’amico.

Oh, quanto desiderava che Paul fosse lì con lui, per chiedergli scusa, abbracciarlo e-

Abbracciarlo?

Come la sera prima?

La domanda fece perdere un battito al suo cuore che sembrava stranamente agitato e John strinse la giacca al suo corpo, come se cercasse la risposta tra le fibre del tessuto impregnato di Paul. Fortunatamente, o sfortunatamente la trovò.

No, non come la sera prima.

John voleva abbracciarlo davvero e questa volta entrambi avrebbero dovuto avere gli occhi aperti ed essere ben consci di quanto stesse accadendo, di come le braccia di uno stringessero l’altro, più vicino al proprio corpo. Voleva abbracciarlo, sì, stringerlo fortemente, tanto da togliergli il respiro e poi… Aspetta!

Cosa aveva appena pensato?

Voleva abbracciare Paul?

Dio.

Anzi no, Santo Dio!

Che razza di desiderio era mai questo?

E per quale motivo era nato in lui?

Ma più ci pensava, più John si accorgeva che non era una semplice voglia, né un semplice capriccio. Era una vera e propria bramosia, come se la sua vita dipendesse da questo, la sua vita e la sua felicità erano racchiuse nell’abbraccio del suo migliore amico. John doveva essere impazzito, doveva aver perso la testa. Più volte durante quel viaggio aveva preso in considerazione questa ipotesi, ma ora era evidente. E stranamente John non aveva alcuna intenzione di recuperare la sua sanità mentale.

Pensò solo che la violenta realizzazione di un tale desiderio meritasse fino in fondo il rossore che stava ora colorando le sue guance e sì, dai, anche una bella imprecazione.

 Oh, cazzo.”

****

Paul si guardò intorno mentre passeggiava lungo l'Avenue. Era il viale più famoso di Parigi, nonché un posto incantevole, con ampi marciapiedi contornati da aiuole e alberi di castagno. Tuttavia non era esattamente il luogo migliore per cercare un regalo per John. O almeno un regalo che potesse rispettare le limitate possibilità finanziarie di Paul. Si trattava più che altro di negozi di grandi marchi francesi e non, oltre a numerosi cinema, ristoranti e caffè per mangiare.

A proposito di mangiare... Chissà se John era riuscito a recuperare qualcosa anche per se stesso. Paul sperò che non stesse morendo di fame, cosa che avrebbe alimentato il suo senso di colpa, e che avesse attinto dalle scorte che conservavano per eventuali attacchi di fame nel cuore della notte, che, considerata la loro giovane età, non era solo una possibilità. Era una certezza.

Tuttavia, come faceva a essere così sicuro che John fosse rimasto in albergo? Non sarebbe stato più “da John” fregarsene di Paul e uscire per conto suo, felice di non dover badare per una volta al ragazzino, libero di fare quello che gli pareva, mangiare quello che desiderava e, Dio, rimorchiare la prima francesina che gli capitasse sotto tiro e portarsela a letto? Magari in quello stesso letto che condividevano.

Paul rabbrividì al pensiero.

No, John non l'avrebbe fatto. L'avrebbe aspettato in camera perché sapeva che prima o poi Paul sarebbe tornato da lui. L’avrebbe aspettato impaziente di fargli la sua ramanzina, perché sì, Paul si aspettava una bella ramanzina questa volta. Al di là del fatto che avesse tutte le ragioni del mondo per lasciare John a se stesso, dopo la sua sfuriata immotivata, Paul per lui era come sparito nel nulla, prima che John si svegliasse, senza neanche un misero biglietto. E tutto questo, dopo avergli promesso che non l’avrebbe più fatto preoccupare e che sarebbe stato il perfetto compagno di viaggio nel giorno del suo compleanno. Ma come poteva fargli compagnia, se si trovava a due interi, immensi quartieri di distanza da lui?

Sospirò rassegnato, dandosi dello stupido. Ormai era pomeriggio inoltrato. La luce più calda e rossa del sole colorava il viale, conferendogli un aspetto incantevole; Paul avrebbe voluto fare un altro giro, arrivare magari fino all’Arco di Trionfo, ma aveva lasciato John da solo per un tempo più che sufficiente.

Era ora di tornare da lui, non prima di aver trovato il regalo per John, qualcosa che forse non sarebbe durato per molto tempo, ma che John avrebbe gradito, qualcosa che lo avrebbe aiutato a farsi perdonare da lui.

****

Era una stranissima sensazione.

Rendersi conto di provare certe cose e volerne fare altre con il suo migliore amico.

All’inizio si era trattato di un semplice formicolio che aveva infine fatto comparire la pelle d’oca sulle sue braccia. John la odiava, odiava i formicolii, i brividi e tutte quelle piccole sensazioni che faceva fremere la sua pelle. Eppure in qualche modo questa sensazione era piacevole. Forse perché il calore che si stava espandendo dentro di lui, era così squisito che spazzava via tutti gli altri fastidiosi effetti che comportava una simile realizzazione.

Il sole stava tramontando ormai, lasciando che i suoi raggi dorati entrassero nella camera d’albergo. John era rimasto per…non sapeva neanche lui quanto tempo, rannicchiato sulla poltrona, intorpidito da quanto aveva appena scoperto. La sua mente era troppo impegnata a creare deliziose scenette per preoccuparsi di tutto ciò che accadeva al di fuori di quel corpo. Erano scenette in cui Paul tornava da lui e John correva ad abbracciarlo, poi Paul ricambiava l’abbraccio e oh, santo cielo, lo baciava. E quando il filmino mentale terminava, il suo cuore sussultava ansioso, chiedendo a gran voce il bis. Allora la scena ripartiva, e poi ancora e ancora e John sapeva di avere un sorriso ebete sul volto, ma non poteva trattenerlo in alcun modo. L’emozione che stava provando era troppo incantevole per i suoi sensi e lui doveva, doveva mostrarla in qualche modo, anche se non c’era nessun altro nella stanza che potesse vederlo. Era solo che voleva sentire la reazione del suo corpo all’eventualità che qualcosa del genere potesse accadere, un giorno, non lontano, chissà…

Qualcosa di unico e così dolce, così sconvolgente-

Dannazione. Che cosa gli stava accadendo?

Rilassati, John.

Doveva assolutamente darsi una calmata perché si stava lasciando trasportare dalla nuova sensazione senza prima averne parlato con Paul. Paul ovvero colui che sarebbe davvero rimasto sconvolto da tutta questa situazione assurda.

Non è assurda, si corresse John.

D’accordo, ma comunque era strana, perché era John quello strano. Lui sapeva come sarebbe andata a finire. Sapeva che quando voleva una cosa così disperatamente, e questa per adesso sembrava essere una cosa che John moriva dalla voglia di provare a toccare con mano, non c’era niente che potesse trattenerlo. Sapeva che avrebbe usato le parole sbagliate, sapeva che forse neanche avrebbe parlato, forse avrebbe solo agito e Paul si sarebbe spaventato, prima di allontanarlo e porre fine a quel rapporto che solo ora John poteva vedere quanto più in là si fosse pericolosamente spinto.

“Cazzo!” imprecò nuovamente e poi nascose il volto fra le mani, mentre tutte le dolci emozioni che lo avevano scosso fino a pochi minuti prima si trasformavano in un’unica sensazione di deprimente sconforto.

John avrebbe rovinato tutto come sempre.

John avrebbe perso Paul, il suo migliore amico, il compagno di mille avventure, il ragazzo che-

Il suono della porta che si apriva lo destò all’improvviso dai suoi pensieri struggenti e John alzò lo sguardo. Sentiva il viso arrossato e gli occhi inumiditi, mentre il cuore batteva più forte nella speranza che dalla porta apparisse l’unica persona che John volesse vedere in quel momento.

“Paul?”

Il suo fu solo un lieve sussurro, ma fu sufficiente affinché il nuovo arrivato lo udisse e sollevasse il capo, posando su di lui quegli occhi che John conosceva molto bene.

“Ciao, John.”

John scattò in piedi, mentre Paul si avvicinava a lui e quando gli fu davanti, gli porse una busta di carta, con il nome di un caffè parigino in rosso.

“Buon compleanno.”

 

Note dell’autrice: sì, lo so che è un finale cattivo. Ma dopo tutta la lentezza che ha caratterizzato bene o male l’intera storia e soprattutto questo capitolo, ho pensato che ci stesse bene una piccola accelerata e un improvviso ALT! Fermi tutti, continua nel prossimo.

Ammetto che ho appena cominciato a scrivere il capitolo 12 e non so ancora che titolo dargli. Per un capitolo importante, ci vuole un titolo importante, giusto? Come la pubblicità dei grandi pennelli che la maggior parte di voi è troppo piccola per ricordare. Lol xD

Naturalmente sappiamo tutti cosa ha regalato Paul a John per il ventunesimo compleanno, vero? ;)

Detto ciò, grazie a kiki che ha corretto e sclerato per la fine.

Grazie anche a chi segue la storia, mostrando un grande affetto che mi commuove sempre. Siamo pochi ma buoni! :D

Ah, per lo spazio pubblicità, pubblicizzo l’ultima oneshot, su John e Paul e un duello di cuscini, qualcuno interessato? http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2263872&i=1

Ci sentiamo domenica per il nuovo capitolo e chissà, in settimana, per una double drabble! ;)

Kia85

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Capitolo 12
*** Buon compleanno ***




 

 

 

Una dedica speciale per una lettrice speciale, strawberryfield_JI. Grazie di tutto! J

 

 

Ticket to Paris

 

Capitolo 12: “Buon compleanno”

 

“Buon compleanno, John.”

John, totalmente esterrefatto, lo guardò stare in piedi di fronte a lui, con la mano che gli porgeva una busta. Era allibito sia per quello che aveva appena scoperto di se stesso, sia perché non sapeva davvero come comportarsi in una situazione che per lui era così nuova, e lui odiava non sapere cosa dire o fare.

"Buon compleanno?" ripeté, senza riuscire a nascondere il fastidio che in quel momento pizzicava nella gola e sui polpastrelli.

Non che non fosse contento di vederlo. No, John non era mai stato così felice di vedere Paul, Paul che stava bene, Paul insieme a lui. Nondimeno, non poteva ignorare il fatto che il ragazzo l'avesse fatto preoccupare con la sua scomparsa improvvisa, senza neanche avvisare.  

Paul abbassò la mano, notando che John non sembrava avere alcuna intenzione di prendere il regalo. Anzi, la sua espressione da Lennon irritato non prometteva nulla di buono.

"Sì, oggi è il tuo compleanno e sai com’è, si usa fare gli auguri al festeggiato." esclamò cercando di sorridere, malgrado il disagio per essere guardato in modo così truce da John.

"Certo. Si usa anche sparire e far preoccupare a morte il festeggiato?” ribatté l’amico, per nulla divertito, portando le mani sui fianchi, “Oppure è un'usanza solo tua?"

Paul contrasse le labbra: anche se doveva ammettere che John avesse ragione, non gli piaceva affatto il tono della sua voce; non gli piaceva perché quel particolare tono di voce tirava sempre fuori il peggio di lui, di loro.

"Oh, andiamo, John. Siamo a Parigi negli anni ‘60, non in trincea nella Prima Guerra Mondiale."

Cercò di buttarla sul ridere prima di voltarsi per raggiungere il letto, ma evidentemente sbagliò ancora sia a parole sia con i gesti, perché John lo afferrò per un braccio e lo riportò bruscamente nella posizione di prima, in piedi davanti a lui. Un gesto che sembrava dirgli, “Non è il momento di scherzare, non è il momento di fuggire, e ora resta qui e affronta qualunque cosa io abbia da dirti.”

"Siamo in una grande città straniera e tu sei un coglione e uno sprovveduto. Sai cosa fanno i delinquenti agli imbranati come te?"

Paul aggrottò la fronte, decisamente infastidito da quanto avesse appena detto l’amico: "Ehi, modera i termini. Mi stai stancando."

"Ah, io ti starei stancando? Ti prego, ricordami chi ha salvato il tuo prezioso culetto ubriaco dalle grinfie di quella sgualdrina l'altra sera? Chi è che si è svegliato oggi ritrovandosi da solo, mentre il suo compagno di viaggio era a spasso per la città? Chi ha passato tutta la giornata rinchiuso qui ad aspettarti, sperando che tornassi sano e salvo?"

L’aria seriamente preoccupata di John, le sue parole, la sua mano ancora stretta sul suo braccio fecero sussultare Paul.  Si aspettava che John fosse arrabbiato e ansioso, ma davvero non così, non in un modo che lo faceva sentire non in colpa, tremendamente in colpa, e vergognare di se stesso, più di quanto già non fosse.

"Mi...mi dispiace, John.” si scusò, abbassando il capo, “Lo so che ho sbagliato a sparire."

John scosse il capo e con un sospiro rassegnato lasciò la presa sul suo braccio: "No, tu non lo sai, Paul. Non sai cosa vuol dire svegliarsi e non trovarti da nessuna parte. Non sai cosa ho provato mentre ricreavo nella testa i peggiori scenari in cui tu potessi capitare. Non sai proprio un bel niente."

"Allora dimmelo." disse esasperato Paul e John lo guardò come se non si aspettasse niente del genere da lui, e in effetti, mai e poi mai avrebbe pensato che un discorso simile potesse prendere una tale piega.

Si aspettava che Paul lo mandasse a quel paese, o che gli dicesse, “Va bene, John, ho recepito il messaggio, passo e chiudo”, prima di comportarsi come se nulla di tutto ciò fosse accaduto. Per questo motivo si sentì arrossire lievemente quando Paul si avvicinò di un solo passo, un passo che per John erano sembrati chilometri.

“Dimmelo, John.” ripeté con più calma e non poté trattenere l’accenno di un sorriso, “Così non sbaglierò più.”

Oh, ma quanto era vicino? Dovevano essere non più di dieci centimetri. Era forse la prima volta che la distanza, o la vicinanza di Paul, pesasse in modo così incredibile per John e lui si ritrovò con il respiro accelerato. Santo Dio, da quanto tempo con esattezza stava respirando tanto velocemente?

“Io… io…”

Stava anche balbettando. Lui!  John Lennon! Ed era tutta colpa di Paul e del modo in cui lo guardava. Non era mai stato difficile rimproverare Paul, ma in quel momento John avrebbe trovato più semplice scalare il monte Everest. Sarebbe stato più divertente correre il rischio di precipitare in un burrone, piuttosto che inoltrarsi in un terreno così fragile e delicato come quello che ora si stendeva di fronte a lui.

Incapace di sostenere ancora quegli occhi, John gli diede le spalle, allontanandosi verso la finestra. Non era così che aveva immaginato il ritorno di Paul. Ma d'altra parte i suoi filmini mentali erano davvero improbabili, anzi, del tutto impossibili da concretizzare, perché Paul l'avrebbe allontanato e mandato al diavolo, ma anche perché la rabbia che aveva provato quella mattina stava tornando a ruggire in lui.  

E allora forse Paul doveva davvero sapere quanto l'avesse fatto preoccupare, anche se John rischiava di ammettere davanti a lui, con l’enfasi delle sue parole, che... che Paul gli piaceva. Ecco, l'aveva detto. Paul gli piaceva, in qualche modo ancora non del tutto chiaro, e John non poteva impedire a se stesso di provare un tale devastante sentimento, non poteva e non voleva impedirlo.

"Quando ho visto che non eri qui, ho pensato che potesse capitarti di tutto, con quella faccia che ti ritrovi e il tuo dare sempre e subito troppa confidenza agli sconosciuti. Qualche furbetto poteva facilmente attirarti in qualche vicolo e farti del male."

"Mi fai sembrare un incosciente. Come se non sapessi badare a me stesso." esclamò Paul con un cipiglio, mentre guardava John incrociare le braccia sul petto.

"Forse perché è davvero così. Sei troppo buono e pensi che lì fuori siano tutti tuoi amici solo perché riesci a conquistarli con un sorriso. Beh, non è così, Paul. Il mondo divora le persone come te, dopo averle fatte soffrire per bene. È ora che ti dia una svegliata. Non voglio più ritrovarmi in questa situazione. Se siamo insieme da qualche parte, non voglio più stare così lontano da te. Non voglio pensare ancora, ti prego, fa' che non gli accada nulla, e sentirmi nello stesso momento così impotente."

Paul sussultò appena e fu grato che John non potesse vederlo ora, perché era sicuro che stesse sfoggiando un sorriso davvero sciocco che avrebbe fatto solo innervosire di più John. Ma le sue parole continuavano a risuonare nella testa di Paul, alimentando quel sorriso e Paul dovette costringersi a reagire e non lasciarsi trasportare in uno dei suoi sogni preferiti, dove John accettava i sentimenti di Paul, li faceva suoi e li ricambiava totalmente. Così si avvicinò a John e gli mise una mano sulla spalla.

"Scusa, John. Davvero. Non volevo farti preoccupare."

John si voltò e allontanò con un gesto brusco la mano di Paul: "Beh, ma l'hai fatto."

La sua reazione prese in contropiede Paul, che ritirò la mano al proprio posto, e guardò John in modo diffidente: "Sì, e non posso tornare indietro nel tempo per cambiare quello che è successo. E anche se potessi, sai una cosa, John? Lo rifarei, lo rifarei altre cento volte se questo dovesse aiutarti a farti capire che sono stanco di essere trattato così. Sono stanco del modo in cui ti senti autorizzato a rivolgerti a me con questo tuo modo scontroso di affrontare i problemi, e poi ignorarmi come se non esistessi, senza neanche una spiegazione."

Nonostante le parole di Paul l’avessero colpito, perché vere e perché sì, John era stato un colossale idiota a trattarlo in quel modo la scorsa notte, il ragazzo non poté fare a me di aggrottare la fronte, mentre i suoi sentimenti verso Paul, ovvero la rabbia e quello più recente, quello più dolce, tornavano a ribollire in lui.

"Se sei così stanco di me, perché hai accettato di venire con me in questo viaggio? Oh, deve essere stata una vera noia, giusto, venire fino a Parigi con questo pazzo isterico che sta pagando tutto, è così, Paul?” John quasi sputò quelle parole, incapace di trattenerle più a lungo e sapendo che non le pensava davvero, “Ah, aspetta. È per questo, giusto? La prospettiva di un bel viaggetto gratis era più forte dell'essere costretto a sopportarmi, mh?"

Paul spalancò gli occhi, quando parole tanto ignobili uscirono dalla bocca dell’amico: "Sei uno stronzo, John. Sei... Dio, questa è la cosa più stupida che tu abbia detto da quando ci conosciamo. Io... Cazzo, io ti odio quando fai così. Mi fai rimpiangere di essere tornato."

Questo proprio non se l’aspettava: John non l’avrebbe mai fatto, John non gli avrebbe mai rinfacciato il gentile pensiero che aveva avuto per lui. E questo, più di tutto il resto, riuscì a impedire che Paul agisse d’istinto e se ne andasse un’altra volta.

"Allora vattene. Vattene via. Chi ti trattiene?"

Paul si morse il labbro: poteva anche andarsene, se voleva, per quello che importava a John... Ma Paul non voleva andarsene, non voleva andarsene mai più.

"Certo. È quello che vorresti, vero? Così tutto questo finirebbe e tu non dovresti più affrontarlo e pensare che tutti e due abbiamo sbagliato. Ma no, John, stavolta staremo qui a risolvere la questione come due persone civili."

Il giovane si avvicinò nuovamente, il suo sguardo si ammorbidì.

"In fondo sai che non vuoi che me ne vada, e sai che neanche io voglio andarmene ora, perché ho promesso che avremmo festeggiato il tuo compleanno insieme. Sai anche che non è per quel motivo che ti ho accompagnato in questo viaggio. Se me lo avessi chiesto senza la questione dei soldi, avrei fatto di tutto per trovare i mezzi per venire con te. Perché io, John, io ti seguirei fino in capo al mondo. Se mi avessi proposto di andare insieme al che ne so, polo nord ti avrei seguito anche lì. John, cazzo, questo viaggio ha un significato più profondo, è impossibile che tu non l'abbia sentito."

“Sentito cosa?” domandò John, la rabbia cominciò a scemare lentamente, mentre le parole di Paul esercitavano abilmente il loro potere lenitivo  sul ragazzo, che ora sembrava pendere totalmente dalle sue labbra.

“Il motivo per cui me ne sono andato. Sentivo che la situazione mi stava sfuggendo di mano, questo viaggio serve a consolidare ciò che siamo, John, definitivamente. Noi scriviamo insieme, passiamo molto tempo insieme, quasi mi sembra di vedere più te che mio padre.” disse aggiungendo poi una piccola risata, “Ma non abbiamo mai avuto davvero l'occasione di solidificare questo…questa cosa che ci unisce. C'è sempre stato qualcun'altro con noi. Perciò l'idea di un viaggio solo con te mi aveva elettrizzato a tal punto che sarei scappato, anche senza il permesso di mio padre, se fossi stato costretto. Forse all'inizio non l'avrei mai pensato possibile, ma fanculo! Se era per stare con te, alla fine l'avrei fatto. E quando ieri sera mi hai trattato in quel modo, ho pensato che non stava funzionando e forse era anche colpa mia e del mio essere assente nei tuoi confronti, dal momento che la mia compagnia è l'unica cosa che tu abbia qui.”

John si ritrovò a essere d’accordo e fu quasi sollevato che Paul avesse riconosciuto le sue mancanze. Era un segno di umiltà, umiltà che John non aveva mai considerato una delle sue caratteristiche più importanti. Non aveva mai pensato di dover dire “mi dispiace” per qualcosa, perché avrebbe solo aggiunto altra insicurezza a quella che già risiedeva in lui. Ma con Paul era diverso, Paul gli faceva venire voglia di dire “Mi dispiace”, “Perdonami”, “Non lo farò mai più.”

“E ora mi odierai per quello che sto per dire.” proseguì Paul, sorprendendo John che non si aspettava di sentire altro da lui e che stava quasi per porgergli le proprie scuse, “So che mi odierai, ma devo farlo perché non ce la faccio più a stare in silenzio. Mi sono trattenuto per troppo tempo, pensando che non fosse mai il momento giusto, pensando alle parole giuste da usare, ma non c’è momento più giusto di questo, né parole più giuste.”

John stava per chiedergli, “Di che cazzo stai parlando? Cosa stai blaterando? Hai perso la testa?”, ma si accorse di essere senza voce, soprattutto perché Paul si avvicinò solo un altro po’ e gli afferrò la giacca con le mani.

“John, devo farlo, perché se questo significa allontanarti da me, allora non ci sto. Non voglio che tu sia lontano da me, mai."

Paul si ritrovò quasi senza fiato, il viso in fiamme, le mani che tremavano, gli occhi inumiditi e più di tutto il resto, incapace di credere che avesse appena detto qualcosa di tanto importante a John. Il vero problema arrivava ora. John aveva capito cosa intendesse dire Paul? Aveva compreso il senso più profondo di quelle parole? La sua assenza di reazione fece pensare a Paul che forse non era stato proprio chiaro.

“John, io voglio te.”

Ma John aveva capito, aveva capito fin troppo bene. Aveva visto il volto arrossato e splendente di Paul, il lieve sorriso che le sue labbra non potevano trattenere mentre lasciavano fuoriuscire parole che erano come una delizia per John. Aveva visto tutto questo, vi si era rispecchiato totalmente e aveva capito.

E ora sapeva di dover dire qualcosa, qualcosa che non era molto diverso da quanto gli avesse appena confessato Paul, ma era così difficile. Come puoi dire al tuo migliore amico che ricambi totalmente il suo sentimento d’affetto, quando questo affetto è ormai ben al di là dell’amicizia?

“Lo sai, Paul, cos’è successo ieri notte? Qual è stato davvero il mio problema?”

Paul scosse il capo, senza trovare nessuna parola da aggiungere, forse perché ancora scombussolato dal coraggio che aveva appena dimostrato a John, o forse perché si aspettava una reazione molto diversa dall’amico. John che si allontanava da lui, e non John che restava con la sua giacca tra le mani di Paul. John che sbraitava bestemmie e altre orribili ingiurie nei suoi confronti, e non John che gli parlava con tono pacato e osservava le braccia di Paul, sul suo petto.

“Il problema è che quando ti sei spostato, il tuo braccio mi ha toccato e io ho pensato che…”

“Cosa?”

John si morse il labbro nervosamente.

Ehi, un momento.

Cosa stava facendo?

“Lascia perdere.” disse voltandosi di nuovo, per non mostrare il suo rossore a Paul.

Non poteva dirgli quello che era successo, non sapeva come farlo senza sembrare ridicolo, senza sembrare sdolcinato, un modo che avrebbe rovinato la sua reputazione di duro, di Teddy boy, di-

“Perché?” gli domandò l’amico, camminandogli intorno così che ora si ritrovò di nuovo di fronte a lui e Paul prese le sue braccia tra le sue mani.

Anche se Paul gli stava aprendo il suo cuore, anche se aveva paura come John, aveva trovato le parole giuste da rivolgergli. Ma John, lui era un fallito, un perdente, lui… Non solo quello che provava lui era ridicolo, lo era anche lui stesso, la sua persona, il suo essere, era indegno di tutto ciò che di bello aveva condito la sua miserabile vita. E questo comprendeva anche Paul.

“Mi prenderesti in giro e io rovinerei tutto come al solito.”

“John, no, io non lo farei mai.” protestò vivacemente Paul, “Io capisco quello che stai provando, giuro che è così, e se riesci a dirmelo, forse insieme possiamo trovare il modo di affrontarlo.”

Le mani di Paul sulle sue braccia cominciarono ad accarezzarlo con delicatezza, movimenti incerti, timidi, ma non si fermarono mai e John le guardò per un istante, mentre veniva riportato subito alla sera prima, sul letto, con Paul che l’aveva abbracciato.

In fondo, non aveva motivo di avere paura di Paul e di questo sentimento che sembrava essere condiviso, che sembrava stesse tormentando entrambi e non solo lui. Anzi, forse aveva tormentato Paul per più tempo, rispetto a John, perché mentre gli diceva quelle cose, Paul era sembrato tanto sicuro da fare invidia a John. E di fronte a lui la reputazione di John perdeva tutta la sua importanza e poteva anche andare a farsi benedire. John  glielo doveva, ora, in questo momento, in qualunque modo avesse scelto di dirglielo o mostrarglielo.

Così, prima di pensare davvero a cosa fare, il suo cuore agì per primo e lo convinse ad abbracciare Paul e stringerlo a sé.

“Quando mi hai toccato, ho pensato che avrei voluto abbracciarti.”

Paul si concesse di trattenere il fiato, ma cercò disperatamente di non chiudere gli occhi e abbandonarsi alla sensazione di essere finalmente tra le sue braccia, una sensazione che era perfetta, perfetta come l’aveva sempre immaginata lui.

“Oh.” esclamò, lasciandosi scappare un sorriso, “Proprio così?”

“Proprio così.” ripeté, tirandosi solo un po’ indietro per guardarlo negli occhi e caspita, Paul non sembrava pensare una delle cose cattive che aveva previsto John.

Sembrava invece che non aspettasse altro da lui, perché forse quella vocina flebile dentro John che gli sussurrava che il suo sentimento non era ridicolo, e non lo era affatto, forse quella vocina aveva ragione.

“E poi, avevi questo stupido ciuffo davanti agli occhi. Ho pensato: cazzo, se si sveglia, sicuramente gli darà fastidio. E avrei tanto voluto spostarlo di lato.”

La sua mano seguì l’indicazione delle sue parole, facendo arrossire Paul.

“Molto gentile da parte tua, grazie.”

“Non c’è di che.” disse John, rendendosi conto che tutto sommato non si stava dimostrando essere una cosa tanto difficile.

Forse iniziare era la parte più complicata di tutto quel discorso, come il piccolo sforzo di girare la chiave nella serratura o sollevare le barriere di una diga, perché una volta superata l’iniziale difficoltà, tutto il resto fuoriusciva da solo, facilmente, con la forza prorompente di un fiume in piena, con la pressione accumulata da tutto quel tempo in cui John non aveva visto, né sentito, né saputo che il suo migliore amico, Paul, era diventato la persona più preziosa nella sua vita, la più cara per John.

“E poi mi sarebbe piaciuto avvicinarmi di più per sentire l’odore della tua pelle.”

Quando John lo fece, quando John gli sfiorò la guancia con il naso e la bocca, Paul lottò con tutte le sue forze per non chiudere gli occhi, non era ancora il momento giusto. Decise invece di aggrapparsi alle spalle larghe di John, mentre le sue gambe minacciavano di cedere lì e subito, e il cuore dentro di lui era troppo felice e non sapeva più con che ritmo continuare a pompare sangue nelle sue vene e tenerlo in vita.

“Tutto… tutto qui?” riuscì a dire, la voce lieve e sospirante.

“No.” rispose John, scuotendo il capo e sorridendo fra sé, più che a Paul, “Penso proprio che avrei voluto anche baciarti.”

Le mani di Paul si strinsero automaticamente sulle spalle di John, strinsero la sua giacca, anzi no, la giacca di Paul. La realizzazione fece ampliare il sorriso di Paul, per quello che aveva detto John, certo, parole che naturalmente avevano aperto le porte di una specie di paradiso per Paul, ma anche perché la sua giacca indosso a John ora sarebbe stata impregnata del suo odore. E quando Paul l’avrebbe indossata nuovamente, lui sarebbe stato avvolto non solo dal proprio odore, ma anche da quello di John e questa volta non  per sbaglio. Sarebbe stato giusto così, perché ora era suo e apparteneva a lui.

“Lo pensi ancora?”

“Sì.”

“E lo vuoi ancora?”

John annuì, mentre l’espressione di Paul abbandonò ormai la timidezza. Ora sul suo viso vi era determinazione, una molto accesa a giudicare dalle sue guance rosse, come se non avesse rinunciato tanto facilmente all’inevitabile gesto che avrebbe concluso quel discorso.

“Ti prego, fallo.”

Il suo sembrava quasi un ordine e John lo osservò, così, a pochi centimetri dal suo viso, e davanti ai suoi occhi imploranti, al piccolo naso costellato di lentiggini appena accennate, di fronte a quelle labbra dischiuse che aspettavano solo lui, John davvero non sapeva cosa lo stesse trattenendo dall’appropriarsi di tutto questo, di Paul che si offriva a lui con fare disperato.

Forse lo sapeva e questo lo faceva solo arrabbiare di più con se stesso.

“Ho paura.” E senza volerlo scostò la testa da quella di Paul di un paio di centimetri.

Perché, perché quel John tormentato che si celava in lui non lo lasciava in pace almeno ora, ora che stava provando l’emozione più eccitante e meravigliosa della sua vita? Ora che l’avrebbe reso un po’ meno tormentato e un po’ più felice?

“Basta, John, basta aver paura. Ormai non si torna più indietro.” affermò, avvolgendo le braccia intorno al suo collo e riportandolo in questo modo vicino a sé.

Forse John aveva bisogno di aver paura, solo perché così Paul poteva fare ciò che gli riusciva meglio: allontanare i suoi timori con una parola o un gesto, e conquistarlo una volta di più.

“Dovresti proprio baciarmi, sai, John.” gli fece notare, sorridendo malizioso e incurante dei timori dell’altro ragazzo, “Dovresti farlo ora e senza aver paura perché non ti fermerò.”          

John ci pensò per qualche secondo, non che avesse bisogno di rifletterci davvero. In fondo la sua decisione era stata già presa.

“Giusto. In qualche modo devi farti perdonare per essere scappato via stamattina e avermi lasciato solo, il giorno del mio compleanno per di più.”

“Beh, ora non sei più solo.” commentò Paul, inclinando di poco il capo e avvicinandosi a John, alle sue labbra, al suo bacio, “E si dà il caso che io desideri disperatamente farmi perdonare.”

Gli ci volle solo un ultimo sorriso di Paul, prima che John si decidesse a eliminare quell’ultimo centimetro che lo separava da lui.

Quell'ultimo centimetro che lo separava dalla bocca del suo migliore amico. Porca miseria, stava per baciare il suo migliore amico. Era così incredibile che John non aveva realizzato che lo stesse per fare davvero. Si trovava ancora in una specie di stato intorpidito, come se si fosse appena svegliato dal sogno più bello e si fosse accorto che il sogno era solo la realtà.

Capì quanto questo fosse reale solo quando, infine, la sua bocca sfiorò quella di Paul. La sfiorò timidamente, come se pensasse che da un momento all'altro Paul o lo stesso John potessero cambiare idea in modo repentino e far pentire entrambi di quanto stesse accadendo.

Ma fortunatamente non fu così, e quando le braccia di Paul si strinsero di più intorno al suo collo, come a volerlo incoraggiare ad approfondire il bacio, John seguì il suggerimento, baciandolo solo un po' più appassionatamente. Quello, proprio quello fu il momento in cui si rese conto di quanto fosse perfetto il bacio di Paul, di quanto superasse di gran lunga le sue aspettative o qualunque filmino che avesse proiettato quel pomeriggio nella sua testa. Non era niente di tutto ciò, era molto meglio, era grandioso, era pazzesco, era puro rock 'n roll e Dio solo sapeva quanto John amasse il rock 'n roll.

Quando la sua bocca fu catturata da John, Paul chiuse gli occhi, decidendo finalmente di abbandonarsi al gesto e non meno importante, a John. Chiuse gli occhi e subito si ritrovò al concerto del suo cantante preferito, John Lennon, che cantava, suonava, viveva solo per lui.

Così coinvolgente era il bacio di John, così unico, così speciale, che Paul avrebbe tanto voluto muoversi di più: allontanarlo solo un po’ per vedere la sua reazione o stringerlo di più e inchiodarlo al muro per poterlo baciare in modo appropriato, ma rimase fermo immobile, perché indeciso su cosa fare e perché non voleva ancora separarsi da lui. Ora che finalmente aveva quello che aveva sempre desiderato negli ultimi mesi, voleva assaporarlo fino in fondo.

Tuttavia, quando il bisogno di più aria divenne impellente Paul si allontanò da John, accorgendosi che il ritmo del suo respiro affannato seguiva quello dell’altro ragazzo e il suo viso era così arrossato che riuscì a sorprendere Paul. Non aveva mai visto John in quello stato e sapere che fosse merito, o causa sua era oltremodo appagante.

"Allora…” iniziò a dire, trovando il coraggio di parlare dopo essersi scambiati un lungo sguardo, “Sono perdonato?"

"Oh sì.” rispose John, ridacchiando, “Puoi scommetterci."

****

Non seguì una scommessa, bensì qualcosa di tanto impacciato, goffo, intimorito che Paul quasi scoppiò a ridere a vedere come fossero cambiati entrambi in pochi minuti. Non sembravano neanche loro. E se da un lato aveva amato quanto fosse accaduto, dall’altro pensò che non voleva che questo li cambiasse. Così, quando John per l’ennesima volta intercettò il suo sguardo e lo distolse, volgendo il capo dall’altra parte e arrossendo come un peperone, sospirò apertamente.

“John.”

“Cosa?”

“Smettila.”

“Di fare cosa?”

“Di fare così.”

“Così come?”

“Andiamo, lo sai.” rispose, scrollando le spalle, “Sembriamo due estranei. Lo detesto. Non hai fatto così neanche quando ci siamo conosciuti.”

John sorrise, accorgendosi che Paul aveva ragione e che neanche lui sopportava questa sensazione di disagio tanto densa che sembrava essere fisicamente presente accanto a loro.

“Scusa, è solo che…” disse ridacchiando, “Non so proprio come comportarmi.”

“Come al solito, John. Non è cambiato nul-” disse, ma lo sguardo di biasimo che gli lanciò John lo interruppe e lui fu costretto ad ammettere che, “Ok, forse qualcosa è cambiato.”

“Forse? Come puoi dire forse?” esclamò John totalmente esterrefatto.

Paul scosse il capo, sorridendo e gli si avvicinò prendendo le sue mani fra le sue.

“Quello che voglio dire, John, è che qualunque cosa accada, niente deve rovinare il  nostro rapporto. Niente e nessuno. Chiaro?”

"Chiaro."

Paul annuì soddisfatto, ma solo quando John gli disse, "Sei il solito sentimentalista del cazzo!", sorrise genuinamente, sicuro ormai che John avesse recepito il messaggio.

"Comunque, prima mi sembra di aver intravisto un regalo..." iniziò a dire John, guardandosi intorno.

"Davvero? A me sembra che di regali oggi ne hai già avuti abbastanza."

John lo guardò e si chiese se fosse normale trovare la sua aria sfacciata assolutamente adorabile. Prima di quel giorno non ci avrebbe fatto molto caso, ma ora stava accorgendosi di tante piccole cose che non aveva mai visto prima d'ora, particolari del viso di Paul, della sua postura che non facevano altro che riaccendere in lui il desiderio di prenderlo di nuovo fra le sue braccia e baciarlo e questa volta non solo sulle labbra, ma anche sul naso, le orecchie, le palpebre, baciare tutto ciò che sul suo viso contribuisse a rendere la sua espressione adorabile.

Ma, ripensando a quello che aveva detto Paul, capì che John Lennon avrebbe risposto in modo diverso.

"I regali non sono mai abbastanza, non lo sai? Soprattutto il giorno del compleanno."

Paul rise e poi si avvicinò alla busta lasciata a terra poco tempo prima. La riprese e la porse nuovamente a John.

"Ecco qua."

"Grazie." esclamò John, prendendo finalmente il regalo tra le mani.

Andò a sedersi sul letto, incrociò le gambe e iniziò a esplorare la busta, mentre Paul si avvicinava e si sistemava di fronte a lui.

Il contenuto della busta si rivelò essere due hamburger, due bottiglie di birra e quello che assomigliava molto a un vassoio di pasticcini.

"Ho pensato che sicuramente non ti saresti mosso dalla camera." iniziò a spiegare Paul, arrossendo mentre ricordava e si sentiva in colpa per il suo aver lasciato John da solo, "E non sapevo se le nostre scorte potessero soddisfare la tua fame da lupi, per cui ti ho preso un paio di hamburger e la birra, perché la birra sta bene dovunque e perché non ha bisogno di una spiegazione. In più ho comprato anche dei pasticcini perché in qualche modo dobbiamo pur festeggiare."

John lo guardò attentamente, mentre Paul indicava col dito ogni cosa che nominava. Ma più che seguire le sue indicazioni, era come rapito da questa nuova angolazione con cui poteva ammirare Paul. Con lo sguardo di Paul rivolto in basso, tutto ciò che poteva vedere John erano le sue palpebre che si muovevano di tanto in tanto e quando lo facevano, le sue lunghe ciglia scure vibravano sullo sfondo di due guance bianco latte, che ora John sapeva essere anche lisce. Erano sempre state così lunghe le sue ciglia? E le sue guance, così paffute e delicate?

Notando la mancanza di una risposta da parte di John, Paul alzò lo sguardo e vide il giovane tutto intento a fissarlo e malgrado i suoi propositi di comportarsi come al solito nei suoi confronti, non poté fare a meno di arrossire. Aveva sempre amato quell'espressione così persa e trasognata di John. Era così raro vedere che John si concedesse di perdersi nei suoi pensieri, un'espressione che Paul aveva visto sul suo viso solo in rare occasioni e quasi sempre queste prevedevano la presenza di una chitarra o di Cynthia. Tuttavia ora la stava rivolgendo a lui e questo lo fece solo avvampare di più e sentire il suo cuore sussultare lievemente nel suo petto.

“John?”

“Grazie.”

Paul, divertito, arricciò il naso: “Significa che ti è piaciuto il regalo, vero?”

“Moltissimo.” rispose John, annuendo, “Ma sai, Paul, penso che un hamburger per me sia più che sufficiente. Dovresti mangiare tu l’altro.”

“Non importa, non ho fame.”

“Non ci credo, tieni.” ribatté John, porgendogli un hamburger, “Devi mangiare, altrimenti poi chi lo sente tuo padre, se torni tutto sciupato?”

Paul scoppiò a ridere: “Non penso di correre questo rischio, John, ma grazie.”

Fu così che mangiarono il panino, scambiandosi di tanto in tanto un sorriso e uno sguardo. Niente di così insolito, davvero, eppure John sentiva quanto fosse tutto molto diverso, con un lieve tepore e una dolcezza che lo avvolgevano, insieme a Paul, in una sorta di limbo che lui non voleva mai abbandonare.

Poi passarono ai pasticcini, tante piccole tortine colorate, biscotti al burro, amaretti, meringhe… e tante piccole gare per accaparrarsi più velocemente quello più bello, più colorato e quindi più buono.

Quello per John fu davvero il compleanno più bello della sua vita, il compleanno in cui per la prima volta non aveva sentito la mancanza di nulla, perché tutto ciò di cui aveva bisogno, amicizia, famiglia e amore era proprio lì di fronte a lui, a portata di mano.

Infine, troppo stanchi per l’avvincente giornata che li aveva visti separati e in seguito, così rapidamente avvicinati, i due ragazzi andarono a dormire presto, ma nessuno dei due sperava, o anche solo credeva, di riuscire a prendere davvero sonno. Rimasero in silenzio per molto tempo, ascoltando l’uno il respiro dell’altro, non essendo in grado di muovere un solo muscolo, né di cambiare posizione per la dolce paura, o forse la speranza, di finire troppo vicino all’altro ragazzo.

"Paul, dormi?"

Paul sospirò, lieto che John si fosse finalmente deciso a parlare, dopo che nell’ultima mezz’ora aveva percepito su di sé l’insistente sguardo del ragazzo.

"No. Non ancora."

"Neanche io."

"Non l'avrei mai detto." commentò Paul, ridacchiando e si voltò sul fianco a guardare John nel buio della camera, “I ventun anni cominciano a pesare, eh?”

"Stupido." esclamò John e glielo disse con tono affettuoso, più che come offesa.

"Allora, cosa ti tormenta, John?" gli chiese, interessato.

"Quando hai detto che questo viaggio nasconde un significato più profondo, ti riferivi a quello che è successo oggi?"

Paul sospirò, passando distrattamente una mano sul copriletto.

"John, per quanto io abbia aspettato di dirti quello che provavo, e credimi, ho aspettato tanto, non pensavo davvero che potesse accadere qualcosa del genere. Quindi no, non mi riferivo a questo. Ma sapevo che in qualche modo questo viaggio avrebbe cambiato le nostre vite, non prese singolarmente, ma insieme." spiegò Paul, "Secondo te ha senso?"

"Sì.” rispose John, senza neanche pensarci, solo perché lo sentiva, sentiva dentro di sé che fosse così, “Molto. Ma sono felice di quello che è successo oggi."

"Non sarebbe ora di chiamarlo con il suo nome?"

"Ovvero?"

"Ovvero ci siamo baciati, John, ba-cia-ti." rispose e poi con un gesto rapido, si sporse verso di lui per appoggiare un brevissimo bacio sulle sue labbra, prima di tornare al proprio posto.

John ridacchiò, accorgendosi che stava cominciando a sentire la mancanza della bocca di Paul sulla sua e fu felice che lui l’avesse fatto.

"Va bene, allora. Sono felice che ci siamo baciati."

"Sì." concordò Paul e la sua voce si fece più sussurrata e più dolce, "Anche io."

John sorrise mentre pensava che solo la sera prima sarebbe inorridito a una tale ipotesi e ora invece, non voleva mai smettere di baciare Paul e stringerlo a sé.

"Paul, posso avvicinarmi?"

"Certo che puoi. Che domande!"

John non fece in tempo a muoversi che Paul gli aveva già avvolto la vita con un braccio e l’aveva attirato a sé. E questa volta John non lo respinse, anzi, ricambiò l'abbraccio, mentre Paul si accoccolava contro di lui, sicuro che ora avrebbe anche potuto addormentarsi.

"Buon compleanno, John."

E lo era davvero.

"Grazie, Paul."                    

 

 

Note dell’autrice: mi dispiace per la lunghezza del capitolo, è solo che ho scritto la bozza, poi rileggendolo ho aggiunto altre cose, rileggendolo ancora per la correzione ne ho aggiunte altre… Alla fine ho detto, va bene, mandalo a kiki altrimenti non finiamo più.

Spero che questo capitolo decisamente importante sia piaciuto. Non so perché, ho avuto un po’ di timore a pubblicarlo. :/ Se è orribile potete anche dirmelo, non mi offendo. J

Il regalo vero che Paul ha comprato a John mentre erano a Parigi era un solo hamburger (lo dice nell’Anthology), io ho aggiunto tutto il resto.

Bene, grazie a kiki per la correzione. Ridendo e scherzando siamo arrivati a 4 capitoli dalla fine.

Se avete voglia di una double drabble fluff, con John, Paul e una fanart di Fiona, trovate tutto qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2275627&i=1

Ci sentiamo domenica prossima con il capitolo 13: “Mani”

kia85

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Capitolo 13
*** Mani ***




 

 

 

Doppia dedica questa settimana:

-a Miss Macca, perché è la gentilezza fatta persona

-a Noewalrus, per le sue parole sempre presenti e sempre dolci

 

Ticket to Paris

 

Capitolo 13: “Mani”

 

Paul non voleva svegliarsi. Perché avrebbe dovuto farlo?

Aveva appena avuto il sogno più grandioso, più eccitante di tutta la sua vita, il sogno più realistico, il sogno che lo rendeva felice.

Quindi, davvero, perché avrebbe dovuto svegliarsi?

La risposta arrivò da una vocina dentro di lui che parlava con un tono beffardo e nello stesso tempo dolce, un tono familiare che gli diceva, "Che stai aspettando? Svegliati, poltrone. È ora di iniziare la giornata più bella di tutta la tua vita. Coraggio, andiamo. Giù dalle brande."

Così, per mettere a tacere quell'insopportabile e adorabile vocina, Paul decise, a malincuore, di aprire gli occhi.

Riconobbe il soffitto della sua stanza e le lenzuola, ruvide come sempre. Tutto come al solito, a parte forse quel braccio che gli circondava la vita e una testa appoggiata sulla sua spalla. Era una piccola differenza rispetto ai suoi risvegli precedenti, ma era una differenza importante. In quel viaggio era come la ciliegina sulla torta.

Intendiamoci, altre volte a Liverpool si era svegliato con John rannicchiato contro di lui, ma mai la sua testa si era chinata fino a sfiorare la sua spalla, né il suo braccio si era proteso nella notte per stringerlo o le loro mani intrecciate. Quelle mani che mai prima d'ora si erano strette in quel modo, in quella presa che era salda e sicura e incantevole.

Niente di tutto questo.

Tuttavia questo era stato il suo risveglio e Paul adesso poteva accarezzare quel braccio e avvicinare la sua testa a quella di John, amando la sensazione di solletico di quei sottili capelli ambrati e inspirando a fondo  il loro odore. Gesti semplici, ma significativi perché indicavano che Paul non aveva solo sognato ciò che era successo con John: era invece più vero che mai, era reale.

Bellissima parola reale, vero? Così elegante e concreta. Proprio come John.

Beh, forse elegante non era esattamente la prima parola che un conoscente di John avrebbe potuto associare a lui, ma per Paul era così. Non aveva niente a che fare con il modo di esprimersi, decisamente da scaricatore di porto, per non dire di peggio, né con il suo abbigliamento. Era nei suoi gesti, nelle sue movenze così sofisticate, nella sua voce. Dio, la sua voce perfetta, il tono appena strascinato. Paul pensava che le persone nobili dovessero parlare tutte così, e che lui avrebbe volentieri trascorso tutta la vita a sentir parlare John, ascoltarlo mentre cantava e lo prendeva in giro. Come faceva a mantenere quel tono affascinante anche quando gli dava dell'idiota o imprecava pesantemente? Paul risultava sempre così volgare quando lo faceva. Perché?

Tuttavia, era una cosa che gli importava davvero? In fondo, sembrava una cosa che non infastidiva John. Per cui, per quale motivo avrebbe dovuto preoccuparsene? Andava bene a John, di conseguenza andava bene anche a Paul.

Un movimento accennato della testa sulla sua spalla e la mano intrecciata con la sua che si strinse un po' di più, gli comunicarono che John si stava svegliando.  

Il giovane mormorò, gli occhi ancora chiusi, la guancia premuta contro qualcosa di caldo, un tessuto che riportava lo stesso odore che l’aveva avvolto il giorno prima, quell’odore familiare che però John era sicuro non appartenesse a lui, non era il suo odore. Deciso a scoprire cosa fosse, John aprì gli occhi e ricordò tutto.

“Era ora che ti svegliassi.” gli disse Paul, con un gran sorriso e gli occhi che brillavano.

John, con gli occhi ancora socchiusi, riuscì a notarlo e storse le labbra lasciandosi scappare un lieve grugnito: come diavolo faceva Paul a essere così solare e pimpante di prima mattina?

I risvegli di John erano sempre un trauma per lui, sia che avvenissero dolcemente, sia che fossero più bruschi. Innanzitutto doveva mettere a fuoco, per così dire, con gli occhi miopi che si ritrovava, l’ambiente circostante e realizzare che si trovasse esattamente nello stesso luogo dove si era addormentato. Se non fosse stato così, allora si sarebbe trovato in grossi guai. Ma questo, per fortuna, era avvenuto molto raramente nella sua vita. Dopodiché doveva trovare la forza di alzarsi per andare a recuperare del caffè e qualcosa da mangiare, due cose che gli avrebbero conferito le energie necessarie per svegliarsi davvero, recuperare l’uso della parola e affrontare la giornata. Se qualcuno incontrava John in quel breve tragitto chiedendogli qualunque cosa o anche solo rivolgendogli un cortese “Buongiorno, John”, beh, diciamo solo che erano guai grossi per lui o lei.

Ora invece, con Paul a un soffio da lui, John pensò che non vi fosse caffè più forte di quel sorriso e niente di più dolce ed energizzante delle loro mani ancora intrecciate.

“Sì, buongiorno anche a te, Paul.”

Poi si mosse e si sistemò meglio sul proprio fianco, mentre Paul rideva e si voltava verso di lui.

“Il solito risveglio scontroso?”

“No, questa volta no.” rispose lui, scuotendo lievemente il capo.

“Cosa lo rende diverso?” continuò Paul, mostrando sul suo volto tutta la sua curiosità.

“Mi sembra evidente.” rispose John e fece un timido cenno verso di lui, “Tu.”

Paul rise: “Non è la prima volta che ci svegliamo nello stesso letto.”

“No, ma è la prima volta che ci ritroviamo così.” e così dicendo, gli indicò le loro mani, ancora intrecciate.

“Oh, certo, mi sembra giusto.” esclamò Paul, arrossendo lievemente, e questo non fece che incoraggiare John a proseguire.

Il potere di far arrossire Paul era insieme delizioso e inebriante, qualcosa a cui era difficile resistere.

“Inoltre dopo il terribile risveglio di ieri, oggi sono troppo felice che tu sia qui.”

“E’ per questo che non mi hai lasciato andare per tutta la notte e ora mi ritrovo con il braccio informicolato? Avevi paura che scappassi come ieri mattina?”

“Mi sa proprio di sì. E aggiungerei anche un ‘Ben ti sta’, mio caro Paul, dato che mi avevi promesso di non farmi più preoccupare, e io avevo promesso che te l’avrei fatta pagare se avessi infranto la promessa.”

Paul aprì la bocca in un modo esageratamente scandalizzato: "Mi sembrava di essermi già fatto perdonare..."

"Oh sì. Infatti è così." esclamò John, dandogli un pizzicotto sul fianco e facendolo contorcere accanto a lui, "Ma non togliermi la mia piccola rivincita. Te la meriti tutta."

"Quindi non c'è proprio alcun modo per farti cambiare idea e convincerti a darmi la grazia?" chiese Paul, con un sorriso furbo che tirava le sue labbra; poi si avvicinò a John, lasciando che la sua mano libera scivolasse sul suo petto.

"No." rispose John, costringendosi a ignorare il fremito della sua pelle sotto la mano di Paul.

"Oh. Che peccato." borbottò Paul con un finto broncio, "Conoscevo un metodo che ti avrebbe convinto."

"Ah sì?” domandò John, interessato, “Di cosa si tratta?"

"Beh, innanzitutto prevede che tu ti avvicini di più a me." gli spiegò Paul, stringendo la mano sulla sua maglietta e invitandolo ad accostarsi a lui.

"Più di così? Non è già sufficiente?"

"No. Di più, John. Solo un altro po', altrimenti non funziona."

Così John obbedì e avvicinò il suo viso a Paul: "Va meglio ora?"

"Molto meglio." rispose Paul e la sua mano scivolò più in alto, sfiorando il suo collo e soffermandosi infine sulle sue labbra.

"E poi? Cosa prevede questo tuo metodo infallibile?"

"Beh, prevede che io faccia… questo."

L'ultima parola fu solo un sospiro sulle labbra di John, prima che Paul se ne appropriasse dolcemente.

Dolce come lo zucchero nel caffè. Ecco ciò che mancava affinché John si risvegliasse completamente. Il bacio di Paul quella mattina era la carica giusta per John. Dopo questo avrebbe potuto fare qualunque cosa, la maratona alle Olimpiadi, correre cento metri in dieci secondi netti. John era invincibile! Questo pensiero lo fece solo perdersi di più nel suo bacio, assaporando quelle labbra morbide che accarezzavano le sue, delicate e appassionate.

La mano di Paul tornò a stringere la maglietta di John con le dita e lui sorrise fra sé, mentre pensava che sarebbe stato graziato, certamente era così, John si era finalmente arreso e gli stava comunicando il verdetto con le labbra.

"Allora, Vostro Onore, potete concedermi la grazia?"

John aggrottò la fronte non tanto per la domanda, ma perché Paul si era pericolosamente allontanato da lui nel momento migliore.

"Sì, ti concedo tutto quello che vuoi." rispose, attirandolo di nuovo a sé, "Basta che torni qui."

Paul sorrise, mentre John riprendeva da dove erano stati interrotti. Sorrise perché mai sentenza fu più deliziosa della bocca di John e del bisogno che aveva di lui. Come avrebbe fatto a rinunciare a John, una volta tornati a Liverpool? Cosa sarebbe successo, sarebbe tornato tutto come prima? Paul non voleva, non voleva assolutamente tornare a come stavano le cose prima di quel viaggio. Era impossibile, far finta che non fosse mai successo.

E questo pensiero, questo pensiero straziante, alla fine, fu ciò che lo fece allontanare di nuovo da John, giusto il tempo per dirgli: "John, non dovremmo parlare?"

"Di cosa?"

"Di questo. Di noi due. Della band. Delle ragazze. Tra qualche giorno dovremo tornare a Liverpool. Dobbiamo decidere cosa fare, come comportarci con gli altri, cosa dire...su di noi, veramente, ma anche sul taglio di capelli. Resteranno così sorpresi."

"Paul, non ce la fai proprio a stare zitto per un po'?" domandò John, esasperato, alzando gli occhi al cielo, "Possiamo aspettare ancora qualche giorno?”

“Ma noi-“

“Inoltre!” continuò John, senza badare a lui, “Abbiamo parlato tutta la vita. E ora voglio solo baciarti."

Paul era nel bel mezzo di un sorriso, quando la sua bocca si incontrò di nuovo con quella di John, felice che lui l'avesse messo a tacere.

Basta parole. Almeno per un po'.

****

Il per un po' si trasformò in un'intera mattinata. Poi, quando capirono che erano a Parigi e ancora non avevano concluso la visita, decisero infine di alzarsi e uscire all'aria aperta, nel mondo che cambiava tutto, nel mondo così diverso da quello così piccolo e prezioso che era la loro stanza d'albergo.  

La giornata era fredda, ma così limpida; per questo motivo sembrò appropriato approfittarne e raggiungere l’imponente Arco di Trionfo per poter godere di quella vista panoramica famosa in tutto il mondo. John aveva avuto delle esitazioni a riguardo, ma Paul aveva insistito: “Non puoi andare a Parigi e non salire sull’Arco.”

Così John fu costretto a cedere alla preghiere, e seguì Paul. Quando arrivarono in cima, Paul sviluppò un’evidente incapacità a stare fermo, come accadeva sempre quando era eccitato.

“Certo che è bello alto…” commentò Paul, guardando appena in basso e aggrappandosi alle grate di protezione.

“E’ più alta la Tour Eiffel.” fece notare John, restando appena più indietro di lui.

“Sì, ma sulla Tour Eiffel non siamo saliti.”

“Sai quanto costava? Era un vero e proprio furto.” ribatté accalorato John.

Paul si voltò a sorridergli: “Ehi. Non voleva essere una critica.”

 John sbatté le palpebre, preso in contropiede e l’unica cosa che riuscì a dire fu: “Oh.”

Dannazione, Paul era bravo a spiazzarlo, ma John di solito riusciva sempre a ribattere a tono e poi tutto questo scambio di battute si protraeva fintanto che uno dei due non si stancasse e decidesse di porre fine al loro divertimento, e non certo perché non sapesse più cosa dire. Oh, c’erano ancora così tante cose…

Tuttavia ora John non sapeva cosa rispondere, complice anche la sensazione di disagio per essere così in alto, sensazione che gli stava facendo sudare freddo e formicolare le mani. Perciò si limitò a guardarlo, lo sguardo ancora vagamente disorientato, e Paul riuscì a trattenere una risata, mentre si avvicinava a lui.

“Senza parole, Johnny?”

“Eh?”

“Come pensavo. Non sarà per colpa dell’altezza, vero?”

“Stai per caso insinuando che soffro di vertigini?” domandò John e poi frenò l’impulso di rispondergli, “Perché se è così, hai ragione.”

Soffrire di vertigini? John Lennon? Beh, sarebbe stata la sua rovina. Un tipo forte e spavaldo come lui, a cui tremavano le gambe se solo si sporgeva da una finestra ad un’altezza di più di tre metri?

“Non ci sarebbe comunque niente di male.” lo rassicurò Paul.

“Sì, ci sarebbe. Ma non si tratta di questo.”

Paul annuì distrattamente, poi incurvò le labbra in un sorriso furbo: “Bene, allora non avrai nulla in contrario se ci avviciniamo un altro po’ per ammirare il panorama come si deve.”

“Scusa?” domandò John, ma era troppo tardi.

Paul si era già posizionato dietro di lui e l’aveva delicatamente spinto verso le grate. John non poté davvero opporsi e automaticamente si aggrappò alle sbarre di ferro, alte almeno quanto lui, che lo separavano dal vuoto e da morte certa. Una brutta morte, per di più.

“Paul.” disse con voce tremante.

“Cosa?”

“Voglio allontanarmi.”

“Non dirmi che è così, soffri davvero di vertigini e non me l’hai mai detto?”

“Già, e se lo dici a qualcuno… ti ammazzo.”

Paul rise: "Non c’è pericolo, John, ma non avrei mai pensato che tu soffrissi di vertigini."

"E invece, guarda un po' che sorprese riserva la vita..."

"Il nostro John ha paura di cadere." esclamò Paul, quasi come una cantilena.

"Paul, smettila, altrimenti non sarò io a cadere da questo coso."

Paul ridacchiò divertito e per nulla intimorito dalle parole di John, il quale fu scosso da un brivido. Un brivido che non aveva niente a che fare con l'altezza, ma con la risata di Paul che gli solleticò l'orecchio, facendogli realizzare quanto fosse dannatamente vicino e facendo peggiorare le vertigini che già gli facevano girare la testa.

 “Oh, ma non devi avere paura, John. Giuro che se cadi, ti prendo io.”

"Ecco perché le ragazze cadono ai tuoi piedi."

"Eh?"

Questa volta fu Paul a restare senza parole, mentre John si voltava verso di lui.

"Sai sempre trovare le frasi più giuste e sdolcinate."

Paul gli rimandò uno sguardo insieme di sfida e malizia: "Non mi hai mai sentito essere davvero sdolcinato."

"Un giorno mi toccherà, però, giusto?"

Paul annuì sorridendo, “Solo se lo desideri davvero e se dici la parola magica.”

“Lo voglio. Per favore.”

"Va bene, allora. Preparerò qualcosa di speciale per te, Johnny." gli assicurò, costringendolo con due mani sulle spalle a voltarsi di nuovo, "Ora pensa solo a godere di questa vista mozzafiato."

John prese un profondo respiro per rilassarsi prima di cercare di apprezzare quella vista che era davvero incredibile. Tutta Parigi si stendeva ai loro piedi, bella, colorata, piena di rumori e movimento. Proprio di fronte a loro si ergeva la Tour Eiffel, prepotente e altezzosa con quella sua forma dai richiami vagamente sessuali.

Sei fatta solo di ferraglia, stupida torre!

Poi quando guardò in giù, la testa girò solo un po’, ma lui si aggrappò alle grate. Non stava cadendo, non poteva cadere, c’erano le sbarre di ferro che lo sorreggevano. E poi c’era Paul dietro di lui, pronto ad afferrarlo in qualunque momento.

Quando riuscì a realizzare questo, e di conseguenza si calmò, John notò che le strade tutto intorno a loro erano come i raggi della ruota di una bicicletta: si incontravano tutte in corrispondenza dell’Arco.

“Guarda, John!” esclamò Paul, che lo spinse un po’ in avanti verso le grate, “Quello è il caffè dove ho trascorso tutta la mattina di ieri.”

E così dicendo, allungò un braccio al di là delle grate, lì dove c’era il vuoto, indicando le tendine rosso scuro di un caffè più sotto. Ma essere stato sospinto ancora di più verso quelle sbarre, gli provocò un improvviso capogiro e John arretrò con la schiena premuta contro il petto di Paul. Stava per cadere, era così, ora le grate si sarebbero allargate e John sarebbe precipitato e si sarebbe schiantato al suolo. Non voleva morire, non ora, era presto. Aveva ancora tutta la vita di fronte a sé e questa vita comprendeva anche Paul, l’unico che in quel momento potesse aiutarlo, salvarlo. Così la sua mano cercò affrettatamente quella di Paul, dietro di lui, la trovò e la strinse forte.

“John?!” domandò Paul, osservandolo preoccupato e sorpreso per quella stretta che proprio non si aspettava.

Ma il respiro lievemente affannato di John gli disse che il ragazzo non stava bene: “Fammi andar via.”

“Cos-?”

“Paul, fammi allontanare da qui.” ribadì John a voce un po’ più alta e tremante.

Paul non ci pensò due volte e con la mano ancora stretta alla sua, lo condusse un po’ più lontano dal bordo. John tremava davvero e respirava superficialmente, per non parlare del suo volto pallido. Impiegò pochi minuti prima che si rendesse conto che non stava cadendo affatto e che la mano di Paul lo stava tenendo sulla terraferma, vivo e al sicuro.

La mano di Paul calda e forte nella sua. La mano di Paul perfetta nel-

La mano di Paul?

Stava tenendo la mano di Paul?

Cosa diavolo gli era saltato in testa, lì, dove tutti potevano vederli e pensare…cose su di loro?

Subito lasciò andare la sua mano, con un gesto forse troppo brusco, e si guardò intorno rapidamente per controllare che nessuno li avesse visti tenersi per mano. In fondo sapeva che non gliene importasse poi molto di ciò che pensavano gli altri, ma questa era una piccola parte di lui. Contava moltissimo per John, ma era ancora piccina, doveva crescere ed essere accudita con amore. E ora, in questo preciso momento, col rischio che aveva appena corso, quella parte non poteva avere voce in capitolo.

“Tutto a posto?” gli domandò Paul, ancora preoccupato e forse turbato per il gesto di John.

“Sì… tutto a posto.”

“Mi dispiace, è stata colpa mia.”

John lo osservò e il dispiacere di aver respinto la sua mano lo fece sentire estremamente in colpa, ma Paul doveva capire il suo gesto.

“Non ti preoccupare. Sto bene ora.” cercò di rassicurarlo John, “Andiamo via, d’accordo?”

Paul annuì con un movimento rapido della testa: “D’accordo.”

Dopo circa un’ora, dopo che avevano passeggiato sull’Avenue affinché John potesse ristabilirsi in seguito al capogiro sull’Arco, si stabilirono in uno dei numerosi caffè della via, decidendo che fosse finalmente ora di mangiare.

Da quando avevano lasciato l’Arco, Paul non lo perse d’occhio neanche un istante. Un po’ perché voleva assicurarsi che stesse bene e perché il senso di colpa era ancora acceso in lui. E un po’ perché ciò che era accaduto là sopra, gli aveva fatto capire che c’era una cosa che voleva fare, una cosa che ora era libero di fare con John, ma forse non poteva ancora farlo dovunque.

La mano di John nella sua era perfetta dovunque si trovassero, nell’intimità di una camera da letto e in pubblico, così tanto che Paul avrebbe voluto gridarlo al mondo intero. Ma John l’avrebbe respinto. Ne era certo. Gli avrebbe detto che non era il luogo adatto, perché... c'erano così tanti perché che Paul non sapeva da dove incominciare. Ma John sì, gli avrebbe detto tutte queste cose, spaventato e intimorito. Il gesto brusco con cui l’aveva lasciato ne era la conferma.

Tuttavia, Paul non poteva semplicemente arrendersi. Avrebbe odiato se stesso per non averci neanche provato e dopo aver aperto il suo cuore al ragazzo, Paul era ormai sicuro di poter fare qualsiasi cosa.

La mano di John abbandonata sul tavolino era una tentazione, la più dolce per Paul. Non poteva resistervi. Perciò, fece scivolare la sua mano sul tavolino, un gesto lento e disinvolto.

“John, pos-“

“Sto bene, Paul, smettila di chiedermelo.” esclamò esasperato John, ridacchiando subito dopo.

“Oh. Non stavo per chiederti questo. Penso di aver recepito il messaggio ora.” affermò Paul, sorridendo, ma non riuscì a impedire a se stesso di arrossire, “In realtà stavo per chiederti un’altra cosa.”

Poi il suo sguardo cadde sulla sua mano che era a un misero centimetro da quella di John.

E John lo sentì, il brivido che lo aveva scosso quando aveva stretto la sua mano poco tempo prima, era tornato a scuoterlo, per informarlo su ciò che Paul stava per chiedergli e John voleva solo dire, “No, non farlo, Paul, non posso, non farlo.”

Era solo questo che Paul desiderava da John. Infatti…

“John, io… voglio tenerti per mano. Qui. Davanti a tutti.”

Il suo dito indice sfiorò quello di John e lui rabbrividì nuovamente.

“Voglio tenerti per mano.” ripeté, riportando lo sguardo su John, e lui si sentì infuocare.

John si morse il labbro.

Dio!

Adorava quello sguardo di Paul, lo faceva impazzire come nient’altro. E John avrebbe desiderato volergli dire, “Sì, fallo ora, in questo stupido caffè.”

Ma tutto ciò che riuscì a fare fu allontanare la mano da quella di Paul e portarla al sicuro sulla sua gamba.

E tutto ciò che riuscì a dire fu, “Ehi, starebbe bene per una canzone.”

****

Era stato un coglione. Il più coglione dei coglioni.

Per tutto il tragitto verso la pensione, il silenzio che li avvolse era più assordante di quella città in fermento.

Paul camminava solo un po’ più avanti rispetto a John. O forse era John che aveva rallentato il suo passo, restando indietro. Doveva essere così. John era quello che aveva avuto paura di fronte a, “Voglio tenerti per mano”. Lui aveva sentito l’ondata di calore che lo aveva attraversato, scuotendolo da capo a piedi, quel desiderio di assecondare la richiesta di Paul. Voleva allungare la mano su quel fottuto tavolino, farla scivolare lentamente sopra quella di Paul e accarezzarla, poi farle intrecciare e stringere la mano di Paul, stringerla forte e non lasciarla andare più.

Voleva, voleva davvero.

Ma non aveva il coraggio di farlo. Non lì, non davanti a tutti. Anche se quei tutti non lo conoscevano. Non poteva perché non era pronto e chissà se lo sarebbe mai stato.

Lui e il mondo intero, pronti per una relazione simile, per due ragazzi che passeggiavano tenendosi per mano.

Cosa c’era di tanto diverso, rispetto a un ragazzo e una ragazza? I vestiti, i capelli? Cosa? Non poteva essere solo per quello stupido organo riproduttore. Non aveva senso.

Non lo aveva proprio.

John sapeva anche che niente nel mondo aveva senso, perché l’uomo non aveva senso, con le sue stupide regole morali da un lato e il loro infrangimento dall'altro. Ma fintanto che era l’uomo a governare il mondo, allora John doveva sottostare. E prendere per mano Paul davanti a tutti era fuori questione, era proibito.

Per questo aveva rallentato il passo, scostandosi da lui di mezzo metro, quel tanto che bastava affinché la sua mano non entrasse in contatto con quella di Paul e non lo convincesse a fregarsene di tutto e tutti e fare quegli ultimi passi che li separavano dal mondo sicuro della loro stanza, con la mano di Paul ben stretta nella sua.

Paul, d'altra parte, sembrava capire. Non lo aveva cercato con lo sguardo, non si era voltato a chiedergli divertito, "Che cazzo ci fai là dietro?"

E John gliene fu grato. Non avrebbe potuto mentire né saputo resistere alla tentazione di dirgli che il problema era quella stupida mano. La fottuta mano di Paul, così grande, con le dita lunghe, la sua mano calda che quella mattina, per tutto il tempo che aveva passato intrecciata con la sua, era sembrata perfetta. Nel posto giusto. Nella sua casa.

John guardò la propria mano. Era così fredda in quella fredda giornata parigina di un ottobre ormai inoltrato. Era fredda e chiedeva solo un calore che John non poteva offrirle. Quel calore che sembrava essere così immenso in Paul.

Quando finalmente raggiunsero la pensione, e dopo aver rivolto un cenno cortese alla proprietaria, salirono fino alla loro camera, il cuore di John sussultò impaziente e desideroso di dire a Paul che non stava facendo il coglione per mandare tutto all'aria, per qualche stupido ripensamento o altro. Lo stava facendo perché per il momento era necessario. E Paul doveva sapere che John lo voleva, voleva davvero prenderlo per mano. Ne aveva bisogno.

John infilò la chiave nella serratura e subito dopo la porta si aprì. Entrò nella piccola stanza e aspettò che Paul lo oltrepassasse, prima di chiudere la porta e afferrargli d’improvviso la mano. Paul si voltò a guardarlo, sorpreso, e dischiuse le labbra, forse per chiedergli: “John, che stai facendo?”

Ma John lo anticipò: “Scusa.”

“Per cosa?”

“Per prima.”

Paul sorrise, compiaciuto: “John, non c’era bisogno. Tu non hai fatto niente di sbagliato, anzi, io ho sbagliato, non avrei mai dovuto chiederti una cosa del genere.”

“No, no, Paul, è giusto che tu me l'abbia chiesto. Insomma è una cosa normale se due persone, chiunque esse siano, desiderino tenersi per mano mentre passeggiano. Io voglio, sai, non devi pensare neanche per un istante che non sia così, ma..."

"Ma non era ancora il momento giusto." terminò con un sospiro Paul, "È così?"

"È così." confermò John, annuendo sconsolato.

"Ma ora lo hai fatto."

"Sì."

"Quindi in camera nostra va bene?"

"Certo. Va bene questo..." disse indicando le mani, "E va bene anche questo."

E così dicendo lo baciò, facendo intrecciare anche l'altra mano con quella di Paul, mentre lui mormorava nel bacio perché, porca miseria, come facesse John a spazzare via qualunque pensiero sconsolato dalla sua mente, era un mistero. Uno di quei misteri che se svelati, correvano il rischio di perdere il loro fascino, e Paul non desiderava che questo accadesse. Perciò lo lasciò fare, gli permise di allontanare tutti i tristi pensieri, quelli struggenti a causa della gente ottusa che li circondava, solo con quel bacio.

Poi si allontanò di poco da John e gli sorrise beatamente.

“L’idea della canzone non è male, sai? Possiamo pensarci davvero.”

“Quando torniamo a casa, Paul." rispose John, cercando di nuovo la sua bocca, "Prima dobbiamo esercitarci."

"Esercitarci?" ripeté Paul perplesso, sbattendo le palpebre.

"Sì. Sul tenersi per mano."

"Da quando hai bisogno di esercitarti sul tema della canzone, John?" domandò divertito.

"Da adesso." e finalmente tornò ad appropriarsi della sua bocca, mentre Paul lo assecondava con un gran sorriso sulle labbra.

Quella mattina si erano svegliati, ritrovandosi solo per caso con le mani intrecciate, mentre ora si addormentarono volutamente in quella posizione.

Forse non erano riusciti a passeggiare mano nella mano per Parigi, ma in ogni modo si erano cercati e trovati e questo significava tutto per Paul. Perché se prima le loro mani separate rappresentavano i loro sentimenti, uguali sì, ma non condivisi, ora erano il simbolo perfetto di ciò che li univa.

 

 

Note dell’autrice: capitolo veramente difficile, l’ho finito solo ieri.

Non so se John soffrisse di vertigini, lo vedevo bene ad avere paura dell’altezza. E dopo essermi consultata con kiki, weaslewalrus93 e _SillyLoveSongs_, ho deciso di ritrarre questo lato.

Spero che vi sia piaciuto. Inutile dire che la canzone a cui fanno riferimento nel capitolo è “I want to hold your hand”. J

Comincio a dire già adesso che probabilmente l’8 dicembre, che è domenica, l’aggiornamento salterà perché ho intenzione di pubblicare in quella data qualcosa in ricordo di John e per un altro motivo che spiegherò domenica prossima, nel capitolo 14, ovvero “Pioggia”.

Grazie a kiki per la correzione  e a Lights, la creatrice del banner, per avermi fatto consultare le sue foto di Parigi.

Alla prossima

Kia85

 

 

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Capitolo 14
*** Pioggia ***




 

Ticket to Paris

 

Capitolo 14: “Pioggia

 

Due giorni dopo, John, Paul e Parigi si svegliarono, molto tardi, sotto il cielo più cupo che avessero mai visto. Nuvole minacciose si rincorrevano velocemente nel cielo, si rincorrevano e si univano in un cumulo plumbeo che si ingrossava a vista d’occhio.

“Dobbiamo proprio uscire con questo tempo?” domandò Paul, guardando fuori dalla finestra.

Storse le labbra, mentre John lo affiancava, esaminando il tempo che li aspettava al di fuori di quella pensione.

“Sono solo due nuvolette, Paul. Non avrai paura di due nuvolette?” lo prese in giro, con un piccolo spintone.

“A me sembrano un po’ più di due.” ribatté Paul, guardandolo diffidente, “E se cominciasse a piovere?”

“E allora? Per un po’ d’acqua…”

“Ma non abbiamo neanche un ombrello! E se inizia a diluviare, ci troviamo fuori e ci bagniamo tutti?”

John scrollò le spalle: era evidente che tutte le ipotesi di Paul non lo avessero minimamente sfiorato e lui non sembrava dar loro la stessa importanza.

“Beh, sarà solo un’altra avventura. Coraggio, Paul, mancano solo tre giorni alla partenza. Dobbiamo approfittare di Parigi più che possiamo.”                

Paul sospirò e lo guardò sconsolato, mentre John si avvicinava a lui e alzava la cerniera del suo giubbotto di pelle, fino al collo, in modo che il ragazzo fosse ben coperto.

“Basta che ti copri bene, così non prendi freddo.” aggiunse John con un sorriso davvero furbo e davvero dolce, “Andiamo, Paul.”

Paul alzò gli occhi al cielo. Maledetto John! Era praticamente impossibile resistere a quel sorriso.

 “Oh, d’accordo. Possiamo almeno comprare un ombrello se inizia a piovere?”

“Cosa?” esclamò John, aggrottando la fronte, “Stai scherzando? Tutti quei soldi per un ombrello?”

“Non penso che possa costare tanto.”

“Io sì, siamo a Parigi, qui costa tutto di più solo perché ha toccato il sacro suolo francese.” fece notare John, cominciando a tirarlo per la manica verso la porta della stanza, “E poi non pioverà, sembra troppo minaccioso perché possa accadere davvero.”

“Da quando sei un esperto di meteorologia?” gli chiese Paul, fermandosi, mentre John chiudeva la porta.

“Da ora.”

Paul lo osservò attentamente e lo sguardo di John non vacillò mai sotto i suoi occhi, il che era già molto raro. Quindi perché non avrebbe dovuto fidarsi di John? Si era pentito prima d’ora per aver seguito le sue scelte?

No, non si era mai pentito.

Per cui sospirando un “Oh, John.”, lasciò la pensione e affrontò il tempo minaccioso.

Naturalmente, proprio in quella giornata John scelse di visitare un luogo aperto, che offriva pochissimi ripari in caso di acqua a catinelle: si trattava dei giardini delle Tuileries, un giardino pubblico esteso, immerso nel verde e in tutti i colori dell’autunno. Tuttavia in quel momento, sovrastato dal grigio metallo del cielo nuvoloso, i colori del giardino avevano perso tutta la loro luminosità. Ormai, dopo un paio di ore in cui aveva potuto ammirare Parigi che sfidava il cielo plumbeo, Paul aveva capito che quella giornata fosse decisamente monocromatica. E lui odiava il grigio, ce n’era già così tanto a Liverpool, con il porto, il fumo, il cielo…anche il mare appariva grigio qualche volta.

Eppure con John al suo fianco, sembrava tutto più sopportabile. Avrebbe osato dire che quel giorno Parigi avesse indossato una veste malinconica, ma con un suo fascino, un fascino che Paul doveva ancora scoprire. 

I giardini, nonostante il tempo, erano pieni di gente. Sembrava che ai turisti non importasse molto che ci fosse il sole o un acquazzone: erano a Parigi, non potevano semplicemente restare rinchiusi in albergo. E forse per questo motivo, per premiare la loro intraprendenza, la giornata fu piacevole malgrado le nuvole.

John e Paul mangiarono passeggiando per i sentieri del giardino, e riuscirono anche a recuperare, con grande gioia di Paul, un paio di frullati alla banana, i quali fecero dimenticare per un momento il tempo cupo che li sovrastava.

Paul stava addirittura cominciando a credere profondamente che la profezia di John fosse corretta. Forse era stato davvero molto rumore per nulla, o tutto fumo e niente arrosto o… come cavolo si diceva in questi casi?

Tuttavia, proprio nell’attimo in cui Paul decise di complimentarsi con John, perché aveva avuto la vista lunga, un improvviso lampo seguito da un tuono li fece sussultare e quando, due minuti dopo, le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere sui loro volti, Paul capì che uno come John, uno così incredibilmente miope, era praticamente impossibile che avesse la vista lunga. E idiota lui ad averlo seguito.

Ora avrebbe cominciato a piovere e loro erano lontanissimi dalla pensione. Sicuramente si sarebbero bagnati.

"Oh, porca puttana." esclamò Paul, fermandosi a guardare verso l'alto e rivolgendo il palmo della mano sinistra in direzione della pioggia, "E ora che cazzo facciamo?"

John ridacchiò divertito, mentre si accertava che la propria giacca fosse chiusa bene fino al collo.

"Non andrai in crisi per due gocce d'acqua, vero, Paul?'

"Due gocce d'acqua?!" ripeté Paul sconcertato, "Queste non sono due fottute gocce d'acqua, John!"

Ed effettivamente aveva ragione: le nuvole lasciavano cadere su di loro bei goccioloni che si schiantavano inesorabilmente sul suolo o su qualunque cosa trovassero nella loro traiettoria. Per esempio, John e Paul.

Plin.

Plin.

"Allora corri, Paul."

Plin plin plin.

"Cos-?" iniziò a dire Paul, ma John lo afferrò per la manica della giacca, incoraggiandolo a correre con lui.

Fu così che i due ragazzi, e tutti coloro che si trovavano nei giardini e che stupidamente non avevano a portata di mano un ombrello, cominciarono a fuggire da tutte le parti, in cerca di un riparo. Il cielo divenne sempre più nero, i tuoni più forti e i lampi accecanti. La pioggia si fece intensa e sulle strade si erano già create piccole pozzanghere.

Il ritorno verso la pensione fu più lungo del solito, nonostante i due ragazzi stessero correndo a gran velocità. Un breve riparo dalla pioggia fu offerto dalla funivia che li portò sulla collina di Montmartre. Tuttavia quando uscirono dalla stazione, si accorsero che la situazione era peggiorata in così poco tempo. Altro che pioggia, quello era un vero e proprio diluvio universale, quello era Dio che mandava loro la punizione divina per essere due cattivi ragazzi, per i comportamenti decisamente immorali che avevano avuto l’uno verso l’altro. John ridacchiò al pensiero. Avrebbe accettato volentieri la sua punizione, in fondo, sai quanto gliene importava? Avrebbe rifatto tutto con Paul, tutto da capo, anche se avesse dovuto affrontare punizioni ben peggiori.

“Coraggio, siamo quasi arrivati.” disse John, abbandonando il piccolo riparo della pensilina della stazione.

Paul lo guardò con occhi spalancati, mentre si immergeva in quella specie di doccia naturale.

“Stai scherzando, vero?” domandò, mentre lo riportava bruscamente al riparo.

“Cosa?

“Dobbiamo aspettare che la pioggia si attenui un po’.”

“Non lo farà tanto presto. Ci conviene provare ad andare.”

“Non se ne parla. Arriveremo bagnati fradici.”

“Forse non te ne sei accorto, Paul, ma lo siamo già.” commentò John, indicando lo stato decisamente malmesso dei loro abiti e capelli, “Aspettare qui, al freddo, ci farà solo ammalare e io non voglio trascorrere gli ultimi giorni a Parigi a letto, con l’influenza.”

Detto questo, si liberò dalla presa di Paul e ritornò sotto l’acqua.

“Sono solo due isolati, Paul.” disse prima di sorridergli e porgergli una mano, “Dammi la  mano e andiamo.”

Gli occhi spalancati di Paul si allargarono ulteriormente, ma per una dolce sorpresa, e poi si illuminarono di gioia. La prospettiva di correre e tenere per mano John in pubblico, sotto il diluvio, d’accordo, ma in pubblico, era troppo bella perché Paul potesse rinunciarvi.

Così, mordendosi il labbro forse per contenere la felicità, o forse per l’impresa da suicidio che stavano per affrontare, Paul strinse la sua mano e John gli sorrise rapidamente, prima di scattare e correre verso il loro riparo definitivo.

La pioggia era fredda e inzuppava i vestiti. Scivolava dai capelli sul collo e insinuandosi sotto la maglietta, percorreva tutta la lunghezza della schiena, conferendo ad ogni centimetro brividi intensi. Ma a Paul non interessava, essere zuppo, avere freddo, finire con i piedi nelle pozzanghere, tutto passava in secondo piano perché la mano di John era calda e forte e cosa ben più importante, era nella sua.

Nonostante l’acquazzone fosse così fitto che John e Paul facevano fatica a vedere dove stessero andando, in qualche modo riuscirono ad arrivare alla pensione.  Si scrollarono di dosso un po’ d’acqua, allagando il pavimento dell’ingresso della pensione e la proprietaria, quando se ne accorse, si indignò così tanto che cominciò a imprecare.

Parbleu! Quel desastre!

E mentre l’anziana signora riversava su di loro la sua rabbia, i due ragazzi corsero su per le scale, ridendo a crepapelle e inzuppando la moquette che rivestiva il loro percorso.

Paul notò con un piacere che lo scosse da capo a piedi, che John ancora non gli aveva lasciato la mano. E il ragazzo non lo fece neanche quando aprì la porta e insieme entrarono nella stanza. Paul lo seguì con lo sguardo mentre cercava di riprendere fiato, sia per la corsa, sia per le risate. Ora capiva, il fascino segreto di quella giornata. Era proprio lì, di fronte a lui, era l’acqua fredda che aveva inzuppato i vestiti e i capelli di John, era la sua mano intrecciata con quella di Paul, era il suo respiro corto per la corsa… era solo John.

“Cazzo, non ho mai corso così tanto.” commentò John ridacchiando, e si piegò un po’ in avanti, portando l’altra mano sul fianco sinistro.

Paul sorrise distrattamente. Era come se fosse lì con John, a guardare le goccioline d’acqua che gli cadevano dai capelli, ma la mano di John stretta con la sua lo tratteneva da qualche altra parte, in un posto dove era libero di passeggiare con John in mezzo alla gente e magari anche abbracciarlo. Oppure un posto, una semplice camera d’albergo, dove Paul potesse avvicinarsi a lui proprio in questo momento, sospingerlo dolcemente verso la parete, cominciare a baciarlo sulla bocca, poi scendere sul suo collo e nel frattempo, sfilargli la giacca, la camicia e infine condurlo sul letto per-

Dio, non esisteva un posto in cui Paul potesse fare tutto questo senza provare paura, senza sentirsi in colpa, senza pensare che John lo avrebbe respinto malamente perché un conto era baciarsi e abbracciarsi, un altro era… era… insomma, era altro.

“Sarà meglio togliersi questi vestiti bagnati, prima di ammalarsi davvero.” esclamò John, sorridendo verso Paul, mentre lasciava la sua mano per sfilarsi la giacca.

Paul sussultò lievemente, non poteva avergli letto nel pensiero, era totalmente impossibile. Così arrossì e annuì rapidamente.

“Sì, allora…vado, vado a fare prima io la doccia, ok?”

John lo guardò, ma per fortuna sembrò non notare il lieve turbamento della sua voce.

“Basta che non ci impieghi una vita.”

“No.” disse Paul, aprendo la porta del bagno, “Tornerò prima che tu possa dire: sono solo due nuvolette, Paul.”

****

John dovette riconoscere che Paul avesse fatto in fretta per i suoi standard. Così accettò volentieri il proprio turno. L'acqua gelata gli era penetrata fin dentro le ossa e gli era risultato praticamente impossibile riscaldarsi vicino al termosifone della stanza. Quello che ci voleva era una bella doccia calda, che potesse lavare via il freddo e tutto il resto. Come quella strana voglia che aveva avuto di prendere la mano di Paul in mezzo a tutti. Sì ok, non c'era nessuno in giro. E comunque nessuno avrebbe fatto caso a loro nel bel mezzo di un acquazzone. Ma John ci aveva fatto caso, ci aveva fatto molto caso. Solo due giorni prima gli aveva detto che in pubblico non sarebbe stato possibile e ora, eccolo lì. Aveva appena corso per un paio di isolati con la mano del suo migliore amico ben stretta nella propria.

Era da folli, era pura follia.

Ma era accaduto e ora John moriva dalla voglia di sapere perché. Cosa l'aveva spinto? Era stato davvero solo perché voleva tornare in camera al più presto, mentre Paul stava pensando di aspettare la fine della pioggia? Solo per questo? Oppure l'aveva voluto perché era stato attraversato dal bisogno impellente del suo calore, il bisogno di toccarlo?

Quando John uscì dal bagno, rinfrescato nel corpo ma non nell'anima, si ritrovò di fronte alla visione di Paul sdraiato sul letto: le lunghe gambe nude distese, le ginocchia appena sollevate, la schiena appoggiata alla parete dietro di lui, la testa reclinata e una sigaretta abbandonata fra le labbra. Sembrava stesse dormendo.

E tutto ciò a cui John potesse pensare, era quanto desiderasse avvicinarsi e toccarlo in qualche modo, da qualunque parte.

Così si avvicinò e osservandolo meglio, notò che la sigaretta era accesa.

Idiota d’un Paul.

John ridacchiò fra sé, poi prese la sigaretta di Paul e anche se ormai era quasi del tutto consumata, la portò alle labbra.

“Quella sarebbe mia.” mormorò Paul, mantenendo gli occhi chiusi.

“Stavi dormendo.” rispose John, sbuffando, “E non ci si addormenta con una sigaretta accesa in bocca.”

“Non stavo dormendo.” ribatté Paul, aprendo finalmente gli occhi.

“Sì, invece, e stavi anche sprecando una delle mie preziose sigarette.” commentò John, osservando meglio il piccolo bastoncino bianco tra le sue dita.

“Beh, le mie si sono bagnate tutte, grazie alla giornata di oggi e al fatto che tu non abbia voluto comprare uno stupido ombrello.”

John rise e si accovacciò accanto al letto, appoggiando poi i gomiti sul materasso e guardandolo divertito.

“E’ colpa tua, dovresti tenere il pacchetto nella tasca interna della giacca.”

“Ma è scomodo.”

“La vita è scomoda, Paul.” affermò noncurante, mentre spegneva la sigaretta nel portacenere sul comodino.

Paul lo guardò per una frazione di secondo, prima di scoppiare a ridere in modo incontrollabile.

“Non c’è niente da ridere, Paul, è una sacrosanta verità.”

“È come l’hai detto.” commentò Paul, sedendosi di fronte a John, con le gambe incrociate, “Sembravi il protagonista di uno di quei film noir noiosissimi e pesantissimi.”

John storse le labbra, guardandolo perplesso: “Da quando in qua guardi i film noir?”

“Oh, John, ci sono ancora così tante cose che non sai di me.” esclamò ridendo maliziosamente.

Dopodiché prese l’asciugamano che John aveva intorno al collo e lo appoggiò sulla sua testa, strofinandolo un po’.

“Devi asciugarti bene i capelli quando finisci di fare la doccia, John, altrimenti rischi di ammalarti. Mimi non te le dice queste cose?”

“Sono sicuro che me le avrà anche dette, ma ho mai ascoltato quello che gli altri mi dicono di fare?”

“Gli altri no, ma ascolti me.” disse Paul, con un sorriso, “Sempre.”

John non seppe cosa lo fece scattare, se la voce profonda di Paul, o il dolce sorriso o ancora le sue parole, la realizzazione che in tutta la sua vita, John aveva sempre e solo seguito le parole di Paul, anche quando non concordavano con i suoi pensieri, anche quando seguirle risultava faticoso per lui. L’aveva seguito perché Paul aveva ragione, aveva sempre ragione.

Forse per tutto questo, si sporse in avanti e lo baciò, afferrandogli delicatamente il viso con una mano. E poi per qualche altro motivo, lo spinse all’indietro sul letto, sdraiandosi sopra di lui. Paul non sembrava avere intenzione di opporre resistenza e lo lasciò fare, mentre le sue mani lasciavano cadere per terra l’asciugamano di John e si avvolgevano intorno al suo collo.

John si rese conto di non averlo mai baciato così, così che sembrava volere tutto di Paul, non solo le sue labbra. La sua bocca lo sapeva meglio di lui e si spostò sulla guancia di Paul, poi dietro l’orecchio e scivolò lenta, ma decisa sul suo collo, dedicandovi tutte le sue attenzioni. E quando Paul si lasciò scappare un sospiro, flebile sì, ma non abbastanza da sfuggire all’udito di John, questi si mosse solo un po’ sopra di lui, facendo intrecciare le sue gambe con quelle di Paul e incastrare i loro fianchi.

“John...”

Udì un altro sospiro di Paul, un po’ più forte, e percepì le sue mani che gli accarezzarono la schiena; tremavano forse di paura o forse per un’altra ragione, una che aveva a che fare con John che proprio non ce la faceva a fermarsi. Ma qualunque fosse il motivo, John le adorava, adorava quelle mani che suonavano con sicurezza e perfezione una chitarra e che desideravano intrecciarsi con quelle di John, le adorava ora che erano su di lui, così spaventate, ma anch’esse incapaci di smettere di toccarlo e stringere la sua maglietta.

Il freddo di quella giornata era sparito improvvisamente, tutto ciò che ora John poteva sentire era caldo, il calore del ragazzo sotto di lui, che lo faceva impazzire dalla voglia di provare e averne di più. E per questo motivo non riuscì a fermare la sua audace mano destra che si insinuò sotto la maglietta di Paul, sfiorando la sua pelle liscia e rinfrescata dalla doccia.

Paul cercò nuovamente la sua bocca, attirandolo a sé con una mano fra i capelli, e John poté sentire il suo respiro lievemente affannato, seguire il suo stesso ritmo, mentre con la mano accarezzava il petto di Paul, che si inarcava verso di lui, si offriva a lui, come tutto di Paul si stava offrendo a lui. E poi…

E poi Paul gemette, un lieve gemito sfuggito sulla bocca di John e lui si sollevò solo un istante per guardarlo e capì.

Dio.

Capì di desiderarlo. Come non aveva mai desiderato nient’altro nella sua vita. Più della sua prima chitarra, più di Cynthia, più di tutto ciò che aveva senso nella sua vita.

Ma tanto grande era il suo desiderio, tanto più forte era la paura che comportava desiderare Paul.

E non aveva niente a che fare con Paul perché…dannazione! Lui non sembrava particolarmente infastidito da quanto stesse accadendo in quei troppo pochi minuti.

Riguardava solo John, John e la sua paura di rovinare tutto.

“Sarà meglio… sarà meglio andare a dormire, ora, Paul.” disse John, senza fiato, rotolando sul proprio lato del letto.

Paul, ancora arrossato e affannato, lo guardò infilarsi sotto le coperte: non sembrava particolarmente confuso dal cambiamento improvviso di John. In un certo senso era come se lo aspettasse e capisse.

“Sì, giusto, è stata una giornata faticosa.”

Paul ridacchiò debolmente, mentre imitava John e lo raggiungeva sotto le coperte. John seguì i suoi movimenti e infine gli sorrise, quando Paul gli augurò la buonanotte prima di chiudere gli occhi e cercare di dormire.

John era stanco, ma non per la giornata o perché avesse sonno. Era stanco di doversi trattenere, non solo in pubblico ma anche con Paul ora. Lui sapeva che non avrebbe voluto fermarsi, che se avesse potuto sarebbe stato ancora lì, in questo momento, sopra Paul, a baciarlo e stringerlo e sfilargli i vestiti, perché voleva tutto di lui. E voleva che Paul avesse tutto di John.

Perché quello era l’ultimo pezzo di quel puzzle dal nome Lennon/McCartney. John sentiva che era un pezzo importante, quello che gli avrebbe permesso di comprendere appieno Paul. Dopo questo passo, l’esplorazione della loro relazione sarebbe stata completa. Non ci sarebbero state altre due persone nel mondo, a conoscersi, comprendersi, stimarsi, amarsi così a fondo.

John doveva solo trovare la forza di prendere quel piccolo pezzo insieme a Paul e sistemarlo al posto giusto.

“Buonanotte, Paul.”

 

 

Note dell’autrice: ecco, questo capitolo è praticamente la continuazione dell’altro. Quando ho progettato la storia a inizio anno sapevo che questa scena, di John e Paul sotto la pioggia, ci doveva essere per forza.

Ora siamo a -2 dalla fine e questo è il motivo principale per cui domenica prossima l’aggiornamento salterà. Gli ultimi due capitoli sono importanti e non voglio scriverli troppo di fretta. Così mi prendo una settimana in più per fare le cose con calma e poter finire proprio la domenica prima di Natale.

Ma domenica prossima, ho intenzione di pubblicare una piccola oneshot, per l’anniversario della morte di John. Naturalmente non può non essere una slash John x Paul. :3

E se intanto non sapete cosa leggere, vi lascio l’ultima flashfic su loro due: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2304415&i=1

Allora, grazie a kiki per la correzione. E a tutti coloro che leggono, recensiscono e inseriscono la storia tra i preferiti.

Ci sentiamo fra due domeniche. J
kia85

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** No nights by myself ***




 

 

Una piccola dedica a tutti quelli che hanno seguito con affetto questa storia. J

 

 

Ticket to Paris

 

Capitolo 15: “No nights by myself”

 

Quando John si svegliò si accorse subito che non era mattina, forse era ancora piena notte. Si ritrovò con il naso sepolto in una massa di capelli scuri e il braccio avvolto alla vita del giovane ragazzo stretto a lui.

Batté le palpebre per mettere meglio a fuoco la situazione, con la speranza di rendersi conto di non essere davvero abbracciato a Paul, di non averlo cercato nel sonno per l’ennesima notte, di non sentirsi così felice di essersi risvegliato con il suo calore e il suo odore che lo avvolgevano delicatamente.

Ma tutto questo era vero ed era accaduto e ora, con la mente ancora mezza assonnata, tutto ciò che John desiderava era stringersi a lui, baciarlo dietro l’orecchio e sul collo e far scivolare la sua mano sul suo fianco, fino alla coscia, per afferrarla e avvicinarlo ancor di più a sé.

Ben presto, però, John si rese conto che non poteva comportarsi in questo modo con Paul e pur desiderando godere ancora di quel tepore, si costrinse ad allontanarsi, rigirandosi sulla schiena.

Erano passati solo un paio di giorni da quando, dopo quella folle corsa sotto il diluvio universale, aveva capito di desiderare Paul e fargli cose che... porca puttana, cose che ora lo facevano arrossire e diventare impacciato ogni volta che lo guardava negli occhi, cose che normalmente avrebbe fatto senza tanti problemi, senza tanti ma, forse, se, perché.

Era tutta colpa di Paul ovviamente. Il giorno prima John l'aveva sorpreso a guardare malinconicamente la Senna che scorreva davanti a loro. John si era allontanato brevemente per poter comprare qualcosa da mangiare e quando era tornato l'aveva trovato in quello stato. E dannazione, se ogni volta non annegava in quegli occhi. Poteva anche tuffarsi in quello stupido fiume parigino, ma il risultato non sarebbe stato lo stesso: una dolce, lenta morte, che lo colpiva a partire dal suo cuore, lo agitava, poi stringeva, lo schiacciava fin quando non restava più nulla di lui. E John sapeva che solo Paul poteva salvarlo in quel caso, solo lui, con il calore del suo sorriso, il tocco forte della sua mano, la dolcezza dei suoi baci...ecco, i suoi baci. John aveva voluto baciarlo così disperatamente in quel momento, che fece uno sforzo immane per non lasciarsi andare lì, davanti a tutti, come al contrario facevano tutte le coppiette felici che incontravano nel loro cammino.

Non era giusto, ma era così che andavano le cose nel mondo.

E se l'avesse toccato, non avrebbe saputo trattenersi. Per questo aveva deciso che essere tanto vicino a Paul da sfiorarlo era una cosa da evitare assolutamente. Almeno, se voleva mantenere un certo controllo su di sé e John lo voleva eccome! Sapeva per certo, anche se non l'aveva ancora provato davvero sulla sua pelle, che Paul l'avrebbe mandato in visibilio, gli avrebbe fatto perdere ogni resistenza, avrebbe fottuto i suoi freni inibitori e John l'avrebbe amato moltissimo.

Tuttavia aveva paura, paura di perdere così tanto controllo che neanche Paul, il paziente Paul avrebbe più saputo come sopportarlo. Paul se ne sarebbe pentito, di tutto ciò che era successo in quel viaggio se John avesse esagerato con lui.

Così fino alla fine della loro vacanza, John si era ripromesso di non toccarlo più. Sarebbe stato difficile, non abbracciarlo, non baciarlo, per non parlare del fatto che Paul se ne sarebbe accorto, gli avrebbe posto delle domande e John non avrebbe saputo come rispondergli. “Mi fai impazzire” non era certamente una giustificazione, perlomeno una accettabile. Tuttavia era necessario, comportarsi in questo modo, per proteggere Paul e loro stessi, e John doveva resistere solo un altro giorno.

Solo un altro giorno e poi sarebbero tornati a Liverpool, a casa, a… a come stavano prima le cose? Prima di tutto questo, prima del viaggio, prima di loro?

Ma c’era stato effettivamente un prima? Oppure erano sempre stati così, solo che non se n’erano mai accorti o non avevano voluto accorgersene? In tal caso, le cose non sarebbero potute tornare come prima, perché non c’era un prima.

Questo spiegava tanti aspetti della loro relazione, il modo in cui John cercava costantemente lo sguardo di Paul, il suo supporto, la felicità che John provava quando intravedeva Paul per caso, l’euforia all’idea di passare del tempo con lui, sperando che quel momento non finisse mai…

Tante cose che passarono una per una nella mente di John durante quelle ore che lo separavano dal nuovo giorno. Passarono in fretta, nonostante lui stesse odiando il non poter chiudere occhio e riposare. Ma d’altro canto, amava restare in quella posizione a guardare la schiena di Paul, i suoi capelli sul cuscino, il modo in cui il suo respiro faceva alzare e abbassare il suo petto.

Era così assorto nelle sue riflessioni che non si accorse dei raggi del sole che fecero capolino dalle persiane della finestra, annunciando l’arrivo di quella che sarebbe stata una splendida mattina, e solo un movimento accanto a lui riuscì a destarlo. John cercò di allontanare, più che poteva, quei pensieri su Paul, mentre il giovane si voltava e gli dava il buongiorno con un  sorriso.

“Buongiorno.” rispose John e la parola quasi gli morì in gola.

Diamine, non aveva fatto un bel lavoro nello sbarazzarsi dei suoi pensieri, perché ora non voleva fare altro che afferrargli il viso con poca grazia e baciarlo per dargli un buongiorno degno di questo nome. E poi, magari, avrebbe potuto farlo sdraiare sulla schiena per ritrovarsi fra le sue gambe e sbarazzarsi della sua maglietta in modo da poter accarezzare il suo petto e ancora-

NO!

Cazzo, no! Non poteva.

Non poteva pensare queste cose, mentre era a letto, mentre era a letto con Paul, mentre Paul lo guardava in quel modo, come se fosse la cosa più bella che gli fosse capitata in tutta la sua vita.

“Oggi è l’ultimo giorno, vero?” domandò Paul, sul suo viso un’ombra di tristezza si stava lentamente facendo spazio.

“Sì.”

Dio, non sopportava vederlo così abbattuto. Avrebbe fatto qualunque cosa per spazzare via quel sentimento spiacevole che lo stava sopraffacendo, non solo Paul, ma anche John, perché sì, nonostante tutto John non voleva andarsene, se avesse potuto sarebbe rimasto lì con Paul per tutta la vita.

“Hai già pensato cosa visitare oggi?” domandò Paul e John sbatté le palpebre incredulo, accorgendosi che si era pericolosamente avvicinato a lui.

Come mai non se n’era accorto? Come aveva fatto a non percepire il materasso che si muoveva appena sotto di lui o la mano di Paul che si appoggiava sul suo petto o ancora, il suo respiro accarezzargli il viso?

Paul stava diventando una continua distrazione per lui e questo non andava bene.

“Sì, e a questo proposito…” iniziò a dire, scostandosi da Paul e balzando in piedi, “Dobbiamo sbrigarci per sfruttare al meglio quest’ultima giornata, non trovi?”

Doveva mettere più spazio possibile tra lui e Paul e farsi una bella doccia, possibilmente fredda, congelata, per svegliarsi e calmare i suoi bollenti spiriti che erano già di per loro pericolosi. Se contava anche l’effetto aggiunto da Paul, era la fine.

Paul lo osservò mentre gli sfuggiva tra le mani, e assunse un’espressione solo lievemente corrucciata.

“Sì, va bene, John.” mormorò con un filo di voce.

“Perfetto. Ma stavolta la doccia tocca prima a me, eh?”

****

Naturalmente Paul aveva capito. Aveva intuito che John avesse qualche problema e sapeva per certo che questo problema avesse a che fare con lui. Non ci voleva chissà quale grande mente e John non faceva neanche lo sforzo di nasconderlo, perché sapeva che Paul avrebbe capito e non sarebbe servito a nulla far finta che fosse tutto a posto.  

Paul doveva solo scoprire cosa lo turbasse. In normali circostanze avrebbe mantenuto la calma, per affrontare meglio la situazione. Ma ormai mancava un giorno al loro rientro a Liverpool, aveva solo ventiquattro ore per capire e sistemare le cose con John, perché tornati a casa, non avrebbe più potuto farlo in modo appropriato, ovvero osservando a lungo negli occhi di John, cercando degli indizi nel più piccolo particolare del suo viso, della sua postura, stringendo la sua mano e chiedendogli dolcemente, “Cosa c’è che non va?”

Fare le cose di fretta non l’avrebbe aiutato, Paul odiava avere fretta. Ma ce l’avrebbe fatta. Doveva farcela a qualunque costo.

La giornata era limpida, il sole era piacevole e riscaldava dolcemente l’aria. Dal momento che dopo una settimana di camminate infinite ed emozioni decisamente sconvolgenti, erano entrambi piuttosto provati, John aveva proposto di prendere qualcosa da mangiare e andare in uno dei numerosi parchi di Parigi a crogiolarsi al sole. Paul, ben consapevole che le sue gambe non avrebbero resistito ancora per molto tempo, fu d’accordo e insieme raggiunsero il Parc Monceau, il più vicino alla collina di Montmartre.

Era sicuramente uno dei parchi più belli che avessero visto in tutta Parigi. I raggi del sole baciavano il verde del prato, delle aiuole ordinate in cui spiccavano i vivaci colori dei roseti, il verde che, insieme all’azzurro del cielo, si rispecchiava nell’acqua del piccolo ruscello artificiale che attraversava il parco.

Inoltrandosi sempre di più in quella natura perfettamente curata, John e Paul si ritrovarono di fronte a una vasca ovale, circondata da un imponente colonnato semicircolare e per un istante Paul si dimenticò di tutti i suoi problemi. Si avvicinò a quel paesaggio suggestivo, sporgendosi un po’ dalla ringhiera che lo separava dalla vasca e fu immediatamente catapultato nel bel mezzo di un mito greco, di quelli che aveva studiato a scuola, con le ninfee che danzavano, i satiri e i fauni che suonavano la loro musica celestiale con piccoli strumenti, e gli dei e gli uomini e lo loro storie tormentate. Paul scosse il capo vigorosamente: non era nell’Antica Grecia, era a Parigi, nel 1961, in compagnia del suo migliore amico, del suo… di colui che rappresentava la parte migliore di sé, lo stesso che però ora, lo stava evitando di proposito.

John si avvicinò a lui, assicurandosi di mantenere una certa distanza da Paul, e gli rivolse solo l’accenno di un sorriso, prima di proseguire la sua passeggiata nel parco. Paul lo seguì, mantenendo lo sguardo ben fisso su di lui e sullo spazio che lo separava da John. E quello fu il momento in cui capì.

Capì che il problema di John aveva a che fare con l’essere troppo vicino a Paul. Sembrava che John non volesse più toccarlo. Andava bene stargli vicino, ma con almeno un centimetro a separarlo da lui. Ma per Paul, qualunque fosse stata la distanza, sarebbe stata sempre troppa. Soprattutto ora, ora che sapeva di volergli stare vicino, molto vicino. Vicino come nessun altro ragazzo avrebbe potuto fare.

Tutto tornava ora, anche il comportamento di John di quella notte. Paul era sveglio, era sveglio quando John si era ritrovato abbracciato a lui e si era poi allontanato improvvisamente, e come John non aveva più dormito. Ma al contrario del ragazzo più grande di lui, Paul era rimasto immobile per quei pochi istanti, con gli occhi chiusi, tutto intento a godere del calore di quel corpo accoccolato contro di lui, che si adattava così perfettamente al suo; e poi il calore era sparito e tutto ciò che Paul aveva potuto sentire era freddo, un’improvvisa ondata di freddo che aveva attraversato la sua schiena e lo aveva fatto rabbrividire. Ora quel freddo stava tornando a impossessarsi delle sue membra, nonostante i raggi dorati che propagavano il loro calore nell’aria profumata del parco; era il freddo della solitudine, lo stesso di tutte le notti passate da solo, come se John non fosse mai stato presente su quel letto, insieme a lui.

Trovarono un piccolo spazio per loro nel bel mezzo di una distesa verde: non erano stati gli unici ad aver avuto l’idea di un rapido pic-nic al parco. Solo che a differenza degli altri visitatori, John e Paul avevano solo due panini e due birre con sé. Niente tovaglie a quadri bianchi e rossi, niente cestini di vimini, niente bicchieri, né tovaglioli, niente di tutte quelle cose che per John erano solo, “Cianfrusaglie inutili”.

Paul lo guardò abbandonarsi languidamente sull'erba, stiracchiandosi e lasciando che il suo corpo venisse rigenerato dal riposo e riscaldato dal sole. Voleva vedere, ora che sapeva, voleva vedere l'effetto che aveva su John se lo sfiorava, voleva vedere la reazione direttamente nei suoi occhi.

Così quando la fame cominciò a farsi sentire, Paul prese un panino dal loro sacchetto delle cibarie, che si erano procurati quella mattina, e allungò una mano per afferrare quella di John e sistemare il panino nel suo palmo con un "Tieni".

John, per tutta risposta, spalancò gli occhi e sembrò irrigidirsi improvvisamente, come se il suo corpo non avesse affatto tratto beneficio dal rilassamento dell'ultima mezz'ora su quel prato. Quasi istintivamente ritrasse la mano con il risultato che il panino cadde nell'erba. Fortunatamente era ricoperto ancora dal suo involucro.

Paul guardò John con espressione non particolarmente sorpresa, eppure, dentro di sé, era scosso da quanto grave fosse il suo problema. John non poteva toccarlo, in nessun modo. Altrimenti reagiva così, in modo assolutamente imbarazzato, impacciato e insensato.

John notò il turbamento nei suoi occhi e questo gli strinse il cuore. Non era giusto, comportarsi in quel modo senza che Paul sapesse davvero quale fosse il motivo, ma John non sapeva proprio come dirglielo. Perciò cercò di salvare la situazione per quanto potesse fare.

"Scusa. Ho preso la scossa."

Paul annuì vagamente e si dedicò al suo panino. Non che avesse particolarmente fame, ma almeno gli offriva qualcosa con cui poter distogliere l’attenzione da John e dalle sue domande sul perché il ragazzo si stesse comportando così: Paul aveva fatto o detto qualcosa di sbagliato? Cosa era successo che aveva causato un tale comportamento da parte di John?

John invece, sembrava provare tutto l’opposto. Nessun panino era al momento più interessante di Paul che evitava il suo sguardo e mangiava distrattamente e senza voglia. John avrebbe tanto voluto avvicinarsi per abbracciarlo e rassicurarlo sul fatto che lui non avesse fatto niente di male. Era evidente per John, che Paul stesse tormentandosi per il suo cambiamento improvviso, pensando che fosse colpa sua. Paul aveva la natura da eterno ottimista, ma talvolta questa prevedeva anche punte di pessimismo estremo, molto più di John. Ed era questo il caso. John avrebbe tanto voluto fare qualcosa, ma si ritrovò incapace di muoversi per sfiorargli anche solo una mano. Se l’avesse toccato, ora, non avrebbe resistito, non l’avrebbe più lasciato andare e non poteva permetterselo.

Tuttavia, forse c’era un modo per arrivare a lui, senza toccarlo fisicamente.

“Che ne dici di una canzone?” gli chiese all’improvviso, abbandonando il panino per terra.

Paul sollevò lo sguardo e lo fissò con un’espressione sorpresa.

“Eh?”

John ridacchiò di fronte al suo tono incredulo, poi infilò una mano nella tasca interna della giacca, estraendo la sua armonica a bocca: era molto più comoda da portare con sé rispetto a una chitarra, era decisamente meno ingombrante e faceva musica allo stesso modo.

“Sì, che ne dici se ti canto una canzone?”

“Qui? Davanti a tutti?” chiese Paul, guardandosi intorno turbato.

Il parco non era molto affollato quel giorno, ma c’era comunque un po’ di gente, sdraiata al sole, ancora intenta a mangiare.

“Sì, tanto neanche capiranno il testo.”

“Ma John-”

Niente da fare, John aveva già portato l’armonica alla bocca e cominciato a suonare. La melodia era tipicamente blues, triste, malinconica, e Paul la riconobbe prima che John cominciasse a cantare.

I'm not going to spend another night by myself.”

Le persone sedute poco più in là si voltarono verso di lui, sembrava che stessero ascoltando e apprezzando John che suonava l’armonica e cantava.

“If I don't find my baby, I'll have to carry somebody else.”

Ma lui non vi prestò molta attenzione. Era troppo impegnato a osservare il volto di Paul e la sua reazione, il suo sorriso che si allargava lentamente sulle labbra e un lieve rossore che si appropriava delle sue guance.

“I set up all last night, haven't slept a wink today.”

Paul stava apprezzando la sua idea e John non poteva esserne più lieto. Era l’unico modo in cui, al momento, potesse arrivare a lui, tramite la sua musica: la melodia creata da John, dalle sue mani, dalla sua bocca giungeva a Paul e lo sfiorava, lo accarezzava, come se fosse proprio John a farlo, con la differenza che la sua musica poteva giungere dentro Paul, fino al suo cuore per alleviare i suoi dubbi, le sue paure, tutto ciò che stupidamente era collegato e causato da John.

“Lord, I'm not going to spend any night by myself.”

La melodia svanì nell’aria, le ultime note sfumarono delicatamente mescolandosi al leggero chiacchiericcio delle persone presenti nel parco. Paul gli sorrise e si sdraiò sull’erba e John lo imitò, stendendosi su un fianco per poterlo guardare.

“Allora? Ti è piaciuta?” chiese trepidante.

“Certo, come può non piacermi il buon vecchio Sonny Boy?”

John mise il broncio: “Ma l’ho suonata e cantata io. Per te!”

Paul ridacchiò, poi gli rivolse un dolce sguardo.

“E’ per questo che l’ho amata.”

Ed era vero. L’aveva amata perché era stato John a suonare per lui, perché lui aveva ancora una volta notato la sua tristezza e cercato di spazzarla via con tutto ciò che era in suo potere. E anche se una sua carezza, o un suo bacio sarebbe stato più efficace e avrebbe risolto tutto, Paul si era sentito decisamente rincuorato, si era sentito toccato delicatamente, nel più profondo del suo essere.

E questo per il momento andava bene. Era il modo di John di dire che sapeva che Paul aveva capito e nello stesso momento che non aveva bisogno di preoccuparsi, perché tutto si sarebbe risolto prima o poi, come sempre, come tutto ciò che riguardava lui e Paul.

Il resto della giornata fu gradevole. Cenarono fuori e quando la stanchezza cominciò a essere davvero insopportabile, tornarono nella piccola pensione. Per il momento non erano ancora pronti a dire addio a Parigi. In fondo c’era una notte di tempo e non c’era bisogno di aver fretta di salutarla.

Quando furono alla pensione, John  si intrattenne con la proprietaria per saldare il conto, così il giorno dopo non avrebbe dovuto preoccuparsi di questo impiccio, mentre Paul decise di andare ad aspettarlo in camera. Si tolse la giacca, gettandola sulla poltrona e si sedette sul letto, osservando con attenzione quella stanza che li aveva accolti, quella stanza che aveva visto nascere la parte migliore di entrambi, quella che dal giorno seguente sarebbe stata vuota, vuota come ora si sentiva anche Paul.

Nonostante tutti i sentimenti che erano sempre presenti in lui, c’era una sensazione che ancora mancava, il sentire John più vicino possibile a lui e doleva, ora, sapere che John non volesse toccarlo. Per quanto la sua canzone l’avesse rincuorato, Paul lo trovava comunque sbagliato. Era sbagliato non approfittare di quel momento, di quell’ultima notte a loro disposizione e lui non poteva costringere John a fare qualcosa che lo mettesse a disagio.

Sospirò, mentre si avvicinava alla piccola finestra della loro camera, per godere per l’ultima volta del panorama notturno di Parigi e forse, per chiedere consiglio a quella città che fu galeotta del loro amore.

****

John salì le scale, borbottando nervosamente fra sé. L’anziana proprietaria della pensione gli aveva chiesto una piccola quota in più perché qualche giorno prima lui e Paul avevano allagato l’ingresso, causando il distacco della moquette dal pavimento. John avrebbe voluto risponderle che non era fottutamente colpa sua se lei si fosse rivolta a gente incompetente per rivestire quel pavimento, ma non sapeva come dirlo in francese, per cui dovette semplicemente accettare la questione e sganciare altri contanti. Per fortuna, gli restavano ancora soldi per poter prendere il treno e risparmiare loro la fatica di fare l’autostop. Era stato divertente all’andata, quando erano tutti eccitati per il viaggio e soprattutto, ben riposati. Ma ora sarebbe stato un suicidio, dal  momento che erano stanchi morti.

Quando John rientrò in camera, notò che Paul era affacciato alla finestra, ben chino in avanti, con le braccia appoggiate sul davanzale. Incuriosito dalla sua posizione, John si avvicinò, facendo molta attenzione a mantenere una certa distanza da Paul.

“Cosa stai facendo?”

“Assistendo a uno spettacolo interessante.” rispose Paul, sorridendo.

“Ovvero?”

Paul ridacchiò e indicò un punto sul marciapiede di fronte alla loro pensione: “Due fidanzatini che stanno litigando.”

John seguì l’indicazione e vide un ragazzo e una ragazza coinvolti in una vivace discussione, rigorosamente in francese, il che rendeva tutta la scena più melodrammatica. Lei inveiva contro di lui, poi cercava di allontanarsi, ma lui la rincorreva e la fermava, implorandola probabilmente di restare.

“Secondo me, lui si è dimenticato del loro anniversario.” commentò Paul, divertito.

“Stai scherzando? Guardali, è evidente che lui l’abbia tradita, lei l’ha appena scoperto e ora fa tutta la difficile.” esclamò John, “Tipico.”

“Come fai a esserne così sicuro?”

“Beh, vedi come alza il suo nasino alla francese? Deve comportarsi da snob per fargli capire che l’ha fatta grossa, così ora lui farà di tutto per non perderla.” spiegò John, “Ma alla fine lei cederà, perché lui la rincorrerebbe per tutta Parigi pur di farsi perdonare.”

Paul scoppiò a ridere e si portò una mano sulla bocca per evitare di richiamare l’attenzione dei due piccioncini, i quali erano ancora presi dal loro battibecco.

Questi francesi sapevano litigare davvero bene!

Infine lui la fermò per l’ennesima volta e lei gli rifilò un gran bel ceffone che echeggiò nella via.

“Quello sì che era uno schiaffo!” commentò John entusiasta.

Si sporse un po’ di più e la sua spalla sfiorò quella di Paul, ma lui non sembrò accorgersene. Poi la ragazza cedette alle preghiere di perdono del suo ragazzo e lo baciò proprio lì, per strada, con i passanti che si limitavano a guardarli rapidamente. Il bacio divenne ben presto appassionato, molto appassionato, il che fece sbuffare apertamente John.

“Ora capisco perché lo chiamano bacio alla francese.” esclamò, ridacchiando fra sé.

Ma la risata morì presto in gola, quando infine John si rese conto che la sua spalla stesse toccando quella di Paul e subito si ritrasse, con grande sconcerto del ragazzo più giovane.

Paul sospirò e si ritirò, allontanandosi dalla finestra, allontanandosi da John. Quest’ultimo lo seguì con lo sguardo e non poté fare a meno di mordersi il labbro, mentre imprecava mentalmente e si dava dell’idiota. Non era una novità, perché continuava a sorprendersi quando faceva qualcosa di stupido?

“Hai visto? Te l’avevo detto che lei avrebbe ceduto alla fine.” disse, cercando di mantenere l'atmosfera leggera.

“John, si può sapere cos’hai?”

L'interesse di Paul per la giovane coppia per strada, però, era improvvisamente sparito.

“Niente.” rispose John, ma sentì che il suo sguardo, la sua voce, tutto di lui stava tremando sotto lo sguardo di Paul.

Sguardo che ora si fece più affilato e sofferente, come la voce di Paul che lo rimproverò con decisione: “John!”

“Paul, non è niente.”

“No, non è vero. È il motivo per cui non riesci più a starmi vicino e io non lo sopporto.”

“Cosa? No!” protestò John, avvicinandosi a lui quasi senza accorgersene, “Io riesco a starti vicino. Vedi?”

“Non come vorrei io.” mormorò arrossendo violentemente.

“E come vorresti?”

Paul guardò un istante verso il basso, prima di afferrare con determinazione la mano di John e a quel tocco il corpo di John reagì, accendendosi in un istante.

“Come se…” iniziò lui, mentre lasciava che le loro mani si intrecciassero, “Come se volessi fare l’amore con te.”

Il cuore di John mancò un battito e lui cominciò a sentire una strana sensazione alla bocca dello stomaco, sensazione di leggerezza, delicata e sconvolgente eccitazione.

“Paul…”

“Voglio fare l'amore con te, John.”

“Paul, noi non-“

Ma Paul non sembrava proprio avere intenzione di lasciarlo parlare.

“È questa, la mia frase per te. Ricordi qualche giorno fa, sull’Arco di Trionfo? Ti avevo assicurato che ne avrei trovata una anche per te. Ebbene, voglio sentirti così, John, come nessun altro ragazzo abbia mai fatto prima d’ora, voglio mostrarti quello che provo perché è qualcosa di così grande che le parole non basterebbero e io ho bisogno di questo.” gli disse Paul, la voce strozzata, quasi un sussurro che accarezzava il viso di John, “È abbastanza sdolcinata?"

John sorrise fra sé e scosse gentilmente il capo: "Sei un coglione. Non è affatto sdolcinata."

“E allora?”

“Paul, noi non possiamo, insomma, noi-“

“Perché? E non dire perché siamo due ragazzi.”

“Perché noi…" iniziò lui, cercando disperatamente una scusa nella sua lunga lista, ma si rese conto che questa era stata cancellata nel momento in cui Paul l'aveva preso per mano, "Perché io…”

Paul scosse il capo fra sé, come se non volesse più sentire alcuna stupida giustificazione da parte di John; gli afferrò il viso e lo baciò appassionatamente e John, d’istinto, si aggrappò ai suoi fianchi.

Era questo, che John voleva evitare, pensare a quanto fosse perfetto Paul con la bocca sulla sua e il corpo stretto al suo, stretto in un modo che John non voleva mai più lasciarlo andare. Era questo, John non avrebbe sopportato sentirlo così vicino e poi, un giorno, perderlo ed essere costretto ad allontanarsi da lui e restare solo.

“Paul…”

Il giovane si allontanò leggermente, sorridendo, e appoggiò la fronte a quella di John.

“Lo so che mi vuoi, John, come io voglio te.”

“Non ne hai idea.” sospirò John, gli occhi ancora chiusi e le mani ben salde sui fianchi di Paul.

“Vedi? Non hai motivo per respingermi.”

“Paul?” esclamò John, guardandolo e sentendo tutte le sue difese crollare una dopo l’altra, come un castello di carte distrutto dalla più lieve ventata.

“John?” ribatté Paul, facendo scivolare le braccia intorno al suo collo.

“Paul, ne sei sicuro?” domandò John, titubante, “Perché, sai, una volta che provi John Lennon, non potrai più liberarti di lui.”

“Oh, è una minaccia?” chiese lui divertito, mordendosi il labbro.

“E’ quello che ti pare. Una minaccia… o una promessa.”

“Mm, promessa…” mormorò Paul sulla guancia di John, “Mi piacciono le promesse.”

E quando Paul si riappropriò delle sue labbra, John capì perché avesse così paura di toccare Paul, perché tornati a Liverpool, John avrebbe sentito la sua mancanza, dal momento che non avrebbe più dormito ogni notte con lui. Ormai si era così abituato a risvegliarsi al suo fianco ogni mattina, ad addormentarsi con il suo odore a un soffio dal suo naso, che la sola idea di passare la notte da solo era terribile e lo faceva impazzire, impazzire come Paul, che ora si dava da fare per sbarazzarsi della giacca di John e abbandonarla per terra.

“Dio, Paul…” sospirò John, mentre Paul lo conduceva lentamente e nello stesso momento, urgentemente verso il letto, “Mi fai impazzire.”

“Non impazzire per me, John.” gli disse, facendolo sdraiare gentilmente sul materasso che molte volte li aveva visti addormentarsi insieme.

John si fece guidare da Paul, lasciando che lui prendesse il controllo della situazione, perché i suoi occhi determinati gli sussurravano che sarebbe andato tutto bene, che non sarebbe più stato da solo, né questa notte, né quelle future, né mai e poi mai.

“Impazzisci con me.”

 

 

Note dell’autrice: ebbene, siamo a -1 dalla fine.

Il titolo del capitolo è il titolo della canzone che canta John, “No nights by myself”, di Sonny Boy Williamson II.

Spero che il capitolo non sia troppo incasinato. È sempre il mio dannato timore.

Ma kiki mi ha assicurato che non è così, quindi sono più tranquilla. Grazie a lei per la correzione.

Ci sentiamo domenica prossima per l’ultimo capitolo.

A presto

Kia85

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Capitolo 16
*** Insieme ***




 

 

L’ultimo capitolo per kiki e tutte le volte che mi ha incoraggiato.

 

Ticket to Paris

 

Capitolo 16: “Insieme

 

Il mattino seguente il risveglio di John non fu molto diverso da quello del giorno prima, eppure la sensazione che stava provando era lievemente differente. Una sensazione che assomigliava molto a quando gli veniva una sbronza euforica, di quelle che fanno sentire onnipotenti e più felici che mai, ma nello stesso momento aveva il vantaggio di non dover affrontare alcuno stordimento  che gli impediva di capire le nozioni più banali e soprattutto gli effetti decisamente spiacevoli del dopo-sbornia. Insomma era euforico, ma ben consapevole di ciò che era successo e continuava a succedere.

Per esempio, John capiva che non aveva alcuna voglia di aprire gli occhi. Mormorò distrattamente, mentre scacciava la sua coscienza che cercava in qualunque modo di svegliarlo quando lui, invece, non era ancora pronto per affrontare un nuovo giorno. Era così difficile per lei capire che John voleva solo restare lì, con gli occhi chiusi, nel calore del letto?

Nel calore di Paul.

Paul.

Paul era l'altra cosa che John capiva. Paul era il motivo per cui il risveglio di quella mattina era stato diverso. Con gli occhi chiusi e abbracciato a lui, John poteva ancora rivedere e rivivere la miriade di emozioni provate nella notte appena trascorsa. John si strinse a lui inconsapevolmente e quando la luce che illuminava la camera divenne troppo forte, tanto che John poteva vederla riverberare sulle sue palpebre, il ragazzo decise finalmente di aprire gli occhi.

Il suo cuore balzò improvvisamente in gola: la visione era la stessa del giorno precedente, ma molto più emozionante per i ricordi che suscitava.

Le ciocche scure dei capelli di Paul che gli solleticavano il naso, erano arruffate e sparse sul cuscino, risaltando in un contrasto perfetto con il bianco della federa. Gli piaceva che i capelli di Paul fossero così scuri, almeno avevano un colore ben preciso, al contrario dei suoi che non si capiva bene che colore avessero, come se rispecchiassero John, John che era un’unica incertezza. Paul no, Paul era il suo completo opposto, Paul era determinazione.

Era una cosa che John non aveva mai notato prima d’ora, quanto gli piacessero i suoi capelli, neanche la sera prima, quando aveva invertito le loro posizioni e Paul era finito, ridendo, con la testa sul cuscino, o quando John aveva nascosto il viso nel collo del ragazzo e la sua mano si era chiusa nei capelli di Paul, scompigliandoli ancor di più.

A quei ricordi John sospirò, sfiorando la spalla del ragazzo con le labbra e scivolando poi sul collo, lasciando una scia di baci sul suo percorso. La sua mano accarezzò il petto nudo di Paul, allargandosi all'altezza del cuore e attirandolo a sé. Paul mormorò un verso indistinto e profondo e John sorrise malefico perché voleva svegliare Paul, voleva essere la causa del suo risveglio, del suo dolce, eccitante risveglio. La bocca di John dedicò tutte le sue attenzioni al collo del giovane e il suo naso sfiorò la parte dietro l'orecchio inspirando a fondo il suo odore, che era una fragranza inebriante, l'odore di Paul unito a quello di John. Fragranza perfetta. John indugiò nella sua opera fino a quando Paul non si mosse, segno evidente che si stava svegliando una volta per tutte. 

Il ragazzo si stiracchiò un po’, cercando di non sciogliere l’abbraccio di John, anzi lo consolidò maggiormente, portando una mano sul braccio di John e afferrandolo per evitare che si spostasse.

Ora che finalmente anche Paul era sveglio, John non sapeva cosa dire né fare. Cosa puoi dire al tuo migliore amico dopo aver trascorso insieme a lui una notte come quella? Non poteva semplicemente comportarsi come se non fosse accaduto nulla. Non lo desiderava affatto, anzi, lui voleva parlarne, voleva parlarne con Paul per sempre. E la verità era che c'erano così tante cose da dirgli, che John rimase semplicemente in silenzio, concedendo la prima mossa a Paul.

"Ciao, John."

Ecco. Questo poteva essere un buon inizio, e John sorrise fra sé pensando che anche la parola più semplice e sì, banale, sembrava tanto speciale pronunciata da Paul.

Come il nome di John. John non era mai stato così bello e importante come quando durante quella notte era stato sulla bocca di Paul, sussurrato ad ogni sua carezza, unito ai suoi gemiti quando John aveva spinto in lui, e infine dipinto con le tonalità dell’estasi nel momento del piacere estremo.

"Ciao, Paul." gli disse, avvicinando le labbra al suo orecchio.

Il suo respiro accarezzò la pelle sensibile del suo viso, arrivando a sfiorare il collo ove causò un brivido che percorse tutta la schiena di Paul: questa era premuta contro il petto di John, una schiena forte e larga che si era inarcata con movimenti sinuosi quando John l’aveva fatto suo, quando aveva sollevato e l’aveva circondato con le sue gambe, le stesse che ora erano intrecciate con quelle di John.

John percepì perfettamente il brivido, coinvolse anche il suo corpo e fu alimentato ulteriormente da quelle immagini che proprio non avevano intenzione di lasciarlo in pace. Non che gli dispiacesse, in fondo John sapeva di essersi addentrato in qualcosa da cui non poteva più né voleva tornare indietro.  

“Come ti senti?” chiese poi, decidendo che fosse una domanda opportuna da fare in una situazione del genere.

Paul ridacchiò, prima di voltarsi verso John e rispondere, “Mi fa male il culo.”

“Davvero?” esclamò lui, ridendo insieme a Paul, “A me sembra che tu stia più che bene.”

Sembrava così, il sorriso di Paul era più che genuino, il colorito del suo viso era leggermente arrossato, e il battito del suo cuore era regolare e intenso, tutte cose che indicavano quanto stesse bene.

“Beh, da fuori non si capisce. So sopportare il dolore molto bene e in silenzio, io.” esclamò rivolgendogli un occhiolino piuttosto eloquente.

John aggrottò la fronte, perplesso, “Stai forse insinuando che io invece non sia in grado di farlo?”

“Se tu l’hai dedotto, allora vuol dire che c’è un po’ di verità. Ricordi quando siamo arrivati a Calais, la rissa al pub? Quanto ti sei lamentato per un insignificante occhio nero?”

“Questa sarebbe la gratitudine per aver difeso il tuo onore.” sbottò John, offeso.

Paul rise e lo fece sdraiare sulla schiena, appoggiando il proprio petto sulla sua spalla: “Non è questo il punto. Il punto è che io tollero di più il dolore. Prova a immaginare questa notte a ruoli invertiti. Non oso pensare alle lamentele.”

John storse le labbra, riflettendo sulle parole di Paul. Lui era stato bravissimo, non un singolo ripensamento gli aveva attraversato la mente, neanche quando sul suo viso era apparsa una smorfia di dolore, perché tutto ciò che voleva era stare con John e il resto non aveva alcuna importanza. Tuttavia John sapeva di essere cambiato ora, desiderando fare cose che prima non avrebbero neanche potuto sfiorare i suoi pensieri più audaci. Grazie a Paul, sapeva che poteva lasciarsi andare a nuove esperienze e l’esperienza più allettante ora, era proprio Paul.

“Allora perché non mi metti alla prova?”  

“Adesso?”

“Sì, perché no?” gli chiese John, afferrandogli il viso con una mano per avvicinarlo a sé e baciarlo.

Paul si concesse di godere quel bacio per qualche istante, prima che il terribile pensiero di quella giornata lo sopraffacesse.

“E’ una tentazione irresistibile, John, ma dobbiamo partire ora, o forse preferisci che la nostra amica salga per buttarci fuori e ci trovi in situazioni compromettenti?”

John sbuffò, consapevole del fatto che Paul avesse ragione. Eppure non voleva lasciarlo andare, voleva passare tutta la giornata in quel letto, con Paul.

“Perché non restiamo qui?”

“A letto?” domandò Paul divertito.

“A Parigi.”

Paul sospirò abbandonando la testa sul petto di John, lasciando che lui gli accarezzasse la schiena gentilmente.

“Pensaci, perché dovremmo tornare? Qui possiamo avere quello che vogliamo, trovare un lavoro, vivere insieme…imparare il francese!”

La risata di Paul fu soffocata contro la pelle calda del petto di John, “Oh sì, non vedo l’ora.”

"Se lo volessimo davvero, potrebbe diventare possibile." continuò John e la sua voce assunse le tinte della rassegnazione.

Paul sollevò il capo per osservare la sua espressione sconsolata ed era evidente che come Paul, John non pensava davvero di restare in quella città. Certo, l'idea era allettante ma a Liverpool li aspettavano le loro famiglie, a cui John e Paul volevano molto bene. E li aspettavano anche i Beatles e tutto ciò che sarebbe scaturito da quel gruppo. Il futuro era ancora un'incognita per Paul, ma di una cosa era certo. John sarebbe stato accanto a lui. Sarebbero stati insieme e insieme potevano arrivare lontano, molto lontano.

Così si chinò avvicinandosi al viso del ragazzo e lo baciò dolcemente, aspettando che John ricambiasse come segno che un po' di malinconia fosse sparita.

"Lo sai, vero, che a Liverpool o a Parigi, le cose non cambieranno? Sarò sempre quell'idiota che hai baciato nella piccola stanza di una stupida pensione."

"Potrò continuare a baciarti anche a Liverpool?"

"Solo se lo vorrai davvero."

"Lo voglio. Davvero."

Paul gli sorrise e il suo sorriso gli fece venire il batticuore. Era qualcosa che John non aveva mai provato. Non si era mai visto John Lennon arrossire per un semplice sorriso, da parte di un ragazzo per di più.

Per questo, sapeva di cosa si trattasse, un sentimento nobile e sconvolgente, quello che John non pensava potesse mai provare, davvero, in quel modo che occupava tutti i suoi pensieri, accompagnava tutte le sue parole e i suoi gesti.

In quel modo che John desiderava ardentemente dirlo a Paul, prima che quel viaggio finisse.

“C’è un’altra cosa che voglio, sai?” esclamò John, facendo scorrere le sue mani sulle sue spalle.

“Ah sì, cosa?” domandò incuriosito.

“Io…” iniziò, la voce tremava, ma lui era sicuro che poteva farcela, soprattutto se continuava a guardare negli occhi dell’altro ragazzo, “Paul, io ti…”

“Cazzo!” esclamò all’improvviso Paul, alzandosi dal letto e controllando l’orologio sul comodino, “Hai visto che ore sono?”

“Ma-?”

“E’ tardissimo, John! Se non ci diamo una mossa, non riusciremo mai a prendere il treno delle 10.”

“Paul?” cercò di chiamarlo John, ma Paul sembrava aver sviluppato un’improvvisa incapacità di ascoltare la voce di John.

“Dobbiamo ancora sistemare gli zaini.” disse il ragazzo, recuperando i suoi vestiti sparsi per la stanza, “E prendere da mangiare per il viaggio. Non ce la faremo mai.”

John si alzò in piedi e cercò di fermare e calmare l’agitato Paul, ma questi sparì improvvisamente nel bagno, lasciando John solo nella stanza.

Cos’era successo? Perché Paul era fuggito in quel modo?

John davvero non riusciva a capire. Era pronto per rivolgergli le parole più importanti di tutta la sua vita, nonostante avesse paura che Paul potesse reagire male. Forse non proprio male, ma di certo non si aspettava che gli saltasse con le braccia al collo, urlandogli che ricambiava totalmente quello che provava lui.

Invece Paul no, Paul gli aveva impedito perfino di parlare per qualche motivo, e ora John era lì, in piedi, con il suo cuore in mano, rosso e caldo e palpitante.

Ma John non si sarebbe arreso. Doveva ancora arrivare il giorno in cui John avrebbe gettato la spugna davanti a qualcosa che risultava essere più difficile del previsto.

****

Alla fine riuscirono a prendere in tempo il treno.

Il viaggio di ritorno verso Calais fu più rapido dell'andata. Sicuramente era dovuto al fatto che avessero preso un treno, piuttosto che affidarsi al non sempre affidabile autostop. Ma John sentiva che in qualche modo il tempo, crudele, aveva deciso di scorrere più velocemente quel giorno. Le sue membra stanche furono grate, ma il suo cuore batté irrequieto, suggerendogli che lasciare Parigi era la cosa più stupida che stesse facendo. Ne sentiva già la mancanza.

Salutare Parigi non fu facile. John dovette ammettere che quella città l’avesse colpito direttamente al cuore. Era esattamente il luogo in cui gli sarebbe piaciuto vivere un giorno, ogni via di quella città sussurrava parole di arte e di amore, le due essenze che costituivano l’anima di John.

Certo, Paul aveva contribuito notevolmente a farlo innamorare di Parigi. D’ora in poi, ogni luogo della città avrebbe ricordato a John un momento ben specifico di quel viaggio con Paul. Paul, che ora dormiva tranquillamente con la testa sulla sua spalla. Erano sul treno per Calais, lì dove avrebbero preso nuovamente il traghetto per raggiungere la terra natia, sperando che Paul non si sentisse male come all’andata. Era uno dei motivi per cui John aveva consigliato a Paul di dormire un po’ prima della traversata. Con il corpo più riposato, avrebbe affrontato meglio la parte più difficile del viaggio.  Poi da Dover avrebbero preso un altro treno per Liverpool, consumando così le ultime sterline rimaste a John.

Il respiro di Paul gli sfiorava il collo, facendolo rabbrividire e riportandolo in un istante a quella mattina, nel letto insieme al ragazzo.

John aveva raccolto tutto il coraggio che aveva per convincersi a dire quelle due semplici parole a Paul. Tuttavia lui non aveva voluto sentirle. John era certo che Paul avesse capito, cosa stesse per dirgli. Era evidente, glielo si leggeva in faccia. Paul era sempre stato un libro aperto per lui, e ora lo era ancor di più. Paul doveva aver visto quel sentimento sul volto di John e gli aveva impedito di trasformarlo in parole e quindi, in qualcosa di molto più concreto, in vibrazioni dell’aria che lo avrebbero accarezzato e fatto rabbrividire.

Non capiva però perché non le volesse sentire. Insomma, non era come se gli stesse per dire “ti odio, ti detesto, vai a quel paese”. No, dannazione! Stava per donargli le parole più difficili che John avesse mai rivolto ad anima viva. E Paul, invece, gli aveva sbattuto la porta in faccia.

Ma John doveva dirglielo, prima di arrivare a Liverpool, per fargli sapere che quello che era successo era qualcosa di molto caro a lui, che John avrebbe fatto di tutto per far funzionare questa nuova intesa, questo dolce e intenso scambio di sentimenti.

Appoggiando il capo al finestrino, John sospirò e lasciò che il suo sguardo si perdesse nelle campagne francesi. La giornata era bellissima e chissà, forse avrebbero potuto anche passare la traversata della Manica sul ponte di coperta, con l’aria fresca dell’oceano che scompigliava i capelli.

Quando salirono sul traghetto, Paul sembrava stare bene, John lo notò con piacere. Decisero di affacciarsi alla ringhiera di prua, per godere del panorama prima che il sole tramontasse e loro non potessero vedere nient’altro che oscurità. Alle loro spalle, la Francia, quella terra magica che John non pensava potesse essere così speciale, né che potesse avvicinarlo ancor di più a Paul. Davanti a sé, l’Inghilterra, la sua casa, lì dove tutto era iniziato con Paul. E al suo fianco, lui, Paul.

Paul che John non si stancava mai di guardare, Paul che a ogni sguardo gli causava un piccolo sussulto al cuore. Come poteva John essere così preso da lui, come poteva non essere in grado di distogliere lo sguardo da qualcosa che non fosse lo stesso Paul? Non era proprio come se John non l’avesse mai visto bene. John conosceva tutto di Paul: le sue guance rotonde, il naso dalla forma corretta, l’arco perfetto delle sopracciglia, i grandi occhi maliziosi e dolci, il modo in cui la barba di qualche giorno decorava il contorno delle sue labbra soffici…tutto era così familiare per John, eppure ora, ad ogni sguardo era come se John lo vedesse per la prima volta.

Dio, Paul accendeva così tanti sentimenti in lui che John davvero non poteva dare altro nome a questo incredibile miscuglio. Quel nome con la A, quel nome che tutti cercano ossessivamente e solo pochi sono così fortunati da trovare. E John, John il fortunato, l’aveva trovato.

“Paul?”

Il ragazzo si voltò verso di lui, guardandolo con un sorriso tranquillo sul volto, “Mh?”

“Devo dirti una cosa.”

L’espressione di Paul cambiò drasticamente, trasformandosi in un istante in qualcosa di tanto affettuoso quanto sofferente. Certo, lui sapeva cosa voleva dire John. Lo sapeva da quella mattina. L’aveva percepito quando aveva visto gli occhi di John brillare nei suoi, e solo Dio sapeva quanto Paul avesse sempre desiderato sentirgliele pronunciare di fronte a lui. Tuttavia, in qualche modo, Paul era consapevole che non fosse giusto. Non era così che dovevano andare le cose.

“John, so cosa vuoi dire, ma ti prego, non farlo.” gli rispose, lasciandolo totalmente a bocca aperta.

“Perché?” domandò perplesso, con un pizzico di delusione che contorse i suoi lineamenti.

“Perché non puoi dirlo ora, qui, come se tutto ciò che è accaduto fosse stata solo colpa di Parigi e del viaggio. " gli spiegò, abbassando il capo, "Come se non lo pensasse il vero John.”

“Non è colpa del viaggio.” protestò vivacemente John, sollevando nuovamente la sua testa, dopo avergli afferrato il mento, “Lo sai che non è così.”

“Allora dimmelo quando saremo a Liverpool, dimmelo in un luogo a noi caro, lì dove entrambi apparterremo per sempre. Altrimenti sarà come se lo volessi lasciare alle tue spalle, fuori dalla nostra vita.”

John lo guardò, senza poter nascondere il suo disappunto, e nonostante ciò, poteva capire l’obiezione di Paul e si ritrovò a condividerla. Era vero, in fondo, questo sentimento non era così nuovo e non era certamente nato a Parigi, non apparteneva a quel viaggio. Apparteneva a loro e loro appartenevano a quella cittadina un po’ nauseante, un po’ malridotta e decisamente non affascinante come Parigi, ma era sempre casa.

“D’accordo.”

Paul gli sorrise riconoscente, prima di voltarsi per guardare nuovamente l’orizzonte di fronte a loro.

“Ma…” continuò John, avvicinandosi a lui, tanto da potergli sussurrare all’orecchio, “Quando lo dirò, tu cosa risponderai?”

Paul ridacchiò e nonostante il freddo, John giurò che fosse anche arrossito lievemente.

“La stessa cosa, ovviamente.”

John sentì il cuore sussultare nel suo petto. Aveva pensato che forse la cosa avrebbe potuto spaventare Paul, renderlo insicuro, forse avrebbe pensato che confessarlo a parole fosse troppo per loro.

Ora, invece, scopriva che non era così e Paul condivideva quelle parole, le sentiva tanto quanto John e come lui, era pronto a donargliele. Nel luogo più giusto, però.

John sorrise, prima che il pensiero successivo lo facesse ridere sommessamente.

“Cosa?” chiese Paul, voltandosi a guardarlo incuriosito.

“Scusa, ma non è come se l'avessimo già detto?”

Paul si unì a lui, ma ben presto le risate scemarono e il giovane guardò a lungo John negli occhi. 

“In realtà, l’abbiamo solo intuito, John. Sentirlo dire è diverso. È sempre diverso.” gli spiegò serio, prima di afferrargli la mano e stringerla con forza, “Promettimi che me lo dirai comunque.”

“Certo.” esclamò John, rassicurandolo dolcemente e facendo intrecciare le loro dita, nonostante il timore che qualcuno potesse vederli, “Certo che te lo dirò.”

Paul annuì, più a se stesso che a John, rincuorato dalla sua stretta e dal coinvolgimento della sua voce. Poi, a malincuore, lasciò andare la sua mano e incrociò le braccia sulla ringhiera, abbassandosi per appoggiarci il mento.

“Allora, che dici?” disse con un sospiro, “Siamo pronti per tornare alla nostra vita di sempre?”

John lo osservò, pensando a fondo alla domanda. No, non era pronto. Non era fottutamente pronto per tutto ciò che avrebbero trovato. Dopotutto, c'erano ancora tante domande a cui rispondere, domande che si avvicinavano inesorabilmente, come loro si stavano avvicinando alle bianche scogliere di Dover.

Domande che coinvolgevano tutte le persone a loro vicine, le loro famiglie, le loro ragazze, i loro amici, il loro gruppo…

No, John non sapeva cosa li avrebbe aspettati, una volta tornati a casa. Sapeva solo poche cose.

Sapeva che sarebbe stato qualcosa di grandioso.

Sapeva che l'avrebbe vissuto con Paul.

E a quel pensiero, un dolce sorriso si allargò sulle sue labbra e John non poté fare a meno di allungare una mano, per scompigliare affettuosamente i capelli di Paul.

 “No, ma sono pronto per una nuova vita con i Beatles e con te.”

Era la fine di un viaggio, ma ancor più importante, era l'inizio di una nuova grande avventura. Insieme.

 

 

Fine

 

Note dell’autrice: non pensavo davvero di arrivare a questo momento, ma ce l’ho fatta. Yeah. È sempre un po’ triste finire una long, ma sono anche felice perché l’ho completata. :D

Grazie a kiki, naturalmente, per aver corretto la storia e sopportato le mie paturnie.

Grazie a chi ha seguito la storia con affetto e ha recensito e inserito la storia tra le preferite.

Grazie anche a chi ha seguito in silenzio, se voleste commentare alla fine, mi farebbe piacere.

Prossimo progetto? Pensavo una long AU, che però deve essere progettata molto bene, e intanto pensavo a una oneshot natalizia e la 30 OTP challenge.

Spero che l’ultimo capitolo vi sia piaciuto. J Qui trovate un collage con le foto di Parigi che ho fatto per la pagina Two of us: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=512743678824968&set=a.332931313472873.70075.332778433488161&type=1&theater¬if_t=like

A presto e Buon Natale.

Kia85

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